eugène de beauharnais

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Ritratti - EUGENIO DE BEAUHARNAIS
Onore e Fedeltà
Figliastro di Napoleone, gli fu fedele dal primo all’ultimo giorno della sua vita. Ottenne un trono
importante, ma l’imperatore non aveva troppa stima delle sue doti di politico, e lo usò solo come
passacarte. Ma si riscattò sui campi di battaglia, e soprattutto con la signorilità, la coerenza e la
correttezza con cui affrontò il dopo-Waterloo e la caduta di Bonaparte
di Armando Russo
Fu principalmente in Italia, e segnatamente in Lombardia, che l’avventura napoleonica incontrò
all’inizio un successo senza precedenti. In questo territorio, tutta una serie di fattori concorsero a
rendere bene accette le conquiste della Rivoluzione Francese del 1789, di cui Bonaparte fu il diretto
portatore. Solo in seguito, le requisizioni, le coscrizioni e le interminabili guerre che l’ambizione di
quest’ultimo richiese, spensero gli entusiasmi e resero la stagione del regno d’Italia napoleonico
effimera, ma sufficiente tuttavia ad imprimere molteplici tracce nel nostro ordinamento politico,
economico ed amministrativo, oltre all’indiscusso merito di aver provocato un’accelerazione storica
verso l’unità.
Subito dopo le difficoltà e gli squilibri inevitabilmente insiti nel provvisorio e transitorio governo
del periodo repubblicano-cisalpino, con l’avvento della Repubblica Italiana e del susseguente
Regno d’Italia, il territorio conobbe una prima fase di stabilità e floridezza. Alla proclamazione del
regno, Milano si ritrovò capitale di 24 dipartimenti che si estendevano fino a Macerata, con 2.155
comuni e 6.700.000 abitanti e giunse a contare 127 mila anime. L’organizzazione del neo regno
d’Italia poggiava su solide fondamenta, occorrevano solo alcuni aggiustamenti. Quello più eclatante
fu la sostituzione di Francesco Melzi d’Eril, già vicepresidente della Repubblica Italiana. Nel corso
dell’incarico aveva messo in luce la poca volontà di gestire autoritariamente una complessa
macchina, all’interno della quale la Consulta di Stato e il Corpo Legislativo si erano mostrati
pretenziosi e invadenti, rendendogli problematici i rapporti con un re padrone che, in nessun caso,
desiderava incontrare ostacoli sul proprio cammino. Napoleone accusava Melzi di debolezza, anche
se la colpa di quest’ultimo era non essere per nulla in linea con il disegno politico napoleonico, cioè
fare dell’Italia un satellite dell’impero. Con la scusa della gotta lo statista si ritirò, guadagnandosi
così la riconoscenza del Còrso che nel 1807 lo fece duca di Lodi. Un sostituto cui affidare la guida
del regno in ogni modo era pronto. Il 7 giugno 1805 Napoleone presentò al Corpo Legislativo il
proprio figliastro Eugenio quale viceré d’Italia.
Eugène de Beauharnais, nacque a Parigi il 3 settembre 1781. Figlio di primo letto dell’imperatrice
Josephine e del ghigliottinato generale Alexandre de Beauharnais. Colonnello a ventuno anni,
principe a ventitre con il titolo di Altezza Serenissima. Era giovane, bello e circondato dall’aureola
del personaggio da romanzo a causa della tragica morte del padre. Purtroppo, era anche del tutto
scevro di cognizioni di governo. Quando Napoleone sposò sua madre in seconde nozze, promise al
patrigno la propria eterna devozione, non venendo mai meno a quest’impegno per tutta la durata
della sua vita. Nel messaggio al Senato con cui annunciava la promozione di Eugenio, Bonaparte
disse: “In mezzo alle cure e alle amarezze inseparabili dall’alta posizione nella quale ci troviamo, il
nostro cuore ha bisogno di trovare un conforto nell’affetto e nella consolante amicizia di questo
nostro figlio adottivo”. Affetto a parte, Napoleone preparò le istruzioni al figliastro il giorno stesso
della nomina: “Se tenete alla mia stima e alla mia amicizia, non dovete per nessun motivo, anche se
la Luna stesse per precipitare su Milano, fare nulla di quello che non ricade sotto la vostra
autorità… Se un ministro vi viene a dire: ‘È un caso urgente, il regno è perduto, Milano brucia’ o
che so io, dovete rispondere: ‘Non ho l’autorità per decidere, aspetterò le istruzioni del re’. E se
Milano fosse in fiamme, e voi mi aveste scritto per chiedermi l’ordine di spegnere il fuoco, dovete
lasciare bruciare Milano e aspettare la risposta”.
