AREA AMMINISTRATIVO
LEZIONE
La Lezione è dedicata all’inquadramento generale delle fonti secondarie. Nella seconda parte si
esaminano in particolare i regolamenti e bandi di gara, la rispettiva natura giuridica e le forme di tutela.
A) Le fonti secondarie B) Regolamenti e bandi di gara: natura e tutela.
A) Accanto alle fonti primarie, integranti un numerus clausus, concorrono a comporre l’ordinamento le
“fonti secondarie” che, subordinate alle “primarie”, sono adottate dalle amministrazioni centrali o
periferiche, nell’esercizio del potere di autonomia normativa loro riconosciuto affinché attendano alla
regolamentazione dei settori rientranti nella loro competenza.
Prima di procedere all’esame dei regolamenti e dei bandi di gara, giova soffermarsi sui tratti distintivi
delle fonti secondarie in generale, al fine di rimarcarne le differenze – ontologiche, prima ancora che di
regime – rispetto agli atti amministrativi che, pur presentandosi come generali, sono tuttavia privi di
carattere normativo.
Si tratta di distinzione di grande importanza applicativa, essendo ben diversa la disciplina cui
soggiacciono gli atti dell’amministrazione a carattere normativo da quella applicabile agli atti
amministrativi generali ma non normativi.
In particolare:
- per le fonti secondarie trovano applicazione i principi iura novit curia e ignorantia legis non excusat;
- deve ritenersi integrato il vizio di violazione di legge allorché l’atto amministrativo sia adottato in
contrasto con una fonte secondaria, la difformità da un atto amministrativo generale costituendo
invece figura sintomatica di eccesso di potere;
- per la sola mancata adozione di “atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo” è
esperibile, sempre che ricorrano le condizioni normativamente prescritte, la c.d. class action pubblica
introdotta dall’art. 1, comma 1, d.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198;
- sul versante processuale, è consentito proporre ricorso per Cassazione ex art. 360, comma 3, c.p.c.
solo ove il giudice abbia disatteso una fonte normativa;
- solo per le fonti secondarie riconducibili alla categoria dei regolamenti è in giurisprudenza riconosciuto il
potere del G.A. di disapplicare l’atto riscontrato configgente con la previsione di rango primario, in
ossequio ad un principio di gerarchia non estensibile ai provvedimenti amministrativi;
- sul piano penale, solo la violazione, ad opera del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio,
delle fonti secondarie riconducibili alla categoria dei regolamenti può concorrere ad integrare la
fattispecie dell’abuso di ufficio di cui all’art. 323 c.p.
A fronte delle indicate diversità di regime, non mancano, per contro, tratti disciplinari comuni.
Così, la l. 7 agosto 1990, n. 241 espressamente esclude, sia per gli atti amministrativi generali che per quelli
normativi secondari, l’obbligo di motivazione (art. 3, comma 2), l’applicabilità delle norme che
disciplinano la partecipazione al procedimento amministrativo (art. 13, comma 1), l’applicabilità della
disciplina in tema di ostensione in relazione all’attività diretta all’emanazione degli uni e degli altri (art. 24,
comma 1, lett. c).
Viene, altresì, in rilievo la sottrazione degli uni e degli altri al sindacato di costituzionalità, dall’art. 134 Cost.
previsto solo per “le leggi e gli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni”1: il che non esclude,
peraltro, che il giudice nella fattispecie sottoposta al suo esame possa valutare la conformità a costituzione di
atti generali e di fonti secondarie.
Ciò posto quanto al rilievo applicativo della distinzione, giova passare in rassegna i principali criteri
proposti in dottrina e giurisprudenza per distinguere tra fonti secondarie e atti amministrativi generali.
Tre i principali criteri proposti:
 quello formale, attento al nomen assegnato all’atto e al procedimento seguito per la sua adozione;
1
Entrambi i tipi di atto, invece, possono essere oggetto di giudizio di “conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e
le regioni, e tra le regioni” (art. 134 Cost.).
 quello che assegna decisiva importanza al carattere politico della determinazione recata nell’atto;
 quello, infine, che ravvisa nei caratteri della generalità, astrattezza ed innovatività i tratti
ineludibilmente presenti nell’atto normativo.
Per l’orientamento oggi prevalente, è necessario attendere alla distinzione verificando in concreto che
nell’atto siano presenti i caratteri dell’innovatività, generalità ed astrattezza, indispensabili perché possa
riconoscersi natura normativa.
In particolare:
- l’astrattezza sussiste quando le previsioni contenute nell’atto sono suscettibili di indefinita ripetibilità
ed applicabilità ai casi concreti. Diversamente, gli atti generali non disciplinano tipi di rapporti
giuridici, bensì rapporti sorti in concreto, in quanto atti sostanzialmente amministrativi, adottati quindi
per la cura di un determinato interesse pubblico;
- la generalità attiene all’indeterminabilità dei destinatari dell’atto. Nel dettaglio, i destinatari delle fonti
secondarie non sono determinabili per l’intero arco di validità della stessa; diversamente, gli atti
amministrativi generali risultano destinati a soggetti non determinabili a priori, ma identificabili a
posteriori, al momento della relativa applicazione. È ciò che accade per i bandi di concorso, i cui
partecipanti, non determinabili all’atto della pubblicazione del bando, lo diventano certo in un momento
successivo;
- l’innovatività, da taluni intesa quale attitudine dell’atto a modificare definitivamente l’ordinamento
giuridico (sicché non rientrano nel novero delle fonti secondarie gli atti che vi apportano unicamente
delle deroghe), da altri viceversa ritenuta propria anche degli atti temporanei, destinati cioè ad incidere
sulla disciplina vigente, modificandola, ma limitatamente ad un periodo circoscritto.
Tra i criteri passati in rassegna, la giurisprudenza ha decisamente optato per quello sostanziale,
precisando che:
- gli atti ed i provvedimenti amministrativi generali sono espressione di mera potestà amministrativa,
funzionali alla cura concreta di interessi pubblici, destinati ad una pluralità di soggetti non
necessariamente determinati nel provvedimento, ma, tuttavia, determinabili successivamente;
- i regolamenti esprimono invece la potestà normativa dell’amministrazione, secondaria rispetto a quella
legislativa (in relazione alla quale svolgono una funzione attuativa o integrativa), ma comunque
innovativa dell’ordinamento, recando precetti connotati da generalità ed astrattezza, nei sensi sopra
espressi.
La bontà del criterio in esame è stata ribadita da Cons. St., sez. atti norm., 14 febbraio 2005, n.
11603/2004, secondo cui, nel valutare il carattere normativo degli atti autoritativi di provenienza
amministrativa, va verificata la capacità “innovativa dell’ordinamento” e la generalità e astrattezza delle
disposizioni che lo compongono.
Da ultimo, Cons. St., A.P., 4 maggio 2012, n. 9, al fine di distinguere tra atto normativo e atto
amministrativo generale, valorizza, in particolar modo, il requisito dell’indeterminabilità dei destinatari, nel
senso che l’atto normativo è quello i cui destinatari sono indeterminabili sia a priori che a posteriori (essendo
proprio questa la conseguenza della generalità e dell’astrattezza), mentre l’atto amministrativo generale ha
destinatari indeterminabili a priori, ma certamente determinabili a posteriori in quanto è destinato a regolare
non una serie indeterminati di casi ma, conformemente alla sua natura amministrativa, un caso particolare
e/o una vicenda determinata, esaurita la quale vengono meno anche i suoi effetti.
B) Regolamenti e bandi di gara: natura e tutela.
La natura dei regolamenti e dei bandi di gara.
I regolamenti, annoverati tra le fonti secondarie dell’ordinamento, sono atti formalmente
amministrativi, in quanto promananti da organi del potere esecutivo, ma sostanzialmente normativi; gli
stessi, infatti, risultano idonei ad innovare, con prescrizioni generali ed astratte, l’ordinamento giuridico.
Più precisamente:
- la generalità è da intendersi come indeterminabilità dei destinatari;
- l’innovatività, quale attitudine a costituire ed innovare l’ordinamento giuridico;
- l’astrattezza, come idoneità a regolare una serie indefinita di casi.
