Saggi FABIO CLETO DIECI PICCOLI ATTORI, ALTRETTANTI PICCOLI TEATRI I n apertura di Dieci piccoli indiani, il classico di Agatha Christie, dieci estranei in focalizzazione sequenziale raggiungono una misteriosa villa – non un luogo sinistro dalle tinte gotiche di genere ma, al contrario, “la quintessenza della modernità” –1 su una piccola isola deserta al largo della costa del Devon, una roccia nuda “vagamente simile a una gigantesca testa di negro” (DPI, 20) la cui proprietà è stata nelle settimane precedenti “l’argomento del giorno” (DPI, 4) a seguito di un altrettanto misterioso invito. Le insinuazioni dei giornali alimentano l’interrogativo addensato tanto su Nigger Island quanto sul suo proprietario, il cui ‘effettivo’ nome (U. N. Owen), una volta ricostruito dagli ospiti confrontando i diversi inviti, designa un’identità indeterminata (unknown) e con questa il ruolo di inquietante ‘presenza assente’ che assumerà nella vicenda di cui l’isola è teatro. Una vicenda che elegge l’isola a cifra di un mistero in cui si intrecciano gli interrogativi posti da dinamica degli eventi, colpevolezza, movente, consegnando Nigger Island al ruolo di “argomento” non più semplicemente “del giorno”.2 La vicenda stessa – complici le versioni cinematografiche del romanzo – è nota. Gli ospiti si recano sull’isola con un bagaglio di differenti motivazioni, storie, segreti. Ma oltre agli spettri del passato, i dieci ospiti mettono in gioco dieci identità come ruoli – avventuriero, giudice, medico, militare, playboy, investigatore, insegnante, zitella, domestico: ruoli sociali e narrativi prima ancora che elementi di caratterizzazione – che, irretiti nella doppia trama (in quella di chi li ha invitati, e in quella relazionale, che trasforma dieci estranei in un dramma collettivo) riceveranno il copione della vicenda che si apprestano a mettere in scena sotto forma di una filastrocca per bambini appesa nelle camere da letto, una filastrocca che riporta gli ospiti alla propria infanzia, e il cui significato (ossia, il ruolo di ciascuno nel copione) si disvelerà con il procedere degli eventi: “Dieci poveri negretti / se ne andarono a mangiar: / uno fece indigestione, / solo nove ne restar. […] Solo il povero negretto / in un bosco se ne andò: / ad un pino si impiccò, / e nessuno ne restò” (DPI, 26-27). L’isolamento e reclusione su loro stessi di spazio abitativo, scena del delitto e azione investigativa (topos del poliziesco ‘domestico’, claustrofobico, di Agatha Christie), immerge i personaggi in un campo di totale visibilità, che assoggetta il loro privato a una dimensione comunitaria di pervasivo sospetto, li coinvolge in un diffuso esercizio giudiziale, e li rende contemporaneamente imputati e giurati. L’azione, e l’intreccio di indagine, confessione e giudizio in una variazione costante della giuria, che si scompone e ricompone in base alle diverse ipotesi d’identità e colpevolezza, sono in tal senso 145 FABIO CLETO una diretta conseguenza dell’entrata in scena della Voce, “improvvisa, inumana, penetrante” (DPI, 35), che chiama alla sbarra gli ospiti (“Signore e signori! Prego, silenzio!”) ed elenca, puntuale e inesorabile, i capi d’imputazione. La narrativa di detection ed esecuzione della sentenza, sul filo rosso della morte che uno dopo l’altro prende a sé gli ospiti, è imperniata sullo svelamento del segreto che ciascuno custodisce, quel segreto che li ha eletti a personaggi, meccanismi narrativi, elementi interni alla trama di Dieci piccoli indiani. Nell’autunno del 2000, dieci estranei, sconosciuti alla scena televisiva, sono selezionati a partecipare, entrando nella ‘casa blindata’ messa in scena a Cinecittà, a Grande Fratello, la versione italiana di un format che andava riscuotendo un clamoroso successo, oltre che in Olanda, dove era stato inizialmente prodotto con valenze di ‘esperimento sociale’, in Spagna, Germania, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Danimarca, Svezia, Norvegia, Portogallo, Polonia e Svizzera. L’Europa premiava insomma, e in misura sorprendente, il format olandese, dopo che negli Stati Uniti Big Brother aveva registrato un clamoroso fallimento, in parte dettato dalla concorrenza di un altro format, Survivor, in cui sedici estranei si confrontavano, analogamente, per la ‘sopravvivenza’ su un’isola deserta (trasformata per l’occasione in una sorta di villaggio vacanze).3 Il parallelo con il romanzo della Christie indica una base ‘letteraria’ di Grande Fratello ben più complessa di quanto emerga dal riferimento orwelliano, del resto in buona sostanza obnubilato nella ‘traduzione’ del totalitarismo scopico di 1984 in un programma di – letteralmente – intrattenimento. Il richiamo a Orwell, a dispetto dell’evidenza del titolo, non legittima infatti una chiave derivativa del format dal romanzo: l’espressione big brother è in effetti entrata nell’uso comune, a prescindere dunque dalla sua fonte letteraria, di cui verosimilmente tanto il grande pubblico quanto gli stessi ‘ospiti’ erano all’oscuro. Il legame fra Dieci piccoli indiani da un lato, 1984 dall’altro, e Grande Fratello come luogo di ‘sintesi’ delle due narrative, è radicale: la ragion d’essere del trait d’union fra un romanzo popolare del 1939, la celebre distopia orwelliana pubblicata nel 1949, e un format televisivo del 2000, fra epoche testi e media differenti, è rappresentato infatti da altre due forme di scrittura, da altre due ‘epoche’: da un progetto di riforma del sistema penitenziario pubblicato in sordina nel 1791 e a lungo ignorato, e da un saggio sui dispositivi di disciplina scopica che delineava i fondamenti per un’indagine del nesso potere/sapere, apparso nel 1975, il quale indicava nel progetto stesso un cardine – o, se si preferisce, la ‘quintessenza’ – della Modernità. 1. Una riflessione ‘critica’ su Grande Fratello richiede in questa sede una doppia premessa. Anzitutto, è necessario liberare il campo da considerazioni estetiche e morali (non interessa qui sostenere una dignità del programma su tali piani; una difesa sul piano estetico richiederebbe infatti in chi scrive – eufemisticamente – uno straordinario ardire, che è preferibile riservare a migliori cause; d’altro canto, non ci si prefigge di 146 Saggi assumere posizione in merito all’avvilimento dell’individuo e al valore di indice di patologie sociali, quali il voyeurismo di massa, che molti hanno ascritto a Grande Fratello – sebbene, si sosterrà, i meccanismi di ‘assoggettamento’ e ‘voyeurismo di massa’ vi siano messi in gioco in chiave ben più complessa di quanto si sia riconosciuto). Non interessa, in altri termini, partecipare – se non altro, acriticamente – alla produzione di discorso su Grande Fratello in cui apologie, perplessità e condanne, pur senza raggiungere la mobilitazione prodottasi nel maggio 2001 in Francia, hanno contribuito a crearne la dimensione di ‘evento’ (tanto da essere chiaramente contemplate in fase produttiva). 