Tutela della salute: Mobbing e Mediazione

Tutela della salute: Mobbing e Mediazione
Antonia Gattuso
Dottore Commercialista e Revisore dei Conti
Reggio Calabria
Il termine MOBBING, deriva dalla lingua inglese e precisamente dal verbo “to mob” che significa
attaccare, assalire con violenza, accalcarsi intorno a qualcuno ed è stato coniato nel 1971
dall’etologo Konrad Lorenz, che con questo termine descrisse “l’attacco di un gruppo di uccelli
contro l’intrusione di altri animali che tentano di assalirne il nido”.
Tale parola, negli ultimi anni, è stata presa in prestito anche nel linguaggio giuridico per indicare un
comportamento di persecuzione e di violenza psicologica, che si ripete per lungo tempo, posto in
essere da colleghi di lavoro (mobbing orizzontale) o dal datore di lavoro (mobbing verticale) a
danno di un lavoratore (mobbizzato) che diventa la vittima. La prima persona che cominciò a
studiare il mobbing come violenza psicologica nel luogo di lavoro ed in quanto tale responsabile di
patologie per chi lo subisce, è stato lo psicologo tedesco Heinz Leymann che nel 1986 illustrò in
un libro le conseguenze, soprattutto sulla sfera neuro-psichica, di chi è esposto ad un
comportamento ostile protratto nel tempo, da parte di superiori o dei colleghi di lavoro. Tuttavia,
non esiste una definizione univoca di mobbing dal momento che, trattandosi di un fenomeno dalle
molteplici sfaccettature, le definizioni in uso risentono dei particolari punti di vista di chi li esprime.
In questa sede, ci si richiama alla definizione lasciatoci da Leymann il quale sostiene che “il terrore
psicologico o mobbing lavorativo consiste in una comunicazione ostile e non etica diretta in
maniera sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un singolo che, a causa
del mobbing, è spinto in una posizione in cui è privo di appoggio e di difesa e lì costretto per
mezzo di continue attività mobbizzanti. Queste azioni si verificano con una frequenza piuttosto alta
(almeno una volta la settimana) e su un lungo periodo di tempo (una durata di almeno sei mesi) ”.
Da questa definizione del fondatore della disciplina, emerge con chiarezza che si può
correttamente parlare di mobbing quando lo scenario è il luogo di lavoro ed esiste il requisito
temporale; cioè le violenze psicologiche devono essere regolari, sistematiche e durature nel
tempo.Tuttavia il mobbing non è un fenomeno nuovo, perché si caratterizza attraverso vari
comportamenti che presi isolatamente esistono da sempre e che sono: il confinamento in un
edificio dello stabilimento in disuso e privo di sicurezza; le molestie sessuali; il rifiuto ingiustificato e
con disparità di trattamento di permessi; i subdoli ricatti di non trasformare il contratto di
formazione e lavoro in contratto a tempo indeterminato se il lavoratore non avesse acconsentito a
svolgere le “mansioni”più disparate e gli orari più strani; il carico di lavoro eccessivo o nullo;
l’assegnazione di compiti al di sotto delle comprovate capacità professionali; i maltrattamenti
verbali del superiore gerarchico davanti ai colleghi di lavoro. Tutti questi comportamenti per
diventare mobbing devono essere regolari e durare per un periodo di almeno sei mesi. Alla luce di
queste considerazioni lo scopo è anche quello di dare informazioni sulle prospettive legislative,
contrattuali e giurisprudenziali su un fenomeno sempre più crescente in Italia ed in Europa. Infatti,
la prevenzione è l’unica arma contro il mobbing e la prevenzione, si fa, innanzitutto, accettando di
riconoscere il fenomeno. Infatti, l’assenza di una specifica previsione legislativa non impedisce di
difendersi dal mobbing dal momento che nel nostro ordinamento già esistono norme
(costituzionali, civilistiche, penali e specialistiche) le quali, grazie ad una paziente opera di
interpretazione, costituiscono un buon argine a protezione delle vittime di violenze psicologiche in
ambito lavorativo potendo assicurare la tutela del lavoratore e il risarcimento dei danni subiti in
conseguenza dei comportamenti mobbizzanti oltre che la sanzione di tali comportamenti.