Dai regolamenti va tenuta distinta la categoria degli atti amministrativi generali, quali atti formalmente e
sostanzialmente amministrativi, sebbene destinati ad una generalità di consociati, indeterminabili a priori
ma, tuttavia, individuabili a posteriori; è il caso dei bandi di gara (e di concorso), i cui destinatari, non
identificabili al momento della pubblicazione, lo diventano a seguito e per effetto della partecipazione.
Giova ancora soffermarsi sui criteri che consentono di distinguere gli atti normativi dagli atti
amministrativi generali, privi tuttavia di carattere normativo, per poi passare al’esame delle forme di
tutela azionabili avverso il regolamento e il bando di gara.
Il criterio dello spessore politico dell’atto.
Secondo una prima impostazione, il discrimen tra atti normativi e atti amministrativi generali va
individuato nella connotazione strettamente politica dei primi, assente invece nell’atto che sia
meramente esecutivo ovvero specificativo di una norma previgente, perciò non espressione di diretta
volontà politica.
L’opzione in esame è stata criticata da chi ha posto in evidenza:
- l’intrinseca opinabilità del carattere politico di un atto;
- la sussistenza di regolamenti meramenti esecutivi, volti ad assicurare per l’appunto esecuzione ad una
legge ad essi presupposta e collegata.
Il criterio formale.
Per altra impostazione occorre prescindere dal contenuto dell’atto e far leva, invece,
sull’“autoqualificazione” dell’atto stesso, dando rilievo quindi al nomen fornito dall’amministrazione e al
procedimento seguito per l’adozione dell’atto.
Sarebbero, pertanto, normativi gli atti adottati all’esito di procedimenti determinati (GIANNINI).
Anche tale indirizzo ha suscitato perplessità in chi ha osservato che, così opinando, si finirebbe per
riconoscere la qualificazione regolamentare per i soli atti adottati a conclusione di appositi procedimenti
disciplinati dalla legge, lasciando fuori gli atti sostanzialmente normativi, ma tuttavia adottati nella forma
di provvedimenti.
Il criterio sostanziale.
La non persuasività dei criteri indicati ha indotto la dottrina e la prevalente giurisprudenza a dare credito
ad un criterio sostanziale, che fonda l’accertamento della natura normativa dell’atto sulla valutazione del
suo contenuto. Si tratta della tesi secondo cui va riconosciuta natura normativa all’atto che presenti i
caratteri della generalità, dell’astrattezza e dell’innovatività, propri delle fonti secondarie.
In particolare:
• l’astrattezza sussiste quando le previsioni contenute nell’atto sono suscettibili di indefinita ripetibilità
ed applicabilità ai casi concreti. Diversamente, gli atti generali non disciplinano tipi di rapporti giuridici,
bensì rapporti sorti in concreto, in quanto atti sostanzialmente amministrativi, adottati quindi per la
cura di un determinato interesse pubblico;
• la generalità, propria dei regolamenti, attiene alla indeterminabilità dei destinatari dell’atto. Nel
dettaglio, i destinatari dei regolamenti non sono determinabili per l’intero arco di validità della fonte
secondaria; diversamente, gli atti amministrativi generali risultano destinati a soggetti non determinabili
a priori, ma identificabili a posteriori, al momento della relativa applicazione.
È ciò che accade, come osservato, per i bandi di concorso, i cui partecipanti, non determinabili all’atto
della pubblicazione del bando, lo diventano in un momento successivo;
• l’innovatività, da taluni quale attitudine dell’atto a modificare definitivamente l’ordinamento giuridico
(sicché non rientrano nel novero delle fonti secondarie gli atti che vi apportano unicamente delle
deroghe), da altri è viceversa propria anche degli atti temporanei, destinati cioè ad incidere sulla
disciplina vigente, modificandola, ma limitatamente ad un periodo circoscritto.
Tra i criteri passati in rassegna, la giurisprudenza più recente (Cons. Stato, sez. atti normativi, parere
n. 11603/04; Id., Ad. Gen., parere 22 giugno 2005; Id., sez. IV, n. 2385/04) ha decisamente optato
per quello sostanziale precisando che:
- gli atti ed i provvedimenti amministrativi generali sono espressione di mera potestà amministrativa,
funzionali alla cura concreta di interessi pubblici, destinati ad una pluralità di soggetti non
necessariamente determinati nel provvedimento, ma, tuttavia, determinabili successivamente;
- i regolamenti esprimono invece la potestà normativa dell’Amministrazione, secondaria rispetto a
quella legislativa (in relazione alla quale svolgono una funzione attuativa o integrativa), ma comunque
innovativa dell’ordinamento, recando precetti connotati da generalità ed astrattezza, nei sensi sopra
espressi.
La sindacabilità di un regolamento illegittimo dinanzi GA: annullamento o disapplicazione?
Acclarata la natura “ibrida” dei regolamenti, in quanto formalmente amministrativi e sostanzialmente
normativi, resta da verificare come la stessa incida in sede di individuazione delle forme di tutela
giurisdizionale da assicurare a chi intenda impugnarli. Occorre chiedersi, in particolare, se, a questi fini,
prevalga il profilo normativo o amministrativo con i conseguenti distinti risvolti sul piano processuale.
In proposito, si possono distinguere due posizioni, succedutesi nel tempo, che muovono dalla centralità
attribuita ora all’una ora all’altra “anima” dei regolamenti.
Il giudizio impugnatorio sui regolamenti illegittimi.
Per tradizionale orientamento dottrinale, i regolamenti, in quanto atti soggettivamente amministrativi,
sono assoggettati al normale regime impugnatorio.
Senonché la natura normativa degli stessi, e il rimarcato carattere di generalità ed astrattezza delle relative
previsioni, induce a riconoscere l’immediata impugnabilità ai soli casi in cui il regolamento assuma, già
prima dell’adozione degli specifici provvedimenti attuativi, una portata effettivamente lesiva.
Si ritiene, pertanto, di distinguere due tipologie di regolamento.
I. Su un primo fronte, vengono in considerazione i cc.dd. regolamenti volizione-preliminare, le cui
previsioni, in quanto strettamente coerenti con i descritti caratteri di generalità ed astrattezza, non
presentano alcuna idoneità ad incidere direttamente sulla sfera soggettiva dei destinatari; effetto,
quest’ultimo che presuppone, invece, l’adozione a valle del provvedimento di attuazione, il solo in
grado di rendere attuale la possibile compromissione delle singole situazioni soggettive, così
determinando l’insorgere dell’interesse a ricorrere.
Sul versante applicativo consegue che:
• l’impugnazione è soggetta all’ordinario termine decadenziale, decorrente dal momento dell’adozione
dell’atto applicativo;
• l’oggetto del giudizio potrà avere differente consistenza, a seconda del vizio lamentato dal ricorrente.
In particolare:
- se con l’atto di gravame si denuncia un vizio proprio del provvedimento attuativo, non mutuato dal
regolamento volizione-preliminare, l’oggetto dell’impugnazione coinciderà con l’atto applicativo
medesimo;
- se con l’atto di gravame si deduce un vizio che il provvedimento attuativo ha tratto dal regolamento
volizione-preliminare, l’interessato è tenuto ad impugnarlo congiuntamente all’atto applicativo a valle,
in ossequio al meccanismo della “doppia impugnativa”.
II. Diversamente, nei regolamenti c.d. volizione-azione si stempera il carattere della generalità, gli
stessi contenendo previsioni direttamente incidenti sulla sfera soggettiva dei destinatari, già
immediatamente interessati pertanto a ricorrere, senza che sia necessaria la mediazione dell’impugnativa
dei provvedimenti attuativi.
Consegue che:
• l’impugnazione del regolamento volizione-azione soggiace all’ordinario termine decadenziale, il cui dies
a quo è individuato nel giorno della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale o sugli altri fogli di
annunzi legali;
• l’interessato ha l’onere di impugnare direttamente il regolamento, senza differire il gravame al
momento dell’adozione degli atti applicativi, incorrendo in decadenza allorché, ricorrendo avverso il
provvedimento attuativo (senza impugnare in termini il regolamento), deduca vizi che l’atto applicativo
ha mutuato dal regolamento volizione-azione.
Nel caso, infine, di regolamenti misti, recanti tanto prescrizioni di natura programmatica quanto
precetti immediatamente lesivi, il regime dell’impugnazione non è univoco, variando a seconda della
natura delle prescrizioni assunte come illegittime.
