Andrea Rizzo Marco Tolla DALL’ELUSIONE FISCALE ALL’ABUSO DEL DIRITTO I CONFINI DEL LECITO RISPARMIO D’IMPOSTA TRA NORMATIVA VIGENTE E INTERPRETAZIONI GIURISPRUDENZIALI Autori Autori Andrea Rizzo Tenente Colonnello della Guardia di finanza, titolato “Scuola di polizia tributaria”. L’Ufficiale è laureato in giurisprudenza, economia e commercio, scienze politiche e scienze della sicurezza economico finanziaria. Ha conseguito un Master di II livello in diritto tributario. Marco Tolla Tenente Colonnello della Guardia di finanza, titolato “Scuola di polizia tributaria”. L’Ufficiale è laureato in giurisprudenza, scienze politiche e scienze della sicurezza economico finanziaria. Ha conseguito un Master di II livello in diritto tributario. Dall’elusione fiscale all’abuso del diritto Prefazione Prefazione Per molto tempo si è discusso sulla necessità di introdurre nel nostro ordinamento una clausola generale antielusione. Inizialmente è prevalsa la linea più rigorosa che escludeva la possibilità di attribuire all’Amministrazione finanziaria il potere di definire la fattispecie tributaria in assenza di una esplicita previsione normativa facendo leva sul principio della riserva di legge sancito dall’articolo 23 della Costituzione. Per questa ragione le norme antielusive introdotte a partire dagli anni novanta e tuttora in vigore sono state sempre improntate a criteri casistici, individuando di volta in volta le specifiche situazioni che potevano formare oggetto di disconoscimento ai fini fiscali. Da qualche anno a questa parte nella scena dei rapporti tra fisco e contribuente è entrato con prepotenza il tema dell’abuso del diritto. Dapprima, la Corte di cassazione ha dedotto dalle norme del diritto dell’Unione Europea e dalle interpretazioni della Corte di Giustizia l’esistenza di un principio generale antielusivo di matrice comunitaria da considerare immanente nel nostro ordinamento. In effetti, la Corte europea, facendo leva sui principi generali dell’ordinamento UE e, in particolare, quello della buona fede, ha delineato una compiuta ed articolata nozione di abuso del diritto, incentrata sull’intenzionalità. Secondo la Corte non è possibile avvalersi fraudolentemente o abusivamente del diritto comunitario ed il fatto di approfittare di una norma fiscale o di fruire di una legislazione più vantaggiosa in uno Stato membro comporta la perdita del diritto di avvalersi delle disposizioni del Trattato quando il contribuente realizza costruzioni di puro artificio finalizzate a sottrarre l’impresa alla legislazione dello Stato membro interessato. D’altra parte, il riferimento ai principi comunitari non è parso sufficiente a coprire tutti i possibili casi di abuso, essendo praticabile soltanto nei limiti di territorio e di materia in cui trovano applicazione queste norme. In questa ottica il disconoscimento degli effetti fiscali di operazioni abusive potrebbe operare completamente soltanto per i tributi armonizzati, mentre per gli altri tributi (e tra questi, principalmente, le imposte sui redditi) sarebbero coperte le sole fattispecie intracomunitarie, legate alla libertà di stabilimento, mentre resterebbero escluse le fattispecie interne e quelle relative a rapporti con gli Stati terzi. Per superare questa anomalia, che avrebbe comportato una notevole disparità di trattamento all’interno del nostro territorio, la Suprema Corte, con le note “sentenze di Natale” pubblicate alla fine di dicembre del 2008, ha Dall’elusione fiscale all’abuso del diritto Prefazione decisamente cambiato orientamento, desumendo l’esistenza di una clausola generale antielusiva non più dai principi dell’ordinamento comunitario ma dai principi costituzionali interni di capacità contributiva e di progressività. Secondo queste sentenze, inoltre, il giudice avrebbe potuto procedere autonomamente all’accertamento dei casi di abuso, in ogni grado di giudizio ed anche in assenza di una specifica contestazione da parte dell’ufficio impositore. Questo nuovo orientamento, superato solo in parte dalle sentenze successive della Cassazione, ha generato notevoli incertezze applicative, dalle quali è sorta una consistente mole di controversie tuttora in corso di esame. Per queste ragioni, è tornata ad affermarsi la necessità di introdurre una disciplina dell’abuso del diritto, attenta soprattutto agli aspetti procedurali. Oggi il sistema sembra avviarsi alla normalizzazione dopo la recente approvazione della legge di delega fiscale, che ha demandato ad un apposito decreto legislativo la disciplina delle “condotte abusive”, termine all’interno del quale si è inteso unificare le nozioni di “elusione fiscale” e “abuso del diritto” fino ad oggi conosciute. Il lavoro di Rizzo e Tolla segue attentamente questa tumultuosa evoluzione, esaminando in tutti i suoi aspetti il tema dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto. L’analisi svolta dagli Autori è mirata ad approfondire gli aspetti critici della disciplina e si muove sempre sul piano della ricerca (spesso non facile) dei principi da porre a base dell’interpretazione delle norme esaminate. Di notevole interesse è la disamina del tema ancora molto controverso della rilevanza penale dell’elusione e dell’abuso. In conclusione, l’opera costituisce una valido strumento per affrontare i singoli casi concreti alla luce di una situazione normativa e giurisprudenziale oltremodo complessa e per acquisire gli elementi necessari ad interpretare in modo corretto la nuova disciplina dell’istituto. Prof. Pietro Selicato (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”) Capitolo I – Divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario italiano Capitolo I IL PRINCIPIO DI DIVIETO DI ABUSO DEL DIRITTO NELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO ITALIANO (di Marco Tolla) Sommario: 1. Introduzione - 2. Dovere tributario e comportamenti antifiscali - 3. L’elusione fiscale - 4. Gli interpelli in materia elusiva - 4.1 Interpello speciale antielusivo - 4.2 Interpello disapplicativo - 5. L’abuso del diritto in ambito tributario - 6. Cenni sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia U.E. - 7. Evoluzione della giurisprudenza