I principi generali: numerose sono le norme della costituzione poste a tutela della persona in
quanto tale e del lavoratore inserito nella realtà lavorativa (artt. 2,3,4,32,35,36,41) e tra queste, in
particolare vanno segnalati gli art.32, che riconosce la tutela della salute come diritto fondamentale
dell’uomo; art.35, che prevede la tutela del lavoro in tutte le sue forme; art.41, che vieta lo
svolgimento della attività economica privata se esercitata in contrasto con l’utilità sociale o qualora
rechi danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana.
Sotto il profilo civilistico, occorre prima di tutto distinguere le ipotesi in cui l’autore del mobbing è il
datore di lavoro da quelle in cui è un superiore gerarchico o un collega della vittima. In questa
seconda ipotesi, l’autore delle violenze psicologiche potrà essere chiamato a rispondere ai sensi
dell’art.2043c.c, quindi per responsabilità extra contrattuale. La norma di carattere generale
contenuta nell’art. 2043 stabilisce, infatti, che qualunque fatto doloso o colposo che causa ad altri
un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno ed è, quindi,
perfettamente applicabile alle varie configurazioni del mobbing poiché contiene il principio
generale di responsabilità e sancisce il divieto di cagionare danni ad altri. L’importanza
dell’art.2043, quale efficace strumento di lotta al mobbing, è messa in particolare risalto dalla
sentenza n.411 del 24 gennaio 1990 della Corte di Cassazione nella quale la stessa corte “ha
stabilito che il bene della salute costituisce oggetto, di un autonomo diritto primario e quindi il
risarcimento per la sua lesione non può essere limitato alle conseguenze che incidono soltanto
sulla idoneità del soggetto a produrre reddito e cioè al danno patrimoniale inteso come
diminuzione del reddito per esborsi di denaro (cure e/o trattamenti medici o acquisto di prodotti
farmaceutici) cosiddetti danno emergente, o come possibilità di perdita di guadagno a causa della
condotta del molestatore (lucro cessante), ma deve essere esteso al danno biologico inteso come
lesione inferta al bene dell’integrità psichica in sé e per sé”.
Qualora invece l’autore delle violenze psicologiche sia il datore di lavoro, la responsabilità
derivante dall’art.2043, potrà concorrere con quella contrattuale da inadempimento di cui
all’art.2087del codice civile che dispone, integrando ex legge le obbligazioni nascenti dal contratto
di lavoro che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo
la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la
personalità morale dei prestatori di lavoro”.
E ‘ evidente che dall’art.2087 ne discende non solo il divieto per il datore di lavoro di porre in
essere direttamente comportamenti riconducibili al mobbing, ma anche l’obbligo di attivarsi per
impedire che tali comportamenti siano tenuti dai propri dipendenti. In giurisprudenza, infatti, è stata
riconosciuta la legittimità del licenziamento in tronco di lavoratori che abbiano posto in essere delle
gravi condotte nei confronti di altri dipendenti. Nel merito, il lavoratore dovrà provare la condotta
illegittima ed il nesso di causalità tra inadempimento delle misure ex art.2087 ed il danno subito,
mentre a carico del datore di lavoro rimane la prova di aver operato secondo le disposizioni di
legge. Quindi, la tutela del lavoratore vittima di vessazioni psicologiche può essere esercitata ai
sensi degli artt. 2043 e 2087 c.c. e la scelta del meccanismo di tutela più idoneo spetterà al
lavoratore. Sempre in tema di mobbing, altro importante principio è stato affermato dalla Corte di
Cassazione con l’innovativa sentenza del 5 ottobre 2001. L’Alta Corte, chiamata pronunciarsi sul
caso di un lavoratore che dopo aver svolto per tre anni le mansioni per le quali era stato assunto,
nei successivi sedici anni, pur continuando a ricevere lo stipendio, non era stato impegnato in
nessuna attività, riconoscendogli il diritto ad essere risarcito per il danno subito ha sancito il
principio secondo il quale la negazione o l’impedimento allo svolgimento delle mansioni lede “il
diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore”. Ancora sotto il profilo
civilistico è anche possibile esperire la tutela in via d’urgenza ex art.700 c.p.c, in presenza di
comportamenti vessatori o discriminatori che pongono in grave pericolo i diritti del lavoratore.