Questioni interpretative: la tutela dei controinteressati e la dilatazione dei limiti soggettivi e
oggettivi del giudicato.
a) Quanto osservato in merito al regime di impugnativa dei regolamenti pone taluni problemi
interpretativi a carattere spiccatamente processuale.
Tra questi, in primo luogo, quello relativo alla sussistenza, in caso di ricorso avverso il
regolamento, di terzi controinteressati, cui il ricorrente sarebbe conseguentemente tenuto a
notificare, a pena di inammissibilità, il ricorso.
Gioca premettere che dottrina e giurisprudenza, da tempo impegnate nel ricostruire la nozione di
controinteressato nel processo amministrativo, ne affidano l’identificazione alla concorrente presenza di
due elementi:
- il primo, sostanziale, sussistente quando il terzo ha tratto un vantaggio dall’atto amministrativo che
altri impugna, sicché è interessato alla sua conservazione e controinteressato alla caducazione,
richiesta invece dal ricorrente;
- il secondo, formale, integrato dall’identificazione nominativa del soggetto nell’atto impugnato o,
comunque, dalla agevole riconoscibilità dello stesso sempre sulla base del provvedimento.
Trasponendo tali tradizionali coordinate all’ipotesi in cui ad essere impugnato è il regolamento, in uno
all’atto applicativo a valle (in omaggio allo schema della doppia impugnativa), una parte, per vero
minoritaria della giurisprudenza, ritiene che controinteressati siano, astrattamente, tanto i soggetti che
ricevono un beneficio dal primo, quanto coloro interessati alla conservazione del secondo.
Nel dettaglio, la giurisprudenza ha ritenuto possibile l’individuazione di terzi controinteressati, sebbene
limitatamente all’impugnazione dei cd. regolamenti volizione-azione, contenenti, come già rilevato,
prescrizioni concrete, alla cui conservazione potrebbero dirsi interessati coloro che hanno tratto da
siffatti atti normativi un’utilità diretta ed immediata.
Resta peraltro la difficoltà di attendere alla concreta individuazione, tra un numero imprecisato di
destinatari, di soggetti effettivamente avvantaggiati dall’atto normativo; difficoltà concreta che, per
l’indirizzo pretorio sopra riportato, non può tuttavia indurre ad escludere, ex se, la presenza di
controinteressati, anche laddove questi siano agevolmente individuabili in base a parametri di ordinaria
diligenza.
Prevale, tuttavia, in giurisprudenza, prevale la tesi secondo cui, in caso di impugnazione di regolamenti,
non sussistono terzi controinteressati: la natura normativa dei regolamenti, che reca con sé la generalità
e l’astrattezza dei precetti posti, impedisce, invero, che i relativi destinatari possano ricavare un
beneficio immediato e diretto dal regolamento, sicché difetterebbe il richiesto e sopra indicato requisito
sostanziale.
Si osserva, invero, che il rapporto processuale amministrativo deve potersi instaurare tra soggetti ben
individuati, e ben individuabili, alla stregua dell’atto sottoposto al sindacato giurisdizionale, giammai tra
“categorie”.
Invero, la legittimazione a ricorrere presuppone una posizione qualificata e differenziata di un ben
definito soggetto rispetto ad un atto che si assume lesivo di un interesse immediato e concreto che in
quella posizione trova il suo fondamento; la legittimazione a contraddire è propria di un soggetto che
nell’atto che altri impugna in sede giurisdizionale radica un interesse, legato alla sopravvivenza dell’atto
stesso.
La contrapposizione è, quindi, sempre tra soggetti ben individuati, e ben individuabili; alla stregua
dell’atto sottoposto al sindacato giurisdizionale, e non tra “categorie”; l’appartenenza ad una “categoria”
rende certo manifesta la presenza di un interesse suscettibile di tutela giurisdizionale.
Senonché, la titolarità di un autonomo interesse a contraddire, se legittima l’intervento nel processo di
un soggetto che intende opporsi all’annullamento di un atto, alla cui conservazione sono legati dei
vantaggi, la stessa titolarità, definibile in via astratta, non è invece ancora sufficiente a far assumere la
qualità di “controinteressato” in senso proprio, cui solo spetta la notifica dell’atto introduttivo del
giudizio.
Il diritto ad essere chiamato in giudizio richiede, infatti, oltre la titolarità di un interesse analogo e
contrario a quello che legittima la proposizione del ricorso, che l’ipotetico “contraddittore” sia
nominativamente individuato nell’atto o comunque facilmente individuabile: requisito, questo,
normalmente mancante quando sia impugnata una previsione regolamentare (Cons. Stato, 20 giugno
2001, n. 3296).
b) Per costante giurisprudenza, la sentenza costitutiva di annullamento di un regolamento
amministrativo, in quanto atto generale ed astratto, ne procura l’eliminazione dall’ordinamento con
effetti erga omnes ed ex tunc, derogando, dunque, alla regola generale recata dall’art. 2909 c.c., secondo cui
“la sentenza fa stato tra le parti, i loro eredi e gli aventi causa”.
Nel dettaglio:
b.1) quanto ai limiti soggettivi del giudicato, l’estensione ultra partes della sentenza di annullamento si
spiega se si considera che:
• il carattere generale (per il numero indeterminabile di destinatari) ed indivisibile dell’atto normativo
non consente il frazionamento del suo contenuto. Trova, pertanto, applicazione il principio
dell’efficacia ultra partes della pronuncia caducatoria generalmente applicato agli atti a contenuto
inscindibile;
• l’estensione soggettiva del giudicato risponde ad istanze di certezza giuridica, garantendo che l’atto
normativo, dichiarato illegittimo, non sia più applicato dalla PA, la sua natura, sostanzialmente unitaria,
essendo incompatibile con un’applicazione limitata ad alcuni destinatari, ovvero quelli che non hanno
preso parte al procedimento;
• l’art. 14, co. 3, d.P.R. n. 1199/71, prevede che dell’annullamento degli atti normativi, in conseguenza
di ricorso straordinario, debba essere data notizia “nelle medesime forme di pubblicazione degli atti
annullati”. Tale forma di pubblicità presuppone per l’appunto una dilatata efficacia soggettiva della
decisione caducatoria, che vada oltre le parti in giudizio. La citata previsione normativa, per vero
esplicitamente posta per il ricorso straordinario, si ritiene applicabile anche alle sentenze di
annullamento dei regolamenti, attese le affinità che è dato ravvisare tra il ricorso amministrativo ed il
ricorso giurisdizionale: affinità suffragate peraltro dal principio di alternatività tra i due rimedi.
Si consideri, peraltro, che la tesi volta a riconoscere efficacia erga omnes alla sentenza di annullamento di
un atto normativo, è stata sottoposta a non pochi rilievi critici in dottrina.
È stata in particolare evidenziata:
• l’incompatibilità tra l’interesse sotteso alla proposizione del ricorso, che determina il giudice
unicamente alla risoluzione della controversia sorta tra le parti, e gli effetti espansi della sentenza,
destinati a superare le rispettive sfere soggettive delle parti per involgere altri soggetti;
• la mancanza di un’esplicita previsione che applichi pure alla sentenza di annullamento lo stesso
meccanismo di pubblicità recato dall’art. 14, cit., per l’annullamento di “un atto amministrativo generale
a contenuto normativo” in sede di ricorso straordinario.
b.2) quanto, invece, ai limiti oggettivi del giudicato, occorre interrogarsi sulla sorte dei provvedimenti
attuativi del regolamento annullato, distinguendo due ipotesi:
• i provvedimenti attuativi, impugnati contestualmente al regolamento (c.d. doppia impugnativa),
sono senz’altro travolti dalla caducazione di quest’ultimo, per invalidità derivata (l’annullamento
dell’atto presupposto, il regolamento, si riflette quindi sull’atto successivo a valle, che ne assimila il
vizio);
• più controversa la sorte degli atti applicativi medio tempore adottati e non impugnati
tempestivamente.
