Tigor Rivista di scienze della comunicazione Sommario

Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
issn 2035-584x
Tigor
Rivista di scienze della comunicazione
A.III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
Sommario
Presentazione
4 Federica Foschini
Brevi cenni di riflessione sul tema del diritto
dell’energia, sulle sue fonti comunitarie e sulle recenti riforme legislative
16 Elisabetta Scala
La comunicazione fra Diritti umani e cooperazione sanitaria. Il caso del Tracoma
30 Tommaso Scandroglio
La participatio tomista come comunicazione
77 Paolo Sommaggio
Non è gentile accontentarsi delle parole. Il dono
del senso
86 Romano Martini
La crisi della democrazia tra rappresentazioni
ed economia biopolitica. Note per una discussione critica
101 Marco Cossutta
Sull’interpretazione della disposizione normativa
e sui suoi possibili rapporti con l’interpretazione
musicale
45 Alberto Scerbo
Diritti sociali e pluralismo giuridico in Gurvitch
113 Raffaella F. Marin
Mass moda, strumento di comunicazione di
massa
54 Paola Chiarella
Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti
sociali
118 Pierpaolo Martucci
Dipendenze e rischio nelle dinamiche dei new
media. L’azzardo ai tempi di internet
64 Daniela Teobaldelli
Momenti di sostenibilità sociale. Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile
Durkheim
127 Eugenio Ambrosi
Lo switch off del digitale televisivo terrestre in
Friuli Venezia Giulia: un’applicazione della risk
theory
Sommario
1
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139 Liviana Micheli
I giovani e la costituzione. Scuola e fenomeno
migratorio
144 Eugenio Ambrosi
Comunicazione e informazione: nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa. Un Corso
a Trieste
173 Bettina Todisco
Ma tu, sei digital literate?
Sommario
2
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Presentazione
I
l presente fascicolo si apre con un contributo di Federica Foschini, la quale analizza, con una prospettiva eminentemente giuridica, la questione energetica al centro di
una sempre crescente attenzione sia a livello
nazionale, che internazionale, offrendo un
quadro dell’attuale assetto normativo. Segue
un articolo a firma di Elisabetta Scala, la quale propone una disamina critica degli attuali
interventi di cooperazione allo sviluppo, proposti dal Nord del mondo, con particolare riguardo all’ambito sanitario e alle ricadute nel
cosiddetto Terzo mondo evidenziando la parzialità di questi interventi.
Dopo questi primi contributi, che affrontano
tematiche di scottante attualità, viene proposta
l’analisi di Tommaso Scandroglio sulla participatio tomista intesa quale momento integrante
di un processo comunicativo; a questa seguono
i contributi di Alberto Scerbo sul diritto sociale
così come appare nella prospettiva pluralistica
di Georges Gurvitch, di Paola Chiarella, che affronta anch’essa tale tema avuto riguardo però
alla esigibilità ed alla giustizi abilità dei diritti,
di Daniela Teobaldelli, la quale offre una riflessione filosofica giuridica sul pensiero di Emile
Durkheim prendendo le mosse dalla sua concezione del lavoro, e di Romano Martini, che offre una analisi critica del concetto di democrazia rappresentativo all’interno di un contesto
socio-politico informato dall’economia. Segue
un contributo di Marco Cossutta in tema di interpretazione giuridica e delle sue similitudini
con l’interpretazione musicale.
Presentazione
Il fascicolo raccoglie altresì il contributi di
Paolo Sommaggio, che indaga sul ruolo del
dono all’interno della cultura giapponese, di
Raffaella F. Marin sulla moda quale strumento di comunicazione e di Pierpaolo Martucci, che analizza il problema della dipendenza
psicologica dal gioco d’azzardo avuto riguardo
all’uso di sistemi elettronici telematici (la cosiddetta tecnodipendenza), soffermandosi sui
crescenti costi sociali del fenomeno.
Il recente passaggio dal cosiddetto sistema
analogico al digitale televisivo terrestre viene
seguito attraverso il ruolo svolto dal CORECOM Friuli Venezia Giulia da Eugenio Ambrosi, il quale propone anche un contributo
in tema di impegno del mondo ecclesiastico
nell’ambito della comunicazione e dell’informazione a partire dalla diffusione dei testi
sacri attraverso i nuovi media. Liviana Micheli propone una rendicontazione di una interessante esperienza comunicativa a partire
dall’analisi del testo costituzionale avvenuta
in una scuola media superiore di Trieste.
Il fascicolo si chiude con un contributo di
Bettina Todisco, la quale, partendo dalla lettura di una recente monografia in tema di comunicazione sociale telematica, offre un’analisi
critica del mondo dei media digitali e sociali
presenti su internet.
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Brevi cenni di riflessione sul tema
del diritto dell’energia, sulle sue fonti comunitarie
e sulle recenti riforme legislative
Federica Foschini
Abstract
Parole chiave
Il tema dell’energia è al centro di un crescente interesse, sia internazionale sia nazionale. Tuttavia, è proprio
la crescita esponenziale della domanda di energia e il
forte interesse pubblico che da sempre le ruota intorno
che fa sì che il diritto riesca solamente con difficoltà a
seguirne l’evoluzione. Si cercherà qui di fornirne un
breve quadro normativo e di analizzare le principali
problematiche relative al tema.
Diritto dell’energia;
Energia elettrica e gas naturale;
Fonti rinnovabili; Disciplina normativa;
Autorità indipendenti.
N
alcuni fenomeni, oggi ricompresi nella sfera
dell’energia, come ad esempio lo sfruttamento dei corsi d’acqua e del vento per la produzione di energia elettrica con i mulini erano
già oggetto di diritto speciale, senza però che
si potesse ricondurre il fenomeno ad un comune denominatore in qualche modo legato
al concetto di energia. Sempre nell’800 nasce
la corrente elettrica, la cui notevole importanza viene ben presto riconosciuta dal legislatore, che la considera come “bene mobile”
già nel codice penale del 19301. Il petrolio invece appare molto più tardi (XXI secolo) ma
segue un incredibile sviluppo, sorpassando
già dopo la seconda guerra mondiale il carbone come fonte energetica di maggior utilizzo.
La crescita esponenziale della domanda
di energia e il forte interesse pubblico2 che le
egli ultimi decenni il tema dell’energia si è
imposto con sempre più decisione soprattutto a livello internazionale quale elemento
fondamentale per equilibri politici, economici
e sociali. All’interno dell’ordinamento italiano,
le novità rilevanti del settore negli ultimi dieci anni sono state sia di tipo sostanziale, sia di
tipo organizzativo (si pensi alla creazione della
AEEG – Autorità dell’energia elettrica e del gas
e alla riforma costituzionale n. 3/2001).
Occorre notare preliminarmente come
il termine “energia”, ancorché univoco nella
sua accezione generale, comprenda in realtà
fenomeni e situazioni eterogenee, difficilmente riconducibili ad un unico concetto o
ad un’unica realtà: si tenga presente infatti
che fino a qualche secolo fa l’unica fonte di
energia disponibile era quella della combustione della legna (oltre naturalmente a quella muscolare animale o umana) ed è solo dalla
seconda metà dell’800 in poi che inizia a farsi
strada l’utilizzo del carbone fossile, soprattutto per la produzione del vapore utilizzato nella locomozione meccanica. All’epoca il diritto
trattava tali fonti alla stregua di ogni altro
bene dotato di un valore economico anche se
Brevi cenni di riflessione
1 La prima volta che l’energia elettrica viene definita come “merce” è in una decisione della Corte di
Giustizia Europea nel 1964. Si v. Corte di Giustizia della
Comunità Europea, sent. 15 luglio 1964, F. Costa c. Enel,
in Racc., 1964, p. 1127.
2 La necessità di una rete unica, la sempre maggiore domanda e l’interesse pubblico, anche ad evitare diseguaglianze sui prezzi, sono i fattori che hanno giustificato,
nel secondo dopoguerra, la nascita di un regime di mo-
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ruota intorno, fino al punto da condurre alla
nascita di veri e propri monopoli3 che sono in
parte ancora presenti4, fa sì che il diritto riesca
solamente con difficoltà a seguirne l’evoluzione nelle emergenti necessità regolative5.
nopolio conseguente alla “nazionalizzazione” delle imprese elettriche italiane, come avvenuto per molti altri
servizi di rilevanza pubblica come il trasporto aereo o la
telecomunicazione, sul presupposto che sarebbe sicuramente poco conveniente economicamente la presenza
di una pluralità di reti in concorrenza tra loro.
3 È anche a causa della crisi economica dei due dopo guerra, oltre che per il crescente interesse economico rivestito dalla materia, che si ha una successiva concentrazione
della proprietà di alcune importanti aziende di produzione elettrica sotto il controllo diretto o indiretto dello
Stato, che porterà nel secondo dopo guerra al progressivo
formarsi del monopolio che vedrà assumere allo Stato il
ruolo di monopolista unico negli anni ’60, in concomitanza della necessità di realizzare una rete unica.
4 Si pensi inoltre alle cosiddette “tariffe elettriche” presenti dopo la prima guerra mondiale e l’istituzione del
Comitato Corporativo Centrale nel 1939. Si pensi anche
al T.U. del 1933 inteso a disciplinare le sempre maggiori tensioni sociali presenti tra latifondisti e produttori
elettrici.
5 In questa sede non verrà trattata per motivi di sintesi l’altra fondamentale fonte energetica costituita
dal gas naturale. Normalmente si trova insieme al petrolio e per consentirne l’uso viene normalmente trasformato in GNL (gas naturale liquefatto). È negli anni
’40 che il gas acquisisce sempre maggiore importanza
da un punto di vista economico fino a esser definito
“energia nazionale” durante il regime fascista. Sempre
in quel periodo viene costituito l‘Ente Nazionale
Metano e quest’ultimo, insieme a Agip, Regie Terme
di Salsomaggiore e Società Anonima Utilizzazione
e Ricerca Gas Idrocarburati costituiscono la “Snam”
(Società Nazionale Metanodotti) per la costruzione e
l’esercizio dei metanodotti e la distribuzione e vendita del gas. Anche lo sviluppo del gas è vertiginoso e la
rete di metanodotti che nel 1948 era circa di circa 257
chilometri raggiunge nel 1952 i 2000 chilometri, per
giungere negli anni ’80 agli attuali 15.000 km. Sempre
negli anni ’80 verrà poi realizzato il primo gasdotto
trans-mediterraneo collegante l’Italia e l’Algeria. La
crescente diffusione naturalmente contribuisce all’aumento anche dell’interesse normativo per la materia.
Già la “legge mineraria” del 1927 (R.d. 29 luglio 1927 n.
1443) pone i combustibili solidi liquidi e gassosi quali
il carbone, il petrolio e il gas naturale fra le sostanze ed
energie che necessitano della concessione dello Stato
per la loro ricerca e coltivazione. I giacimenti minerari venivano visti come patrimonio indisponibile dello
Stato e il monopolio dell’ENI verrà interrotto solo con
il processo di liberalizzazione dovuta dalla Legge n. 9
del 1991, con la quale si attua, dopo quasi quarant’anni,
Brevi cenni di riflessione
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Nel dopoguerra la produzione di energia
elettrica è per lo più destinata alle industrie e
disponibile solo per pochissime abitazioni,
mancando ancora una rete di distribuzione
unica ed essendo la produzione localizzata
per l’80% nel nord della penisola. È proprio in
questo momento che lo Stato si fa promotore
dello sviluppo della produzione termoelettrica, attraverso il piano Marshall, scatenando la
querelle su quale dovesse essere il regime giuridico applicabile. L’interesse sempre crescente
per questo settore, sia da parte dello Stato sia
a livello internazionale si evince anche dalla
menzione, all’art. 43 della Costituzione, delle
“fonti di energia” tra i casi in cui “a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e
salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a
comunità di lavoratori o di utenti determinate
imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di
energia o a situazioni di monopolio ed abbiano
carattere di preminente interesse generale”6
(cosiddetto “esproprio per pubblica utilità”).
D’altronde non si dimentichi come il primo
tentativo di coordinamento a livello europeo,
ovvero il Trattato che istituisce la Comunità
europea del carbone e dell’acciaio (CECA) nel
1952, abbia ad oggetto, insieme all’acciaio, proprio una fonte energetica come il carbone. Risulta evidente pertanto l’interesse, economico
una prima parziale liberalizzazione sull’accesso al sistema di trasporto, soprattutto sulla spinta dei principi comunitari della libera circolazione e in parte anche
a causa della cosiddetta crisi del petrolio. L’ENI viene
fondato con la L. 10 febbraio 1953 n. 136 cui gli viene
attribuita l’esclusiva di ricerca e coltivazione di idrocarburi nella Valle Padana. Pertanto l’ENI in sostanza
veniva ad essere l’unico soggetto ad agire nel settore
con una sua specifica normativa di riferimento, diversa da quella applicabile agli altri, almeno fino al 1996
con l’entrata in vigore del d.lgs 25 novembre 1996 n.