Come se simili direttive non bastassero, il Còrso dispose inoltre che Eugenio poteva sedersi sul
trono reale solo se il baldacchino che lo sormontava recava ben visibile il ritratto del re. Quando
riceveva il Corpo Legislativo, il viceré doveva stare seduto a fianco del trono, con le insegne reali
bene in vista accanto a lui. Cominciò tra i due uomini quel carteggio infinito, fatto d’istruzioni,
ordini e reprimende, attraverso il quale ben si può concludere che il viceré d’Italia altro non era se
non lo scattante esecutore degli ordini di un patrigno che tutto voleva e tutto poteva. Anche la futura
consorte del viceré fu scelta alle Tuileries: “Tu sai, mio caro Eugène, che il fidanzamento del
principe del Baden si è rotto. Ciò comporta grandi speranze per la persona che conosci. Ho visto il
suo ritratto: non potrebbe essere più bella!”. Con questa lettera del 6 agosto 1805, l’imperatrice
Giuseppina informava il figliolo dei maneggi per maritarlo con l’illustre casata dell’Elettore di
Baviera Massimiliano di Wittelsbach. Ovviamente, l’alleanza matrimoniale era il preludio di quella
militare: la Terza Coalizione antifrancese, composta da Inghilterra, Russa e Austria era ormai cosa
fatta e a Bonaparte anche un piccolo alleato come la Baviera faceva comodo. La fanciulla prescelta
era Augusta Amalia, figlia diciassettenne dell’Elettore, nata il 21 giugno 1788 a Strasburgo, in
quella provincia francese dove i principi tedeschi avevano conservato dei possedimenti che la
Rivoluzione si era affrettata a confiscare. La coalizione che avrebbe dovuto rovesciare il parvenu
còrso annegò nel sangue della disfatta di Austerlitz il 2 dicembre 1805. Liberatosi dei nemici,
Napoleone riprese a dedicarsi al progetto matrimoniale. In sosta a Monaco, provvide a ragguagliare
il figliastro circa la sposa ventura: “È molto graziosa. Vi unisco un suo ritratto su una tazza. Vi
assicuro che è molto meglio…”. Eugenio giunse a Monaco il 10 gennaio 1806 a conoscere la
fidanzata che finora aveva visto solo su una tazza. Ordine del patrigno: tagliarsi i baffi per evitare
che la sposa rimanesse sfavorevolmente impressionata da un’aria troppo marziale. Dall’emozione, il
Beauharnais quasi non riuscì a proferire parola, Augusta Amalia era incantevole, con quegli occhi
di un azzurro intenso come quello di un lago bavarese. Il 13 gennaio fu redatto il contratto nuziale,
il giorno successivo, alle sette di sera, le nozze furono celebrate dall’Arcivescovo di Ratisbona nella
cappella della residenza reale di Monaco. Il 21 i coniugi partirono per Milano, attraversando il
Tirolo e il Friuli. Durante il viaggio Eugenio descrisse alla moglie le bellezze dell’Italia. In
particolare, egli prediligeva un sito vicino Milano che anelava mostrarle, dove Maria Teresa
d’Austria aveva fatto erigere un luogo di delizie senza pari: la Villa Reale di Monza, una piccola
Versailles padana.
Napoleone subissava di ordini e contrordini il figliastro, che si dannava per ottemperare alle
direttive imperiali. Ma il Sire non era mai contento: “Mi sembra che le staffette siano molto lente a
venire da Milano a Parigi. Segnate l’ora delle partenze sulle vostre lettere, che veda quanto
rimangono sulla strada…”. Poi qualcuno riferì che Eugenio lavorava indefessamente e che, a volte,
barcollava dalla fatica: “Figlio mio, Voi lavorate troppo e la vita che fate è troppo monotona. La
cosa può andar bene per Voi, in quanto il lavoro deve costituire motivo di rilassamento, ma avete
una moglie giovane e incinta e penso che dovreste fare in modo di trascorrere la serata con lei e
farvi una piccola cerchia di amici. Perché non andate a teatro almeno una volta alla settimana?”.
Qualche giorno dopo: “L’amministrazione d’Italia mi sembra un caos!”. Mentre Eugenio sfiancava
se stesso nel tentativo di essere all’altezza dei compiti affidatigli dal patrigno, l’imperatore
proseguiva nel suo personale duello con l’Europa. Dopo Austerlitz altre vittorie, fino all’invasione
del 1808 del Portogallo e poi della Spagna. Il principio della fine, secondo il giudizio di Talleyrand.