Due le soluzioni prospettate:
- un primo orientamento, più radicale, promuove la tesi dell’invalidità derivata ad effetto caducante,
prodotta dall’annullamento del regolamento nei confronti degli atti applicativi medio tempore adottati:
l’effetto retroattivo dell’annullamento del regolamento procura la caducazione retroattiva automatica
dei provvedimenti attuativi senza che sia necessaria l’apposita impugnazione degli stessi;
- per un secondo e prevalente indirizzo, invece, dall’annullamento giurisdizionale del regolamento
consegue un’invalidità derivata ad effetto solo viziante dell’atto applicativo, sicché
all’annullamento del regolamento non consegue la caducazione automatica dei provvedimenti
applicativi, medio tempore adottati, attesa la loro definitività per effetto della decorrenza del termine
decadenziale. Resta salva la possibilità per la PA di procedere alla loro rimozione agendo in
autotutela, qualora ricorrano ragioni di pubblico interesse che sollecitino la rimozione del
provvedimento attuativo divenuto inoppugnabile.
La disapplicazione del regolamento illegittimo.
All’impostazione tradizionale, che affida il sindacato di legittimità delle fonti secondarie al solo
meccanismo dell’impugnazione nel rispetto del termine decadenziale, si contrappone quella che invece
consente che il regolamento, pure non ritualmente impugnato, possa essere disapplicato dal G.a.
Per vero, in senso ostile alla disapplicabilità dei regolamenti, sono state addotte non poche
argomentazioni, di seguito passate in rassegna.
I. Si rimarca, in primo luogo, l’assenza di una espressa previsione di legge che riconosca in capo al G.A.
un potere di disapplicazione, analogamente a quanto previsto dall’art. 5 LAC per il G.O.
Al contempo, si contesta l’assunto che ammette un’applicabilità analogica della disposizione citata al
G.A., osservandosi che l’attribuzione di siffatto potere al G.O. costituisce una sorta di compensazione,
sebbene non piena, del mancato riconoscimento a quello stesso giudice del più pregnante potere di
annullamento degli atti amministrativi.
Pacifica, invece, è ritenuta l’attribuzione del potere di disapplicazione al G.A. in sede di giurisdizione
esclusiva, qualora si controverta della dedotta lesione di posizioni di diritto soggettivo, trattandosi di
giudizio sul rapporto e sulla spettanza del bene della vita, non già sull’atto, e non venendo, perciò, in
discorso il regime decadenziale tipico del giudizio impugnatorio.
II. A sostegno della tesi ostile al riconoscimento in capo al G.A. del potere di disapplicare il
regolamento si prospetta il rischio di elusione del termine decadenziale, che altrimenti opinando
deriverebbe. Difatti, l’interessato, decorso il termine per impugnare il regolamento, potrebbe chiedere,
impugnando il provvedimento attuativo, la verifica incidentale dell’illegittimità del primo, confidando
nella sua disapplicazione e così conseguendo un’utilità equivalente a quella conseguibile con la
caducazione del provvedimento: si determinerebbe – si sostiene - una sorta di “rimessione in termini”
dell’interessato alla caducazione del regolamento.
III. Ancora, si fa leva sul principio della domanda, di cui all’art. 112 c.p.c., assuntamente ostativo alla
cognizione, in via incidentale, della illegittimità del regolamento, laddove la stessa non abbia costituito
oggetto di specifici motivi di censura. Parimenti, si richiama un’esigenza di certezza, assuntamente
compromessa ammettendo che alla acclarata illegittimità del regolamento consegua nel giudizio
amministrativo, non già l’annullamento, ma soltanto la sua disapplicazione, limitata al caso concreto,
con conseguente ultravigenza e applicazione permanente del regolamento di cui pure è stata verificata
l’illegittimità.
Gli esposti argomenti sono stati presi in considerazione e superati dai fautori della tesi che ammette, a
certe condizione, la disapplicazione c.d. regolamentare.
Si valorizza, in primo luogo, la sussumibilità dei regolamenti tra le fonti del diritto, assoggettate ai
principio di gerarchia delle fonti e del “iura novit curia”.
In particolare:
- in forza del secondo, il giudice è tenuto a conoscere anche ufficiosamente dell’intero quadro
normativo, a prescindere dalle deduzioni formulate dalla parte nel ricorso;
- in ossequio, invece, al principio di gerarchia delle leggi, il giudice è tenuto ad assicurare in giudizio la
primazia della fonte gerarchicamente superiore, dando ad essa attuazione, se del caso disapplicando la
configgente previsione regolamentare, alla prima sott’ordinata.
Alla disapplicazione regolamentare il giudice deve procedere, quindi, perché tenuto ad assicurare
l’applicazione diretta della norma primaria sovraordinata.
Inconferente, del resto, è ritenuto l’indicato richiamo al principio della domanda e all’esigenza di
certezza, non realmente minacciati per effetto del funzionamento del meccanismo della disapplicazione
regolamentare.
Difatti:
- è fatto salvo il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, atteso che il giudice valuta, in
via incidentale, la legittimità del regolamento e procede, se dal caso, alla disapplicazione unicamente
delle disposizioni regolamentari rilevanti per il giudizio, in quanto attuate dal provvedimento attuativo
impugnato o dallo stesso violate, di cui il ricorrente, perciò, fa esplicita menzione tra i motivi di
ricorso;
- quanto alla certezza, la disapplicazione del regolamento, in sede giudiziale, funge da stimolo
all’esercizio del potere di autotutela da parte della P.A. così posta in condizione di eliminare la
disposizione regolamentare riscontrata illegittima dal giudice e dallo stesso solo disapplicata.
A tale impostazione aderisce ormai da tempo la giurisprudenza amministrativa, a far data dalla storica
sentenza del Consiglio di Stato, n. 154/1992 (confermata successivamente; in termini, Cons. Stato, n.
2034/05; Id., n. 2652/06).
Nel caso di specie il provvedimento attuativo era stato adottato in violazione del regolamento
presupposto, a sua volta contrastante con la legge: è il caso del rapporto detto c.d. antipatia,
ricorrendo il quale l’atto applicativo risulta, conclusivamente, conforme alla legge, tra l’uno e l’altro
collocandosi un regolamento illegittimo.
In ipotesi siffatte, escludendo il potere disapplicatorio, il giudice dovrebbe annullare l’atto
amministrativo impugnato, contrario al regolamento ma perfettamente in linea con la previsione di
rango primario.
Diversamente, la giurisprudenza amministrativa ammette la disapplicazione del regolamento illegittimo,
cui consegue, pertanto, la reiezione del ricorso, essendo l’atto applicativo ab origine conforme a legge.
Diversa l’ipotesi del rapporto c.d. di simpatia, che si realizza quando un provvedimento applica un
regolamento, tuttavia confliggente con la previsione di legge.
In questo caso, escludendo la disapplicazione del regolamento, andrebbe respinto il ricorso, attesa la
conformità del provvedimento impugnato al regolamento.
Diversamente, Cons. Stato, n. 799/1993, ha concluso per la disapplicazione anche allorché ricorra un
rapporto di simpatia tra provvedimento e regolamento; disapplicato, pertanto, anche in questo caso il
regolamento, il giudice accoglie il ricorso, concludendo nel senso della contrarietà del provvedimento
applicativo rispetto alla legge.
Ciò posto, ci si è chiesti se la disapplicazione del regolamento debba considerarsi, una volta ammessa, lo
strumento unico di tutela approntata dall’ordinamento a favore del privato, o se lo stesso concorra con
il rimedio caducatorio, atteggiandosi quindi a meccanismo rimediale alternativo rispetto a quest’ultimo.
Due gli orientamenti formatisi:
• parte della giurisprudenza qualifica il rapporto tra le due tecniche in termini di alternatività,
rimarcando:
- la più intensa tutela derivante dalla caducazione del regolamento illegittimo, volta ad escludere la
reiterazione di ulteriori provvedimenti applicativi;
- la conservazione, in capo al GA, del potere di annullamento dei regolamenti illegittimi (Tar Puglia,
Lecce, n. 7452/04).
• altra parte assume l’unicità del rimedio della disapplicazione, attesa la natura normativa dei
regolamenti, alla cui cognizione può procedersi pertanto, come per le fonti in generale, unicamente in
via incidentale e non principale.
Il sindacato giurisdizionale sui bandi di gara.
Affermatosi, in giurisprudenza, l’assunto della disapplicabilità dei regolamenti, ci si è interrogati in merito
alla estensibilità del meccanismo in questione anche ai bandi, tanto di gara quanto di concorso.