Per quanto riguarda invece il profilo penalistico, non pochi operatori del diritto sostengono a
ragione che il mobbing, potendo causare anche malattie professionali, potrebbe costituire reato
configurandosi come delitto di lesione personale colposa previsto dall’art.590 del codice penale.
L’applicazione delle regole generali del diritto penale al mobbing comporta, in ogni caso, l’esigenza
di valutare in concreto se la compromissione della integrità psico-fisica del lavoratore sia
riconducibile ad una condotta del datore di lavoro colposa o dolosa.
Norme di tipo specialistico: la legge 20 maggio 1970, n.300 (Statuto dei lavoratori) è uno degli
strumenti più importanti che la legislazione mette a disposizione per la tutela del lavoratore. Tra le
varie norme dello Statuto un particolare rilievo assumono l’art.7 con l’obbligo di specifica procedura
disciplinare contro gli abusi del datore di lavoro; L’ART.13 a tutela delle mansioni del lavoratore dai
comportamenti di dequalificazione professionale e l’art.15 per la tutela della nullità degli atti che
abbiano finalità discriminatorie ai danni del lavoratore. Il Decreto Legislativo 626/94 che ha
affermato il diritto alla salute inteso non solo come assenza di malattia, ma anche come assenza di
disagio e segnato il passaggio dall’idea della tutela della integrità fisica del lavoratore all’idea della
tutela della sua integrità psico-fisica. Da qui, deriva l’ammissione del risarcimento del danno
biologico che andrebbe totalmente addebitato in maniera personale e diretta agli autori delle
violenze psicologiche e dovrebbe avvenire ogni volta che ricorrono le condizioni previste
dall’art.2043 c.c. indipendentemente dalle obbligazioni che gravano sul datore di lavoro ai sensi
degli artt. 2049 e 2087 del codice civile. In materia di legislazione speciale, infine non va poi
trascurato il Decreto Legislativo 23 febbraio 2000, n.38 che ha introdotto, seppure con alcune
eccezioni, la tutela assicurativa INAIL del danno biologico. E’ da citare anche la legge della
Regione Lazio (a livello Regionale) varata nel giugno del 2002 e contenente “Disposizioni per
prevenire e contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro”.
Il quadro normativo si è recentemente arricchito con il Decreto Legislativo n.28 del 4 marzo 2010
in attuazione della riforma del Processo Civile (L.69/2009) ha introdotto un nuovo istituto, la
mediazione civile e commerciale, come strumento per giungere alla conciliazione. Tale Decreto
all’art.1, stabilisce che per mediazione si intende l’attività svolta da un terzo imparziale e finalizzata
ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di
una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa. Ai sensi
dell’art. 2, chiunque può accedere alla mediazione per la conciliazione di una controversia civile e
commerciale vertente su diritti disponibili (Cd. mediazione volontaria). L’art.5,1°comma (che
entrerà in vigore nel mese di marzo 2011) prevede che, chi intende esercitare in giudizio un’azione
relativa ad una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie,
patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla
circolazione di veicolo e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della
stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto
preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione, evidenziando che l’esperimento del
procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda. L’aver previsto
l’obbligatorietà del tentativo di mediazione solo per determinate materie si spiega per l’alto grado di
conflittualità che caratterizza tali settori e risponde alla necessità di contenere il contenzioso e allo
stesso tempo, riguardo alla natura della controversia, la composizione stragiudiziale può risultare
più produttiva. Il mobbing rappresenta un fenomeno sempre più crescente in Italia ed in Europa,
infatti, tenendo in considerazione i dati statistici sulle violenze nei luoghi di lavoro, è stato stabilito
che in Europa l’8,1% dei lavoratori è vittima di violenze psicologiche di ogni tipo in ambito
lavorativo; il che, tradotto in percentuale, equivale a ben 12 milioni di persone. In Italia, i lavoratori
vittime del mobbing sono il 4,2%. Si tratta di una situazione che solo apparentemente va meglio, in
quanto la valutazione (cioè il 4,2%) non tiene conto che molti giovani neo-assunti, o avviati con
forme flessibili (ad es. part-time; contratto di formazione e lavoro; contratto a termine; ecc.), spinti