4 Questa prima premessa vuole in altri termini sospendere strategicamente questi piani d’interesse, non negarne legittimità o persistenza; d’altro canto, non si nasconde che il motore di questa riflessione, e della ‘osservazione partecipante’ che ha implicato, sia stato proprio l’interrogativo (con il suo portato di normatività etica ed estetica) posto dallo straordinario clamore prodotto, e riscontro di pubblico conseguito, da un programma i cui contenuti narrativi e spettacolari, nel concreto, erano a dir poco risibili. Si trattava dunque di verificare come funzionasse, quale fosse la logica del fenomeno GF. E in tal senso si impone una seconda premessa, volta a delineare un’ambiguità e un fraintendimento su cui si fonda del resto il funzionamento di GF come ‘macchina di successo’. (i) Grande Fratello non ha nulla a che spartire con la realtà. A dispetto della sua comune categorizzazione, non si tratta di un prodotto a pieno titolo riconducibile al genere della reality TV, cui appartengono programmi come fra i molti Real TV, Chi l’ha visto?, Forum, Un giorno in Pretura, Stranamore, Amici, C’è posta per te e i vari psicodrammi familiar-relazionali che ci ha inflitto negli ultimi anni l’associazione a delinquere – sia pur, pare, solo esteticamente – De Filippi & Costanzo.5 Grande Fratello non appartiene, altrimenti detto, alla televisione che stabilisce un patto (del resto in chiave assolutamente finzionale) con lo spettatore offrendosi quale luogo di ‘documentazione’ di un livello di realtà – la quotidianità, l’ordinario, il proche – che non trova accesso ai telegiornali, un patto che caratterizza anche due esperienze di diverso riscontro, spesso indicate come antesignane di Grande Fratello, quali Davvero (fallimentare programma realizzato da Giovanni Minoli per Raidue nel 1995) e quel Real World giunto ormai al decimo anno di programmazione su MTV. Né il programma è assimilabile, aproblematicamente, alla ratio di film recenti quali Ed TV (dir. Ron Howard, 1999), The Truman Show (dir. Peter Weir, 1998), o Pleasantville (dir. Gary Ross, 1998), i quali si fondavano su una messa in scena della vita ‘reale’, in cui gli oggetti della passione voyeuristica si muovevano ‘senza copione’, o meglio privi di consapevolezza del ‘gioco’ di cui erano protagonisti, e su una netta cesura fra ‘interno’ ed ‘esterno’ che – nella condanna dell’onnivoracità massmediale – salvaguardava il confine fra realtà e finzione, e con esso la possibilità di abbandonare la pseudorealtà televisiva per riconquistare un’esistenza ‘normale’.6 Anche a uno sguardo ingenuo risultava evidente l’inadeguatezza mimetica della Casa di Grande Fratello, così come la qualità ‘naturalmente’ recitativa della partecipazione, che 147 FABIO CLETO escludeva la possibilità stessa di ‘spontaneità’ nei suoi ‘dieci piccoli attori’, ai quali, come si vedrà, non è dato affrancarsi dalla sfera del finzionale anche dopo l’abbandono della Casa. La categoria televisiva ‘tradizionale’ che in tal senso meglio si attaglia al programma, più di reality TV, è probabilmente la sit-com (un modello è del resto, evidentemente, il popolarissimo Friends) o la soap opera.7 Il GF, insomma, proprio nella sua forma di real soap o docu-soap, non ospita la realtà ‘reale’ bensì una realtà radicalmente televisiva; il GF come finzione al grado secondo, metatelevisione che nella propria artificiosità esibita si consegna a una messa in crisi del genere cui è stato, in larga misura, ricondotto. Nessuna ‘spontaneità’, nessuna ‘autenticità’ possibili, poiché troppo forte era l’intervento di sceneggiatura. Sceneggiatura esplicita non solo attraverso l’intervento di editing e montaggio narrativo che imponeva la messa in onda televisiva su Mediaset, in strisce quotidiane,8 ma anche attraverso le direttive, i giochi, le prove, l’inibizione o amministrazione della microritualità quotidiana cui erano sottoposti gli ospiti da parte della voce anonima del “Grande Fratello”, e che sanciva la macroscopica distanza fra Casa e Realtà. Ma anche, sceneggiatura implicita attraverso la composizione selettiva (il casting) del gruppo – intervento questo particolarmente evidente in Survivor, che prevedeva la rivalità fra due gruppi (le “tribù”) di cui fin dallo sbarco sull’isola si riconoscevano i tratti distintivi, ossia la natura competitiva dell’uno e collaborativa dell’altro. Sceneggiatura implicita anche quella che emergeva dall’impiego di dispositivi tecnici come ad esempio il calore torrido dei riflettori, volto – oltre che a consentire la pressoché totale visibilità di spazi e corpi – a tenere sotto pressione gli ospiti (promuovendone reattività e contrasti, significativo oggetto di curiosità spettatoriale). O ancora, dal filtro esercitato sulla comunicazione fra Casa e mondo esterno: la regia monitorava e pilotava infatti l’intercapedine comunicativa fra Mondo e Casa in entrambe le direzioni, autorizzando sporadici incontri con amici e parenti, selezionando l’inquadratura di determinate aree abitative, e orientando ‘narrativamente’ le telecamere. Non si trattava evidentemente di sceneggiature univoche, organiche (l’intercapedine fra Mondo e Casa rappresenta un complesso agone in cui si confrontavano in prima istanza gli orientamenti di Stream e Mediaset, con il loro diverso portato di interessi politico-economici, pubblico e natura – pay-TV vs. televisione generalista, e pure sotto elezioni) o interamente predeterminate; era al contrario una sceneggiatura molteplice e in fieri, anche in questo senso assimilabile alle soap il cui copione si sviluppa negli anni con un affastellarsi di sceneggiatori, che operano in accordo a risposta del pubblico, a negoziazioni con gli attori (che variano nel tempo il proprio ‘valore di mercato’, la propria ‘immagine’, la relazione con pubblico, programma e ‘storia’), alle ragioni più svariate di produzione. (ii) In effetti, pur non avendo nulla da spartire con la realtà ‘reale’, Grande Fratello è però parte significativa della ‘realtà’ che abitiamo come soggetti sociali. Si tratta da un lato, è fin ovvio, di una pertinenza metonimica: GF è innegabilmente una significativa parte della realtà di produzione e consumo televisivi, in quanto programma di 148 Saggi straordinario impatto sociale, il quale nella convergenza mediale che ne ha costituito la natura (televisione generalista, pay-TV, televideo, internet, editoria cartacea, telefonia fissa e mobile i diversi canali coinvolti in via diretta e indiretta) costituisce uno spartiacque nella storia dei media. GF è riuscito infatti a restituire la televisione al ruolo di fattore decisivo di aggregazione discorsiva e sociale; sia pur per dar voce a spregio o incomprensione, è difficile pensare che qualcuno non abbia espresso almeno un’opinione in merito.9 Ma soprattutto, Grande Fratello si offre quale luogo metaforico della nostra realtà di produzione in quanto s/oggetti, di cui è – lo vedremo – una sorta di messa in scena in versione fast food. Le ragioni per cui Grande Fratello è parte metaforica della nostra quotidianità emergono da un’analisi della sua struttura formale, un gioco di scatole cinesi, e sono le medesime per cui un prodotto così artificiosamente investito – in via di ‘esperimento sociale’ – nella costruzione di celebrità (si tratta di una macchina di successo, appunto), un prodotto centrato sulla costituzione in regime di spettacolo della individualità/ interiorità, trova la propria ragion d’essere nella logica di rispecchiamento (identificazione, proiezione, assimilazione, modellizzazione di ruolo) che presiede alla fenomenologia della stardom.10 Si tratta in buona sostanza, per determinare il rapporto che Grande Fratello intrattiene con