di legittimità sul tema dell’abuso del diritto 1. Introduzione A partire dal 2008 e, segnatamente, dalle cosiddette “sentenze di Natale” della Corte di Cassazione, SS.UU., il nostro ordinamento tributario ha conosciuto la compiuta affermazione del “principio di divieto di abuso del diritto”, inteso dal Giudice di legittimità come una clausola generale antielusiva, immanente nell’ordinamento giuridico, in quanto di diretta derivazione costituzionale, e idonea ad operare in qualsiasi comparto impositivo. Tali arresti, costituenti il punto di arrivo di una elaborazione giurisprudenziale iniziata nel 2005 e, se si vuole, non ancora conclusa, costituiscono, per certi aspetti, un’importante conquista di civiltà giuridica. Infatti, tramite il divieto di abuso del diritto tributario, i precetti costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, attraverso cui il tributo diviene funzionale anche alla realizzazione di obiettivi di giustizia sociale, possono trovare concreta attuazione nonostante i più diversi eventuali tentativi di elusione. Tuttavia, se ciò è vero, è altrettanto riscontrabile che tali orientamenti della Suprema Corte non hanno trovato una pacifica accoglienza in dottrina, poiché hanno lasciato aperte una serie di questioni di notevole rilevanza: prima fra tutte la conciliazione di una simile impostazione esegetica con il fondamentale principio della certezza del diritto e della prevedibilità della sua applicazione. Infatti, se è sempre mancata una delimitazione netta tra elusione fiscale e lecito risparmio d’imposta, detta distinzione può apparire ancora più complessa innanzi all’abuso del diritto tributario, anche perché un comportamento apparentemente lecito al momento della sua realizzazione (in quanto non contemplato da alcuna norma antielusiva) può costituire, a posteriori, oggetto di contestazione e di disconoscimento dei relativi vantaggi fiscali. Dall’elusione fiscale all’abuso del diritto 3 Capitolo I – Divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario italiano Tutto ciò pone la necessità di un intervento normativo che, nel cristallizzare il principio di matrice giurisprudenziale in esame, preveda anche una serie di soluzioni idonee a ridurre consistentemente l’alea per il contribuente insita nella realizzazione di condotte che si rivelino fiscalmente vantaggiose, accrescendo in tal modo la sua consapevolezza in ordine a possibili contestazioni connesse all’applicazione di una siffatta clausola generale antielusiva. Nel corso del presente capitolo, dopo aver accennato alla natura del tributo e alle forme che possono assumere i comportamenti antifiscali del contribuente, si procederà ad una sintetica disamina della genesi e dell’evoluzione del principio di divieto di abuso del diritto nella giurisprudenza di legittimità italiana, con qualche cenno anche agli arresti più significativi della Corte di Giustizia della U.E. sull’argomento. Ciò, al fine di verificare se, su un piano positivo, possa essere costruita una norma che, da un lato, costituisca un valido presidio contro le condotte fiscalmente elusive o abusive e, dall’altro lato, risulti idonea a marcare, per quanto possibile, il confine tra elusione o abuso e lecito risparmio d’imposta, così da assistere meglio le scelte del contribuente. 2. Dovere tributario e comportamenti antifiscali Nel Diritto tributario non esiste una definizione positiva di tributo1, né una definizione normativa di evasione fiscale2. Tali concetti sono stati, invece, oggetto di elaborazione da parte della giurisprudenza, in primis quella costituzionale, e della dottrina tributaristica. Prima di affrontare il tema dell’abuso del diritto tributario, appare necessario delineare sinteticamente in cosa si estrinsechi il “dovere tributario” e, per contro, in che modo possano essere declinati i comportamenti antifiscali del contribuente che ne costituiscono una violazione. 1 F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 2009, 3. A differenza di quanto avviene nel Diritto tributario, nel Diritto penale tributario esiste una definizione normativa di imposta evasa, contenuta nell’articolo 1, lettera f), del D.Lgs. n. 74/2000 (“per “imposta evasa” si intende la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine;”). Tuttavia, l’imposta evasa, per come intesa ai fini penalistici, non corrisponde al concetto di evasione fiscale elaborato dalla dottrina tributaristica. Infatti, almeno per come affermato recentemente dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 7739 del 28 febbraio 2012), l’imposta evasa ex articolo 1, lettera f), del D.Lgs. n. 74/2000 è suscettibile di comprendere, oltre all’evasione fiscale propriamente intesa, anche il fenomeno dell’elusione fiscale. Quest’ultima tipologia di condotte, però, in ambito prettamente tributario si distingue nettamente da quelle riconducibili all’evasione fiscale. 2 4 Dall’elusione fiscale all’abuso del diritto Capitolo I – Divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario italiano Al fine di elaborare una definizione di tributo, occorre esaminare i fondamenti costituzionali del prelievo fiscale. Tra essi assume massima rilevanza l’articolo 53, comma 1, della Costituzione, in base al quale tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, disposizione, questa, che può essere considerata il parametro di costituzionalità delle norme tributarie sostanziali3, nonché il cardine dell’intero ordinamento tributario. Detta norma, che sancisce il principio costituzionale della capacità contributiva, va interpretata alla luce dell’articolo 2 della Costituzione, secondo cui la “Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Il concorso alle spese pubbliche costituisce, appunto, uno dei doveri inderogabili di solidarietà richiamati da tale ultima norma della Carta fondamentale. A tali precetti deve aggiungersi, poi, l’articolo 53, comma 2, della Costituzione, il quale, nello stabilire che “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”, sancisce il principio di progressività nell’imposizione fiscale4. Stante le suddette norme fondamentali, appare evidente come, nella prospettiva costituzionale, i tributi abbiano una doppia funzione. 