La soluzione è strettamente connessa al tema della natura giuridica, normativa o provvedimentale, dei
bandi, e alla opzione che al riguardo si ritiene di seguire.
L’orientamento tradizionale.
Alla stregua dell’approccio tradizionale, peraltro seguito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato n. 1/2003, va categoricamente escluso la natura normativa dei bandi di gara, qualificabili quindi
quali atti amministrativi generali, privi tuttavia di carattere normativo.
Degli atti normativi, difetterebbero, invero, i tradizionali ed indispensabili requisiti della generalità,
dell’innovatività e dell’astrattezza.
Quanto alla generalità, i bandi sono invero rivolti a soggetti che, sebbene non determinabili ex ante,
divengono individuabili ex post; difetterebbe, inoltre, l’idoneità ad innovare l’ordinamento giuridico,
essendo i bandi volti a disciplinare non già l’attività della PA nel suo complesso, bensì il singolo
procedimento; infine, mancherebbe il carattere dell’astrattezza, le regole fissate dal bando non essendo
suscettibili di indefinita ripetibilità, in quanto volte a disciplinare lo svolgimento della singola gara (o del
singolo concorso).
In quanto atti a carattere provvedimentali, i bandi soggiacciono pertanto all’ordinario regime
impugnatorio degli atti amministrativi.
Esclusa, per le esposte ragioni, la disapplicazione dei bandi, ci si è quindi soffermati sulle regole
destinate a caratterizzare il regime di impugnazione degli stessi.
Si è ritenuto, in particolare, che si debba, al riguardo, distinguere a seconda del carattere assunto dalle
previsioni del bando che si intenda contestare.
A) Prescrizioni immediatamente lesive. Sono tali quelle che incidono direttamente sull’interesse
partecipativo alla gara. Vi si fanno rientrare le clausole contenenti i requisiti di partecipazione, atte a
precludere ex ante la presentazione della domanda. Siffatte clausole sono, quindi, idonee a produrre una
lesione concreta ed attuale nella sfera giuridica dei soggetti esclusi, tenuti pertanto alla tempestiva e
autonoma impugnazione delle stesse.
La mancata proposizione del gravame determina, invero, l’inammissibilità tanto del gravame avverso il
solo provvedimento di esclusione dalla gara, quale atto meramente applicativo del bando, quanto
dell’impugnativa congiunta del bando stesso e del provvedimento di esclusione, allorché proposta
decorsi i termini per l’impugnazione del bando. Ne consegue il consolidamento e la non modificabilità
della disciplina di gara, ferma l’azionabilità del potere di autotutela spettante all’amministrazione.
B) Prescrizioni non immediatamente lesive. Si tratta delle clausole che non disciplinano
l’ammissione alla gara, non idonee, pertanto, a determinare ex se una lesione dell’interesse partecipativo,
essendo necessaria la mediazione di un provvedimento applicativo delle clausole stesse. La
giurisprudenza vi fa rientrare quelle relative alla composizione della commissione o anche quelle
concernenti i criteri di valutazione delle offerte. La lesività di tali clausole non è immediata, ma si
concretizza quando, facendo applicazione delle stesse, la PA esclude o non dichiara vincitrice una
determinata impresa. In queste ipotesi, il soggetto leso dovrà, a pena di inammissibilità del ricorso,
impugnare congiuntamente il provvedimento applicativo e la prescrizione del bando ritenuta
illegittima.
Gli orientamenti più recenti: dalla dilatazione dell’immediata lesività alla disapplicazione dei
bandi di gara.
Se quello illustrato sub 3.1. è l’orientamento ad oggi senz’altro prevalente, giova dare atto
dell’emersione, soprattutto prima che intervenisse l’Adunanza plenaria con la citata sentenza n. 1/2003,
di differenti posizioni interpretative.
I) Un primo orientamento, che pure astrattamente condivide l’assunto per cui le clausole non
immediatamente lesive vanno impugnate congiuntamente al relativo provvedimento applicativo, ha
ampliato notevolmente il novero delle clausole direttamente lesive, ricomprendendovi, oltre a
quelle sopra individuate, anche:
a. le clausole che fissano i criteri di aggiudicazione dell’appalto, così incidendo sulla formulazione della
proposta tecnica o economica contenuta nell’offerta. Sono tali quelle clausole assuntamente
irragionevoli che precludono all’impresa la valutazione della convenienza a partecipare alla gara,
ostando perciò alla corretta formulazione dell’offerta. Nello stesso ambito, si pongono, secondo certa
giurisprudenza, anche le clausole di determinazione delle soglie di anomalia delle offerte.
In siffatte ipotesi, si è soprattutto in passato ritenuto che l’illegittimità delle clausole si riveli lesiva non
già al momento dell’aggiudicazione, bensì gia nella fase anteriore, quando le stesse vengono assunte
come regole con le quali la PA autolimita la propria libertà di apprezzamento. Ne consegue l’onere per
il soggetto interessato di impugnarle tempestivamente e autonomamente;
b. le clausole che impongono alle imprese partecipanti l’assolvimento di oneri formali da osservare in
sede di formulazione dell’offerta, a pena di esclusione dalla gara. Analogamente, secondo certa
giurisprudenza, per le clausole che fissano modalità di presentazione dell’offerta;
c. le clausole che disciplinano il modus operandi della commissione giudicatrice, per esempio quelle che
dispongono lo svolgimento delle operazioni in seduta pubblica o in riunione segreta.
L’orientamento ha costituito oggetto di penetranti critiche dottrinali, volte ad evidenziare come da tali
clausole non derivi una attuale lesione dell’interesse del partecipante, ancora posto in condizione di
risultare vittorioso all’esito della procedura: difetterebbe, pertanto, un interesse attuale ad impugnarle.
Nel dettaglio, l’adesione all’illustrata ricostruzione recherebbe con sé un’alterazione:
- del concetto di interesse a ricorrere, riconosciuto anche laddove non risulti affatto certa la
concretezza e l’attualità della lesione arrecata dalla clausola che si assume illegittima; si finirebbe per
facoltizzare al ricorso giurisdizionale un soggetto titolare di un mero interesse alla legittimità della
procedura di gara, come noto insufficiente in base ai principi su cui poggia il sistema di giustizia
amministrativa;
- del giudizio amministrativo, destinato a trasformarsi in un mero giudizio oggettivo sull’atto, in
disparte ogni valutazione circa la compromissione della posizione soggettiva del ricorrente.
II) Per un contrapposto indirizzo, va esclusa l’immediata lesività (e quindi impugnabilità) di tutte le
prescrizioni del bando, anche quelle volte a pretendere requisiti particolarmente restrittivi per la
partecipazione alla gara. Valorizzando, probabilmente in modo irragionevolmente eccessivo, la natura
dei bandi quali atti amministrativi generali, si sostiene che la lesività degli stessi non può che essere
apprezzata se non al momento della concreta individuazione dei soggetti esclusi.
L’estensione della disapplicazione ai bandi di gara.
Dagli orientamenti sopra riportati si discosta quello che invece ammette la disapplicazione delle
illegittime clausole del bando, non immediatamente lesive, in via incidentale, nel corso del giudizio
instaurato con l’impugnativa del provvedimento applicativo delle clausole medesime.
L’indirizzo è stato inaugurato dalla giurisprudenza di primo grado (Tar Lombardia, Milano, nn. 354 e
900 del 1997), che ha preso le mosse dalla qualificazione dei bandi di gara sub specie di atti normativi,
attesa la loro funzione di lex specialis, volta a dettare la disciplina di gara, indifferentemente applicabile
alla generalità dei concorrenti non individualmente determinati. Detta natura normativa ricorre,
secondo i giudici, anche se “la sua rilevanza ed i suoi effetti sono limitati al solo ordinamento interno
della PA che lo ha emanato”.
Ciò posto, la giurisprudenza distingue tra disapplicazione provvedimentale e disapplicazione
normativa:
- la prima, riferita a singoli atti non normativi, incidenti tuttavia su diritti soggettivi e perciò possibile
solo nell’ambito della giurisdizione esclusiva del GA, cui sono quindi riconosciuti gli stessi poteri del
GO ex art. 5 LAC;
- la seconda, ammessa, invece, a prescindere dalla consistenza delle posizioni soggettive dedotte, e
consistente nella rilevazione d’ufficio dell’obiettiva esistenza di un atto normativo in contrasto con la
legge, quale fonte gerarchicamente sovraordinata.