la realtà delineandone al contempo la ‘operatività’, di definire la qualità metaforica che lo investe, e le modalità del rispecchiamento che pone in atto. Un rispecchiamento nient’affatto diretto, come emergeva dalla distanza fra Casa e Realtà (GF non è insomma specchio del mondo): si tratta al contrario di una rifrazione di specchi, di una specularità ‘a incastro’ – o in altri termini, mediata. Fra Casa del Grande Fratello e Casa dello Spettatore, fra i contenitori che intrattengono al contempo ospiti e spettatori in una rete scopica, esistono infatti altre due ‘scatole’ che contribuiscono al prodotto – lo spettacolo e i suoi dieci piccoli protagonisti, le nuove celebrità – definendone la natura relazionale con la complessa ‘macchina di successo’ di cui GF è a sua volta, si vedrà a breve, un tassello. La produzione di spettacolo, o se si preferisce la riflessione metatelevisiva, che GF mette in scena – lo schema fa riferimento alle puntate di gran lunga più seguite, quelle settimanali in cui si annunciavano le “nominations” e le esclusioni – può essere così schematizzata in un’architettura di mise en abyme dello spettacolo: Scatola I: la Casa (spettacolo dell’intimità). Il microcosmo mediale di Grande Fratello si organizza in un’economia della scena, degli ospiti e delle loro microrelazioni, attraverso gli spazi domestici quali luoghi di sceneggiatura (la sala da pranzo luogo della socialità, le camere luogo della confidenza, il giardino luogo della ‘evasione’, e cassa di risonanza del brusio del ‘mondo’). Orientate da altrettanti invisibili operatori a loro volta coordinati da uno stuolo di registi, trenta telecamere per dieci personaggi (ruoli, identità, storie) che si intrecciano in un lavorio di costante scrittura, di sospetto, passioni, gelosie, alleanze e rivalità, doppi giochi, esclusioni e chiarimenti, secondo ‘tipiche’ modalità di relazione di gruppo, concentrate temporalmente dall’isolamento 149 FABIO CLETO (GF insomma, direbbe Quentin Tarantino, come versione ketchup dell’esperienza sociale). Epitome della Scatola I, al suo centro architettonico e simbolico, con le pareti rosso sangue che ne evidenziano la valenza metaforica di ‘cuore’ pulsante della Casa, il Confessionale, sorta di contenitore a grado zero dell’intimità individuale che si offre in permanente ‘intervista’, luogo principe d’incastro con le altre ‘scatole’ e – con metafora uterina – di produzione della celebrità, in cui l’ospite ‘mette a nudo’ il proprio ‘carattere’, assume posizione relazionale con le nominations, e definisce la propria identità ‘domestica’ attraverso il cordone ombelicale con il “Grande Fratello”. Il Confessionale svolge in tal senso la funzione assunta dal narratore in terza persona di Dieci piccoli indiani, che ci introduce ai pensieri – privati e tuttavia necessariamente avvolti da un esercizio di scrittura finzionale, o sceneggiatura, del sé – dei dieci personaggi, 11 rispondendo alle istanze di ‘autenticità negoziata’ e ‘costruzione d’intimità con il pubblico’ che presiedono alla ‘autobiografia in fieri’ delle star. Se la partecipazione alle dinamiche relazionali con gli altri ‘piccoli attori’ è evidentemente inscritta in un regime finzionale, il Confessionale – al pari dell’autobiografia – si offrirebbe quale spazio in cui l’attore consegna allo spettatore la propria intima verità, la propria identità autentica (“l’importante è essere se stessi”, e la ‘sincerità’ come parametro di valutazione, gli eloquenti refrains della partecipazione) in chiave ‘totemica’. Ma è chiaro che – anche prescindendo dall’intervento di montaggio che lo investiva al pari dell’esistenza sociale negli spazi ‘pubblici’ – questo spazio privato presuppone a propria volta una sceneggiatura di sé, negoziata sia con i codici di genere ‘autobiografia della star’, sia con il complesso apparato produttivo di stardom.12 Scatola II: lo Studio Televisivo (la produzione). L’accesso alla Casa del Grande Fratello era puntualmente inquadrato – aperto e chiuso – da un secondo contenitore, lo studio televisivo, che ne duplicava strutturalmente operatività e ruoli. In studio, Daria Bignardi (il cui nome apre un gioco di specularità con l’undicesimo ospite, un cucciolo di labrador battezzato dagli ospiti “Daria” come segno – si potrebbe ipotizzare – di ingenerosa valutazione delle sue capacità professionali).13 Spazio esterno, quello dei collegamenti con Marco Liorni, che opera da canale fisico di trasmissione fra Studio e Casa. Ai due conduttori si affiancano, in questa seconda cornice, le presenze occulte (regia, operatori, tecnici luci e audio, ecc.), che mettono in gioco altri due piani di sceneggiatura, quello della “settimana del nominato” (una sintesi narrativa di come il candidato all’esclusione aveva affrontato la ‘giuria popolare’), e quello offerto dal pubblico in studio, un pubblico generico nel quale si stagliano gli ‘ospiti’ (amici e parenti, che forniscono elementi di sfondo per l’interpretazione dei diversi ‘casi’). Il pubblico in studio assume così da un lato il ruolo di testimonianza, e dall’altro quello di confessore, di accusa e difesa, in un dibattito giudiziale su ruolo, motivazioni, ‘autenticità’, identità dei personaggi, che corrisponde a un affastellarsi di storie in competizione. Una dinamica, questa, che rispecchia il tribunale interno alla Casa, e 150 Saggi opera come cassa di risonanza nella produzione del personaggio di cui la Casa sembra origine, motore, teatro. Scatola III: l’Altra Casa (l’indotto). Lo si è accennato: Grande Fratello costituisce uno spartiacque nella storia mediale attraverso quel principio di convergenza che ha restituito alla televisione il ruolo di catalizzatore dei discorsi sociali. Si tratta della convergenza nella produzione di GF fra siti web, telefonia fissa e mobile, editoria cartacea, media che ne hanno composto in intreccio la natura beneficiando peraltro di GF come ‘traino’ di consumo.14 Ma lo studio televisivo risultava inquadrato, allo spettatore, da un’ulteriore cornice, quell’indotto mediale che – più di un paratesto, parte integrante del ‘testo’ – rappresenta un elemento decisivo nella ‘catena di montaggio’ di GF. Chi è stato risparmiato da una diretta fruizione di Grande Fratello (ossia alle prime due ‘scatole’) non è scampato alla terza scatola, ossia alla compenetrazione fra GF e lo stuolo di programmi televisivi che a esso si sono agganciati ospitando gli esclusi dalla Casa, discutendone, parodiandolo, ecc.15 Non si tratta di un ‘normale’ aggancio, o incastro, inerente alla eco del programma e alla improvvisa notorietà dei suoi protagonisti, testimoniata dai programmi televisivi che hanno offerto spazio al ‘caso GF’, dalle copertine e numerosi servizi che i periodici popolari hanno dedicato ai protagonisti della Scatola I (e a margine, della II), o al proliferare di siti web consacrati ai nuovi oggetti di idolatria. Senz’altro il caso GF è in questo senso riconducibile alla fenomenologia delle star, e in chiave – anche qui – ‘condensata’. A loro volta, infatti, gli snodi che compongono questa ragnatela sono coinvolti in quanto si è sopra chiamato un ‘esercizio di sceneggiatura’, ridistribuendo i ruoli compresi dalla nozione di audience (amico, confidente, giudice: in una parola, confessore) nella scrittura di Grande Fratello, e nella