625. Si tenga presente infine che la Legge mineraria è
ancora tutt’oggi in vigore e ha come campo di applicazione, ex art. 1 della stessa la “ricerca e la coltivazione di sostanze minerali e delle energie del sottosuolo,
industrialmente utilizzabili, sotto qualsiasi forma o
conduzione fisica”. Nata come legge di riordino delle
varie legislazioni minerarie già presenti, in realtà non
le abrogò tutte, lasciando in vigore alcuni regimi particolari tra cui ad esempio le cave di marmo.
6 Articolo 43 della Costituzione.
5
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
e politico, che le fonti energetiche da sempre
attraggono. Sarà poi nel 1957 che, con i noti
Trattati di Roma, verrà istituita, oltre che la comunità economica europea (CEE), la Comunità
europea dell’energia atomica (Euratom)7. Tuttavia anche se apparentemente il Trattato CEE
non disciplinava in maniera esplicita il settore
energetico8, sarà, a partire dagli anni Ottanta,
proprio la Comunità Europa ad avere un notevole influsso nel settore, emanando direttive
aventi come obiettivo la liberalizzazione del
mercato, oltre che naturalmente l’armonizzazione delle discipline normative all’interno
degli Stati membri. Sarà poi l’Atto Unico Europeo, firmato a Lussemburgo il 17 febbraio 1986
a prevedere un vero e proprio mercato interno
dell’energia da attuare rimuovendo le barriere
nazionali, anche se poi bisognerà attendere
fino al Trattato di Maastricht per vedere attribuita formalmente agli organi della UE una
“specifica” competenza in materia di energia
all’interno dei compiti istituzionali spettanti
alla UE9. Naturalmente è proprio l’intervento
della UE10 a mettere in luce la necessità di intervenire sulla presenza, non più accettabile,
dei monopoli, dal momento che, una volta
accertata l’importanza economica delle energie “sia le imprese, per la produzione di beni
7 Il tema della produzione elettrica mediante scissione
dell’atomo (“nucleare”) è oggi al centro di un vivido dibattito politico, sul quale si deve soprassedere in questi
brevi cenni di riflessione ma che sarebbe di notevole interesse poter affrontare.
8 Vi è comunque da notare che l’importanza del settore
energetico rende evidente che, seppur non menzionate espressamente dal Trattato CEE, le energie investono
trasversalmente tutti i settori economici, essendo per
così dire prodomiche a tutti gli altri settori.
9 Si veda a tal proposito l’art. G., B. par. 3 TUE.
10 Si tenga presente che l’Italia, per tramite dell’UE,
fa parte anche di altre intese e accordi internazionali
in materia di energia, come tra gli altri il SEE (Spazio
Economico Europeo), la Carta Europea dell’Energia
(1991) e il Trattato sulla Carta dell’Energia (1994). La
Carta Europea dell’Energia mira sostanzialmente a garantire l’approvvigionamento dell’energia per l’UE mediante accordi bilaterali tra i paesi produttori e i paesi
consumatori e ha come principi fondanti che ciascuno
Stato abbia sovranità esclusiva in materia di risorse
energetiche, che nessuno Stato venga discriminato, la
formazione di un mercato libero e competitivo e il minor impatto possibile sull’ambiente.
Brevi cenni di riflessione
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e servizi, sia i cittadini nell’uso diretto di essa
– in qualunque parte della Comunità – devono
quindi poter contare su sufficienti quantitativi
di energia, al minor prezzo possibile ed a pari
opportunità di accesso”11.
Al contrario in Italia nel 1962 si era assistito addirittura alla “nazionalizzazione” della
produzione dell’energia elettrica, del suo trasporto e della sua distribuzione con la creazione dell’Ente Nazionale per l’Energia Elettrica
(ENEL) come ente pubblico economico, assistendo anche all’esproprio da parte dello Stato
per pubblica utilità delle aziende del settore.
Come già notato, molto si deve in questo settore alla Comunità Europea, che dopo un lungo
periodo approda alla Risoluzione del 9 giugno
1980 con il quale vengono precisati gli obiettivi fissati per gli anni novanta: primo segno di
svolta di una sempre crescente volontà da parte
anche degli organi comunitari di voler tracciare
una politica, e di conseguenza una normativa,
sempre più organica e determinata12. La Risoluzione più importante in tal senso è quella del 16
settembre 1986 che, memore dell’aumento dei
prezzi del petrolio, pone tra gli obiettivi la riduzione dei rischi di fluttuazione ma soprattutto
pone per la primissima volta come obiettivo
quello dello sviluppo e diffusione delle energie
rinnovabili. In Italia il recepimento delle direttive comunitarie inizia con la legge 24 aprile 199813
11 M. Grippo, F. Manca, Manuale breve di diritto dell’energia, Padova, 2008, p. 45.
12 Le direttive comunitarie nel settore dell’energia sono
diventate sempre più frequenti e sempre più vincolanti. Si veda Direttiva 90/377/CEE del Consiglio 29 giugno
1990 in materia di trasparenza dei prezzi del consumatore finale industriale di elettricità e gas al fine di incentivare una più equa determinazione dei prezzi, alla
Direttiva 90/547/CEE del Consiglio 29 ottobre 1990 in
relazione al transito dell’energia elettrica sulle grandi
reti alta tensione al fine di ridurre i costi dell’energia elettrica, assicurare l’approvvigionamento e la compatibilità
della produzione dell’energia elettrica con l’ambiente,
la Direttiva 91/296/CEE del Consiglio 31 maggio 1991
sul transito di gas naturale sulle grandi reti, Direttiva
94/49/CEE della Commissione dell’11 novembre 1994
sull’aggiornamento degli enti della precedente direttiva.
13 Prima di questa erano già intervenute la L. n. 9 del 9
gennaio 1991, “Norme per l’attuazione del nuovo Piano
energetico nazionale: aspetti istituzionali, centrali idroelettriche ed elettrodotti, idrocarburi e geotermia, autoproduzione e disposizioni fiscali” cercando di snellire le
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
(“Disposizioni per l’adempimento di obblighi
derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità Europea”) in cui nell’articolo 36 (“Norme
per il mercato dell’energia elettrica”) veniva conferita al Governo la delega per l’attuazione della
Direttiva Elettricità del ’9614. È il decreto Bersani15
che, in base a tale delega, inizia a dare attuazione
alla Direttiva in Italia ridefinendo le competenze
dell’AEEG e istituendo altri organismi ausiliari,
per la precisione S.p.A con funzioni pubbliche16,
seguito poi dal decreto Bersani in attuazione delprocedure amministrative per la realizzazione di centrali
ed elettrodotti e la L. n. 10 del 9 gennaio 1991 “Norme per
l’attuazione del Piano energetico nazionale in materia
di uso razionale dell’energia, di risparmio energetico e
di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia” ponendo
come obiettivi “l’uso razionale dell’energia, il contenimento dei consumi di energia nella produzione e nell’utilizzo dei manufatti, l’utilizzazione delle fonti rinnovabili
di energia, la riduzione dei consumi specifici di energia
nei processi produttivi, una più rapida sostituzione degli
impianti, in particolare nei settori a più elevata intensità
energetica anche attraverso il coordinamento tra le fasi di
ricerca applicata, di sviluppo dimostrativo e di produzione industriale”. Ma soprattutto “la politica di uso razionale dell’energia e di uso razionale delle materie prime
energetiche definisce un complesso di azioni organiche
dirette alla promozione del risparmio energetico, all’uso
appropriato delle fonti di energia, anche convenzionali,
al miglioramento dei processi tecnologici che utilizzano
o trasformano energia, allo sviluppo delle fonti rinnovabili di energia, alla sostituzione delle materie prime
energetiche di importazione” definendo come fonti rinnovabili “il sole, il vento, l’energia idraulica, le risorse geotermiche, le maree, il moto ondoso e la trasformazione
dei rifiuti organici o di prodotti vegetali”.
14 Si v. articolo 36 l. 24 aprile 1998.
15 L’obiettivo del decreto Bersani è, in ottemperanza
alla direttiva CE, quello di liberalizzazione del mercato
dell’energia elettrica in Italia, allo scopo di migliorarne l’efficienza e la qualità del servizio, assicurare l’approvvigionamento e contenere i prezzi. La norma prevede che la produzione, l’importazione, l’esportazione,
l’acquisto e la vendita di energia elettrica sono libere,
mentre la trasmissione e il dispacciamento rimangono
riservante allo Stato e attribuite in concessione al gestore della rete di trasmissione nazionale.
16 Si pensi al GRTN (Gestore della Rete di Trasmissione
Nazionale dell’Elettricità), che nel 2006 ha cambiato il
proprio nome in GSE-Gestore servizi elettrici, a cui è affidata l’organizzazione e la gestione economica del mercato elettrico secondo criteri di neutralità, trasparenza
e obiettività, al fine di promuovere la concorrenza tra
produttori, al GME (Gestore del Mercato Elettrico) e all’
AU (Acquirente Unico).
Brevi cenni di riflessione
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la Direttiva Gas. Emerge sempre più la necessità
di contemperare le necessità della produzione di
energie con l’ugualmente importante valore della tutela dell’ambiente, soprattutto in relazione
alla riduzione dei gas nocivi produttivi di anidride carbonica e responsabili del surriscaldamento dell’atmosfera terrestre (“effetto serra”). È in
questa direzione che si muove anche la Comunità Europea, si pensi ai Libri Verdi della Commissione del 29 novembre 2000 e dell’8 marzo 2006,
in cui in entrambi viene incoraggiato il cambiamento delle abitudini da parte dei consumatori
tramite gli incentivi fiscali per cercare di contenere l’aumento della domanda e promuovere
lo sviluppo delle energie nuove e rinnovabili. Il
cambiamento di prospettiva è lungo e lento e involve anche una diversa visione17 dello Stato da
“fornitore” a “garante” di un servizio, necessario
e fondamentale per tutti i cittadini: non è più il
fornitore, addirittura come monopolista, di un
bene ma è colui che deve assicurare, nel senso di
regolare e garantire, che il mercato si svolga in
maniera libera e concorrenziale e che le energie
siano accessibili a tutti a un prezzo accessibile e a
prescindere dall’ubicazione territoriale.
Sulla stessa linea si pone anche l’istituzione di autorità indipendenti18 dal potere
esecutivo, con il quale tuttavia condividono
alcuni poteri, soprattutto quello di controllo
e il potere sanzionatorio, contrapposte sia ai
poteri dello Stato che agli interessi dei privati
operanti nei settori “sensibili” degli interessi
collettivi diffusi19. Tra queste un ruolo fonda17 Si pensi all’ENEA che, sfuggito alla privatizzazione
che ha investito ENI ed ENEL, con la L. n. 10 del 9 gennaio 1991 viene profondamente trasformato cambiando in
maniera drastica le sue competenze: dalla ricerca nucleare a Ente per le Nuove tecnologie l’Energia e l’Ambiente, ovvero dalla ricerca dell’energia nucleare alla promozione dell’energie rinnovabili e alla tutela dell’ambiente
mediante il cosiddetto sviluppo “sostenibile”.
18 Per quanto riguarda le autorità indipendenti si v. F.
Cuocolo, Istituzioni di diritto pubblico, Milano, 2003.
19 Per citarne alcune CONSOB (Commissione nazionale per la società e la borsa), la Commissione di garanzia
sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici
essenziali, il Garante per la radiodiffusione e l’editoria,
e l’Antitrust (Autorità garante della concorrenza e del
mercato). Sarà proprio quest’ultima a giocare un ruolo
fondamentale per l’attuazione del processo di privatizzazione dell’ENI e dell’ENEL.
7
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
mentale sarà giocato proprio dall’Antitrust
per l’attuazione del processo di privatizzazione dell’ENI e dell’ENEL, ma ancora più
dall’AEEG - Autorità per l’Energia Elettrica ed il
Gas -20, anche se il Governo, non in ultimo con
la legge “Marzano” sul riordino del settore
energetico, cercherà in più riprese di limitare l’indipendenza dell’AEEG, riducendo la sua
funzione a quella di “tecnico - consulente”
gerarchicamente sottoposto al potere esecutivo. La legge Marzano “Riordino del settore
energetico” aveva delegato al Governo il riassetto delle disposizioni vigenti in materia
di energia, sia per quanto riguarda la ripartizione delle competenze Stato/Regioni ed Enti
locali (poi attuata con la riforma del titolo V
della Costituzione) sia sul rapporto Governo/
AEEG. Il disegno di legge n. 691 del 2006 ha
previsto poi la delega in generale al Governo
di adottare uno o più decreti finalizzati a una
revisione generale della materia, in attuazione delle direttive comunitarie. Tra gli obiettivi il risparmio energetico, la tutela dell’ambiente, la promozione delle fonti energetiche
rinnovabili e anche un impegno per aumentare l’informazione presso i cittadini incentivando la riduzione dei consumi domestici.
fonti del diritto dell’energia
Non si può non muovere dalle disposizione contenute nella Costituzione, in cui l’originario articolo 43 è stata la norma fondante
della nazionalizzazione e del monopolio sta20 L’AEEG ha come obiettivo quello di “garantire la promozione della concorrenza e dell’efficienza nel settore
dei servizi di pubblica utilità, (…) nonché adeguati livelli di qualità nei servizi medesimi in condizioni di
economicità e di redditività, assicurando la fruibilità e
la diffusione in modo omogeneo sull’intero territorio
nazionale, definendo un sistema tariffario certo, trasparente e basato su criteri predefiniti, promuovendo
la tutela degli interessi di utenti e consumatori, tenuto
conto della normativa comunitaria in materia e degli
indirizzi di politica generale formulati dal Governo”.