Muovendo dalla qualificazione dei bandi di gara quali atti normativi, la giurisprudenza che ha aderito a
quest’indirizzo ha dedotto che il giudice amministrativo può annullare il gravato atto applicativo, pur in
assenza della coeva impugnazione delle clausole del bando non immediatamente lesive, disapplicando
delle stesse pur in assenza di formale impugnazione.
Diverse le obiezioni mosse al riguardo.
Si è osservato, in particolare, che il bando di gara
- difetta del carattere della innovatività, proprio delle fonti normative, anche secondarie (regolamenti),
spiegando i suoi effetti unicamente con riferimento al singolo atto di gara;
- manca dell’astrattezza, non essendo indefinitamente ripetibile;
- è atto formalmente e sostanzialmente amministrativo e perciò sottoposto al termine decadenziale di
impugnazione.
Non è mancata una tesi intermedia volta a distingue tra:
- clausole non destinate a ripetersi, in quanto riguardanti unicamente la gara cui si riferiscono, per le
quali è pacifica la qualificazione provvedimentale e la conseguente applicazione del solo regime
impugnatorio;
- clausole ripetibili, che disciplinano elementi della procedura di gara usualmente ricorrenti (criteri per
la valutazione delle offerte o per la verifica dell’anomalia). Pur ferma la loro natura provvedimentale,
se ne inferisce una sostanziale funzione normativa, attesa la ripetibilità di dette clausole, e della
relativa applicazione, in successivi bandi o regolamenti.
Si è tuttavia replicato che:
- l’individuazione della natura giuridica di siffatte clausole non può passare attraverso la mera
eventualità del loro successivo recepimento in un atto regolamentare;
- appare irrilevante la pretesa serialità delle prescrizioni, posto che ogni bando, per quanto ripetitivo,
rileva in quanto destinato a disciplinare quell’unica gara, difettando perciò i requisiti dell’astrattezza e
della innovatività.
L’intervento dell’Adunanza Plenaria n. 1 del 29 gennaio 2003.
Sulla questione è, come accennato, intervenuta l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con
sentenza n. 1/03.
Il Supremo Consesso sposa l’orientamento tradizionale, escludendo l’estensione della disapplicazione ai
bandi di gara.
In particolare, il Collegio precisa che:
- i bandi di gara (e di concorso e le lettere di invito) vanno normalmente impugnati unitamente agli atti
che degli stessi fanno applicazione, i soli ad identificare in concreto il soggetto leso dal
provvedimento e a rendere attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva dell’interessato. A
fronte, infatti, della clausola illegittima del bando di gara, il partecipante alla procedura concorsuale non
è ancora titolare di un interesse attuale all’impugnazione, non sapendo ancora se l’astratta e potenziale
illegittimità della predetta clausola si risolverà in un esito negativo e in una effettiva lesione, quindi, della
sua situazione soggettiva;
- il bando di gara o di concorso, o la lettera di invito, devono tuttavia, essere immediatamente
impugnabili allorché contengano clausole impeditive dell’ammissione dell’interessato alla selezione,
sicché la partecipazione alla gara e la presentazione della domanda non costituiscono acquiescenza e
non impediscono, di conseguenza, la proposizione di un eventuale gravame;
- l’onere di immediata impugnazione delle clausole del bando di gara o di concorso, o della lettera di
invito a prendere parte ad una procedura selettiva, deve essere limitato esclusivamente a quelle
concernenti i requisiti di partecipazione alla medesima procedura selettiva;
- l’impugnazione immediata del bando delle clausole ritenute lesive presuppone la presentazione della
domanda di partecipazione alla gara o alla procedura concorsuale, la sola che, evidenziando l’interesse
concreto all’impugnazione, fa del soggetto che ha provveduto a tale adempimento un destinatario
identificato, direttamente inciso del bando. Diversamente, l’interesse del ricorrente rimarrebbe
indifferenziato, in quanto coincidente con un generico interesse, non qualificato e non giuridicamente
rilevante, alla legalità e correttezza dell’azione amministrativa (Cons. Stato, n. 5026/03).
Si consideri, peraltro, a quest’ultimo riguardo, che per giurisprudenza anche successiva, “qualora il
ricorrente risulti leso, in quanto la partecipazione alla procedura è preclusa dallo stesso bando, sussiste
l’interesse a gravare la relativa determinazione, a prescindere dalla mancata presentazione della
domanda, posto che l’impugnante ha proprio interesse a impedire lo svolgimento della procedura
selettiva (sez. V, n. 794 del 2003)”. Invero, “in presenza di una clausola preclusiva, la presentazione della
domanda si risolve in un adempimento formale inevitabilmente seguito da un atto di estromissione, con
un risultato analogo a quello di un’originaria preclusione e perciò privo di una effettiva utilità pratica
ulteriore” (Cons. Stato, n. 4927/07; in termini, Tar Puglia, Lecce, n. 2227/05).
La disapplicazione dei bandi anticomunitari (Corte Giust., 27 febbraio 2003, C-327/00).
Fermo l’atteggiamento ostile della giurisprudenza nazionale alla disapplicabilità del bando ad opera del
G.A., va in conclusione presa in considerazione la peculiare ipotesi in cui viene in rilievo un contrasto
tra bando di gara e diritto comunitario; giova, al riguardo, dare atto dell’intervento sul tema della Corte
di Giustizia, sollecitato dalla proposizione di rinvio pregiudiziale disposto dal Tar Lombardia.
Con ordinanza n. 234/00, i giudici milanesi hanno chiesto alla Corte di valutare la compatibilità, con il
diritto comunitario, del tradizionale orientamento, espresso dal Consiglio di Stato, volto a disconoscere
il potere di disapplicazione, in capo al GA, della clausola del bando, contrastante con il diritto
comunitario, ma non impugnata nell’ordinario termine decadenziale di sessanta giorni, decorrenti dalla
pubblicazione del bando stesso. In proposito, i giudici rimettenti invocavano l’applicazione, anche per
siffatte clausole del bando, del rimedio della disapplicazione assentito per le norme interne contrastanti
con il diritto comunitario.
Più nel dettaglio, il Tar Lombardia aveva deferito al giudice europeo due quesiti: il primo, riguardo alla
compatibilità con il diritto comunitario del regime nazionale sui termini per la proposizione del ricorso
avverso le clausole del bando di gara comunitarie illegittime; il secondo relativo alla possibilità per il
giudice di applicare d’ufficio il diritto comunitario nel caso in cui l’applicazione di quest’ultimo sia
gravemente impedita o resa difficile.
Il Tar Lombardia, in specie, aveva rilevato che l’esigenza di garantire l’attuazione del diritto comunitario
e di assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale di situazioni soggettive di matrice comunitaria
avrebbe dovuto essere soddisfatta riconoscendo al giudice amministrativo il potere di sindacare
d’ufficio la legittimità dell’atto nazionale difforme dal diritto europeo, applicando quest’ultimo mediante
la rimozione dei provvedimenti contrastanti: tanto sulla base di un meccanismo corrispondente a quello
con cui si attende alla disapplicazione degli atti normativi nazionali incompatibili con l’ordinamento
europeo.
Con sentenza del 27 febbraio 2003, la Corte di Giustizia delle Comunità europee ha definito la
questione, optando per una soluzione “mediana”, tale da non sconvolgere la tradizionale impostazione
volta ad escludere la possibilità, per il GA, di disapplicare i bandi di gara illegittimi. In particolare, la
Corte ha ritenuto che - acclarata l’incidenza della clausola assunta come illegittima sull’interesse
dell’impresa a partecipare alla gara e riscontrato che l’amministrazione ha con la sua condotta reso
impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento comunitario al
cittadino leso dalla decisione della stessa autorità - i giudici nazionali sono tenuti a “dichiarare ricevibili i
motivi di diritto basati sull’incompatibilità del bando di gara con il diritto comunitario, dedotti a
sostegno di un’impugnazione proposta contro la detta decisione, ricorrendo, se del caso, alla possibilità
prevista dal diritto nazionale di disapplicare le norme nazionali di decadenza in forza delle quali,
decorso il termine per impugnare il bando di gara, non è più possibile invocare una tale incompatibilità”.