produzione tanto del programma quanto dei suoi ‘protagonisti’. La natura pubblicitaria e commerciale di questa terza cornice inquadra specularmente la natura delle prime due, e dei piani di sceneggiatura che implicano. Epitome di questa Scatola III, quella definita nella Scatola II attraverso il “collegamento all’Altra Casa”, uno spot narrativo e a ‘puntate’ che metteva in scena un gruppo di ragazzi mimeticamente confinati in uno spazio domestico, dedicato alla pubblicità di prodotti di consumo fra cui Netsystem (ossia uno dei media coinvolti in via diretta; altrimenti detto: fra cui Grande Fratello). Il rapporto speculare fra prima e seconda cornice trova insomma un ulteriore rispecchiamento con il terzo contenitore dell’Altra Casa, la ‘ragione commerciale’, pubblicitaria, che comprende entrambe.16 Scatola IV: la Casa dello Spettatore (la ‘realtà’). La sconcertante pochezza di GF ‘in sé’ non può essere scissa dalla sua operatività come motore discorsivo, che trova la piena realizzazione nella quarta ‘scatola’, un’ulteriore spazio domestico, l’abitazione dello spettatore, intrattenuto dalla ‘scatola’ televisiva: dallo spettacolo dei primi tre contenitori. La specularità messa in gioco da GF è in tal senso una rifrazione di specchi, nella quale lo spettatore si ‘ritrova’, irretito nel gioco di identificazione e proiezione che Edgar Morin ha esemplarmente illustrato nel suo ormai classico studio sulle star 151 FABIO CLETO hollywoodiane.17 La quarta cornice, nel suo rispecchiamento multiplo con le prime tre, è teatro delle modalità fruitive cui invita la macchina di produzione di GF. Si tratta cioè di una fruizione collettiva, sociale (uno sguardo isolato, ad un tempo con considerazioni suicidali, produce nello spettatore la sensazione di radicale assenza di senso in ciò che vede, in ciò che sta facendo), e per così dire pettegola. Questo è lo spazio in cui si gioca infatti una specularità fra discorso nella Casa e discorso sulla Casa, come specularità fra teatri giudiziali: tanto nella Casa del Grande Fratello quanto in quella dello Spettatore non si parlava d’altro che di nominations, trame e intrighi, dibattendo sul ‘carattere’ degli ospiti, esprimendo giudizi, epiteti e ipotesi, sceneggiando microstorie, relazioni e significati, sul programma e sui suoi personaggi. Allo spettatore, che aveva fra l’altro facoltà – sia su Stream sia in internet (Jumpy e Netsystem) – di scegliere fra le diverse web cams, veniva chiesto non solo di esprimersi con il televoto per l’esclusione dal microcosmo domestico, ma anche di esprimere il proprio gradimento dei vari ospiti in una classifica di popolarità ratificata oltre che, ovviamente, in via indiretta con l’indice Auditel, in via diretta sui siti di GF e del Corriere della Sera. Per quanto demente, la fruizione di GF era insomma un esercizio attivo, con lo Spettatore a propria volta nelle parti di regista, operatore, sceneggiatore, ‘amico’, confidente e giudice (in sintesi, di nuovo, confessore), che si poteva identificare con i personaggi coinvolti nell’apparato confessionale di GF, attraverso la rifrazione di specchi della Scatola II e III. Il cerchio di identificazione e proiezione, lo vedremo, si chiude con l’esercitarsi mimeticamente dello Spettatore nelle vesti, a sua volta, di ulteriore ‘piccolo attore’, confessato e confessore, detentore e detenuto del potere scopico. In definitiva Grande Fratello opera, complessivamente, come macchina il cui oggetto di produzione è la parola, l’esistenza discorsiva della celebrità – definita da Daniel Boorstin, con formula che si attaglia perfettamente tanto al format quanto ai suoi personaggi, “a person who is known for his well-knownness” –,18 ovvero un motore di successo in quanto trama (o ‘ragnatela’) di star, ‘addetti ai lavori’, personaggi, spettatori, fans. La ‘macchina di successo’ di Grande Fratello, e l’apparato d’identificazione su cui si fonda, consiste nella propria portata traumatica (la separazione dal mondo, la sospensione dell’esistenza nella Casa, la moltiplicazione psichica ed emotiva di convivenza con tedio e sguardi intrusivi) in un percorso iniziatico degli ospiti attraverso i diversi contenitori: dalla Casa, allo Studio, all’Altra Casa, e da qui alla ‘realtà’.19 Un percorso praticato sia nel ‘consumo’ spettatoriale del programma (lo spettacolo dell’intimità era offerto attraverso la mediazione dei contenitori intermedi), sia all’uscita dalla Casa, quando gli ospiti erano condotti nello spazio circostante la casa, un enorme set televisivo popolato di fans, e da qui in auto allo Studio, prima di essere incorporati da una ‘realtà’ inesorabilmente segnata dallo spettacolo. L’esistenza al di fuori della Casa coincide per gli ospiti con l’esito dell’esistenza formativa all’interno della Casa come dimensione liminare, e con la maschera – il personaggio – che essa ha 152 Saggi creato attraverso una ‘partecipazione disciplinata’: in altri termini, con una naturalizzazione dello sguardo di controllo.20 L’illusione della vita ‘reale’ degli ospiti, e il particolarissimo accesso alla loro intima verità, quella del Confessionale, producono dei personaggi – rispettivamente, in alternativa al nome proprio significativamente privo di patronimico (“Cristina, Pietro, Marina, ecc. del Grande Fratello”), segnalati da un ‘nome d’arte’: il “gladiatore”, la “gattamorta”, la ‘bagnina’, la ‘nobildonna’, l’“ottusangolo”, il ‘pizzaiolo’, l’“ambiguo”, il ‘macellaio’, la ‘pittrice’, l’‘estetista’.21 Il processo di identificazione-proiezione fra le ‘scatole’ apparentemente più vicine – la I, lo ‘spettacolo dell’intimità’, e IV, la ‘realtà’ – ma in effetti mediato dalle Scatole II e III, che orientano le microstorie e l’investimento passionale in una triangolazione girardiana del desiderio,22 delinea il rispecchiamento fra Personaggio-Icona e Spettatore in accordo a una chiave ‘formativa’ che sussume lo spettacolo di Grande Fratello come apparato di produzione dell’individualità (nella Scatola I, e di qui nella Scatola IV che vi si rispecchia e ‘ritrova’). Con la sua produzione seriale di icone popolari, GF si offre come ‘supermercato’ di role model: “non fare la Marina”, “è un Taricone”, erano le frasi di uso corrente riportate con autocompiacimento, nel dicembre 2000 sulle pagine de l’Espresso, dalla giornalista Barbara Palombelli (responsabile della produzione di GF per Stream, la quale dimostrava una ruffiana apertura a – e prossimità con – l’esperienza adolescenziale nel giustificare il proprio coinvolgimento); in questi nomi, maschere, personaggi, si nasconde una trama, una storia, un senso, o in altri termini un campo di possibilità esistentiva. Ruolo ideologico di Grande Fratello, certo, che si coagula in un duplice piano: da un lato, il repertorio di stereotipi consegnatoci, un repertorio di modelli di ruolo avvilente oltre che normativo; dall’altro, la promozione dell’individualismo (si trattava di un microcosmo relazionale di competizione fra individualità, una sola delle quali era destinata a trionfare, uscendo ‘spontaneamente’ dalla Casa – si confronti il suicidio conclusivo in Ten Little Niggers – dopo essersi sbarazzata dell’ultimo tra i ‘piccoli indiani’ che ne avevano condiviso la reclusione).23 Ma un’analisi dell’ideologia individualista messa in gioco da GF non si esaurisce in