Inoltre “il sistema tariffario deve altresì armonizzare
gli obiettivi economici-finanziari dei soggetti esercenti il servizio con gli obiettivi di carattere generale di carattere sociale, di tutela ambientale e di uso efficiente
delle risorse” (Articolo 1 co. 1 L. n. 481 del 24 novembre
1995 istitutiva dell’AEEG).
Brevi cenni di riflessione
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tale, prima dell’ormai noto processo di liberalizzazione. La legge di riforma costituzionale
n. 3 del 18 ottobre 2001è intervenuta anche
sull’articolo 117 che, così come riformato, attribuisce potestà legislativa concorrente alle
Regioni in materia di “produzione, trasporto e
distribuzione nazionale dell’energia”21ovvero
21 Articolo 117 Costituzione: “La potestà legislativa è
esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della
Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Lo
Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: a)
politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’Unione europea; diritto di asilo e
condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea; b) immigrazione; c) rapporti
tra la Repubblica e le confessioni religiose; d) difesa e
Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed
esplosivi; e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; perequazione delle
risorse finanziarie; f) organi dello Stato e relative leggi
elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento
europeo; g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali; h) ordine
pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale; i) cittadinanza, stato civile e anagrafi; l)
giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile
e penale; giustizia amministrativa; m) determinazione
dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il
territorio nazionale; n) norme generali sull’istruzione;
o) previdenza sociale; p) legislazione elettorale, organi di
governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e
Città metropolitane; q) dogane, protezione dei confini
nazionali e profilassi internazionale; r) pesi, misure e
determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale; opere dell’ingegno; s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.
Sono materie di legislazione concorrente quelle relative
a: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle
Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del
lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni
scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e
tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento
sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti
e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei
bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica
e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di
8
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in tali materie allo Stato rimane il compito
di dettare i principi generali e di indirizzo22
mentre alle Regioni viene demandato la normativa di dettaglio23, anche se questo naturalmente può comportare con sé differenze
credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e
agrario a carattere regionale. Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa,
salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. Spetta alle
Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello
Stato. Le Regioni e le Province autonome di Trento e di
Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano
alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione
europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite
da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza. La
potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie
di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La
potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra
materia. I Comuni, le Province e le Città metropolitane
hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina
dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni
loro attribuite. Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle
donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle
cariche elettive. La legge regionale ratifica le intese della
Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle
proprie funzioni, anche con individuazione di organi
comuni. Nelle materie di sua competenza la Regione
può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato”. Articolo che a sua volta trova
fondamento nell’articolo 144 Costituzione che recita:
“La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province,
dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I
Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni
sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni
secondo i princìpi fissati dalla Costituzione (…)”.
22 Allo Stato sono riservate le materie di interesse nazionale e comunemente la dottrina ritiene che tra queste vi rientrino la sicurezza nazionale, la concorrenza,
l’interconnessione delle reti e la gestione unificata dei
problemi dell’ambiente.
23 Apparentemente sembra che la riforma costituzionale non abroghi la precedente disciplina, tuttavia non
può non considerarsi che con la riforma costituzionale le Regioni siano ora investite del potere di legiferare nelle materie di loro competenza in via originaria.
Sicuramente questo fa nascere problemi di eventuali
contrasti con il D.lgs n. 112/98, che può mantenere efficacia solo laddove non sia in contrasto con le norme di
rango costituzionale.
Brevi cenni di riflessione
issn 2035-584x
di disciplina tra una Regione e un’altra, generando differenze di trattamento solo territorialmente giustificabili e dunque non sempre
del tutto comprensibili24, che mal si conciliano, agli occhi di chi scrive, con un settore
così strategicamente rilevante, che necessita
di un governo unitario, come già evidenziato
anche dalla Corte Costituzionale25.
Trattando delle fonti del diritto dell’energia una notevole importanza è costituita dalla legislazione comunitaria. Si ha già avuto
modo di notare come il processo di privatizzazione sia stato incentivato proprio dalle
direttive comunitarie incentrate sui principi di libera circolazione e concorrenza e sulla creazione di un mercato unico, anche nel
campo delle “energie”. Infatti anche se non
vi sono né nel Trattato istituivo della CEE né
nel Trattato di Maastricht norme espresse a
riguardo, non si dimentichi che uno dei motivi che spinse nel 1951 la costituzione di un
libero mercato fu proprio l’energia oltre che
l’acciaio. Inoltre il settore dell’energia riveste un’importanza notevole per l’economia
in generale, investendo trasversalmente tutto il settore della produzione e dei servizi. Ci
si rende conto subito pertanto come pur non
espressamente menzionato esso dovesse essere considerato sostanzialmente implicito,
rivelandosi la sua importanza sia nell’essere
fine sia nell’essere mezzo.
Un ruolo fondamentale per la legislazione
comunitaria viene svolto dalla Commissione
con i suoi “Libri Verdi”. Un primo Libro Verde, emesso nel 2000, aveva fornito le linee
per l’emanazione poi della Seconda Direttiva
Elettricità e della Seconda Direttiva Gas. Un
altro Libro Verde, quello dell’8 marzo 2006,
elencava alcuni principi fondamentali come
la competitività all’interno del mercato, la
24 Il settore era poi stato oggetto anche di un Progetto di
Riforma Costituzionale, nel 2005, che prevedeva, tra le
altre cose, il ritorno alla competenza esclusiva dello Stato
della produzione strategica, del trasporto e la distribuzione nazionali dell’energia (alla legislazione concorrente
sarebbero rimasti la produzione, il trasporto e la distribuzione dell’energia di rilevanza non nazionale). Tuttavia il
referendum popolare ha respinto il Progetto di Riforma.
25 Si v. tra le altre le sentenze della Corte Costituzionale n.
493 del 1991, n. 307 del 2003, n. 6 del 2004, e n. 7 del 2004.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
diversificazione del mix energetico, la solidarietà e l’innovazione tecnologica. Viene anche
elaborato un piano di azione diretto a ridurre
del 20% entro il 2020 il consumo energetico
per far fronte al riscaldamento globale anche
attraverso l’adozione di misure incentivanti
l’uso di energie rinnovabili.
I regolamenti comunitari trovano applicazione, ex articolo 11 della Costituzione26, nel
nostro ordinamento e ogni giudice, in caso di
contrasto tra le disposizioni, ha l’obbligo di applicare il diritto comunitario, disapplicando
quello interno27. Ma vi è di più: la Corte di Cassazione è giunta a riconoscere carattere preminente anche alle direttive qualora esse abbiano
un grado di precisione tale da poter essere applicate28. Questo ci serve per capire come la Direttiva Gas29 e la Direttiva Elettrica30, sostituite
poi con la Seconda Direttiva Gas31 e la Seconda
Direttiva Elettrica32, siano di fondamentale importanza, e contemporaneamente, da limite
per la legislazione interna. Mentre le prime due
avevano come contenuto solo norme di contenuto generale per la creazione di un mercato
interno comune, rimandando agli Stati membri la determinazione dei modi e dei tempi di
applicazione dei suddetti principi, concedendo
loro oltretutto molta flessibilità nell’attuazione
degli obiettivi, concedendo spesso deroghe se
non addirittura alcuni “esoneri”, le Seconde Direttive rivestono una natura normativa senza
dubbio molto più di dettaglio.
Tra l’emanazione della prima tranches di
Direttive e la seconda, vi sono stati comunque numerosi altri interventi, sia a livello di
Decisioni, sia a livello di Direttive, tutte in26 Si v. F. Pocar, Diritto dell’Unione Europea, Milano, 2010.
27 Sent. Corte di Giustizia UE del 9 marzo 1978, causa
106/77, Simmenthal e sentenza Granital della Corte
Costituzionale dell’8 giugno 1984 n. 170 con la quale la Corte si è allineata a quanto già sostenuto dalla
Corte di Giustizia.
28 Si v. F. Pocar, Diritto dell’Unione Europea, Milano, 2010.
29 98/30/CE del 22 giugno 1998.
30 96/92/CE del 19 dicembre 1996.
31 Direttiva 2003/55/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio del 26 giugno 2003.
32 Direttiva 2003/54/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio del 26 giugno 2003.
Brevi cenni di riflessione
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dirizzate alla promozione delle fonti rinnovabili e dello sviluppo sostenibile. Per prima
va ricordata la Decisione n. 646/2000/CE
del Parlamento Europeo e del Consiglio del
28 febbraio 2000, la quale aveva stanziato
un’ingente somma per la promozione delle fonti energetiche rinnovabili, stabilendo
requisiti e procedure per attrarre gli investimenti sia pubblici che privati verso le fonti
rinnovabili grazie a un sistema notoriamente premiale quale quello degli “incentivi”.
A questa è seguita poi la Direttiva 2001/77/
CE per la promozione dell’energia elettrica
prodotta dalle fonti rinnovabili, in ottemperanza agli impegni assunti con il Protocollo
di Kyoto, che com’è noto, è un trattato internazionale, firmato a Kyoto l’11 dicembre del
1997, in occasione della COP3, da più di 160
Paesi e riguardante il riscaldamento globale,
in cui i Paesi aderenti si impegnavano a ridurre le loro emissioni33.
Successivamente, anche gli altri interventi
comunitari, hanno sempre mirato a promuovere in generale le fonti rinnovabili e i principi dello sviluppo sostenibile, mediante un
sistema premiale, mettendo a disposizione
ingenti cifre che fossero in grado di costituire incentivi alla scelta delle fonti alternative,
anche mediante i cosiddetti sgravi fiscali. Si
pensi alla Decisione n. 1230/2003/CE del Parlamento e del Consiglio del 9 aprile 2002 che
ha adottato il programma “Energia Intelligente per l’Europa”, che ha stanziato 200 milioni
di Euro per il periodo 2002-2003 per favorire
le iniziative locali, regionali e nazionali34. C’è
33 Il problema fondamentale che ha riguardato il
Protocollo di Kyoto è stato che molti dei Paesi aderenti
non lo hanno poi ratificato, venendo così meno agli impegni internazionalmente assunti.
34 A queste sono seguite molte altre direttive, disciplinanti vari settori dalla sicurezza dell’approvvigionamento alla
reti di trasporto. Si v. Direttiva 94/22/CE del Parlamento
Europeo e del Consiglio del 30 maggio 1994 in G.U.C.E.
n. L 164 del 30 giugno 1994, pp. 3-8; Direttiva 98/93/CE
del Consiglio del 14 dicembre 1998 in G.U.C.E. n. L 358
del 31 dicembre 1998, pp. 100-104; Direttiva 98/75/CE
della Commissione del 1 ottobre 1998 in G.U.C.E. n. L 276
del 13 ottobre 1998, pp. 9-10; Direttiva 2003/54/CE del
Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 giugno 2003
in G.U.C.E. n. L 176 del 15 luglio 2003, pp. 37-56; Direttiva
2003/55/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
da notare anche che il settore delle energie
rinnovabili inizia, con le direttive di “seconda
generazione”35 ovvero con la Seconda Direttiva Gas per la precisione, a riguardare anche il
capo del biogas e gas da biomasse (ovvero dei
gas prodotti da fonti rinnovabili). Nel 2004,
dopo undici mesi di lavoro legislativo, è stato
anche approvato dal Parlamento Europeo il
pacchetto clima-energia, denominato “Pacchetto 20-20-20”, indicante gli obiettivi fissati dall’UE da realizzare entro il 2020, ovvero
ridurre del 20% le emissioni di gas a effetto
serra, portare al 20% il risparmio energetico
e aumentare del 20% il consumo di fonti rinnovabili. Come si vede anche in quest’ultimo
vengono in risalto i temi del risparmio energetico e delle fonti rinnovabili36.