Con la citata pronuncia, la Corte di Giustizia non ha, dunque, avallato la tesi che in astratto ammette la
disapplicazione del bando di gara, propugnando la disapplicazione delle norma nazionale sul termine di
decadenza, qualora, in ragione della sua applicazione, il giudice nazionale non possa arrivare a conoscere
dell’incompatibilità del bando di gara con il diritto comunitario (in termini, T.R.G.A., Bolzano, n. 140/05).
Nel dettaglio, ferma la sicura compatibilità comunitaria delle disposizioni nazionali che subordinano
all’osservanza di un termine breve decadenziale l’impugnazione di atti amministrativi (disposizioni
ritenute non ostative all’effettiva applicazione del diritto comunitario, ma viceversa funzionali
all’esigenza della certezza del diritto e di tutela dell’affidamento dei concorrenti in ordine alla fasi
processuali già esauritesi), la Corte risolve la questione pregiudiziale rimessale dal Tar Lombardia
dichiarando che il principio della primauté del diritto comunitario - una volta accertato che un’autorità
aggiudicatrice con il suo comportamento ha reso impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei
diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario a un cittadino dell’Unione leso da una decisione
di tale autorità - impone ai giudici nazionali competenti l’obbligo di dichiarare ricevibili i motivi di
diritto basati sull’incompatibilità del bando di gara con il diritto comunitario, dedotti a sostegno di
un’impugnazione proposta contro la detta decisione, ricorrendo, se del caso, alla possibilità prevista dal
diritto nazionale di disapplicare le norme nazionali di decadenza in forza delle quali, decorso il termine
per impugnare il bando di gara, non è più possibile invocare siffatta incompatibilità.
I giudici comunitari quindi non accolgono l’assunto del Tar Lombardia della disapplicabilità sempre del
bando di gara contenente previsioni configgenti con il diritto europeo, al contrario riconoscendo che la
previsione ad opera del legislatore nazionale di un termine decadenziale per l’impugnazione del bando
non è affatto in contrasto con l’ordinamento sopranazionale.
Non è particolarmente innovativa, peraltro, neanche l’affermazione secondo cui i giudici nazionali, in
presenza di determinate circostanze, hanno l’obbligo di dichiarare ricevibili i motivi di diritto basati
sull’incompatibilità del bando di gara con il diritto comunitario.
Si tratta, a ben vedere, della riproposizione di quanto da tempo sostiene lo stesso Consiglio di Stato a
proposito del regime di impugnazione delle clausole cc.dd. plurivoche, caratterizzate, cioè, da un
sostanziale grado di ambiguità interpretativa: clausole la cui lesività è dato percepire solo a far data dal
momento di adozione del provvedimento di esclusione, da cui decorre quindi il termine decadenziale di
impugnazione.
La nuova rimessione della questione all’Adunanza Plenaria.
Con ordinanza n. 634/13, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato aveva nuovamente sottoposto alla
Plenaria la questione dei casi di immediata impugnabilità delle clausole dei bandi di gara. Sul punto non
v’è stata pronuncia, per ragioni processuali attinenti alla specifica controversia.
E’ utile tuttavia riportare un ampio stralcio del quesito:
“(…) Resta da valutare la censura, in accoglimento della quale la procedura di gara di cui trattasi è stata
annullata in primo grado di giudizio: censura riferita all’apertura dei plichi, contenenti le offerte
tecniche, in seduta non pubblica. Tale modalità procedurale, come è noto, risulta oggi non consentita
dall’art. 12 del d.l. 7.5.2012, n. 52, convertito in legge 6.7.2012, n. 94 , che – di per sé non applicabile
alla procedura di cui trattasi, poiché successivamente emanato – recepisce tuttavia un principio
interpretativo, affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 13 del 28.7.2011.
In tale sentenza si rileva come le normative vigenti prevedano esplicitamente, in effetti, un preciso
obbligo di svolgimento in seduta pubblica delle operazioni, concernenti l’apertura delle buste
contenenti la documentazione amministrativa e l’offerta economica; i principi che reggono
l’affidamento degli appalti pubblici e segnatamente il principio di pubblicità delle operazioni di gara,
anche alla luce della disciplina comunitaria (cfr, direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE in materia di
trasparenza) hanno indotto tuttavia a ritenere che possano essere effettuate in seduta riservata solo le
operazioni, implicanti valutazioni di natura tecnico-discrezionale, esclusa quindi la mera verifica di
integrità dei plichi e di controllo preliminare degli atti inviati, che deve appunto riguardare anche le
offerte tecniche. Riguardo a queste ultime, in particolare, la garanzia di trasparenza richiesta deve
considerarsi assicurata “quando la commissione, aperta la busta del singolo concorrente, abbia
proceduto ad un esame della documentazione, leggendo il solo titolo degli atti rinvenuti e dandone atto
nel verbale della seduta” (Ad. Plen. n. 13/2011 cit.).
Di tali puntuali adempimenti, in effetti, non si ha riscontro nella situazione in esame, senza però che sia
ravvisabile violazione del disciplinare di gara, imponendo l’art. 4 di tale disciplinare quanto segue: “La
Commissione di gara procede quindi, in una o più sedute successive non pubbliche, all’apertura dei
plichi denominati B-OFFERTA TECNICA, valutando gli aspetti tecnici proposti ed assegnando i
relativi punteggi”.
Appare dunque evidente che la censura di violazione del principio di trasparenza, sottostante
all’apertura di tutta la documentazione di gara in seduta pubblica non poteva prescindere, per quanto
riguarda le offerte tecniche, dall’impugnazione del bando: impugnazione effettuata, nella fattispecie,
unitamente a quella dell’aggiudicazione non favorevole all’originaria ricorrente, GPL Costruzioni s.r.l..
A tale riguardo, tuttavia, sia l’aggiudicataria CORES sia l’ERSU eccepiscono la tardività del
gravame, in rapporto ad un atto, in ipotesi, immediatamente lesivo e da contestare entro gli
ordinari termini di decadenza.
La prospettazione sopra indicata appare innovativa rispetto al tradizionale indirizzo giurisprudenziale,
secondo cui l’atto amministrativo generale, o l’atto di normazione secondaria presupposto debbono
essere impugnati entro i predetti termini decadenziali – non assieme all’atto conclusivo della procedura
– solo ove immediatamente lesivi di una situazione soggettiva protetta: situazione, quella appena
indicata, ritenuta ravvisabile quando l’atto presupposto risulti di per sé ostativo per la realizzazione
dell’interesse finale perseguito (ovvero in rapporto ad una procedura concorsuale, il cui bando sia per
talune ditte preclusivo della partecipazione cfr. in tal senso Cons. St., Ad. Plen., 23.1.2003, n. 1 e
successiva, pacifica giurisprudenza conforme).
La sussistenza di ragioni per pervenire ad un diverso indirizzo è stata affermata dalla sezione con
ordinanze nn. 351 del 18.1.2011 e 2633 in data 8.5.2012; in entrambi i casi, tuttavia, l’Adunanza Plenaria
non ha esaminato la questione per difetto di rilevanza (Cons. St., Ad. Plen. 7.4.2011, n. 4 e 31.7.2012, n.
31)
Ad avviso del Collegio, la questione merita di essere nuovamente sollevata, in corrispondenza ad una
formale eccezione preliminare, riferita all’unica censura non ancora esaminata e respinta nell’ambito del
presente giudizio, con conseguente rilevanza di una problematica, la cui soluzione deve precedere, ad
avviso del Collegio, ogni ulteriore argomentazione difensiva (come la richiesta applicazione dell’istituto
dell’errore scusabile, ex art. 37 c.p.a., o la sufficienza, in via di fatto, degli adempimenti effettuati dalla
Commissione aggiudicatrice; sull’ineludibile, prioritario esame delle questioni preliminari cfr. anche
Cons. St., Ad. Plen., n. 4/2011 cit.).