dal forte bisogno di lavorare, sono “ben disposti” a tollerare i piccoli e i grandi soprusi nei luoghi di
lavoro. Per cui, emerge un crescente interesse per lo strumento della mediazione applicato alla
tutela della salute non solo perché si tratta di una questione di notevole importanza sociale, ma
anche perché delicatissima che richiede una particolare sensibilità verso l’individuo portatore di
dolorose esperienze personalissime. Il procedimento di mediazione previsto dal D.Lgs.28/2010 è
improntato a canoni di celerità, non potendo avere una durata superiore ai quattro mesi (art.6) e di
economicità, essendo i costi limitati e prevedibili. In particolare le indennità sono previste nelle
tabelle (cfr D.M. 180 del 28/10/2010); quando la mediazione è condizione di procedibilità della
domanda ai sensi dell’art.5, l’indennità non è dovuta dalla parte che si trova nelle condizioni di
ammissione al gratuito patrocinio; tutti gli atti sono esenti da imposta di bollo, tasse, diritti; il
verbale di accordo è esente da imposta di registro fino a 50.000 euro, oltre, l’imposta è dovuta per
la parte eccedente; in caso di accordo, per l’indennità versata è riconosciuto un credito d’imposta
fino a 500euro, ridotto della metà in caso di insuccesso (cfr. artt.17 e 20 d.lgs. 28/2010).Da quanto
scritto emergono già i primi vantaggi rispetto al procedimento giudiziario. Un giudizio soltanto in
primo grado può durare fino a quattro anni!il ricorso in appello e in cassazione allunga
ulteriormente i tempi, esaspera le parti, irrigidisce le posizioni aggiungendo ulteriori problemi ad
entrambi. Nel giudizio bisogna pagare i compensi agli avvocati per l’attività svolta, versare
l’imposta di registro sulla sentenza anche. Altra caratteristica della mediazione è il dovere di
riservatezza (art.9 D.Lgs.28/2010. Nell’ambito del procedimento di mediazione, ai soggetti che
operano all’interno dell’organismo di mediazione, è imposto un obbligo di riservatezza rispetto alle
dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite durante il procedimento medesimo; quanto alle
dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite durante gli incontri separati, salvo consenso della
parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni, il mediatore è tenuto alla riservatezza
nei confronti delle altre parti. Particolare rilievo assume l’art.10, inutilizzabilità e segreto
professionale: il 1°comma dispone che le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso
del procedimento di mediazione, salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono
le informazioni, non possono essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto, anche
parziale, iniziato, riassunto o proseguito dopo l’insuccesso della mediazione e su di esse non è
ammessa la prova testimoniale e il giuramento decisorio; il 2°comma stabilisce che il mediatore
non può essere tenuto a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e informazioni acquisite nel
corso del procedimento di mediazione, né davanti all’autorità giudiziaria né davanti ad altra
autorità, e che, allo stesso si applicano le disposizioni degli artt.200 e 103 c.p.p. La riservatezza
permette di non evidenziare i motivi della controversia e ciò per il datore di lavoro è rilevante in
termini di immagine e perdita di concorrenza; inoltre dà la possibilità ai soggetti coinvolti di
affrontare la situazione con maggiore disponibilità e apertura mentale; dà ulteriore possibilità di
ristabilire e salvaguardare il rapporto tra i soggetti coinvolti. E’ inoltre applicata la normativa sulla
protezione dei dati personali. Il D.M. 180 del 28/10/2010 mette in evidenza la professionalità del
mediatore, prevedendo precisi requisiti e appositi corsi di formazione e aggiornamento, nonché la
sua imparzialità; infatti, la procedura inizia solo dopo che il mediatore comunica con una apposita
dichiarazione di imparzialità l’inesistenza di qualsiasi rapporto di parentela o di lavoro con le parti,
di qualsiasi interesse personale ed economico connesso all’esito della procedura e qualsiasi altra
circostanza che potrebbe essere vista come conflitto di interessi. Tuttavia, anche ricorrendo
queste circostanze, è fatta salva la volontà delle parti che l’accettano, ritenendo il mediatore in ogni
caso imparziale. Il mediatore svolge la propria attività personalmente, tuttavia sia il mediatore che
le parti possono avvalersi di consulenti esterni. Le parti possono in ogni caso avvalersi