La direzione verso cui la legislazione comunitaria si è mossa in questi anni è la nascita
di un vero e proprio diritto alla prestazione
energetica, ovvero gli Stati membri, oltre a
poter imporre alle imprese che operano nel
settore veri e propri obblighi di servizio pubblico, devono garantire che tutti i clienti civili, nonché le imprese, possano usufruire del
servizio universale nel loro rispettivo territorio. Viene dunque affermato una sorta di
“diritto alla fornitura dell’energia elettrica” di
una determinata qualità e a prezzi accessibili,
comparabili e trasparenti37. Per far questo un
giugno 2003 in G.U.C.E. n. L 176 del 15 luglio 2003, pp. 5778; Direttiva 2004/67/CE del Consiglio del 26 aprile 2004
in G.U.C.E. n. L 127 del 29 aprile 2004, pp. 92-96; Direttiva
2004/8/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’11
febbraio 2004 in G.U.C.E. n. L 052 del 21 febbraio 2004,
pp. 50-60; Direttiva 2004/17/CE del Parlamento Europeo
e del Consiglio del 31 marzo 2004 in G.U.C.E. n. L 134
del 30 aprile 2004, pp. 1-42; Direttiva 2005/89/CE del
Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 gennaio 2006
in G.U.C.E. n. L 033 del 4 febbraio 2006, pp. 0022-0026 e la
Decisione n. 1364/2006/CE del Parlamento Europeo e del
Consiglio del 6 settembre 2006.
35 M. Grippo, F. Manca, Manuale breve di diritto dell’energia, Padova, 2008, p. 102.
36 La direttiva, inoltre, detta norme relative a progetti
comuni tra Stati membri, alle garanzie di origine, alle
procedure amministrative, all’informazione e alla formazione, nonché alle connessioni alla rete elettrica relative all’energia da fonti rinnovabili.
37 Questo è quanto viene previsto dal co. 3 dell’art. 3
della Seconda Direttiva Elettriva che recita: “Gli Stati
membri provvedono affinché tutti i clienti civili e, se
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altro dei principi fondamentali che sono stati
affermati, oltre alla necessaria diversità dei gestori dei sistemi di distribuzione e di trasmissione e di trasporto e distribuzione, al fine di
evitare prassi discriminatorie, è quello della
completa apertura del mercato a tutti i clienti, sia per quanto riguarda l’elettricità che per
quanto riguarda il gas38. L’energie sono state
classificate, dopo lunga querelle, tra le “merci”
e non tra i “servizi” nel Trattato CEE dalla Corte
di Giustizia Europea39 che ha posto fine alla discussione collocando l’energie nella disciplina
gli Stati membri lo ritengono necessario, le piccole imprese (vale a dire aventi meno di 50 dipendenti e un fatturato annuo o un totale di bilancio non superiore a 10
milioni di euro) usufruiscano nel rispettivo territorio
del servizio universale, cioè del diritto alla fornitura di
energia elettrica di una qualità specifica a prezzi ragionevoli, facilmente e chiaramente comparabili e trasparenti. Per garantire la fornitura del servizio universale,
gli Stati membri possono designare un fornitore di ultima istanza. Gli Stati membri impongono alle società
di distribuzione l’obbligo di collegare i clienti alla rete
alle condizioni e tariffe stabilite secondo la procedura
di cui all’articolo 23, paragrafo 2. Le disposizioni della
presente direttiva non ostano a che gli Stati membri rafforzino la posizione di mercato dei clienti civili e della
piccola e media utenza promuovendo la possibilità di
associazione su base volontaria ai fini della rappresentanza di tale categoria di utenti. Le disposizioni di cui al
primo comma vengono attuate in maniera trasparente
e non discriminatoria e non ostacolano l’apertura del
mercato prevista dall’articolo 21 […]”.
38 Articolo 21 Seconda Direttiva Elettrica: “Gli Stati
membri prendono le misure necessarie a consentire
che: a) tutti i produttori e le imprese fornitrici di energia elettrica stabiliti nel loro territorio riforniscano
mediante una linea diretta i propri impianti, le società
controllate e i clienti idonei; b) qualsiasi cliente idoneo
nel loro territorio sia rifornito mediante una linea diretta da un produttore e da imprese fornitrici […]”. Mentre
la Seconda Direttiva Gas riprende lo stesso principio
all’articolo 24: “Gli Stati membri prendono le misure
necessarie a consentire che: a) le imprese di gas naturale stabilite nel loro territorio riforniscano mediante una
linea diretta i clienti idonei; b) qualsiasi cliente idoneo
nel loro territorio sia rifornito mediante una linea diretta dalle imprese di gas naturale […]”.
39 In ogni caso l’influenza per così dire della Comunità
Europea in questi anni è stata fondamentale, anche grazie all’opera della Corte di Giustizia Europea. In primis
non bisogna dimenticare la sentenza che dichiarò illegittimo in Italia il monopolio di Stato dell’energia elettrica. V. sent. Corte di Giustizia Europea del 15 luglio 1964:
Costa c. Enel, causa 6/64, in Foro it., 1964, IV, pp. 137 e ss.
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del titolo I del Trattato CE e non nel titolo III
capo 2 della parte seconda e questo nonostante invece la fornitura continuativa di energia
elettrica sia stata qualificata dalla stessa Corte
di Giustizia del 199440 come un servizio, rientrante dunque nell’articolo 60 del Trattato
CEE41. Probabilmente la scelta è stata mossa
anche da valutazioni di opportunità dal momento che per le merci è prevista la creazione
di un mercato unico privo di frontiere mentre
il settore dei servizi è sottoposto a un regime
di concorrenza meno rigoroso, dove non viene
imposta la creazione di un mercato unico ma
semplicemente vengono vietate restrizioni a
livello nazionale alla libera erogazione dei servizi da parte degli Stati membri. In ogni caso
a ben vedere anche se al gas e all’energia elettrica può esser riconosciuta la natura giuridica
di “bene mobile”, ciò non toglie che queste due
merci siano poi suscettibili di essere oggetto
a loro volta di un servizio, un servizio che oltretutto ben rientra nella categoria di servizio
d’interesse economico generale ex art. 60 Trattato CE. Inoltre si ricordi che la Costituzione
europea ha attribuito all’energia una propria
autonoma rilevanza, annoverandola fra le
materie di competenza concorrente (art. I-14)
e dedicandovi una sezione specifica (la n. 10)
nell’ambito della parte III, titolo III, capo III.
In tal modo la materia dell’energia sarebbe oggetto di competenza concorrente tra l’Unione
e gli Stati membri42. A prima vista sembrerebbe che gli Stati membri e l’Unione si trovino in
una posizione sostanzialmente paritaria per
quanto riguarda l’elaborazione delle politiche
nel campo dell’energia, in realtà è più corretto
interpretare la ripartizione nel senso che gli
Stati membri possono esercitare la loro competenza nella misura in cui questo non sia già
stato fatto dall’Unione Europea43.
40 Sent. Corte di Giustizia del 27 aprile 1994: Comune
di Almelo e altri c. Energiebedrijf Ijsselmij NV, causa
C-393/92 in Rassegna, 1994, pp. 786 e ss.
41 Art. 60 Trattato CEE.
42 Per quanto riguarda la Costituzione Europea, firmata
a Roma il 29 ottobre 2004 si v. tra gli altri F. Bassanini, P.
Tiberi, La Costituzione europea, Bologna, 2005.
43 Costituzione Europea, sez. 5, Ambiente, Art. III-233:
“La politica dell’Unione in materia ambientale contribuisce a perseguire i seguenti obiettivi: a) salvaguardia‚
Brevi cenni di riflessione
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tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente; b)
protezione della salute umana; c) utilizzazione accorta
e razionale delle risorse naturali; d) promozione, sul
piano internazionale, di misure destinate a risolvere i
problemi dell’ambiente a livello regionale o mondiale.
La politica dell’Unione in materia ambientale mira a
un elevato livello di tutela‚ tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell’Unione. Essa
è fondata sui principi della precauzione e dell’azione
preventiva‚ sul principio della correzione‚ in via prioritaria alla fonte‚ dei danni causati all’ambiente e sul
principio “chi inquina paga”. In tale contesto‚ le misure
di armonizzazione rispondenti ad esigenze di protezione dell’ambiente comportano‚ nei casi opportuni‚ una
clausola di salvaguardia che autorizza gli Stati membri
a prendere‚ per motivi ambientali di natura non economica‚ disposizioni provvisorie soggette ad una procedura di controllo dell’Unione. Nel predisporre la politica in materia ambientale l’Unione tiene conto: a) dei
dati scientifici e tecnici disponibili; b) delle condizioni
dell’ambiente nelle varie regioni dell’Unione; c) dei vantaggi e degli oneri che possono derivare dall’azione o
dall’assenza di azione; d) dello sviluppo socioeconomico
dell’Unione nel suo insieme e dello sviluppo equilibrato
delle singole regioni. Nel quadro delle rispettive competenze‚ l’Unione e gli Stati membri cooperano con i paesi
terzi e le organizzazioni internazionali competenti. Le
modalità della cooperazione dell’Unione possono formare oggetto di accordi tra questa e i terzi interessati. Il
primo comma non pregiudica la competenza degli Stati
membri a negoziare nelle sedi internazionali e a concludere accordi internazionali”. Costituzione Europea, sez.
5, Ambiente, Art. III-234: “La legge o legge quadro europea stabilisce le azioni che devono essere intraprese per
realizzare gli obiettivi dell’articolo III-233. Essa è adottata previa consultazione del Comitato delle regioni e del
Comitato economico e sociale. In deroga al paragrafo 1
e fatto salvo l’articolo III-172‚ il Consiglio adotta all’unanimità leggi o leggi quadro europee che prevedono: a)
disposizioni aventi principalmente natura fiscale; b)
misure aventi incidenza: i) sull’assetto territoriale; ii)
sulla gestione quantitativa delle risorse idriche o aventi rapporto diretto o indiretto con la disponibilità delle stesse; iii) sulla destinazione dei suoli, ad eccezione
della gestione dei residui; c) misure aventi una sensibile
incidenza sulla scelta di uno Stato membro tra diverse
fonti di energia e sulla struttura generale dell’approvvigionamento energetico del medesimo. Il Consiglio su
proposta della Commissione, può adottare all’unanimità una decisione europea per rendere applicabile la procedura legislativa ordinaria alle materie di cui al primo
comma. In ogni caso il Consiglio delibera previa consultazione del Parlamento europeo, del Comitato delle regioni e del Comitato economico e sociale. La legge europea stabilisce programmi generali d’azione che fissano
gli obiettivi prioritari da raggiungere. È adottata previa
consultazione del Comitato delle regioni e del Comitato
economico e sociale. Le misure necessarie all’attuazio-
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
A livello nazionale il tema dell’energia è
trattato principalmente da norme speciali o da
regolamenti. Sicuramente bisogna mettere in
luce che l’articolo 8 del Decreto Bersani aveva
previsto che, a decorrere dal 1 gennaio 2003,
nessun soggetto potesse produrre più del 50%
del totale dell’energia prodotta ed importata in
Italia, prevedendo poi, nell’articolo seguente,
l’obbligo, per le imprese distributrici, di connettere alle loro reti tutti i soggetti che ne avessero fatto richiesta. L’articolo 11 aveva previsto
inoltre l’obbligo per i produttori e gli importatori di energia elettrica da fonti non rinnovabili di immettere nel mercato una percentuale
di energia prodotta da fonti rinnovabili. Inoltre, in vista del progetto di apertura del mercato, l’articolo 14, abbassava gradualmente le
soglie per determinare la qualifica di “cliente
idoneo”, fino alla previsione della stessa, a partire dal 1 luglio 2007, per tutti i clienti.
Sulla stessa scia di apertura e liberalizzazione si muove il decreto Letta44, anche se l’attenzione veniva concentrata maggiormente nel
settore del gas. La legge Marzano45 prosegue il
compito delle precedenti leggi, auspicandosi
tuttavia un compito assai arduo come quello
del riordino dell’intero settore e all’indomani
della riforma del titolo V della Costituzione ha
come scopo anche il definitivo riparto delle
competenze tra Stato e Regioni46, continuanne di tali programmi sono adottate conformemente alle
condizioni previste al paragrafo 1 o 2, a seconda dei casi.
Fatte salve talune misure adottate dall’Unione‚ gli Stati
membri provvedono al finanziamento e all’esecuzione
della politica in materia ambientale. Fatto salvo il principio “chi inquina paga”‚ qualora una misura basata sul
paragrafo 1 implichi costi ritenuti sproporzionati per
le pubbliche autorità di uno Stato membro‚ tale misura
prevede in forma appropriata: a) deroghe temporanee
e/o b) un sostegno finanziario del Fondo di coesione. Le
misure di protezione adottate in virtù del presente articolo non impediscono ai singoli Stati membri di mantenere e di prendere misure per una protezione ancora
maggiore. Tali misure devono essere compatibili con la
Costituzione. Esse sono notificate alla Commissione”.