questa fin troppo ovvia constatazione di agonismo della quotidianità, e di ‘un solo vincitore’: al contrario, l’ideologia dell’individualità che ne emerge è ben più complessa, e trova la propria ragione ultima nell’intersezione di fluidità liminare, isolamento, pervasività scopica, in un teatro del giudizio la cui violenza si cela nelle maglie della ‘normalità’. La specularità fra discorso nella e sulla Casa è infatti promossa, lo si è detto, dal suo inscenare in chiave ‘contratta’ le esperienze di relazione di gruppo, e in particolare – volendo – di quelle tardoadolescenziali (anche in virtù della composizione del gruppo, perlopiù di ventenni). Senz’altro la chiave ‘generazionale’ non è del tutto illegittima, date la fluidità che caratterizza lo spazio di GF quale percorso iniziatico, e la particolare diffusione della fenomenologia di stardom e fandom nel pubblico adolescente,24 ma non si tratta – come testimonia il riscontro di pubblico, non vincolato a una specifica fascia di età – della ragione fondamentale né esclusiva; o meglio, è necessario verificare 153 FABIO CLETO perché un pubblico così ampio si sia lasciato coinvolgere in un programma apparentemente declinato in modalità generazionali. Quello messo in atto da GF – la ragione ultima del suo straordinario successo – è infatti uno spettacolo come economia culturale di assoggettamento, e una produzione dell’individuo in forma di ‘voyeurismo di massa’: il modello di GF è, seppure indirettamente, l’architettura scopica totalizzante codificata nel 1791 dal Panopticon di Jeremy Bentham, una “Casa d’Ispezione” eletta da Michel Foucault in Surveiller et punir (1975) a cifra simbolica delle tecniche e tattiche di gestione del corpo sociale nella Modernità.25 3. Il modello foucaultiano di assoggettamento, e la funzionalità al suo interno del progetto benthamiano di riforma del sistema carcerario, va richiamato in questa sede per sottrarlo al riferimento volgare che ne è stato fatto dai commentatori del format in quotidiani, periodici, e interventi ‘critici’. Va richiamato infatti come sfondo necessario a una lettura non frettolosamente analogica, a una lettura cioè delle modalità operative (a livello simbolico) di Grande Fratello, i cui quattro contenitori rappresentano un motore di scrittura – di sceneggiature, o se si preferisce di soggetti, di scritture (in oggettivazione) del sé. Si tratta dunque di inquadrare, pur sommariamente, il microcosmo GF all’interno del portato tassonomico, al contempo individualizzante e categorizzante, che Foucault ascrive a una peculiare forma di potere, di matrice ecclesiastico-monastica ma tradottasi nelle strutture dello stato moderno: quel potere pastorale che “trasforma gli individui in soggetti” e “li marca attraverso la loro propria individualità, li fissa alla loro identità, impone loro una legge di verità che essi devono riconoscere e che gli altri devono riconoscere in loro”. Il potere di “produzione di verità – la verità dell’individuo stesso”.26 Il Panopticon, l’architettura carceraria a base circolare progettata da Bentham cui rimanda Foucault nel delineare l’ordine panoptico del soggetto, mai realizzata, ed eppure simbolicamente centrale al progetto della Modernità, prevede “al centro una torre tagliata da larghe finestre, che si aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che […] hanno due finestre: una verso l’interno, corrispondente alla finestra della torre, l’altra verso l’esterno, che permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte”. Dalla torre si potranno cogliere, “ben stagliate, le piccole silhouettes prigioniere nelle celle della periferia. Tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo, perfettamente individuabile e costantemente visibile” (SP, 218). Dalla Casa d’Ispezione, tanti piccoli attori-detenuti, altrettanti piccoli teatri, in preda al giogo – la soggezione – della visibilità assoluta, costituito dalla dissimmetria scopica che – afferma Bentham – offre un “modo d’ottenere il dominio della mente sopra un’altra mente”, perché è sufficiente che “avendo motivo di credersi sorvegliato, e non avendo i mezzi per assicurarsi il contrario, [si] creda di esserlo” (P, 33, 36). Il Panopticon offre insomma un principio di penalità ‘economica’ (la dissimmetria scopica consente il controllo di una moltitudine di individui, pur in assenza d’Ispettore) e ‘dolce’ (non è necessario punire severamente: l’inesorabilità della 154 Saggi punizione inibirà ogni trasgressione), perché opera attraverso la disciplina individual(izzant)e, un rapporto confessionale fra Sguardo dell’Ispettore e Sorvegliato, e con questi la introiezione del controllo nel carcerato, che risulta così condotto a se conduire all’interno di un regime di governo di sé, di ‘condotta’ – forma questa di iniziazione che si nega, in quanto procedura ed effetto. Il Panopticon come spazio di produzione di beni: i beni prodotti dai detenuti, e i detenuti-come-beni – i soggetti. Il Panopticon benthamiano, che nei propri principi architettonici riformulava la penalità in base a una ‘economia morale’ (si trattava di recuperare a produttività il corpo del condannato, attraverso un’amministrazione del tempo, una rieducazione al consorzio civile, un rapporto ‘economico’ fra investimenti e ricavi) si offre in tal senso a exemplum dell’operatività del potere pastorale di Stato, che non trova più il proprio motore nel volere divino (di cui era garante il monarca), bensì ‘democraticamente’ nella normalità, nella natura umana, nell’Opinione.27 La nuova economia penale è imperniata in una mutazione di scenario, dal teatro del supplizio (nel quale la folla osservava l’espulsione simbolica del reo dal corpo sociale, e la riaffermazione della Legge attraverso lo spettacolo del corpo straziato) al teatro del giudizio. Si tratta insomma di una diversa economia dello sguardo, e di una diversa economia del corpo, il quale assume “posizione di strumento o di intermediario” (SP, 13), sostituito dall’anima quale fuoco dello spettacolo (in una logica di produzione del soggetto utile). Al boia si succedono i detentori dei saperi ‘disciplinari’, al piano legale si affiancano psichiatria, antropologia e criminologia, i giudizi di chi – nello stabilire quale sia la verità del crimine – deve preventivamente stabilire a quale ordine di realtà criminale (“allucinazione, reazione psicotica, episodio delirante, depravazione?”, SP, 22) sia da ricondurre l’anima del criminale. Nel chiedersi chi sia responsabile di un gesto illegale, determinarne il processo causale, ricondurne la causa a istinto, eredità, ambiente. Chiedersi come prevederne e correggerne il comportamento illegale, mettendo in gioco “un insieme di giudizi di valore, diagnostici, prognostici, normativi” (SP, 22). È nell’anima, intesa come ciò che abita il soggetto e “lo conduce all’esistenza”, intesa come “un elemento della signoria che il potere esercita sul corpo”, che si esercitano assoggettamento e funzionalizzazione all’apparato produttivo – con l’anima, insomma, come “prigione del corpo” (SP, 33).28 Tanto il Panopticon quanto il processo giudiziale non sono in tal senso emanazione di una singola fonte di Verità e Legge; al contrario, trovano la propria legittimazione nel reticolo di controllo offerto, con espressione foucaultiana, dalla pubblicità. Si