3 Il primo comma dell’articolo 53 della Costituzione impone che i presupposti dell’imposizione fiscale debbano essere costituiti da manifestazioni di capacità contributiva. In tal senso, ben si comprende come il principio in rassegna inerisca alle norme tributarie sostanziali (ovvero le norme impositrici e quelle di favore). Circa il significato di “capacità contributiva”, occorre evidenziare che la giurisprudenza costituzionale ha costantemente inteso tale capacità come un’idoneità a contribuire, manifestata da indici di ricchezza o comunque di forza economica. Nel tempo, in particolare, il Giudice delle leggi ha elaborato sia una nozione soggettiva di capacità contributiva, intesa come l’effettiva idoneità soggettiva del contribuente ad assolvere l’obbligazione tributaria, espressa da indici concretamente rivelatori di ricchezza, che una nozione oggettiva della stessa, secondo la quale detta capacità è ravvisabile in qualsiasi indice rivelatore di ricchezza, che può essere individuato dal legislatore discrezionalmente con il solo limite della non arbitrarietà. Gli indici rivelatori di capacità contributiva si distinguono, poi, in diretti e indiretti. Sono indici diretti i fatti direttamente espressivi di capacità contributiva, come il reddito, il patrimonio e gli incrementi di valore del patrimonio. Sono indici indiretti di capacità contributiva tutti gli altri fatti che, in via mediata, esprimono forza economica, come, ad esempio, i consumi e gli affari. Sul principio di capacità contributiva esiste copiosa giurisprudenza costituzionale, in relazione alla quale costituiscono fondamentali arresti le sentenze n. 30 del 2 aprile 1964, n. 69 del 12 luglio 1965, n. 77 del 3 luglio 1967, n. 97 del 10 luglio 1968, n. 200 del 28 luglio 1976, n. 62 del 20 aprile 1977, n. 126 datata 8 novembre 1979, n. 239 del 25 luglio 1983, n. 301 del 30 settembre 1987, n. 431 del 3 dicembre 1987, n. 103 datata 11 marzo 1991, n. 315 del 20 luglio 1994, n. 111 del 22 aprile 1997, n. 346 del 22 luglio 1999 e n. 156 del 21 maggio 2001. 4 La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 128 del 29 dicembre 1966, ha affermato che il principio di progressività dell’imposizione non è riferito ad ogni singola forma di prelievo tributario, ma al sistema fiscale nel suo complesso. Infatti, non tutti i tributi si prestano, per le loro caratteristiche strutturali, ad essere progressivi. Da ciò deriva che l’articolo 53, comma 2, della Costituzione può essere attuato anche mediante l’istituzione di un solo tributo progressivo che caratterizzi l’intero sistema fiscale (come oggi avviene con l’imposta sul reddito delle persone fisiche). Dall’elusione fiscale all’abuso del diritto 5 Capitolo I – Divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario italiano Indubbiamente, essi, nel realizzare il concorso dei consociati alle spese pubbliche, costituiscono lo strumento diretto ad assicurare il reperimento delle risorse finanziarie necessarie alla copertura di queste ultime. Tuttavia, il fatto che tale concorso rientri tra i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale costituzionalmente intesi, attribuisce al prelievo fiscale anche una marcata funzione redistributiva della ricchezza5. Infatti, le modalità con cui viene suddiviso tra i consociati il sacrificio economico connesso all’adempimento del dovere tributario, soggette ai citati principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, permettono di acclarare come i tributi perseguano anche obiettivi di giustizia sociale, atteso che essi consentono allo Stato ed agli altri enti pubblici di cui si compone la Repubblica di assicurare a tutti, a prescindere dalle loro condizioni economiche e sociali, importantissimi servizi pubblici, essenziali per il benessere individuale e per la vita e la coesione sociale (si pensi, al riguardo, alla sanità, all’istruzione, alla sicurezza nazionale interna ed esterna, all’amministrazione della giustizia, ecc.). Un ulteriore precetto costituzionale, cui l’ordinamento tributario deve conformarsi, è rinvenibile nell’articolo 23 della Costituzione, secondo cui “Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”. La norma in esame esprime il principio della riserva di legge6, che, come 5 In pratica, nella prospettiva costituzionale, la finanza pubblica non è una finanza neutrale, quale sarebbe se i tributi avessero la mera finalità di coprire le pubbliche spese, ma è concepita come una finanza funzionale, posto che il tributo costituisce uno strumento attuativo dei doveri solidaristici di cui all’articolo 2 della Costituzione e, per tale via, di obiettivi di carattere sociale. 6 Dall’esame del testo della norma costituzionale emergono, sul piano dell’esegesi, tre aspetti degni di rilievo, ovvero i concetti di: “legge”, “base legislativa” e “prestazione imposta”. Per quanto concerne la nozione di “legge”, questa deve essere intesa come comprensiva non solo della legge ordinaria statale (di cui agli articoli 70 e seguenti della Costituzione), ma anche dei decreti legge e dei decreti legislativi, i quali sono atti normativi con forza di legge. Inoltre, soddisfano l’articolo 23 della Costituzione anche le leggi regionali (come ha avuto modo di evidenziare la Corte Costituzionale con le sentenze n. 64 del 12 luglio 1965, n. 148 del 14 dicembre 1979 e n. 180 del 31 maggio 1996) e le leggi delle province autonome di Trento e di Bolzano. La nozione di “base legislativa”, poi, evidenzia come la riserva di legge prevista dall’articolo 23 della Costituzione sia relativa, nel senso che essa non richiede che le prestazioni imposte siano regolate esclusivamente dalla legge o da altri atti normativi di rango primario (nel qual caso si sarebbe in presenza di una riserva assoluta di legge). Posto che la norma si riferisce alle prestazioni imposte, la riserva relativa di legge riguarda le sole norme tributarie sostanziali (cioè le norme impositrici e quelle di favore) e non le norme tributarie formali. Ciò detto, il Giudice delle leggi ha costantemente evidenziato che la “base legislativa”, richiesta affinché l’imposizione fiscale rispetti