44 L. n. 164 del 23 maggio 2000.
45 L. n. 239 del 23 agosto 2004 rubricata “Riordino del settore energetico, nonché delega al Governo per il riassetto delle
disposizioni vigenti in materia di energia”.
46 Per quanto riguarda la riforma costituzionale del
Titolo V si v. S. Bartole, R. Bin, G. Falcon, R. Tosi, Diritto
regionale. Dopo le riforme, Bologna, 2003.
Brevi cenni di riflessione
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do il processo di liberalizzazione e in generale
il riordino dell’intero settore, con particolare
riguardo ai rapporti tra il Governo e l’AEEG e il
fine di assicurare su tutto il territorio nazionale i livelli essenziali delle prestazioni concernenti l’energia in condizioni di omogeneità
sia con riguardo alle modalità di fruizione che
con riferimento ai criteri di formazione delle
tariffe e dei prezzi. La delega al Governo47 viene data soprattutto nell’ottica di un riordino
dell’intero settore che sfoci, finalmente, in una
disciplina unitaria con la formazione di un “codice dell’energia”, in ottemperanza ai principi
comunitari della tutela dell’ambiente, dell’efficienza energetica e di un piano nazionale di
educazione ed informazione sul risparmio e
sull’uso efficiente dell’energia.
La necessità di una semplificazione della
normativa in questo settore è evidente e da
realizzarsi possibilmente attraverso la realizzazione di un testo unico della materia che ad
oggi è confusa e di difficile interpretazione,
soprattutto a causa delle pluralità delle fonti
di normazione presenti: in questa prospettiva
la recente legge n. 11 del 2005, che prevede il
coinvolgimento delle Regioni e degli Enti locali con organi collegiali di natura mista, prevedendo anche meccanismi di snellimento delle
procedure decisionali48.
In questi giorni, il Consiglio dei Ministri
ha approvato un decreto legislativo, ancora in
corso di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale,
di attuazione della Direttiva 2009/28/CE relativa alla promozione dell’uso dell’energia elettrica da fonti rinnovabili (direttiva che andava
a sostituire le precedenti direttiva 2001/77/CE
e 2003/30/CE). Il decreto legislativo ha suscitato molto clamore, soprattutto nelle associa47 L’ampiezza di tale delega ha dato vita ad un ampio dibattito dottrinale circa la presunta incostituzionalità di
una delega a così ampio respiro, che si è spinto fino alla
presentazione di una questione pregiudiziale di costituzionalità dell’articolo 121 della norma in quanto lesivo
dell’articolo 76 della Costituzione, poi respinta.
48 In ogni caso già l’articolo 120 della Costituzione e la legge n. 131 del 2003 (legge “La Loggia”), prevedevano la possibilità di intervento del Governo in caso di inadempienze o
ritardi di Regioni ed Enti locali nel caso in cui questo pregiudichi l’osservanza degli obblighi comunitari e l’unità
dell’ordinamento giuridico ed economico dello Stato.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
zioni ambientaliste, a causa del “tetto-limite”
stabilito per gli impianti fotovoltaici. Il decreto infatti non prevederebbe più incentivi
per gli impianti fotovoltaici oltre gli 8.000
megawatt totali di potenza, oltre a prevedere
un taglio rilevante anche per l’eolico. Questo
naturalmente rischia di bloccare lo sviluppo
dell’energie rinnovabili, ponendosi in aperto
contrasto con la previsione del raggiungimento dell’obiettivo del 20 per cento della produzione energetica da fonti rinnovabili entro il
2020. Il decreto del ministro Romani rientra
nella politica adottata in questi anni dal Governo, di rivalutazione dell’energia nucleare come
fonte di produzione principe dell’energia. Parallelamente infatti ai tagli degli incentivi sulle energie rinnovabili si unisce la volontà da
parte del Governo di dotare il territorio di centrali nucleari, questione che verrà sottoposta,
per la seconda volta, a referendum popolare49.
Non è questa la sede per trattare questioni
politiche, tuttavia non si può non riconoscere la rilevanza di un tema di così scottante attualità, soprattutto per il ricordo ancora caldo di quanto appena accaduto in Giappone
dove un terremoto di intensità devastante,
seguito poi da uno tsunami, ha messo a dura
prova la centrale di Fukushima. Anche se il
peggio è stato evitato dal lavoro dei tecnici le
fuoriuscite dovute alle fessure negli impianti di contenimento in cemento provocate dal
terremoto e le conseguenti scorie radioattive rimarranno nel territorio giapponese per
molto tempo, essendo necessari migliaia di
anni per poter definitivamente arginare questo devastante impatto ambientale.
Ma vi è un altro aspetto da sottolineare. La politica comunitaria si ispira, nel tema dell’energia,
49 In Italia il tema del “nucleare” è già stato oggetto di un
referendum popolare. L’8 novembre 1987 gli Italiani furono chiamati a esprimere il loro voto su cinque referendum, di cui tre riguardavano l’energia nucleare. I votanti
furono il 65,1% della popolazione. Con il primo quesito veniva chiesta l’abolizione dell’intervento statale nel caso in
cui un Comune non avesse concesso un sito per l’apertura
di una centrale nucleare nel suo territorio (80,6% di sì), il
secondo chiedeva l’abrogazione dei contributi statali per
gli enti locali per la presenza nel loro territorio di centrali
nucleari (79,7 di sì), mentre il terzo chiedeva infine l’abrogazione della possibilità per l’Enel di partecipare all’estero
per la costruzione di centrali nucleari (71,9% di sì).
Brevi cenni di riflessione
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ai principi di tutela dell’ambiente e della libera
circolazione delle merci (in cui vi rientrano le
energie). Rimane quindi da capire se la direzione
in cui si sta muovendo il Governo rispetti le direttive comunitarie. Non è questa la sede per poter
approfondire con l’accuratezza che il problema
meriterebbe, tuttavia occorre far qualche breve
rilievo e porre in essere qualche riflessione.
La creazione di centrali nucleari porta
come conseguenza immanente il fatto che
vi sia un processo di nuova avocazione della
materia dell’energia nelle mani dello Stato,
sia dal punto di vista della produzione e della gestione, sia dal punto di vista normativo,
rimanendo di difficile attuazione, finanche
pratica, una normazione seppur residuale in
capo alle Regioni, sulla scia dei rilievi già posti in essere nel progetto di riforma costituzionale denominato “devolution”.
Questo però mette in luce un duplice ordine di problemi. Innanzitutto si pone in contrasto con l’attuale art. 117 della Costituzione
per quanto riguarda il problema del riparto
delle competenze, ma ancor più si pone il problema del principio di sussidiarietà, recepito
nel nostro ordinamento all’articolo 118 della
Costituzione50, che recita “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività
di interesse generale, sulla base del principio
di sussidiarietà”. Infatti lo Stato si troverebbe nuovamente a gestire, praticamente in via
esclusiva, la produzione di energia, unendosi
50 Articolo 118 Costituzione: “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città
metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. I
Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive
competenze. La legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle
lettere b) e h) del secondo comma dell’articolo 117, e disciplina inoltre forme di intesa e coordinamento nella
materia della tutela dei beni culturali. Stato, Regioni,
Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono
l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati,
per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla
base del principio di sussidiarietà”.
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a ciò il fatto che la produzione della stessa da
parte dei privati viene disincentivata dai tagli
agli incentivi fiscali, in aperto contrasto con il
summenzionato principio di sussidiarietà.
Sembrano pertanto ritornare quanto mai
attuali le vecchie tematiche del monopolio di
Enel, conclusosi poi con la sentenza della Corte di Giustizia Europea Costa c. Enel, che aveva
sancito la contrarietà del monopolio ai principi comunitari, ed in particolare alla libera circolazione delle merci. Inoltre la Comunità europea ha espresso a chiare lettere il principio
“chi inquina paga” e in tal senso si sono sviluppati i meccanismi di compensazione, come le
norme che prevedono il pagamento di crediti
compensativi per il mancato uso alternativo
del territorio e per l’impatto ambientale provocato dalle immissioni di agenti inquinanti
da parte dei proprietari di impianti51 e come
la nascita dei mercati volontari che rispondono sempre a questa ratio di compensazione. E
ciò perché la tutela della salute e dell’ambiente
sono entrambi diritti universalmente riconosciuti e strettamente interconnessi tra di loro
51 La Legge Marzano prevede infatti che i proprietari
di nuovi impianti di produzione di energia elettrica di
potenza termica non inferiore a 300 MW corrispondano alla Regione, dove si trovano, a titolo di contributo
compensativo per il mancato uso alternativo del territorio e per l’impatto dei cantieri un importo di 0,20
Euro per ogni MWh di energia elettrica prodotta per i
primi sette anni di esercizio degli impianti. E questo
vale anche per il caso di potenziamento di impianti già
esistenti. Il contributo può essere sostituito da “accordi
volontari”, sicuramente riconosciuti dalla dottrina se in
pejus. Senza contare che nel caso gli impianti di produzione energetica abbiano impatti su zone costituite da
“parchi nazionali” il contributo dovrà essere calcolato
in base a criteri determinati con apposito decreto del
Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio.
Alla stessa ratio degli accordi volontari risponde anche la creazione dei cosiddetti “mercati volontari” che
si occupano, in generale, della transazione di quote
relativamente alla riduzione dell’impatto ambientale.
Per esempio le Regioni Veneto e Friuli Venezia Giulia
hanno avviato un progetto in collaborazione con le
Università degli Studi di Padova e di Udine per la creazione di un mercato volontario di crediti di carbonio
(“CarboMark”) che ha come scopo proprio la riduzione
delle emissioni di gas serra, obiettivo raggiungibile
mediante l’acquisto di una quota non preponderante
di crediti da compensazione derivanti da attività agroforestali (www.carbomark.org).
Brevi cenni di riflessione
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e che rivestono nell’epoca attuale, di totalizzante industrializzazione, una rilevanza sconosciuta ad altre epoche. In tal senso si è mossa ad esempio la Germania che, nonostante i
limiti climatici, prevede di riuscire a coprire
con le fonti rinnovabili l’80% del fabbisogno
di energia. Come messo in luce da recenti studi, infatti, non ci sarebbero barriere tecniche
insormontabili per far funzionare il pianeta solo con le fonti “green”, finanche in tempi
molto brevi (le previsioni si aggirano intorno
al 2030), gli ostacoli alla realizzazione di una
innovazione così importante sarebbero solo di
tipo sociale e politico52.
Federica Foschini si è laureata in Giurisprudenza
presso l’Università degli Studi di Padova.
Attualmente sta svolgendo il Dottorato di Ricerca
in Filosofia del Diritto presso la stessa Università
52 Questa è la conclusione di uno studio pubblicato su
“Energy Policy” dai ricercatori Mark Delucchi e Mark
Jacboson. In particolare, in questi studi, si legge che
il 90% dell’energia dovrebbe arrivare dall’eolico e dal
solare, il 4% dalle fonti geotermali, il 2% dallo sfruttamento di onde e maree e un altro 4% dall’idroelettrico.
M. A. Delucchi, M. Z. Jacbson, Providing all global energy
with wind, water , and solar power, Part I: Technologies, energy resources, quantities and areas of infrastructure, and
materials, Energy Policy.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
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La comunicazione
fra Diritti umani e cooperazione sanitaria.
Il caso del Tracoma
Elisabetta Scala
Abstract
Il contributo analizza le relazioni tra la cooperazione
allo sviluppo in ambito sanitario ed i suoi destinatari
nel Sud del mondo.
Il crescente condizionamento dell’opinione pubblica legata alle priorità d’investigazione farmaceutica, le gerarchie
d’intervento sanitario nei Paesi in via di sviluppo gestite
in maniera monopolistica dalle multinazionali, la vulnerabilità delle popolazioni a rischio di contagio globale,
le ripercussioni sulla salute delle crisi economiche e l’aumento dell’esclusione sociale con i suoi caratteri rispetto
alle questioni di genere sono tra i principali temi sui quali
si concentrerà l’attenzione. Al di là delle precise responsabilità che possiamo rintracciare, emerge la necessità di
un’attiva mobilitazione sociale informata (interferente)
e consapevole del fatto che tutte le problematiche legate
alla povertà sono questioni di giustizia, la quale sfoci anche in una corretta comunicazione sanitaria sull’attuale
stato delle popolazioni affette da tracoma.
Sommario: 1. premessa; 2. il tracoma: malattia della miseria lungo la storia; 2.2 il legame fra il tracoma e le pratiche sanitarie: il
caso dell’immigrazione; 3. alcuni cenni sullo sviluppo storico della cooperazione sanitaria internazionale; 4. le politiche della
banca mondiale e l’eclisse dell’organizzazione mondiale della sanità; 5. la campagna
per i farmaci essenziali; 6. prospettive.
«Dentro quei buchi neri, dalle pareti di terra, vedevo i letti, le misere suppellettili, i cenci stesi.