tratta infatti da un lato di rendere pubblici i procedimenti investigativi e giudiziari; dall’altro, di sottoporre l’operato dell’Ispettore stesso a vigilanza da parte di Giudici e Magistrati, responsabili – le parole sono di Bentham – della sua “buona condotta” (P, 54), e di sorvegliare a loro volta Giudici e Magistrati attraverso – di nuovo, Bentham – la “pubblicità”: le porte del panopticon dovranno infatti essere “spalancate alla folla dei curiosi, al grande comitato pubblico del tribunale del mondo” (P, 51). Sarà insomma l’Opinione – il cui ruolo fondativo di una nuova economia penale si definisce a fine 155 FABIO CLETO Settecento – a presiedere il regime di sorveglianza, attraverso il verdetto pronunciato giorno dopo giorno dal “tribunale del mondo”, nei detenuti così come in sotto-ispettori, ispettori e giudici. Quello panoptico è in tal senso un dispositivo che si fonda su una gerarchia diffusa e reticolare, e su una piramide priva di ‘vertice’, poiché – di contro al modello verticale della monarchia – “[il] vertice e gli elementi inferiori della gerarchia sono in rapporto di sostegno e di condizionamento reciproci”.29 Il vertice dell’Opinione è del resto popolato, ‘democraticamente’, da coloro che, in quanto soggetti sociali, sono contemporaneamente ‘sorvegliati’, i detenuti in ‘libertà condizionata’. L’assoggettamento panoptico offre ai membri del corpo sociale, in definitiva, una posizione ad un tempo gerarchicamente superiore e inferiore, e con questa il duplice ruolo di sorvegliati e ispettori.30 Le continuità fra il Panopticon e Grande Fratello sono in tal senso evidenti, addirittura macroscopiche. Le finestre verso l’interno sono sostituite da telecamere, e l’Ispettore da un Regista, che coordina una molteplicità di addetti alla produzione; quelle verso l’esterno, che consentono l’ingresso della luce e l’effetto in silhouette degli attori-detenuti, e che promettono l’esistenza ‘in libertà’ successiva alla riproduzione del carcere, sono sostituite dagli schermi televisivi, che scatenano l’intervento dell’Opinione, dei soggetti in ‘libertà condizionata’. Gli ospiti sono esposti a un regime di pervasiva visibilità, senza poter a loro volta vedere (e giudicare) nulla, se non la propria performance e quella degli altri ospiti in detenzione. Anche in Grande Fratello, l’effetto del potere scopico prescinde dalla presenza umana ai diversi livelli di controllo: non era affatto detto – in particolare nella prima edizione, quando il riscontro di pubblico era interamente da determinarsi – che vi fosse sempre qualcuno intento a guardare lo spettacolo dell’intimità, anche di notte, anche nei momenti di minor tensione scenica.31 È pure in questo caso il principio d’introiezione dello sguardo ispettivo deindividualizzato, o se si preferisce di identificazione con il detentore dello sguardo (la torre), a essere costantemente attivo come dispositivo di ‘condotta’, e a produrre i soggetti-beni, gli attori sociali. Vi è insomma una stretta corrispondenza, e non solo analogica, fra la piramide senza vertice del Panopticon, con la sua produzione di ‘attori’ nei piccoli teatri delle celle, lo spettacolo dell’intimità di Grande Fratello, e il teatro giudiziale di produzione dei ‘personaggi’ criminali (in cui agiva non l’economia spettacolare del supplizio, ma l’economia – altrettanto spettacolare – del sospetto) che presiede a Dieci piccoli indiani, con la loro comune mise en scène della identità relazionale in chiave di ‘confessione’.32 Il processo d’identificazione in personaggi dello spettacolo comporta infatti un doppio processo di assoggettamento: da un lato l’ospite-detenuto che si conforma, in chiave confessionale, a un ruolo-personaggio, a una persona teatrale, identificandosi con il confessore, e dall’altro lo spettatore che lo inquadra attraverso un ruolo (personaggio, character), e che identificandosi con l’icona (stereotipo, role model) mutua dei modelli comportamentali di ‘normalità’, adottati in chiave analogamente confessionale.33 Una metafora della possibilità d’esistenza nella (tarda) Modernità: nella Casa di 156 Saggi Grande Fratello, nelle celle del Panopticon, in scuole, uffici, fabbriche e abitazioni, ogni elemento della piramide priva di vertice, ogni elemento delle quattro cornici (ospiti, operatori, ‘complici’, spettatori) impara (o riapprende) ad assumere il proprio ruolo nell’economia culturale – quello dello spettacolo televisivo, o del consorzio civile, che pure prevede un’esistenza in chiave di ‘spettacolo’ – dove il s/oggetto dello sguardo è l’anima, il ‘carattere’, il ‘condursi’ come attore sociale. Assumono pregnanza, in tal senso, i riferimenti alla ‘prigionia’ che hanno investito le diverse edizioni del format. In Francia, le accese proteste si sono concentrate sul suo essere un ‘carcere dorato’;34 in Spagna, Gran Hermano è stato definito “Telecarcere”; nell’edizione olandese, un concorrente ha lasciato, fra i segni del suo passaggio, una incisione: “to be imprisoned makes you free”. Le ultime giornate di reclusione, nella versione italiana, hanno offerto un raro guizzo di attività cerebrale in una vivace discussione che ha contrapposto l’‘ambiguo’ Rocco, che interpretava la Casa come un carcere, al ginnico Pietro, il quale – con significativa rabbia scomposta – ribatteva che in nessun carcere è dato uscire a propria scelta: la Casa era semmai più “simile a un Valtur”, dove l’ospite può godersi l’esperienza, oppure interromperla in qualsiasi momento, in libertà. (In questo senso, l’interpretazione del “gladiatore” anticipava di qualche mese Survivor, la mise en scène del quale – di un kitsch sublime – richiamava come s’è detto un villaggio vacanze, con la voce elettronica del Grande Fratello sostituita da un ‘animatore’, che scandiva le giornate, assegnava le prove da superare, operava da raccordo narrativo e ‘intratteneva’ così gli ospiti-detenuti, partecipanti e spettatori). Non si tratta solo di rilevare come l’abbandono della Casa – lo si è visto – non consenta il ritorno a un’esistenza incontaminata dalla ‘maschera’ identitaria prodotta nella partecipazione: dalla Casa, in qualche modo, non si esce neppure volendo. La ‘libertà’ di partecipazione, certo, è un fattore decisivo nel definire l’esperienza di Grande Fratello, al pari di quanto investiva la possibilità di raccogliere l’invito a Nigger Island per i protagonisti di Dieci piccoli indiani. Ma nel renderla elemento differenziale fra simili forme di ‘intrattenimento’ e il modello carcerario del Panopticon, si trascura quanto la libertà sia inerente all’assoggettamento foucaultiano. 35 La libertà è precisamente condizione ed effetto della ‘carcerazione permanente’, la ‘libertà condizionata’, che comporta l’esistenza come soggetti sociali (“to be imprisoned makes you free”). Beata ingenuità, quella di sostenere che GF fosse ‘solo’ un villaggio vacanze – dato che quest’ultimo funziona, a sua volta, come un carcere panoptico, al pari di scuole, industrie, case (vale a dire di tutti gli spazi di produzione di forza lavoro, compresi quelli di ‘ricreazione’ e ‘vacanza’).36 Beata ingenuità, si potrebbe aggiungere, pure quella di congedare GF come banale sciocchezzaio, il peggio dell’universo frivolo e bieco della ‘comunicazione’, dato che neppure spazi e identità di riflessione critica, neppure la compiaciuta alterità della ‘cultura popolare’ – università, comunità scientifiche, riviste letterarie – possono dirsi del tutto estranei alla logica che GF pone (tristemente, se si vuole) in atto. 157 FABIO CLETO NOTE 1 Agatha Christie, Ten Little Niggers (London: Collins, 1939), trad. it. di Beata Della Frattina, Dieci piccoli indiani, Milano: Mondadori, 1988, p. 59. La sigla DPI farà riferimento a questa traduzione. 