il citato articolo 23 della Costituzione, deve determinare compiutamente i soggetti passivi, il presupposto imponibile e la misura del tributo o, in generale, deve costituire una disciplina di rango primario idonea a delimitare la discrezionalità dell’autorità amministrativa tributaria nell’esercizio dei poteri impositivi (si vedano le sentenze della Corte Costituzionale n. 47 del 18 marzo 1957, n. 34 del 5 febbraio 1986, n. 180 del 31 maggio 1996 e n. 435 del 28 dicembre 2001). Infine, per quanto con- (segue) 6 Dall’elusione fiscale all’abuso del diritto Capitolo I – Divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario italiano evidenziato in più occasioni dalla Corte Costituzionale7, costituisce una garanzia posta a tutela della libertà e della proprietà individuale, con riferimento alle prestazioni, personali o patrimoniali, imposte con atto d’autorità, ovvero senza che, con riferimento alle stesse, vi sia il concorso della volontà dell’interessato. Tale ultima disposizione risulta fondamentale in campo tributario proprio perché il prelievo fiscale ha la natura di prestazione patrimoniale imposta e, come tale, la relativa disciplina deve rispettare il principio della riserva di legge. Stante quanto sopra, il dovere tributario può essere definito come uno dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, cui i consociati adempiono concorrendo, attraverso l’istituto giuridico del tributo, alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Sulla base dei caratteri delle leggi tributarie, quindi, la Corte Costituzionale8 ha qualificato il tributo come l’imposizione di un sacrificio economico individuale realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, il cui gettito è destinato ad integrare la finanza pubblica e, quindi, ad apprestare i mezzi per coprire il fabbisogno finanziario connesso alle spese pubbliche. cerne il concetto di “prestazioni imposte”, occorre evidenziare che esso comprende sia le prestazioni personali che quelle patrimoniali. Solo tra queste ultime possono essere annoverati i tributi, i quali, in ogni caso, rappresentano un insieme più limitato di quello generale delle prestazioni patrimoniali imposte cui la norma costituzionale si riferisce. In merito, il Giudice delle leggi ha distinto tra “prestazioni imposte” in senso formale e in senso sostanziale. Le prime, di cui i tributi sono un sottoinsieme, si hanno quando la prestazione, a prescindere dalla relativa denominazione, viene imposta con un atto autoritativo senza che si abbia il concorso della volontà del soggetto passivo (Corte Costituzionale, sentenze n. 4 del 26 gennaio 1957, n. 122 datata 8 luglio 1957, n. 36 del 27 giugno 1959 e n. 70 del 16 dicembre 1960). Le prestazioni imposte in senso sostanziale, tra cui non rientrano i tributi, sono costituite invece da obbligazioni di fonte negoziale, aventi funzione di corrispettivo per un servizio pubblico reso in base a un regime giuridico che impone le condizioni per la relativa fruizione in modo unilaterale ed autoritativo (si vedano, a titolo esemplificativo, le sentenze della Corte Costituzionale n. 435 del 28 dicembre 2001 e n. 66 del 29 gennaio 2005). Per completezza, occorre evidenziare che, in relazione ai rapporti tra il principio della riserva di legge ex articolo 23 della Costituzione e il diritto dell’Unione europea, con particolare riferimento ai regolamenti U.E. (i quali sono direttamente applicabili negli ordinamenti giuridici degli Stati membri), la Corte Costituzionale (sentenza n. 183 del 27 dicembre 1973) ha evidenziato che non sussiste alcun possibile contrasto, in quanto: 1) l’Italia, aderendo al trattato istitutivo della Comunità europea, ha operato una limitazione della propria sovranità ai sensi dell’articolo 11 della Costituzione; 2) l’ordinamento giuridico della U.E. e il diritto interno degli Stati membri, sono sistemi distinti ed autonomi, seppur coordinati in base alla ripartizione di competenze stabilita e garantita dai trattati dell’Unione europea, secondo la quale nelle materie devolute a quest’ultima si applicano le norme del diritto della U.E.. 7 Si richiamano, sul punto, la sentenze della Corte Costituzionale n. 4 del 26 gennaio 1957, n. 47 del 18 marzo 1957, n. 122 datata 8 luglio 1957 e n. 183 del 27 dicembre 1973. 8 Sentenze n. 26 del 10 febbraio 1982 e n. 2 del 12 gennaio 1995. Dall’elusione fiscale all’abuso del diritto 7 Capitolo I – Divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario italiano Successivamente, il Giudice delle leggi9, con riferimento alla delimitazione delle controversie ricadenti nella giurisdizione tributaria (soprattutto a seguito della modifica dell’articolo 2 del D.Lgs. n. 546/1992 ad opera della L. n. 448/2001 e della L. n. 248/2005), ha individuato i caratteri del tributo, a prescindere dal nomen iuris: 1) nella doverosità della prestazione; 2) nella mancanza di un rapporto sinallagmatico; 3) nel collegamento della prestazione alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante. In sostanza, il tributo può essere definito come un istituto giuridico che si estrinseca in un prelievo economico imposto autoritativamente, al verificarsi di un determinato evento e in conformità ai principi ed alle disposizioni dell’ordinamento giuridico, attraverso il quale si realizza il concorso alla copertura delle spese pubbliche10. Ciò posto e considerata l’importanza della contribuzione tributaria, è facile comprendere la gravità di tutte quelle condotte poste in essere al fine di sottrarsi alla stessa. Al riguardo, è intervenuta anche la Corte costituzionale11, la quale ha evidenziato come l’evasione fiscale, in ciascuna delle sue manifestazioni, determini la rottura del vincolo di lealtà minimale che lega fra loro i cittadini e comporti, quindi, la violazione di uno dei doveri inderogabili di solidarietà, sui quali, ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione, si fonda una convivenza civile ordinata ai valori di libertà individuale e giustizia sociale. 