Sul pavimento erano sdraiati i cani, le pecore, le
capre, i maiali. Ogni famiglia ha, in genere, una
sola di quelle grotte per tutta abitazione e ci dormono tutti insieme, uomini, donne, bambini e
bestie. Così vivono ventimila persone. Di bambini ce n’era un’infinità.
In quel caldo, in mezzo alle mosche, nella polvere, spuntavano da tutte le parti, nudi del tutto o
coperti di stracci. Io non ho mai visto una tale immagine di miseria; eppure sono abituata, è il mio
mestiere, a vedere ogni giorno decine di bambini poveri, malati e maltenuti. Ma uno spettacolo
come quello di ieri non lo avevo mai neppure immaginato. Ho visto dei bambini seduti sull’uscio
delle case, nella sporcizia, al sole che scottava, con
gli occhi semichiusi e le palpebre rosse e gonfie;
le mosche si posavano sugli occhi e quelli pareva
che non le sentissero. Era il tracoma. Sapevo che
ce n’era quaggiù, ma vederlo così, nel sudiciume
e nella miseria, è un’altra cosa. Altri bambini incontravo coi visini grinzosi come dei vecchi, e
scheletriti dalla fame; i capelli pieni di pidocchi
e di croste. La maggior parte aveva grandi pance
Fonte: World Health Organization, Programme for the
Prevention of blindness, Archiving community support
for trachoma control, London, 1996.
Il caso del Tracoma
parole chiave
Tracoma; Diritto alla salute;
Cooperazione sanitaria internazionale;
Farmaci essenziali; Paesi in via di sviluppo;
Organizzazione mondiale per la sanità (OMS);
World Health Organization (WHO);
Banca Mondiale (BM); Divario Nord-Sud;
Emigrazione.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
gonfie, enormi, e la faccia gialla e patita per la malattia. Le donne che mi vedevano arrivare per le
porte, m’invitavano ad entrare e ho visto in quelle grotte scure e puzzolenti, dei bambini sdraiati
in terra, sotto le coperte a brandelli che battevano
i denti dalla febbre. Altri si trascinavano a stento
ridotti pelle e ossa…»
Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Firenze, 1945.
Premessa
I
l miglioramento delle condizioni di salute
nei Paesi in via di sviluppo è senza dubbio l’obiettivo più importante della cooperazione internazionale; data la sua rilevanza,
richiede un momento di riflessione sulle
zone d’ombra che spesso, sfuggendo all‘apprezzamento dell‘opinione pubblica, siamo
portati ad ignorare.
È un fatto importante che dopo più di 40
anni di cooperazione internazionale, successivi a secoli di colonialismo, la condizione di
salute dei Paesi in via di sviluppo non sia affatto migliorata. Nonostante la dichiarazione
di Alma Ata del 19781, il progetto delle Nazioni Unite “Salute per tutti entro l’anno 2000”
è slittato al 2015, trasformandosi poi in “Millennium Development Goals”2, con obiettivi
ridimensionati avuto riguardo al progetto originario e comunque già in ritardo rispetto alla
tabella di marcia prefissata.
Perché questa incapacità di agire sulla salute? In questi 40 anni sono cambiati i rapporti fra i due blocchi, arbitri del destino di
intere popolazioni, ma un rapporto purtroppo è rimasto immutato, anzi ha assunto proporzioni più gravi: il rapporto tra Nord e Sud
del mondo3.
1 World Health Organization (WHO) e Children’s
Emergency Fund (UNICEF), Alma-Ata 1978 Primary
Health Care, “Health for all” Series, No. 1,Geneva,
1978.
2 Per un approfondimento ed una visione integrale del
documento citato si veda E. Missoni, G. Pacileo, Le politiche delle organizzazioni internazionali e gli obiettivi di sviluppo del Millennio, Pisa, 2006.
3 A cinque secoli dal viaggio di Colombo, conviene ricordare che il 1492 segna l’inizio di una lotta accanita
tra le potenze coloniali per la spartizione ed il controllo delle risorse materiali del pianeta, per lo sfruttamento di un potenziale di manodopera abbondante
Il caso del Tracoma
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Il primo vive quasi soffocato dai beni di
consumo, il secondo non è in grado di offrire le calorie indispensabili per assicurare la
sopravvivenza all’organismo umano. Se da
un lato assistiamo ad un avanzamento straordinario in molti campi della ricerca medica,
compresa la disponibilità di farmaci, strumenti per le diagnosi ed altre tecnologie che
servono a garantire la salute, dall’altro lato
questo progresso non si applica a tutti, se è
vero che ogni anno 14 milioni4 di uomini e
donne muoiono per malattie infettive e parassitarie, le quali colpiscono prevalentemente coloro che vivono nei Paesi poveri. Malattie
che sono per lo più prevenibili e curabili.
Un esempio che consideri la propagazione di una specifica patologia può illustrare le
questioni in gioco. Sulla base di questa considerazione si è scelto di focalizzare l’analisi su
un’antica malattia degli occhi: il tracoma. Debellato nei paesi industrializzati durante gli
anni Sessanta, resta ancora oggi la prima causa di cecità nei Paesi in via di sviluppo. Dunque una scelta giustificata in quanto questa
a basso costo, oltreché l’origine dell’incrinatura tra
Nord e Sud. A voler essere precisi, bisognerebbe anche
distinguere tra Nord e il Nord che si colloca all’interno
del Sud, cioè quello delle élite privilegiate del Sud con
stili di consumo uguali a quelli del Nord. Inoltre c’é
un Sud all’interno del Nord: il nostro Quarto Mondo
(concetto che riprendo da Jean Chesneaux nelle sue riflessioni contenute in Che cos’è la storia. Cancelliamo il
passato?, Milano, 1977). Il miracolo economico e tecnico occidentale ha dato luogo su scala mondiale ad un
preoccupante fenomeno di dualismo e ha determinato
un quadro generale caratterizzato da un’ineguaglianza economica senza precedenti tra le diverse nazioni
del pianeta. Oggi, un decimo dell’umanità detiene circa il quaranta per cento delle risorse energetiche mondiali. In pratica (come ci spiega puntualmente Vaclav
Smil nel suo libro Storia dell’energia, Bologna, 2000 ),
questo significa che il consumo settimanale di benzina di una tipica famiglia americana con due macchine
equivale al consumo energetico annuo di un agiato
contadino indiano!
4 D. Balabanova, Health sector reform and equity in transition, in “Health System Knowledge Network, WHO
Commission on social determinants of health”, 2007.
Richiamiamo qui l’attenzione sulla bibliografia a seguire che, di necessità, in mancanza di recenti pubblicazioni sui temi trattati dall’articolo in lingua italiana, sarà prevalentemente in lingua inglese ed in
castigliano.
17
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
malattia rappresenta uno degli esempi più significativi del divario esistente tra medicina
e realtà del mondo.
1. il tracoma:
“malattia della miseria” lungo la storia
Fonte: World Health Organization, Programme for the
Prevention of blindness, Archiving community support
for trachoma control, London, 1996.
Prima causa di cecità nel mondo, il tracoma è
un’antica patologia che tende a scomparire spontaneamente con il miglioramento delle condizioni igieniche e lo sviluppo socio-economico. Ricercando l’etimologia sul dizionario5 troveremo
questa definizione: «la parola deriva dal latino trachoma, e dal greco tráchoma, derivazione di trachy/s
‘aspro, ruvido’, per la scabrosità delle palpebre».
Possiamo trovare ulteriori informazioni in
un glossario medico6: «la Chlamydia è il microbo responsabile del tracoma, provoca arrossamento e gonfiore delle palpebre, finché,
con ripetute reinfezioni, le ciglia si ripiegano
verso l’interno dell’occhio così da trasformare
ogni battito delle palpebre in un graffio, che
crea microlesioni profonde alla cornea. Tale
processo è molto doloroso e gradualmente
conduce a una cecità totale e irreversibile».
Secondo le rilevazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sono 146 milioni7 le
persone colpite da questa malattia a causa della
scarsità d’acqua potabile, delle condizioni sanitarie precarie, dell’abbondanza di mosche ed
ancora una volta come conseguenza dell’isola5 The American encyclopaedia and dictionary of ophthalmology,
Vol XVII, Chicago, 1921, consultabile al link http://www.
archive.org/stream/americanencyclop06wood/americanencyclop06wood_djvu.txt; sito consultato il 13/05/2011.
6 The Medline Plus Encyclopedia, www.nlm.nih.gov/medlineplus/ency/article/001486.htm; sito consultato in
data 13/05/2011.
7 “Bulletin of the World Health Organization”, 2008.
Il caso del Tracoma
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mento e della povertà. Questi fattori, che contribuiscono a rendere inarrestabile la trasmissione dell’infezione, sono i principali limiti nella
lotta contro il tracoma che colpisce soprattutto
le popolazioni delle zone aride del pianeta.
Il costo per prevenire questa agonia? 27 centesimi8. Un attacco può, infatti, essere trattato
velocemente ed efficacemente quando si trova
nella sua fase iniziale, con un piccolo tubo di
pomata antibiotica appartenete alla classe delle tetracicline. Per i paesi industrializzati è una
cifra insignificante, specialmente se la rapportiamo alla salute della vista, eppure, per i Paesi
in via di sviluppo è così alta da causare, in alcune regioni, la cecità nell’80% dei bambini9.
Fonte: Trachoma Expert Committee Fact Sheet, International
Trachoma Initiative, 2008
L’epidemia è particolarmente grave nei Paesi dove il livello di povertà è estremo, così lo
troviamo iperendemico nell’Africa Sahariana e
Sub-Sahariana, in Medio Oriente, in India, nel
Sudest asiatico, in parte della Cina e in Australia dove si registra un elevato tasso d’infezioni
da tracoma tra gli aborigeni10.
Più in generale, va rilevato come il 90%11
delle persone non vedenti vive nei Paesi in
8 The Role of Optometry in Vision2020, in “Community Eye
Health”, XV (2008), n. 43.
9 N. Zerihun, D. Mabey, Blindness and low vision in Jimma Zone,
Ethiopia: results of a population-based survey, in “Ophthalmic
Epidemiology”, 2007.
10 S.K .West, Trachoma: new assault on an ancient disease,
in “Progress in Retinal and Eye Research”, 2004.
11 S.P. Mariotti, R. Pararajasegaram, S. Resnikoff,
Trachoma: looking forward to Global Elimination of
Trachoma by 2020, in “The American Journal of Tropical
Medicine and Hygiene”, 2003.
18
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
via di sviluppo, specialmente in zone rurali e
nelle periferie degradate delle città dove, date
le precarie condizioni ambientali, sanitarie e
socio-economiche (malnutrizione, malattie,
mancanza di medicine e di cure adeguate), un
individuo ha dieci probabilità in più di perdere la vista rispetto ad una persona che vive nei
paesi industrializzati12.
Il dato rilevante è che nell’80%13dei casi la
cecità può essere evitata attuando programmi
di prevenzione e di cura, i cui costi, come abbiamo visto, sono bassissimi.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità,
che dal 2001 promuove una vasta campagna
mondiale per la lotta al tracoma col nome Vision2020, stima che nel 2020, se non saranno
moltiplicati gli sforzi nel campo della cura e
della prevenzione della cecità, gli attuali 37
milioni di non vedenti del pianeta, dei quali
1.500.000 sono bambini, aumenteranno di
numero fino a diventare circa 75 milioni14.
In considerazione dei dati citati, appare
chiaro che la realizzazione di programmi per
la cura e la prevenzione del tracoma è un’assoluta priorità per il futuro delle popolazioni
colpite, mentre si calcola che tale operazione
richiederebbe un impegno economico di 200
milioni di dollari l’anno15.
Potrebbero apparire solamente cifre; le cose
cambiano se si pensa che con sole tre dosi di
vitamina A, le carenze vitaminiche rendono
vulnerabili al battere del tracoma, pari a una
spesa di € 1 a persona all’anno, si può salvare
la vista a un bambino e che con soli € 30 si può
eseguire un’operazione di cataratta16.
La cecità conseguente alla diffusione del
tracoma, pur non essendo mortale, comporta
enormi costi sociali ed è legata a un processo di
emarginazione dei disabili con il conseguen12 Ayerba Maria, La Visión como Herramienta para el
Desarrollo, Granada, 2008.
13 S. Resnikoff, D. Pascolini, D. Etya’ale, I. Kocur, R.
Pararajasegaram, G.P. Pokharel, Global data on visual impairment, in “Bulletin World Health Organization”, 2008.
14 Ibidem
15 J.W. Mecaskey, C. A. Knirsch, J. A. Kumaresan, J. A. Cook,
The possibility of eliminating blinding trachoma, in “Lancet
Infectious Diseases”, 2003.
16 Ibidem
Il caso del Tracoma
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te risultato di una minore aspettativa di vita.