Approfittando dell’assenza di Napoleone in terra iberica, senza alcuna dichiarazione, l’Austria nel
1809 mosse nuovamente guerra alla Francia. L’arciduca Giovanni, alla testa di un’armata di 100
mila uomini, avanzò verso il Friuli. Eugenio scrisse da Udine alla moglie: “Ho visto tutta l’armata
(d’Italia). Non puoi immaginare quanto sia bella e bene equipaggiata”. Sarà, però il 16 aprile è
battuto a Sacile, colpa anche dell’assurda situazione di generali francesi che pretendevano di
comandare quelli italiani e viceversa. “Sire, ieri ho dunque dato battaglia e ho il rammarico di
annunciare a Vostra Maestà che sono stato sconfitto”. La battaglia di Sacile (detta anche dei
Camolli) era durata sei ore, i franco-italiani avevano perso duemila uomini; gli austriaci, dal canto
loro, affermarono di averne messi fuori combattimento 12 mila. Più tardi, per questioni di
propaganda, sarebbe stata stampata una “Histoire de la campagne de S.A.I. Eugène Napoleon”. Ma
l’opera, tutta una ridicola iperbole, creò un tale disappunto al viceré da indurlo ad ordinare di
acquistare tutte le copie e di recuperare a pagamento quelle già vendute.
La situazione era preoccupante. Nel timore che il nemico potesse marciare su Verona e Brescia,
Eugenio comunicò alla moglie di tenersi pronta a rifugiarsi con tutta la Corte a Torino o, peggio, a
Lione. Furioso, Napoleone gli scrisse chiedendogli se per caso non avesse perduto la testa:
“Dandovi il comando dell’esercito ho commesso uno sbaglio. Avrei dovuto affidarlo a Massena…
Se le circostanze dovessero farsi pressanti, ritengo dobbiate scrivere al Re di Napoli (Murat) di
giungere in vostro soccorso… Gli cederete il comando e vi porrete ai suoi ordini…”. Una sferzata
in pieno volto. Ferito nell’orgoglio, il viceré riorganizzò le truppe e attese il momento propizio per
riprendere l’offensiva. Sollevato dall’arrivo del generale Macdonald e dalla vittoria francese ad
Eckmuhl in Germania, avanzò verso il nemico con l’intento di riconquistare le posizioni perdute a
Sacile. Dopo aver superato la riva sinistra del Piave, Eugenio cozzò con la retroguardia
dell’arciduca Giovanni, riportando un’agognata vittoria. Il generale Caffarelli, ministro della
Guerra, scrisse a Parigi che il principe si era comportato da degno figlio dell’imperatore. Il 14
giugno, anniversario di Marengo, l’armata d’Italia fronteggiò gli asburgici nella piana della Raab
(nei pressi dell’odierna Györ), in territorio ungherese. Dopo circa due ore di combattimento, il
centro austriaco cedette sotto la pressione della fanteria di Eugenio. Il 24 giugno la resa. La
campagna d’Ungheria si era conclusa positivamente e così il conflitto, avendo Napoleone riportato
la grande, sanguinosa, vittoria di Wagram. Ma la guerra era ben lungi dall’essere conclusa. Preda
ormai di un delirio di onnipotenza, il Còrso si volse contro la Russia. Cominciava la catastrofica
Campagna del 1812. Il 18 febbraio di quell’anno, Eugenio passò in rivista le truppe italiane, facenti
parte del IV Corpo della Grande Armata. La sera del 17 aprile, dopo aver abbracciato moglie e figli,
il viceré lasciò in carrozza il piazzale della Villa Reale per il fronte. Augusta Amalia si fece il segno
della croce. Le operazioni ebbero inizio il 29 giugno, quando le avanguardie dell’immenso esercito
napoleonico (600 mila uomini) varcarono il Niemen, marciando su Vilna, in Lituania. Le staffette
per Milano si diradarono man mano che l’Armata si addentrava in territorio russo. Ai primi di
Luglio la viceregina avrebbe dovuto partorire, ma Eugenio non riusciva ad avere notizie. In ogni
caso, Napoleone aveva già scelto il nome: Eugenio Napoleone se maschio, Carlotta Amelia
Napoleona se femmina.
Le notizie sul disastro di Russia giunsero attraverso il XXIX bollettino. Contrariamente al detto
mentire come un bollettino, questa volta Bonaparte fu sincero e non nascose la verità: l’Armata era
stata costretta a ritirarsi; quasi mezzo milione di soldati era caduto nelle lontane steppe. Rientrato
l’imperatore precipitosamente in Francia, spettò ad Eugenio, dopo che a sua volta Murat aveva
abbandonato il comando, riportare in patria quelle poche migliaia di ombre d’uomini scampati al
disastro. Dopo la distruzione della Grande Armata, la Francia fu sommersa dalla marea nemica.