9 Corte Costituzionale, sentenze n. 64 del 2008, n. 141 del 2009 e n. 238 del 2009. La dottrina tributaristica, con il fine di pervenire ad una definizione del tributo, ha enucleato i suoi elementi strutturali e funzionali dalle norme di diritto positivo che lo riguardano. Tra essi va citata: la conseguenza del tributo, ovvero l’obbligazione tributaria; il carattere della coattività, che implica la sussistenza in capo all’ente pubblico impositore, oltre che del diritto di credito connesso all’obbligazione tributaria, anche di poteri autoritativi volti ad attuare il rapporto fiscale; il presupposto imponibile, ovvero l’evento - indice di capacità contributiva - che determina la nascita dell’obbligazione tributaria; la connessione con il finanziamento della spesa pubblica, atteso che il suo gettito è destinato allo Stato ed agli altri enti pubblici. Illuminata dottrina ha definito il tributo come “un istituto giuridico che, racchiudendo una prestazione obbligatoria imposta, collegata ad un fatto economico, attua il concorso di tutti al finanziamento della spesa pubblica” (F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2009, 6) o, ancora, come “una prestazione patrimoniale imposta, caratterizzata dall’attitudine a determinare il concorso alle pubbliche spese” (A. Fantozzi, Diritto Tributario, Torino, 1995, 44). 10 11 Corte Costituzionale, sentenza n. 51 del 18 febbraio 1992: “… Alla luce dei principi costituzionali, infatti, l’evasione fiscale costituisce in ogni caso una “ipotesi di particolare gravità”, per il semplice fatto che rappresenta, in ciascuna delle sue manifestazioni, la rottura del vincolo di lealtà minimale che lega fra loro i cittadini e comporta, quindi, la violazione di uno dei “doveri inderogabili di solidarietà”, sui quali, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, si fonda una convivenza civile ordinata ai valori di libertà individuale e di giustizia sociale …”. 8 Dall’elusione fiscale all’abuso del diritto Capitolo I – Divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario italiano Il riferimento della Corte Costituzionale a ciascuna delle manifestazioni in cui si sostanzia l’evasione fiscale è quanto mai opportuno, poiché evidenzia come, su un piano giuridico, la sottrazione al dovere di contribuzione possa avvenire in modi molto differenti, tanto che la dottrina ha operato diverse classificazioni al riguardo. In generale, si può dire che la locuzione “evasione fiscale” viene utilizzata nel linguaggio corrente per descrivere l’insieme dei comportamenti antifiscali, mentre nel linguaggio tecnico-giuridico individua solo una parte dei comportamenti in parola. Infatti, in dottrina è stata elaborata una classificazione, sulla base dei rispettivi tratti peculiari, delle categorie di condotte che producono l’effetto di sottrarsi, in tutto o in parte, ai doveri tributari. Volendo formulare una definizione omnicomprensiva dei comportamenti lesivi dei doveri fiscali costituzionalmente intesi, è più appropriato parlare di “inadempimento tributario”, che può essere definito come quell’insieme di condotte poste in essere dal contribuente al fine di comprimere la prestazione fiscale da lui dovuta in base all’ordinamento tributario. Tale insieme generale di comportamenti antifiscali, poi, può essere suddiviso, su un piano tecnico-giuridico, sostanzialmente in quattro categorie, di seguito elencate: - evasione fiscale propriamente intesa; - elusione fiscale; - abuso del diritto tributario; - insolvenza fiscale. L’evasione fiscale consiste nella violazione aperta e diretta delle norme tributarie, con lo scopo di occultare all’Amministrazione finanziaria, in tutto o in parte, il presupposto imponibile o la base imponibile, in modo da ridurre od azzerare il debito tributario o, addirittura, in modo da creare crediti tributari non spettanti. L’elusione fiscale, disciplinata positivamente principalmente nel settore dell’accertamento delle imposte sui redditi, consiste, invece, in comportamenti fiscalmente rilevanti che non violano le norme giuridiche ma che, essendo privi di valide ragioni economiche, sono diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario ed a ottenere riduzioni d’imposta o rimborsi altrimenti indebiti. L’abuso del diritto tributario consiste in condotte che non violano formalmente le norme tributarie, ma che, attraverso un utilizzo distorto di norme giuridiche, consentono di realizzare risparmi fiscali indebiti. L’abuso del diritto si differenzia dall’elusione fiscale, sebbene su un piano oggettivo sia ad essa del tutto assimilabile, poiché, diversamente da questa, è una cate- Dall’elusione fiscale all’abuso del diritto 9 Capitolo I – Divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario italiano goria giuridica elaborata dalla giurisprudenza e concerne potenzialmente qualsiasi comparto impositivo. Infine, l’insolvenza fiscale, nota anche come evasione da riscossione, consiste in quell’insieme di condotte antigiuridiche attuate dal contribuente al fine di sottrarsi alla riscossione di propri debiti tributari. Si tratta di comportamenti che vengono realizzati una volta che l’obbligazione tributaria è già nota al Fisco, collocandosi, appunto, nella fase della riscossione. 3. L’elusione fiscale Si è detto che l’elusione fiscale consiste in un comportamento fiscalmente rilevante che non viola alcuna norma tributaria, ma, ciò nonostante, determina una compressione della prestazione fiscale del contribuente che lo pone in essere, non voluta dall’ordinamento tributario in quanto non rispettosa della ratio delle norme giuridiche applicate12. 12 Cfr. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2012, 226. Falsitta distingue la “simulazione-dissimulazione” dall’elusione: la prima “è un fenomeno che assume una smisurata moltitudine di forme ed ha una diffusione vastissima” tanto da alimentare “la fetta più consistente della così detta evasione tributaria”; la seconda, invece, “ha dimensioni assai ridotte e quasi rare” e ciò sarebbe dimostrato dalle “concatenazioni di atti, fatti, negozi, architettate per ottenere risultati «simili» a quelli conseguibili con i negozi previsti dalla norma elusa, evitando così il più pesante trattamento tributario contemplato da tale norma”. A. Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2004, 159. Fantozzi, in prima battuta, sottolinea come l’elusione fiscale consista in un comportamento e non soltanto in un negozio giuridico, quindi ne evidenzia le caratteristiche: “a) di essere ispirato fin dall’inizio dall’unico e dominante intento di risparmiare l’imposta; b) di costituire un comportamento anormale rispetto a quelli solitamente adottati nelle medesime condizioni; c) di far conseguire un (totale o parziale) risparmio d’imposta né previsto né consentito, sia pure implicitamente, dal legislatore”. G. Gaffuri, Diritto tributario. Parte generale e parte speciale, Padova, 2009, 187 e ss.. Gaffuri, dopo aver premesso che non vi è nulla di illecito nell’intento di ridurre il carico tributario con operazioni idonee che siano consentite o tollerate dal sistema giuridico, sottolinea come questo comportamento frustri le aspettative dello Stato impositore; subito dopo osserva che “Le norme antielusive recentemente introdotte nell’ordinamento italiano, ad imitazione di molti altri Stati europei ed extraeuropei, rendono inopponibili all’amministrazione finanziaria e, dunque, irrilevanti nei suoi riguardi atti, fatti, negozi, privi di valide ragioni economiche, con i quali si tende ad evitare, aggirandoli, obblighi e divieti posti dall’ordinamento tributario o a conseguire riduzioni oppure rimborsi d’imposta altrimenti indebiti”. G. Marongiu – A. Marcheselli, Lezioni di diritto tributario, Torino, 2009, 25. Gli autori distinguono in modo netto tra evadere ed eludere: “evadere un tributo significa violare un dovere (si ha l’obbligo di pagare, e non si paga). Eludere un tributo significa aggirare l’obbligo di pagare”. R. Lupi, Manuale professionale di diritto tributario, Milano, 1998, 62 e ss.. Lupi sostiene che il primo passo per comprendere l’elusione è distinguerla dall’evasione; infatti, mentre “l’evasore nasconde fatti veri […] o afferma fatti falsi […] o al limite applica erroneamente (in buona o mala fede) la normativa sulla determinazione dell’imposta […], nell’elusione i fatti sono manifestati al fisco nel senso che sono regolarmente rendicontati dove la legge prevede”. P. Russo, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Milano, 2007, 227 e ss.. Russo rileva preliminarmente che “l’ordinamento italiano […] non è incline all’introduzione di una norma generale antielusiva” ed afferma che “l’essenza dell’elusione consiste nell’aggiramento, sovente tramite l’abuso di forme negoziali nominate anche combinate tra loro, di regimi fiscali tipici, ossia di quel trattamento impositivo al quale il contribuente sarebbe andato soggetto se avesse adoperato gli strumenti negoziali fisiologici per la composizio- (segue) 10 Dall’elusione fiscale all’abuso del diritto Capitolo I – Divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario italiano Ciò premesso, non traducendosi l’elusione fiscale in un vero e proprio illecito, si pone il problema di distinguere il risparmio tributario indebito in quanto elusivo dal lecito risparmio d’imposta. Problema che, peraltro, si pone in termini ancora più rilevanti in relazione al fenomeno dell’abuso del diritto in ambito tributario, che non è positivamente disciplinato, essendo, allo stato, una categoria giuridica di matrice puramente giurisprudenziale. Il lecito risparmio d’imposta è definito, in termini generali, come il risparmio conseguito dal contribuente utilizzando le alternative poste a sua disposizione dall’ordinamento tributario che consentono il trattamento fiscale a lui più favorevole. In pratica, il risparmio di imposta è lecito quando il contribuente rispetta la lettera e la ratio della disciplina tributaria. Ben si comprende come, nella pratica, possano verificarsi dei casi in cui la linea di demarcazione tra elusione fiscale (e, ancor di più, abuso del diritto) e lecito risparmio d’imposta non sia poi così netta. Sul piano della reazione dell’ordinamento giuridico italiano alle condotte elusive, occorre evidenziare come il sistema tributario, ad oggi, si sia attrezzato con due tipologie di norme: - quelle espressamente antielusive, che, individuando una serie di operazioni a rischio di elusione fiscale, prevedono la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di disconoscerne gli effetti vantaggiosi per il contribuente, pur tuttavia senza modificare le norme tributarie sostanziali connesse a dette fattispecie; - quelle implicitamente antielusive o a ratio antielusiva, che, con riferimento a determinati casi ritenuti elusivi dal legislatore, prevedono la limitazione di deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, intervenendo così sulle norme tributarie sostanziali13, salvo la possibilità per il conne di un determinato assetto di interessi e non avesse fatto ricorso ad un’operazione al solo fine di ottenere un vantaggio fiscale”. F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2009, 240 e ss.. Tesauro, dopo aver precisato che “l’elusione è diversa dall’evasione”, la definisce come “una forma di «risparmio fiscale» che è conforme alla lettera, ma non alla ratio delle norme tributarie”. G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario, Padova, 2007, 113. Tinelli definisce l’elusione come il “comportamento del contribuente diretto ad ottenere una riduzione del debito d’imposta o comunque un vantaggio fiscale, ricorrendo ad una regolamentazione civilistica della fattispecie diversa da quella normale e non giustificata se non dall’interesse ad un trattamento fiscale altrimenti non spettante”. 