L’impossibilità d’accesso all’istruzione, la riduzione della produttività per le persone che non
possono più condurre autonomamente la propria vita o lavorare, le spese di riabilitazione
causate dalla malattia, costituiscono ostacoli
sociali ed economici che incidono in maniera
importante sul bilancio di ciascuna famiglia,
sulle comunità locali, sui servizi sociali e sanitari nel loro complesso.
Ma mentre imperversa l’emergenza di un
decisivo contrasto a questa malattia, tv giornali e media non se ne occupano perché non
è tema che possa andare in prima pagina, non
vi è interesse per una corretta informazione,
poche persone in Europa e negli Stati Uniti ricordano la tetraciclina e quasi nessuno sa che
il tracoma continua a essere un flagello per la
gran parte della popolazione mondiale.
La sfida autentica e più impegnativa consiste, nel lungo periodo, nell’individuare un percorso di sviluppo socio-economico stabile per
i Paesi poveri. Nell’impossibilità di arrivare velocemente a queste condizioni ideali in tutti i
contesti interessati, sono stati finora adottati
due diversi approcci: vaccino e antibiotico.
Dopo la scoperta della cura antibiotica mediante la somministrazione della tetraciclina,
avvenuta negli Stati Uniti nel 1941, diversi
centri di ricerca farmaceutica continuarono gli
studi per la realizzazione di un vaccino. In una
prima fase, il proseguo delle ricerche venne
stimolato da alcune rilevazioni sui limiti della
cura antibiotica che evidenziarono la parziale o temporanea efficacia di quest’approccio,
quando non addirittura gravi complicazioni
nella profilassi e il rischio di reinfezioni conseguenti al rafforzamento del battere. Purtroppo però, contrastata l’epidemia nel mondo industrializzato, queste considerazioni vennero
presto oscurate con la totale cessazione delle
investigazioni farmaceutiche17.
Il principale approccio odierno è quindi
fondato sulla cura antibiotica risalente al 1941
ma, diversamente da quanto avvenne nelle società occidentali, la sistematica somministrazione della tetraciclina non è sempre accettata
17 C. R. Dawson and J. Schachter, Trachoma-antibiotics or
vaccine?, in “Investigative Ophthalmology”, 2000.
19
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
nelle comunità rurali oggetto dei programmi.
Inoltre, la partecipazione dell’intera popolazione ai trattamenti è pressoché impossibile,
data l’assenza di infrastrutture adeguate e la
mancanza di personale medico che guidi le popolazioni nella rigorosa profilassi antibiotica.
Attualmente, lo standard terapico per la
cura raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità consta nella somministrazione della tetraciclina in pomata due volte al
giorno per cinque giorni, una volta al mese,
per sei mesi. Nonostante 40 anni di esperienza c’è però tutt’ora un dubbio di fondo sulla
scelta della cura antibiotica come miglior soluzione al problema18.
Le ricerche sul tracoma dovrebbero essere
strettamente collegate alla transizione dal trattamento nell’ambito dei programmi della cooperazione alla cura della vista basata sul sistema
sanitario pubblico nazionale e, altrettanto importante, sarebbe la ripresa delle ricerche farmaceutiche per l’individuazione di un vaccino.
Senza rinunciare all’influenza delle considerazioni di carattere medico-scientifico, occorre
ricordare che le misure attualmente adottate
trascurano la pluralità di fattori che contribuiscono al diffondersi dell’epidemia. Vi sono,
infatti, infinite peculiarità nelle tradizioni popolari nazionali e regionali che guidano e modellano le abitudini delle popolazioni colpite e
che rappresentano vincoli molto stretti nella
lotta contro la trasmissione dell’infezione.
Dunque, l’unica condotta ragionevole appare quella che vede, accanto agli interventi in
campo medico, anche un approfondito studio
dei fattori culturali e sociali che, come avviene
per la povertà, la disuguaglianza nella distribuzione delle risorse o le migrazioni, condizionano la propagazione delle malattie. In questa
prospettiva, risulta fondamentale l’avvio di
studi per migliorare la comunicazione verso le
popolazioni destinatarie degli interventi sulle
modalità di trasmissione del battere, capace di
incidere efficacemente sulle diverse pratiche
del quotidiano che contribuiscono ad accrescere il rischio di contagio.
Da uno studio effettuato nel Nepal possiamo informarci sui modi di trasmissione del
18 Ibidem
Il caso del Tracoma
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tracoma in un villaggio: le popolazioni affette
si trasmettono l’infezione scambiandosi vestiti, asciugamani e vivendo in comunità allargate, in questo modo il tracoma trova un terreno
fertile e si diffonde tra i membri di una famiglia
o tra componenti di famiglie che vivono vicine.
Così, nello stesso villaggio, sono generalmente
presenti più focolai del battere. La presenza di
animali che condividono la stessa abitazione
sembra poi aggravare il livello dell’infezione,
lo stesso avviene anche in relazione al numero di persone che dividono la stessa abitazione
per dormire19.
D’altro canto, nell’ambito di un progetto
per la costruzione di latrine nei villaggi rurali in Etiopia, Paese maggiormente colpito da
questa malattia, uno studio del 2005 descrive
così le ragioni che spiegano la maggior incidenza della malattia nelle donne: «women
have especially benefits from having latrins in
their communities. Because woman in endemic
communities were traditionally forced to wait
until dark to defecate for privacy, latrines have allowed them gain a measure of equality to men in
addition to have health advantage»20.
In India sono stati pubblicati dati dai quali
emerge la necessità di sensibilizzare l’opinione pubblica e gli operatori sanitari internazionali: «trachoma has been largely forgotten as
a public health issue. Community with trachoma
are often those with the fewest resources it take on
health issue, and trachoma strikes the most vulnerable members of those communities: women
and children»21.
Sulla stessa linea lo studio pubblicato
dall’istituzione International Trachoma Initiative
19 E. Harding, A. Aguirre, Two doses of azithromicin to
eliminate trachoma, in “The New England Journal of
Medicine”, 2008.
20 P.M. Emerson, Role of flies and provision of latrines in
trachoma control: cluster-ran-demised controlled trial, in
“The Lancet”, 2005. Sul cruciale ruolo delle donne nella
prevenzione si veda inoltre l’articolo di RC. Brunhamt,
The prevalence of Chlamydia Trachomatis infection among
mothers of children with trachoma, in “American Journal
of Epidemiology”, 1990 ed il rapporto pubblicato nel
2000 dall’organizzazione Global Alliance for Women’s
Health, Trachoma is a women’s health issue.
21 K. Park, Textbook of Preventive and Social Medicine,
Jabalpur, 2003.
20
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
che, fondata nel 1998 per rispondere all’emergenza del tracoma, denuncia, a chiare lettere,
la mancata considerazione del tracoma negli
interventi della cooperazione sanitaria internazionale: «although the disease is widespread,
trachoma mostly affects poor and isolated communities, meaning it receives little international attention as a public health issue. As a result, few people
have heard of trachoma, even though trachoma is
the leading cause of preventable blindness, with 63
million people currently suffering from active infection. In fact, it is one of the oldest infectious diseases
known to mankind; references to trachoma appear
on papyrus scrolls dating back to ancient Egypt»22.
A questa mancanza di considerazione internazionale corrisponde anche un esiguo numero di recenti studi delle scienze sociali sull’attuale diffusione del tracoma, salvo rarissimi
casi. Tra questi, si segnala Menendez Alvaro,
docente di Storia della Medicina dell’Università di Granada che scrive: «porque lo dramático
es que esta enfermedad infecciosa se puede evitar y
tratar; de hecho, hasta hace sólo 50 años se podían
ver casos de tracoma en zonas de España, Portugal o
Italia. Al final es sólo cuestión de medios»23.
Prioprio la Spagna ha di recente presentato una ricerca epidemiologica sul tracoma:
“Medioambiente y salud en la enfermedad de
la miseria: epidemiologia del tracoma en la
España contemporanea, 1900-1965”.
2.2 il legame fra il tracoma
e le pratiche sanitarie:
il caso dell’immigrazione
Dal punto di vista storico, si ipotizza che la
malattia abbia avuto il suo nucleo originario
nell’antico Egitto e gli studi sembrerebbero
confermarne la diffusione in Europa durante le guerre napoleoniche, agli inizi del 1800,
quando l’Egitto divenne un campo di battaglia
delle truppe inglesi, francesi e turche24.
22 International Trachoma Initiative, Report on the 2nd
Global Scientific Meeting on Trachoma, Geneva, 2003.
23 A. Menendez, Consideraciones sobre la Higiene pública,
Granada, 2000.
24 Per un approfondimento di carattere storico: C. Trompoukis,
D. Kourkoutas, Trachoma in late antiquity and early Byzantine periods, Crete, 2007.
Il caso del Tracoma
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La testimonianza della sua diffusione nel
Ventesimo secolo in Europa e negli Stati Uniti,
sono i centri antitracoma che nacquero velocemente per rispondere all’emergenza mentre,
le autorità sanitarie, allarmate, iniziarono a
cercare forme di controllo che permettessero
di isolare le persone infette.
Ci sembra utile fare riferimento ad un’esperienza relativa a queste pratiche di controllo
sanitario forzato negli Stati Uniti, precisamente a Ellis Island. Un isolotto di fronte a Manhattan che fu la prima tappa per oltre quindici
milioni di immigrati dalla metà del Diciannovesimo secolo fino agli anni Settanta del Ventesimo secolo.
Quando le cosiddette navi della speranza
approdavano nel porto di New York, i passeggeri di prima e di seconda classe ricevevano la
visita degli ufficiali dell’immigrazione nelle
loro cabine, dove venivano interrogati e visitati a loro comodo. Diversa era invece la sorte
dei passeggeri di terza classe, che venivano
trasbordati, a volte dopo giorni di attesa, su dei
traghetti che li trasferivano a Ellis Island.
L’ispezione per la terza classe era infinitamente più meticolosa e umiliante di quelle effettuate a bordo dei piroscafi. Appena arrivati, gli
immigrati di terza classe si vedevano appuntate
alle vesti delle targhette con un numero di identificazione che, come ricordano le numerose testimonianze dei reduci dell’isola, inducevano
molti di loro a sentirsi come “merce al mercato”
o come “bestiame destinato alla vendita”. Essi
venivano poi indirizzati al grande deposito dei
bagagli e, quindi, al secondo piano, nella sala di
registrazione, dove dovevano affrontare dottori
e ispettori. I medici li esaminavano, cercando
sintomi di malattie comuni e non, alcune delle quali impedivano l’ingresso legale negli Stati Uniti: «a series of lows extended excludability to
persons with epilepsy, tubercolosis, trachoma, bouth
of insanity, varous categories of mental retardation,
and to anarchists and prostitutes»25.
25 A. Emanuelle, Six Second Per Eyelid: The Medical Inspection
of Immigrants at Ellis Island, in “Dynamics”, 1997. Ulteriori
dati sui controlli sanitari possono essere rintracciati
nello studio di K. Howard, Based on the Work at Ellis Island,
in “Journal of the American Association”, 1914 e E. Yew,
Medical Inspection of Immigrants at Ellis Island, 1891-1924, in
“Bulletin of New York Academy of Medicine”, 1980.
21
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
Riportiamo una descrizione di Teodorico Rosati, ispettore sanitario sulle navi degli emigranti:
«Accovacciati sulla coperta, presso le scale, con
i piatti tra le gambe, e il pezzo di pane tra i piedi, i nostri emigranti mangiavano il loro pasto
come i poveretti alle porte dei conventi. È un avvilimento dal lato morale e un pericolo da quello
igienico, perché ognuno può immaginarsi che
cosa sia una coperta di piroscafo sballottato dal
mare sul quale si rovesciano tutte le immondizie
volontarie ed involontarie di quella popolazione
viaggiante.
L’insudiciamento dei dormitori è tale che bisogna ogni mattina fare uscire sul ponte scoperto
gli emigrati per nettare i pavimenti. Secondo il
regolamento i dormitori sono spazzati con segatura, occorrendo si mescolano disinfettanti,
sono lavati diligentemente ed asciugati. Ma tutte
le deiezioni e le immondizie che si accumulano
sui pavimenti corrompono l’aria con forti emanazioni e la pulizia sarà difficile. La traversata durava 25/30 giorni, talvolta qualche giorno meno,
dipendeva dalle “carrette del mare”. I nostri emigranti arrivavano a New York e, fino al 1892, il
centro deputato alla loro accoglienza era Castle
Garden che però, ad un certo momento, si rivelò
insufficiente ad accogliere questa enorme massa
di gente.
Ad Ellis Island i nostri emigranti dovevano subire tutta una serie di controlli sanitari da parte di
ispettori che incutevano timore con le loro divise
e con il loro portamento. Il primo controllo, che
questi ispettori sanitari facevano, era guardare
loro gli occhi per vedere se avessero il tracoma;
seguiva tutta una serie di altre ispezioni di carattere sanitario. Se ci fosse stato qualche caso dubbio, veniva inviato ad una commissione speciale
che avrebbe eseguito un esame più attento. Naturalmente, se si fosse sospettato che il nostro emigrante potesse essere portatore di qualche malattia contagiosa, oppure fosse stato, anche più
semplicemente, troppo in là negli anni, oppure
non avesse avuto i soldi, veniva talvolta mandato
indietro, rispedito a casa»26.