dell’assistenza di avvocati, commercialisti, persone di fiducia, (cd referenti). Nel procedimento di
mediazione, il mediatore si adopera per far dimenticare alle parti le posizioni iniziali, mettendo in
evidenza i reali bisogni ed interessi che non sono sempre e solo economici. Anche in questo
emerge una differenza con il giudizio;nel quale il giudice non può andare oltre le richieste delle
parti ed applica la norma di diritto al caso concreto senza preoccuparsi di mettere in relazione e
confronto ma soprattutto in dialogo le parti. Il mediatore, invece può evidenziare le personali
responsabilità delle parti, far emergere gli aspetti emozionali, far riconoscere la professionalità, la
valorizzazione personale nonché l’interesse ad una soluzione che mantenga i rapporti e preveda la
prosecuzione del rapporto lavorativo. A differenza del giudizio, nel procedimento di mediazione
esiste flessibilità ed il mediatore assume un ruolo fondamentale al fine di aumentare le possibilità
di soluzione della controversia semplicemente attraverso la corretta comunicazione, che spesso,
errori nella comunicazione allontanano i soggetti coinvolti. Il mobbing consiste, infatti, in una
comunicazione ostile e non etica, grazie al mediatore, lo scontro iniziale conduce ad un confronto
e ad chiarimenti sfociando sicuramente in prosecuzione di rapporti a differenza del giudizio che
nella maggior parte dei casi sancisce la rottura definitiva dei rapporti. Il mediatore, infatti, si
adopera per la salvaguardia e il consolidamento dei rapporti tra le parti, in vista della loro
prosecuzione. Ancora, il procedimento di mediazione è informale, a differenza del giudizio si
svolge senza formalità in sessione congiunta e separate ed è volontario, la parte può non aderire,
non presentarsi, abbandonare il procedimento; tuttavia, in assenza di giustificato motivo, il giudice
del successivo giudizio può desumere argomenti di prova da tale comportamento (art.116,2c.
C.P.C.). Rilevante è l’art.12 del D.Lgs.28/2010, il verbale di accordo è omologato su istanza di
parte, con decreto del Presidente del Tribunale nel cui circondario ha sede l’organismo di
mediazione, costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma
specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. Meticolose sono poi, le disposizioni circa gli
organismi di mediazione, deputati a gestire su istanza della parte interessata il procedimento di
mediazione. Gli enti pubblici o privati, che offrono garanzie di serietà ed efficienza sono abilitati a
costituire organismi di mediazione, i quali devono essere iscritti nell’apposito registro, sotto la
vigilanza del Ministero della Giustizia, fermo restando il diritto delle Camere di Commercio che
hanno già istituito tali organismi ad ottenerne l’iscrizione (artt.16 e 19 D.Lgs.28/2010). Altre
disposizioni, rilevanti sul piano operativo sono quelle contenute nell’art.18, secondo cui i consigli
degli ordini degli avvocati possono istituire organismi presso ciascun Tribunale, ed nell’art.19,
secondo cui tutti i consigli degli ordini professionali possono istituire per le materie riservate alla
loro competenza, previa autorizzazione del ministero della Giustizia, organismi speciali,
avvalendosi del proprio personale e utilizzando locali nella propria disponibilità. Gli organismi
istituiti dalle Camere di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura, dai Consigli degli ordini
professionali sono iscritti nel registro su semplice domanda; gli organismi istituiti da Enti pubblici e
privati, a seguito di valutazione del Ministero della Giustizia. In ogni caso vanno rispettate le
disposizioni del D.M.180/2010.
Dal mese di marzo 2011, la mediazione dovrà essere esperita a pena di improcedibilità nelle
controversie relative ai casi prima specificati. Nulla vieta nel frattempo la possibilità di giungervi
volontariamente, l’obbligatorietà del procedimento di mediazione in ogni caso, non si applica
all’azione civile esercitata nel processo penale. In conclusione, in passato e attualmente, il
sovraccarico di lavoro dei Tribunali, in assenza di alternative al giudizio civile in materie di tutela
della salute e non solo, con l’attuazione del D.Lgs.28/2010 che prevede il ricorso obbligatorio alla
mediazione si affermerà sicuramente, la cultura della mediazione anche come strumento di
risoluzione pacifiche di controversie e snellimento del contenzioso.