2 “Quando il mare si calmerà, arriveranno dalla terraferma imbarcazioni e gente. E si troveranno dieci cadaveri e un mistero insoluto a Nigger Island” (DPI, 209). Questo l’epilogo del romanzo, della vicenda, e della trama di U. N. Owen, il quale affida la soluzione del mistero a un classico messaggio in una bottiglia, un testamento che svelandone l’effettiva identità ne dimostri ai posteri la genialità criminale. Si potrebbe osservare che tale desiderio di riconoscimento spinga in effetti al fallimento il disegno dell’assassino (il mistero non rimarrà insoluto), rivelandone ragioni e modalità agli inquirenti sia extradiegetici sia intradiegetici (il lettore così come l’opinione pubblica hanno infatti accesso al messaggio, rinvenuto da un peschereccio e trasmesso a Scotland Yard). Questo conflitto fra prerogative del ‘delitto perfetto’ e desiderio di riconoscimento in veste di artista del crimine si ricompone del resto nel rispecchiamento fra la trama dell’assassino e quella di Agatha Christie, riconosciuto ‘maestro del crimine’ grazie a quanto messo in scena su Nigger Island e in Dieci piccoli indiani, che entrambi si consegnano quali ‘argomento’ non immediatamente deperibile (il testamento varrebbe insomma come ‘programma estetico’ metafinzionale realizzato nella popolarità che la trama del romanzo ha conosciuto, e conosce, a oltre sessant’anni dalla sua pubblicazione). 3 Questo pezzo non sarebbe stato neppure ipotizzabile senza il decisivo contributo di Francesca Pasquali, con la quale l’‘analisi’ di Grande Fratello è andata elaborandosi nell’autunno 2000 all’interno di un gioco mimetico (necessariamente di ruolo, ‘citazionale’ e autoironico) di partecipazione spettatoriale all’evento televisivo – oltre che di cooperazione / confronto fra sapere letterario e mediale – di cui questo intervento è l’esito ‘critico’ (benché, va detto, non interamente affrancato dalla maschera fruitiva assunta). Non sottopone pertanto ad analisi l’esperienza della seconda edizione italiana, né le altre edizioni nazionali, territorio questo di una ricerca di stampo più propriamente sociotecnico. 4 Descrivere Grande Fratello come un ‘evento’ significa del resto utilizzare il gergo interno agli studi sulle comunicazioni di massa, oltre che degli ‘addetti ai lavori’; non pare irrilevante registrare peraltro che l’evento GF costituisca un compiuto esempio di pseudo-evento, la cui esistenza è interamente investita nella medialità (esempio principe, l’intervista), nei termini proposti nel classico di Daniel J. Boorstin, The Image, or What Happened to the American Dream, New York: Atheneum, 1962 (seconda edizione apparsa come The Image: A Guide to PseudoEvents in America, New York: Harper & Row, 1964). In tal contesto va notato come a oggi il principale contributo ‘critico’ su GF, articolato sul crinale fra (auto)celebrazione tecnica e analisi sociologica, sia un volume – Alberto Sigismondi e Luigi Bonfante (a cura di), Grande Fratello. Il fascino indiscreto del quotidiano, Milano: LinkInstant, 2000 – prodotto all’interno dell’Area Progetti Mediaset. 5 Sul fenomeno della reality TV in Italia è di utile consultazione Sandra Cavicchioli e Isabella Pezzini, La TV-verità. Da finestra sul mondo a panopticon, Torino: Nuova Eri, 1993. 6 Interessante in merito al genere televisivo-cinematografico in questione, se si sopravvive alla retorica visionaria à la Enrico Ghezzi che ne domina le pagine, è Paolo Taggi, Vite da format. La tv nell’era del Grande Fratello, pubblicato da Editori Riuniti nel novembre 2000 (il cui titolo è da annoverarsi fra gli effetti del successo di Grande Fratello in quanto ‘traino’, del quale il volume non può offrire un’analisi essendo andato a stampa prima della sua messa in onda). 7 Non solo nelle nostre case non siamo costantemente ripresi da una telecamera: in nessuna casa ‘reale’ il canale comunicativo con il mondo è altrettanto vincolato, non potendo ricevere visite o telefonate, leggere giornali, guardare televisione o ascoltare musica di nostra scelta (per non parlare di quanto era espressamente inibito, ossia la lettura di libri, che ‘isolano’ dalla collettività), e ogni momento della quotidianità è amministrato da una voce elettronicamente modificata. 8 Ciò non vale chiaramente per la ininterrotta messa in onda su Stream, Netsystem e Jumpy, il portale internet del gruppo Mediaset, modello della quale è evidentemente la ‘esistenza in web cam’ degli ultimi cinque anni; ma si tratta di una restrizione irrilevante se si considerano gli ulteriori, e più 158 Saggi radicali, piani di ‘sceneggiatura’. 9 Lo ha fatto su un arco di tempo di tre mesi, il che ne caratterizza la differenza rispetto ad altri spettacoli – il Festival di Sanremo o l’elezione di Miss Italia su tutti – che catalizzano l’attenzione collettiva per un periodo ben più limitato (da uno a cinque giorni), o eventi sportivi – Mondiali di calcio, Olimpiadi, ecc. – che sono di volta in volta più concentrati temporalmente, o meno pervasivi nel richiamo della popolazione. 10 Il contributo critico sul divismo è ormai cospicuo, benché lontano – concentrato com’è sullo specifico cinematografico – dall’aver esplorato le complesse diramazioni discorsive del fenomeno. I classici in materia sono a ogni modo Edgar Morin, Les Stars (Paris: Seuil, 1972), trad. it. di Tina Guiducci, Le Star, Milano: Olivares, 1995, e Richard Dyer, Stars, London: British Film Institute, 1979. 11 Le identità private, pensieri e spettri, dei dieci ‘piccoli indiani’ ci giungono infatti attraverso la mediazione del narratore, che li ‘irretisce’ in una maglia finzionale. Si confronti quanto osservato, sul rispecchiamento fra rappresentato e rappresentazione (vicenda nel testo e vicenda del testo), alla nota 2. 12 Oltre ai citati volumi di Edgar Morin e Richard Dyer, sono in merito pertinenti le considerazioni offerte da Ruth Amossy, “Autobiographies of Movie Stars: Presentation of Self and Its Strategies”, Poetics Today, 7:4, 1986, pp. 673-703. 13 Le sue capacità professionali: della conduttrice, oppure del cucciolo. 14 Oltre ovviamente che per i canali direttamente coinvolti nella fruizione del programma, TV (Mediaset, Stream), internet (Jumpy, Netsystem) e il suo parente ‘obsoleto’, televideo (con uno speciale nelle pagine di Mediaset), telefonia fissa (Telecom, per il voto di esclusione dalla Casa), Grande Fratello è stato traino per – e si è avvalso di – telefonia mobile (Omnitel offriva agli abbonati un servizio ‘informativo’ su quanto avveniva nella Casa, Blu aveva un banner campeggiante sul sito di Jumpy, mentre una significativa parte del consumo di GF è passato attraverso il tam tam adolescenziale della messaggeria sms) ed editoria cartacea (con la Rivista Ufficiale del Grande Fratello). 