13 Si pensi, a mero titolo esemplificativo, all’articolo 172, comma 7, del D.P.R. n. 917/1986, il quale, con finalità antielusiva, limita, in caso di fusione, la deducibilità, da parte della società incorporante o da parte di quella risultante dalla fusione, delle perdite delle società che partecipano a tale operazione straordinaria. In base alla citata norma, infatti, tali perdite sono deducibili nei limiti della parte del loro ammontare che non ecceda il patrimonio netto delle società le cui perdite sono riportabili e sempre che dal conto economico di queste ultime risulti un ammontare (segue) Dall’elusione fiscale all’abuso del diritto 11 Capitolo I – Divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario italiano tribuente di ottenerne la disapplicazione qualora sia fornita la prova della mancanza, nello specifico caso prospettato, di profili elusivi connessi all’operazione. Tornando al concetto di elusione fiscale, va detto che una sua definizione generale è ricavabile dal D.P.R. n. 600/1973, concernente disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi. In particolare, l’articolo 37 bis del citato provvedimento normativo, al comma 1, stabilisce che “sono inopponibili all’Amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti”. Il legislatore, molto opportunamente, ha stabilito che possono integrare l’elusione fiscale atti, fatti e negozi giuridici, anche collegati tra loro. In sostanza, la norma copre tutta la gamma di comportamenti fiscalmente rilevanti (riferibili alle fattispecie poi precisate al comma 3 del citato articolo 37 bis) che il contribuente può porre in essere a suo vantaggio, i quali, molto spesso, non sono circoscritti ad una sola operazione ma consistono in un insieme di condotte alle volte anche molto articolate e complesse. Tuttavia, per qualificare come elusivi detti comportamenti, è necessario che gli stessi presentino, contemporaneamente, le seguenti tre caratteristiche: di ricavi e proventi dell’attività caratteristica e un ammontare delle spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi superiore al 40% della media degli ultimi due esercizi anteriori. Articolo 172, comma 7, del T.U.I.R.: “7. Le perdite delle società che partecipano alla fusione, compresa la società incorporante, possono essere portate in diminuzione del reddito della società risultante dalla fusione o incorporante per la parte del loro ammontare che non eccede l’ammontare del rispettivo patrimonio netto quale risulta dall’ultimo bilancio o, se inferiore, dalla situazione patrimoniale di cui all’articolo 2501 quater del codice civile, senza tener conto dei conferimenti e versamenti fatti negli ultimi ventiquattro mesi anteriori alla data cui si riferisce la situazione stessa, e sempre che dal conto economico della società le cui perdite sono riportabili, relativo all’esercizio precedente a quello in cui la fusione è stata deliberata, risulti un ammontare di ricavi e proventi dell’attività caratteristica, e un ammontare delle spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi, di cui all’articolo 2425 del codice civile, superiore al 40 per cento di quello risultante dalla media degli ultimi due esercizi anteriori. Tra i predetti versamenti non si comprendono i contributi erogati a norma di legge dallo Stato e da altri enti pubblici. Se le azioni o quote della società la cui perdita è riportabile erano possedute dalla società incorporante o da altra società partecipante alla fusione, la perdita non è comunque ammessa in diminuzione fino a concorrenza dell’ammontare complessivo della svalutazione di tali azioni o quote effettuata ai fini della determinazione del reddito dalla società partecipante o dall’impresa che le ha ad essa cedute dopo l’esercizio al quale si riferisce la perdita e prima dell’atto di fusione. In caso di retrodatazione degli effetti fiscali della fusione ai sensi del comma 9, le limitazioni del presente comma si applicano anche al risultato negativo, determinabile applicando le regole ordinarie, che si sarebbe generato in modo autonomo in capo ai soggetti che partecipano alla fusione in relazione al periodo che intercorre tra l’inizio del periodo d’imposta e la data antecedente a quella di efficacia giuridica della fusione. Le disposizioni del presente comma si applicano anche agli interessi indeducibili oggetto di riporto in avanti di cui al comma 4 dell’articolo 96”. 12 Dall’elusione fiscale all’abuso del diritto Capitolo I – Divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario italiano - assenza di valide ragioni economiche (la condotta considerata elusiva non deve essere assistita da ragioni economiche o queste, seppur presenti, devono risultare non essenziali, cosicché in mancanza del vantaggio fiscale l’operazione non sarebbe posta in essere dal contribuente); - aggiramento di obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario (la condotta deve differenziarsi dall’operazione economica fisiologica che avrebbe rispettato sia la lettera che la ratio delle norme tributarie applicabili); - sussistenza di un vantaggio fiscale indebito, in quanto risultante dall’aggiramento di obblighi o divieti posti dall’ordinamento fiscale (è appena il caso di evidenziare che, in assenza di un vantaggio fiscale, non ha senso parlare di elusione). Qualora l’Amministrazione finanziaria provi la sussistenza delle suddette condizioni, evidenziando quale sarebbe dovuta essere la condotta fisiologica non elusiva, e il contribuente non riesca a dimostrare la presenza di valide ragioni economiche, i vantaggi fiscali, conseguiti attraverso le condotte di cui sopra, sono disconosciuti mediante l’applicazione delle imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto dei tributi dovuti per effetto del comportamento inopponibile al Fisco. La disciplina di cui all’articolo 37 bis del D.P.R. n. 600/1973 non integra una clausola generale antielusiva, atteso che è circoscritta all’accertamento delle imposte sui redditi e, in tale ambito, è riferita esclusivamente alle condotte che comprendono una o più delle seguenti fattispecie: - - - “trasformazioni, fusioni, scissioni, liquidazioni volontarie e distribuzioni ai soci di somme prelevate da voci del patrimonio netto diverse da quelle formate con utili”; “conferimenti in società, nonché negozi aventi ad oggetto il trasferimento o il godimento di aziende”; “cessioni di crediti”; “cessioni di eccedenze d’imposta”; “operazioni di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 544, recante disposizioni per l’adeguamento alle direttive comunitarie relative al regime fiscale di fusioni, scissioni, conferimenti d’attivo e scambi di azioni, nonché il trasferimento della residenza fiscale all’estero da parte di una società”; “operazioni, da chiunque effettuate, incluse le valutazioni e le classificazioni di