La sussistenza di giusti motivi per un indirizzo evolutivo, rispetto alla citata pronuncia
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 1/2003, risultano già esposti nelle ordinanze della
sezione sopra ricordate, nei termini di seguito sintetizzati:
- la volontà deflattiva del contenzioso, sottostante all’indirizzo di immediata impugnabilità delle sole
clausole escludenti, non ha trovato rispondenza nei fatti, con reiterate impugnazioni che, dopo la
conclusione delle procedure di gara, postulano l’annullamento del bando e quindi l’azzeramento delle
procedure stesse, con notevole aggravio di spese per l’amministrazione e danno per le imprese
aggiudicatarie incolpevoli, sulle cui offerte non fosse emerso o riconosciuto alcun vizio;
- i principi di buona fede e affidamento, di cui agli articoli 1337 e 1338 cod. civ., dovrebbero implicare
che le imprese, tenute a partecipare alla gara con attenta disamina delle prescrizioni del bando, fossero
non solo abilitate, ma obbligate a segnalare tempestivamente, tramite impugnazione del bando stesso,
eventuali cause di invalidità della procedura di gara così come predisposta, anche come possibile fonte
di responsabilità precontrattuale; quanto sopra, in linea con la ratio ispiratrice dell’art. 243 bis del codice
degli appalti (d.lgs. n. 163/2006), nel testo introdotto dal d.lgs. n. 53/2010 (informativa preventiva
dell’intento di proporre ricorso giurisdizionale).
Il Collegio condivide le predette osservazioni e ritiene che le imprese partecipanti a procedure
contrattuali ad evidenza pubblica dovrebbero ritenersi tenute ad impugnare qualsiasi clausola del bando
ritenuta illegittima, entro gli ordinari termini decadenziali.
La questione sopra indicata appare connessa alla vera e propria svolta, impressa al contenzioso in
materia di pubblici appalti dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 4/2011,
ispirata al superamento di indirizzi giurisprudenziali, che finiscono per determinare una “litigiosità
esasperata”, senza garantire il soddisfacimento dell’interesse primario di ciascun concorrente
(aggiudicazione dell’appalto) e rendendo “estremamente difficoltosa e spesso impossibile (si pensi alla
perdita di finanziamenti comunitari) l’esecuzione dell’opera pubblica”.
Fra tali indirizzi, sembra al Collegio che possa annoverarsi quello riconducibile alla ricordata sentenza
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 1/2003, limitativa dell’immediata impugnabilità dei
bandi di gara (o di concorso) – senza necessità di attendere i relativi atti applicativi – solo con
riferimento alle clausole impeditive dell’ammissione di soggetti interessati alla selezione, ovvero
impositive di oneri sproporzionati per la partecipazione, o di condizioni non comprensibili; quanto
sopra, nella presupposizione che in ogni altro caso mancherebbe una lesione diretta ed attuale
dell’interesse protetto.
Tale conclusione – oltre a non condurre, come già in precedenza rilevato, ad una riduzione del
contenzioso, che viene normalmente avviato su ogni questione prospettabile (con aggravata lesione
degli interessi sia pubblici che privati, in caso di azzeramento dell’intera procedura dopo la conclusione
della stessa) – appare non più convincente anche sul piano dei principi, regolatori dell’impugnativa di
atti amministrativi generali, destinati alla cura concreta di interessi pubblici nei confronti di destinatari
indeterminati, ma determinabili. Con la domanda di partecipazione alla gara, infatti, le imprese
concorrenti divengono titolari di un interesse legittimo, quale situazione soggettiva protetta
corrispondente all’esercizio di un potere, soggetto al principio di legalità ed esplicato, in primo luogo,
con l’emanazione del bando. A qualsiasi vizio di quest’ultimo si contrappone, pertanto, l’interesse
protetto al corretto svolgimento della procedura, nei termini disciplinati dalla normativa vigente in
materia e dalla lex specialis; l’inoppugnabilità della disciplina di gara contenuta nel bando, alla scadenza
degli ordinari termini decadenziali, appare dunque conforme alle esigenze di efficienza ed efficacia
dell’azione amministrativa, che detti termini presuppongono, affinché l’interesse pubblico sia perseguito
senza perduranti margini di incertezza, connessi ad eventuali impugnative.
In effetti la disciplina ormai consolidata sul “giusto procedimento amministrativo”, ispirato a principi di
economicità e speditezza e la peculiare funzione del bando di gara – quale lex specialis che circoscrive
(con clausole prescrittive di adempimenti anche formali, a pena di esclusione) il principio di
strumentalità delle forme (secondo cui l’invalidità di un atto per vizi procedurali può essere
riconosciuta, solo quando gli adempimenti formali omessi non ammettano equipollenti per il
raggiungimento dello scopo perseguito: cfr. fra le tante, per il principio; Cons. St., sez. V, 28.1.2005, n.
187, 5.7.2005, n. 3716 e 23.3.2004, n. 1542; TAR Lazio, Roma, sez. I, 31.12.2005, n. 15180) –
impongono una scrupolosa disamina del medesimo bando da parte delle imprese partecipanti, che sono
tenute ad attenersi alle relative prescrizioni e non possono, pertanto, non ritenersi in grado di procedere
ad immediata contestazione di ogni eventuale vizio, rilevato nella disciplina in questione. Quanto sopra,
anche in ottemperanza al diritto comunitario, che include nel principio di effettività della tutela la
massima possibile limitazione di ogni margine di incertezza giuridica, sul piano sostanziale o
procedurale (cfr. direttive 2007/66/CE e 89/665/CEE, la prima delle quali, in particolare, richiama al
punto 25 del preambolo “la necessità di garantire nel tempo la certezza delle decisioni prese dalle
commissioni aggiudicatrici e dagli enti aggiudicatori, allo scopo di far stabilire che il contratto è privo di
effetti, al fine di fissare un termine minimo ragionevole di prescrizione o decadenza dei ricorsi”; nel
successivo art. 1, inoltre, si richiede un ricorso “efficace” e “più rapido possibile”: situazione
difficilmente compatibile con procedure, le cui regole siano ancora contestabili “ab initio” dopo la
relativa conclusione).
Per quanto qui interessa, è dunque necessario stabilire se l’originaria ricorrente in primo grado (G.P.L.
Costruzioni s.r.l.) dovesse impugnare immediatamente (e non dopo l’esito finale della gara, per la
medesima non favorevole) una clausola del bando che – nel prevedere in modo esplicito l’apertura delle
buste, contenenti l’offerta tecnica, in seduta non pubblica – la esponeva immediatamente alla violazione
del principio di trasparenza procedurale, solo in un secondo tempo invocato. Una tempestiva
contestazione non avrebbe potuto non ritenersi invece preferibile, essendo pacifico che la complessa ed
onerosa partecipazione ad una gara, indetta dall’Amministrazione per l’affidamento di lavori, servizi o
forniture – benché conclusivamente finalizzata all’aggiudicazione – implichi per le imprese concorrenti
anche un immediato interesse al corretto espletamento della procedura, sulla base di regole certe e non
ulteriormente contestabili”.
La nullità delle clausole del bando.
L’art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici), così come modificato dal
d.l. n. 70/2011, prevede, limitatamente alle procedura di gara per l’affidamento di appalti di lavori,
servizi e forniture, che “La stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato
adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di
legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per
difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico
contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi,
tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle
offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione.
Dette prescrizioni sono comunque nulle”.
La norma, ispirata al favor partecipationis, introduce il principio di tassatività delle cause d’esclusione
dalla gara, rispetto alle quali è preclusa alla stazione appaltante l’introduzione di ulteriori ed atipiche
ipotesi correlate ad adempimenti non essenziali ovvero ad irregolarità non previste da norme di legge o
di regolamento.
La sanzione, per le eventuali clausole della lex specialis di gara ampliative dei motivi di non ammissione, è
la nullità ai sensi dell’art. 21-septies della legge n. 241 del 1990.
Sul piano processuale, ciò comporta che l’impresa ricorrente non è tenuta ad impugnare tali clausole
entro il termine decadenziale di sessanta giorni dalla pubblicazione del bando. Al contrario, la nullità
potrà essere fatta valere dalla parte ricorrente entro il più lungo termine di centottanta giorni previsto
dall’art. 31 cod. proc. amm., fermo il potere del giudice amministrativo di rilevarla d’ufficio senza limiti
temporali.