15 In ambito televisivo, si pensi anche solo alla massiccia copertura che ne hanno fornito i notiziari, a quanto la programmazione 2000/01 di Buona Domenica e del Maurizio Costanzo Show abbia attinto a GF per il proprio casting oltre che per i siparietti interni di collegamento alla Casa del Grande Fratello; o ancora, alle parodie che ne hanno fornito Striscia la notizia, il Bagaglino, Quelli che il calcio e soprattutto la Gialappa’s Band con Mai dire Grande Fratello. 16 Non è irrilevante osservare come le strisce pubblicitarie dell’“Altra Casa” fossero giustapposte senza soluzione di continuità alle riprese in Studio, e seguite dallo stacchetto che annunciava, anche graficamente, lo spazio pubblicitario. Ciò le rendeva insomma intercapedine di collegamento, un’intercapedine però interna a GF. 17 Edgar Morin, Le Star, cit., pp. 110-16 e passim. 18 Daniel Boorstin, The Image: A Guide to Pseudo-Events in America, cit., p. 57. Su GF come pseudoevento (di cui i personaggi sarebbero il corrispettivo umano, gli “human pseudo-events”) si confronti la nota 4. 19 In tal senso l’architettura di GF riproduce le basi antropologiche degli ‘eventi mediatici’ quali sono illustrate da Daniel Dayan and Elihu Katz, Media Events: The Live Broadcasting of History (Cambridge: Harvard University Press, 1992), trad. it di Stefania Di Michele, Le grandi cerimonie dei media. La storia in diretta, Bologna: Baskerville, 1993, e in Tamar Liebes and James Curran (eds.), Media, Ritual, and Identity, London: Routledge, 1998. 20 Commentando a posteriori l’esperienza di partecipazione, gli ospiti hanno puntualmente registrato la presenza delle telecamere come intrusiva e straniante in proporzione inversa al numero di settimane passate nella Casa. Ciò non significa, va notato, che l’esposizione allo sguardo – e con essa il condizionamento ‘recitativo’ – fosse diversa fra primi e ultimi giorni di permanenza: semplicemente, era meno percepita, in una naturalizzazione della maschera attoriale assunta. 21 L’uso delle virgolette doppie segnala il carattere discorsivo di queste identità, essendo queste le 159 FABIO CLETO formule utilizzate nella Scatola II e III (e dunque nella IV) per designare gli ospiti distanziandoli dall’identità d’origine; nel caso delle identità segnalate da virgolette singole, si sono messi in atto dei ruoli, delle maschere sociali, già in fase di casting, date le implicazioni ‘caratteriali’ delle professioni. 22 L’ovvio riferimento è a René Girard, Mensonge romantique et vérité romanesque (Paris: Grasset, 1961), trad. it. di Leonardo Verdi Vighetti, Menzogna romantica e verità romanzesca, Milano: Bompiani, 1981, nel quale si evidenzia l’investimento passionale fra soggetto desiderante e oggetto di desiderio come presieduto da un terzo termine – il “mediatore”. 23 Ciò vale anche per il siamese di Grande Fratello, ossia Survivor, dove senz’altro il successo si disegna in chiave più esplicitamente collettiva, con la competizione fra tribù, ma che comunque decreta un solo vincitore – archetipo del quale è l’epopea borghese, realista e coloniale di Robinson Crusoe. 24 Su ciò si veda, una volta di più, l’opera citata di Edgar Morin. 25 Jeremy Bentham, Panopticon, ovvero la casa d’ispezione (1791), a cura di Michel Foucault e Michelle Perrot (1977), Venezia: Marsilio, 1983 (d’ora in avanti, segnalato con la sigla P); Michel Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison (Paris: Gallimard, 1975), trad. it. di Alcesti Tarchetti, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino: Einaudi, 1976 (segnalato con la sigla SP). 26 Michel Foucault, “The Subject and Power”, Critical Inquiry, 8:4, 1982, pp. 777-95; trad. it., “Il soggetto e il potere”, in Hubert L. Dreyfus e Paul Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente (1983), Firenze: Ponte alle Grazie, 1989, p. 241. 27 Il Panopticon è in tal senso un’architettura di corpi e spazi in cui la facoltà divina – e il valore deterrente – del ‘vedere tutto’ viene dislocata in ambito umano; un’istanza straordinaria, in altri termini, della transizione nella modernità dal potere pastorale di matrice ecclesiastica, che si esercitava in via confessionale nello svelamento di ogni più intimo recesso dell’anima individuale, a quello esercitato dallo Stato attraverso i suoi funzionari, i nuovi ‘pastori’. 28 È in questo senso che la pratica giudiziaria prima, e carceraria dopo, sono da ricondursi a una logica di assoggettamento in quanto (re)inscrizione produttiva nel corpo sociale: “il corpo diviene forza utile solo quando è contemporaneamente corpo produttivo e corpo assoggettato” (SP, 29). 29 Jean-Pierre Barou e Michelle Perrot, “L’occhio del potere. Conversazione con Michel Foucault”, in Jeremy Bentham, op. cit., pp. 22-23. 30 Nello scambio fra Foucault e Michelle Perrot, “Bentham non progetta soltanto una società utopica, descrive anche una società esistente. […] Descrive nell’utopia di un sistema generale dei meccanismi particolari che esistono realmente” (ivi, p. 29). 31 Senz’altro, si potrebbe osservare, dietro le telecamere vi erano costantemente degli operatori, ossia i sottoispettori del Panopticon. Ma non è il ruolo di costoro bensì quello della Torre di sorveglianza a essere decisivo nell’introiezione dello sguardo, e questa Torre – la Regia, l’Opinione – era ‘occupata’ anche in assenza potenziale di spettatori, come dimostra la presenza di telecamere anche in bagno, benché criptate al grande pubblico. 32 Se nel Panopticon i visitatori sono il luogo in cui i s/oggetti producono l’Opinione, il controllo su magistrati, Ispettore ecc., in GF il funzionamento della macchina e la buona ‘condotta’ (il carattere, l’identità profonda) degli ‘attori’ erano contemporaneamente subordinati al giudizio degli spettatori. Nel caso di eventi criminali ad alta notiziabilità, di cui Dieci piccoli indiani mette in scena letteraria la logica, la costruzione della personalità criminale è pure soggetta a una piramide priva di vertice, perché vi sono inquirenti a diversi livelli di giudizio, in una gerarchia di cui il vertice è la norma, la Doxa, dato che (a differenza del processo nella società feudale, assolutamente segreto) il processo deve essere altamente pubblicizzato (e ricondotto così pienamente a un’economia dello spettacolo), e il rapporto fiduciario fra autorità e cittadini dev’essere costantemente riconfermato. 33 Sul mutuo rapporto confessionale fra star e fan si veda il lavoro citato di Edgar Morin. 34 Il titolo originale del format olandese, prima di diventare Big Brother, era del resto Golden Cage. 35 “Il potere viene esercitato soltanto su soggetti liberi, e solo nella misura in cui sono liberi […] soggetti collettivi che hanno davanti un campo di possibilità in cui parecchi modi di condotta, numerose 160 Saggi reazioni, diversi tipi di comportamento, possono essere realizzati”. Michel Foucault, “Il soggetto e il potere”, cit., p. 249. 36 La principale ‘sfida’ con la quale si misuravano gli ospiti di GF, del resto, erano noia e frustrazione, che rappresentavano l’impegno di ‘lavoro’ da loro sottoscritto ‘liberamente’. La partecipazione a GF era in altri termini un laboratorio di formazione di forza lavoro necessaria alla produzione seriale di icone (le “Girls & Men of the Year”) che entrano nel grande meccanismo dello Spettacolo, per un quarto d’ora di celebrità, pronte a essere consumate e sostituite dalle star dell’edizione successiva. 161