Sempre avaro di poteri con il figliastro, nel 1813 Napoleone gli concesse carta bianca circa
l’arruolamento e il comando delle truppe italiane, ma degli 80 mila uomini richiesti, tra anticipi di
leva del 1814, resti dei sopravvissuti di Russia e cavalleria addestrata alla bell’e meglio, se ne
radunarono solo 50 mila. Un esercito italiano era comunque fondamentale per l’affannato Còrso, il
cui trono scricchiolava sotto i piedi. Passato l’Adige all’inizio di Agosto, Eugenio trasferì il suo
quartier generale ad Udine, poi il 19 avanzò su Villach, nel tentativo di contenere gli austriaci che
puntavano a penetrare in Italia attraverso l’Illiria. Ma gli sforzi non produssero nulla di concreto e
l’esercito, anche a causa dell’inettitudine di alcuni comandanti, si sfaldò, consentendo all’invasore
di avanzare a destra sul Tirolo e a sinistra sull’Isonzo. Il 15 ottobre Eugenio ricevette dal suocero, il
re di Baviera, la notizia che anche quest’ultima era passata alla coalizione. La lettera, lunghissima e
piena di giustificazioni politiche, così si concludeva: “Vi abbraccio un milione di volte col
pensiero”. Eugenio rispose che sarebbe rimasto al proprio posto. Soltanto, desiderava
raccomandargli la figlia e i nipotini. Il 16 Napoleone fu sconfitto a Lipsia. La fine era davvero
prossima. Il 17 l’armata d’Italia dovette retrocedere fino alla linea del Piave. Non solo: anche Murat
stava per tradire e questo metteva a repentaglio la linea del Po. Un’ulteriore lettera, da parte del
suocero, con la quale gli si prometteva la corona d’Italia in cambio dell’abbandono dell’imperatore
di Francia, fu recapitata ad Eugenio nella metà di novembre, ma la proposta fu dignitosamente
ignorata. All’inizio del 1814 il re di Napoli gettò la maschera e avanzò minacciosamente verso
Eugenio. Preso tra due fuochi, il Beauharnais scrisse al maresciallo Bellegarde chiedendogli che la
viceregina, al quinto mese di gravidanza, potesse rimanere a Monza. L’austriaco acconsentì. Mentre
l’invasione della Francia aveva inizio, l’armata italiana si disgregava, i soldati disertavano a gruppi
sempre più numerosi, fraternizzavano con gli austriaci e gli consegnavano perfino i propri cavalli. Il
6 aprile 1814 Napoleone abdicò. Resosi conto dell’inutilità di proseguire la lotta, Eugenio concluse
un armistizio col generale Bellegarde, lasciando la sua ultima dimora italiana, il palazzo dei
Gonzaga di Mantova, il 25 aprile. Attraversò a passi lenti il sontuoso salone, soffermandosi ad
abbracciare i pochi fedeli che avevano condiviso con lui gli ultimi giorni del regno d’Italia. Al suo
braccio si appoggiava Augusta Amalia, con un velo sul capo perché non si vedesse il bel viso rigato
dalle lacrime. Poche ore dopo la partenza, giunsero i commissari austriaci a mettere i sigilli alle
porte: l’Italia cambiava nuovamente padrone.
Per rispetto alla casa di Baviera, il Congresso di Vienna del 1815 concesse ad Eugenio il principato
di Eichstätt ed il ducato di Leuchtenberg, piccoli territori ad un centinaio di chilometri da Monaco.
Gli si concesse altresì il titolo di Altezza Reale e di trasmettere agli eredi quello di Altezza
Serenissima. Negli ultimi anni di vita, la sua residenza preferita fu il castello di Ismaning, tutto
circondato da selve di conifere. In uno dei saloni del castello, alto su di una parete, troneggiava un
busto di Napoleone. Nel dicembre del 1823, rientrando da una battuta di caccia, fu colto da vertigini
– forse un ictus – che gli provocò una leggera paresi ad un braccio e a una gamba e che gli inibì in
parte l’uso della parola. Il grigio ed avvilente periodo bavarese stava per finire. La morte bussò alle
tre e mezzo del mattino del 21 febbraio 1824. Per l’ultimo viaggio Eugenio indossò l’uniforme di
colonnello dei cacciatori della Guardia (la stessa che era solito portare Napoleone), con le insegne
della Legion d’Onore e della Corona Ferrea. La bara fu deposta nella cripta dei principi Wittelsbach
della chiesa di San Michele a Monaco. Per volontà di Augusta Amalia, il monumento funebre fu
commissionato al grande scultore danese Bertel Thorvaldsend. Eugenio fu scolpito nelle vesti di
antico romano, avvolto da una corta tunica e ai suoi piedi deposti l’elmo e la corazza. Nella destra
tiene una corona d’alloro, al fianco la spada. In alto, l’epitaffio in francese: Honneur et Fidelité. In
basso, sulla lastra sostenuta da due angeli è inciso: Hic placide ossa cubant Eugenii Napoleonis
Regis Italiae Vices quondam Gerentis. Né Francia o Baviera a perpetuarne la memoria, dunque.
Soltanto Italia.
Armando Russo
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