bilancio, aventi ad oggetto i beni e i rapporti di cui all’articolo 81, comma 1, lettere da c) a c-quinquies), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917”; “cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate tra i soggetti ammessi al regime della tassazione di gruppo di cui all’articolo 117 del testo unico delle imposte sui redditi”; Dall’elusione fiscale all’abuso del diritto 13 Capitolo I – Divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario italiano - - “pagamenti di interessi e canoni di cui all’art. 26 quater [del D.P.R. n. 600/1973], qualora detti pagamenti siano effettuati a soggetti controllati direttamente o indirettamente da uno o più soggetti non residenti in uno Stato dell’Unione europea”; “pattuizioni intercorse tra società controllate e collegate ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile, una delle quali avente sede legale in uno degli Stati o nei territori a regime fiscale privilegiato, individuati ai sensi dell’articolo 167, comma 4, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, aventi ad oggetto il pagamento di somme a titolo di clausola penale, multa, caparra confirmatoria o penitenziale”. Attesa la maggiore aleatorietà della pretesa impositiva in caso di accertamento antielusivo, il citato articolo 37 bis ha previsto specifiche garanzie per il contribuente. Innanzi tutto, in fase di accertamento, è previsto, a pena di nullità, che l’atto impositivo possa essere emanato solo previa richiesta al contribuente di chiarimenti in ordine alla condotta contestata. La richiesta deve indicare i motivi per i quali l’Amministrazione finanziaria ritiene applicabili le disposizioni antielusive di cui all’articolo 37 bis e il contribuente, entro sessanta giorni dalla ricezione della medesima, deve fornire per iscritto i propri chiarimenti, che sostanzialmente attengono alle valide ragioni economiche dell’operazione. Nell’accertamento antielusivo, dunque, il contraddittorio è obbligatorio. Inoltre, l’avviso di accertamento deve essere specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alle giustificazioni del contribuente (qualora siano fornite). Un’ulteriore garanzia attiene alla fase della riscossione, poiché le imposte o le maggiori imposte accertate sono iscritte a ruolo, secondo i criteri di cui all’articolo 68 del D.Lgs. n. 546/1992, concernente il pagamento dei tributi e delle sanzioni pecuniarie in pendenza di giudizio, unitamente ai relativi interessi, solo dopo la sentenza della Commissione tributaria provinciale. Da ultimo, il settimo comma dell’articolo 37 bis prevede che i soggetti diversi da quelli cui siano state applicate le disposizioni antielusive in parola possano richiedere il rimborso delle imposte pagate a seguito dei comportamenti disconosciuti dall’Amministrazione finanziaria. A tale scopo, essi possono proporre, entro un anno dal giorno in cui l’accertamento è divenuto definitivo o è stato definito mediante adesione o conciliazione giudiziale, istanza di rimborso nei limiti dell’imposta e degli interessi effettivamente riscossi a seguito di tali procedure. Sempre in materia di accertamento delle imposte sui redditi, un’altra norma antielusiva di notevole importanza è costituita dall’articolo 37, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973, che tratta il caso dell’interposizione nella tito14 Dall’elusione fiscale all’abuso del diritto Capitolo I – Divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario italiano larità dei redditi14. In particolare, in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiano titolari altri soggetti, quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne sia l’effettivo possessore per interposta persona. Al fine di evitare fenomeni di doppia imposizione, il comma 4 del citato articolo 37 prevede che i soggetti interposti, che provino di aver pagato le imposte in relazione a redditi successivamente imputati in sede di accertamento ad altro contribuente, possono chiederne il rimborso. L’Amministrazione finanziaria procede alla restituzione dopo che l’accertamento nei confronti del soggetto interponente sia divenuto definitivo e, comunque, in misura non superiore all’imposta effettivamente percepita a seguito di tale procedimento impositivo. Per completezza di trattazione, parlando di norme espressamente antielusive, occorre citare l’articolo 20 del D.P.R. n. 131/1986, che, in materia di imposta di registro, disciplina la riqualificazione degli atti e dei negozi giuridici. Detta norma prevede che l’imposta di registro debba essere applicata secondo la natura intrinseca e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrispondano il titolo o la forma apparente. Si tratta di una disposizione di notevole rilevanza, in quanto, consentendo all’Amministrazione finanziaria di superare il dato formale dell’atto presentato a registrazione, permette di contrastare potenziali fenomeni elusivi nello specifico settore impositivo. Essa, seppur avente un ambito di applicazione limitato al tributo cui si riferisce, può essere considerata, a tutti gli effetti, una sorta di “archetipo” di clausola generale antielusiva, poiché attribuisce copertura normativa allo strumento antielusivo (potenzialmente generale) della riqualificazione a fini tributari degli atti e dei negozi giuridici. 4. Gli interpelli in materia elusiva L’interpello consiste in una forma di dialogo tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria positivamente regolata. Nel nostro ordinamento tributario l’istituto in parola non è disciplinato in modo organico e, sostanzialmente, può essere ricondotto a quattro tipologie, ovverosia: (segue) 14 Militano a favore della natura antielusiva dell’articolo 37, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 le circostanze secondo cui detta disposizione: - è idonea a contrastare i fenomeni antifiscali incardinati sull’interposizione - sia reale che fittizia - nella titolarità di un reddito; - è stata inserita dal legislatore tra le norme in relazione alle quali, ai sensi dell’articolo 21 della L. n. 413/1991, è ammesso l’interpello speciale antielusivo. Dall’elusione fiscale all’abuso del diritto 15