3. alcuni cenni sullo sviluppo
della cooperazione sanitaria internazionale
In quegli stessi anni, quando l’emigrazione
europea ed asiatica si riversava negli Stati
Uniti, la fondazione, avvenuta nel primo
quarto del Ventesimo secolo, delle prime
26 Testimonianza scaricabile al sito http://www.ecoistitutoticino.org/emigrazione/cavenago2-5.htm; sito
consultato in data 13/05/2011.
Il caso del Tracoma
issn 2035-584x
agenzie sanitarie internazionali con personale
permanente diede avvio ai primi programmi
su scala mondiale. Tra le agenzie più
importanti: l’Ufficio Internazionale dell’Igiene
Pubblica di Parigi, la Divisione per la Salute
Internazionale della Fondazione Rockfeller,
l’Ufficio Internazionale del Lavoro, la Lega
Internazionale delle Società della Croce Rossa
e l’Organizzazione Sanitaria della Lega delle
Nazioni che sorse immediatamente dopo la
Prima guerra mondiale.
Buona parte dei Paesi occidentali sostenne
allora che i problemi dei paesi poveri non erano
imputabili allo sfruttamento economico, o alle
regole del commercio internazionale, o alla dipendenza politico-militare, ma che erano il prodotto dell’alto tasso di natalità. Concezione ideologica che provocò, come diretta conseguenza,
una scarsa attuazione sul piano culturale e politico-economico. Inoltre, questa forma di concettualizzare il problema, convertì rapidamente le
donne nella causa principale della povertà27.
Nel cosiddetto Terzo Mondo le decisioni
riguardanti la natura e l’estensione dei servizi sanitari, rimasero a lungo una prerogativa
delle istituzioni coloniali europee e l’impatto
del sistema sanitario internazionale in Africa
e in Asia si impose e si rafforzò su queste basi
anche dopo la Seconda guerra mondiale.
La fondazione delle Nazioni Unite, che successe alla Lega delle Nazioni, dette avvio alla
nascita di nuove organizzazioni come la World
Health Organization e Children’s Emergency
Fund che emersero come i più potenti centri
di produzione e distribuzione d’esperti in medicina e nutrizione28.
Va in ogni caso rilevato come gli unici servizi sanitari attivati nelle zone rurali erano a
cura di missionari, mentre per la maggioranza
della popolazione il contatto con la medicina
occidentale era limitato a occasionali campagne mediche. Un’altra caratteristica dei servizi
sanitari era la tendenza tecnica degli interventi.
La salute era definita come assenza di malattia
e i metodi d’intervento si esaurivano nell’attac27 W. Anderson, Postcolonial History of Medicine. Locating
Medical History, Baltimore, 2004.
28 A.L.S. Staples, Constructing international authority in
the World Health Organization, Columbus, 1988.
22
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
care le malattie occasionalmente. La fede nella
medicina occidentale distolse inoltre le autorità mediche coloniali dall’investigare oltre sui
colonizzati29.
Quanto poi alla fiducia nella medicina occidentale, il legame tra parassitologia e medicina
tropicale fece credere che le malattie potessero essere curate senza il coinvolgimento delle
persone ammalate. Questa visione tecnica fu
scelta come la migliore soluzione dai medici
inglesi negli anni Venti così come dall’ Organizzazione Mondiale della Sanità negli anni
Sessanta: per il successo erano richiesti solamente agenti chimici ed esperti che potessero
amministrarli alla popolazione. La popolazione a rischio può essere ignorata30.
La letteratura dominante nel modello occidentale di salute e sviluppo legava al controllo
delle malattie la capacità di generare miglioramenti economici. Doppia decontestualizzazione dunque; in primo luogo la salute è un’entità
autonoma, che può essere intesa al margine dei
processi sociali e ambientali, controllata mediante l’eliminazione dei parassiti. In secondo
luogo elimina la necessità di interventi in campo politico per migliorare le condizioni di vita.
Le cure mediche destinate alla popolazione
erano finalizzate al mantenimento della forza lavoro evitando di intaccare la salute degli
stanziamenti europei.
Questo fatto ebbe due importanti sviluppi.
Il successo o il fallimento degli interventi sanitari era misurato dal livello di produzione, invece di misurarsi sul livello di salute dei nativi.
Inoltre, per quanto riguarda l’estensione delle
strutture sanitarie, venivano collocate vicino
alle aree di stanziamento degli europei, e pertanto, concentrati nelle aree urbane. In questo
contesto, «il governo coloniale non ha sviluppato nessun servizio sanitario per la generalità
della popolazione»31.
Solo negli anni Sessanta la decolonizzazione
avviò delle importanti trasformazioni: il gra29 Ibidem
30 R.M. Doménech, La Historia de la medicina en el siglo
XXI. Una vision poscolonial, Granada, 2007.
31 A.M. Brandt, From Analysis to Advocacy. Crossing
Boundaries as a Historian of Public Health, Baltimore,
2004.
Il caso del Tracoma
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duale smantellamento del controllo economico
coloniale in Asia e Africa limitò per un breve
periodo le ingerenze occidentali ed anche in
relazione ai programmi sanitari vi furono rivendicazioni d’autonomia. Allo stesso tempo,
la decolonizzazione produsse una crescente
domanda di figure professionali europee, altamente specializzate e fondamentali per lo sviluppo dei paesi di nuova indipendenza32.
Le centralità che cominciavano ad assumere le agenzie internazionali nella promozione
della salute erano direttamente collegate al
processo d’indipendenza politica ed economica dei nuovi Paesi.
Il consolidamento dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità ed il suo immediato riconoscimento come indiscutibile leader della
salute mondiale, grazie al suo costante riferimento ai risultati decantati dalla letteratura
prodotta dalle agenzie durante i due conflitti
mondiali, crearono allora le migliori aspettative33. Le istituzioni sanitarie, così come la retorica del periodo, dimostrarono d’aver esteso
le loro preoccupazioni sull’intera popolazione
e, le strutture sanitarie di epoca coloniale, nate
nelle zone urbane, venivano ora allargate a diverse comunità34.
Ma il periodo post-bellico fu anche un momento di crescente interesse dei poteri coloniali
verso la possibilità di sviluppare nuovi intrecci,
nuove relazioni ed accordi, che ebbero l’effetto
di incrementare gli investimenti nei Paesi in
via di sviluppo. Pertanto, «le industrie realizzavano che la manodopera di cui necessitavano richiede investimenti economici e sociali, inclusi
gli investimenti nel campo della salute»35.
Nella realtà ci fu il timore che un possibile
sviluppo sociale ed una maggiore indipendenza politica dei Paesi poveri potessero rivelarsi critici per le economie industrializzate
del mondo occidentale, le cui necessità, con32 B. Khoshnood, La evoluciòn de la salud internacional
en el siglio XX, in “Revista de Salud Pública de México”,
2002.
33 E. Crawford, The Universe of International Science, in
“Science History Publication”, 2000.
34 L. Briggs, Demon and Mothers in the Social Laboratory,
in “Reproducing Empire”, 2002.
35 Ibidem.
23
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
tinuavano a richiedere un mercato nei Paesi
in via di sviluppo36. Non solo l’interesse alla
produzione, ma anche un mercato di consumo. Negli Stati Uniti, la recessione seguita
alla Seconda guerra mondiale e l’incremento
di manufatti richiesero anche un corrispondente incremento dell’esportazione. Allora
diventò importante il controllo delle malattie
tropicali come mezzo per salvaguardare gli
equilibri economici.
In aggiunta al vantaggio economico nel
controllo delle malattie tropicali, presto il successo medico fu visto come punto chiave nella
lotta contro il comunismo che negli anni Quaranta era percepito come il maggior ostacolo
alla rivitalizzazione del mercato globale37.
A questo proposito, è indicativo che gli
stessi esponenti politici statunitensi abbiano
commentato in più interventi che «la guerra al
comunismo era la prima motivazione dell’amministrazione Eisenhower nel finanziare l’Organizzazione Mondiale della Sanità per il “Malaria Eradicating Program” nel 1957»38.
A fortificare la presenza dei modelli europei
fu anche l’interesse dei nuovi leader africani
nell’ottenimento dei finanziamenti. Le élites
locali, che generalmente vivevano nelle zone
urbane, richiedevano la migliore assistenza
sanitaria che il governo era in grado di garantirgli. Questa domanda fece sì che «il governo
attuò una serie d’investimenti in grandi ospedali nelle zone urbane. In mancanza d’altri
fondi, i governi non riuscirono a investire anche le zone rurali»39.
La diseguaglianza nella distribuzione di
servizi sanitari si radicalizzò su queste basi
aggravandosi negli anni immediatamente
successivi alle crisi economiche degli anni Settanta. Le ripercussioni saranno pesantissime
perché, com’è facile intuire, l’impatto sociale
36 B. Furman, A Profile of the Unites States Public Health
Service, Harvard, 1973.
37 S. Litsios, Other Approach to the Public Health, in
“Bulletin of History of Medicine”, 2005.
38 B. Furman, A Profile of the Unites States Public Health
Service, cit.
39 A.M. Moulin, Historical Studies about Scientific
Development and European Expansion, New York, 2001.
Si veda inoltre Vaughan Megan, Colonial Power and
African Illness, Stanford, 1991.
Il caso del Tracoma
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delle crisi economiche in campo sanitario è
più devastante che in altri ambiti della vita sociale. I risultati di questa radicalizzazione possono essere interpretati alla luce degli studi
pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della
Sanità e dalla Banca Mondiale.
4. le politiche della banca mondiale
e l’eclisse dell’organizzazione mondiale
della sanità
Le crisi petrolifere degli anni Settanta (seguito della guerra arabo-israeliana 1973 e rivoluzione iraniana 1979) ebbero importanti
effetti negativi sull’economia mondiale, colpendo duramente tutti i paesi importatori
di petrolio. Le misure adottate per far fronte
all’aumento del costo dell’energia determinarono una fase di recessione.
Per i Paesi in via di sviluppo, che negli anni
Sessanta avevano registrato una significativa
crescita economica, le conseguenze furono ancora più gravi perché, in aggiunta all’aumento
del costo del petrolio, ci fu un ribasso del prezzo delle materie prime. Lo shock economico fu
assorbito abbastanza velocemente nei paesi industrializzati ma per la maggior parte dei Paesi
poveri, principalmente per quelli africani, segnò l’inizio di una difficile crisi, contrassegnata
da impoverimento e indebitamento. Il debito è
stato una conseguenza devastante e, ad oggi, irreparabile. Come aggravante, dobbiamo aggiungere che l’80%40 dei prestiti erogati era trasferito
all’estero da parte di governi locali corrotti.
È precisamente in questo momento di difficoltà economico-sociali che interviene la
Banca Mondiale con la sua politica di structural
adjustment delle economie nei Paesi in via di
sviluppo dettando condizioni vincolanti per la
concessione dei crediti: drastici tagli nella spesa
pubblica (inclusi servizi sanitari), privatizzazioni in tutti i settori, apertura agli investimenti
esteri. Si minavano le basi di ogni futuro mi40 C. Young, The End of the Post-Colonial State in Africa?, in
“African Affairs”, 2004. Per ulteriori approfondimenti si
vedano inoltre W. Reno, Clandestine Economies, Violence
and States in Africa, in “Journal of International Affairs”,
2000 e L. Eisemberg, The sleep of reason produces monsters. Human costs of economic sanctions, in “New England
Journal of Medicine”, 1997.
24
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
glioramento economico dei paesi più poveri41.
Nel 1987 la Banca Mondiale presenta per la
prima volta un documento per la promozione
della sanità. Contiene una serie d’indicazioni
da seguire nella ristrutturazione dei servizi sanitari con valore restrittivo per i paesi indebitati. Il documento si compone di quattro fondamentali capitoli, ciascuno dei quali specifica
le linee guida:
a) introdurre nelle strutture sanitarie pubbliche la partecipazione dei privati;
b) promuovere programmi assicurativi;
c) favorire la privatizzazione dei servizi
sanitari;
d) decentralizzare il governo della sanità42.
Da questi quattro punti, oltre al passaggio
di responsabilità al capitale dei privati, si presentano anche le condizioni necessarie per
promuovere le assicurazioni.
Gli effetti non tardano a manifestarsi. Lo
stesso UNICEF denuncia nel rapporto del 1989
che a causa di questi aggiustamenti, giudicati
dagli stessi operatori come inumani, inefficienti, non necessari, «almeno mezzo milione
di bambini sono morti negli ultimi dodici mesi
a causa della gravissima crisi economica»43; dal
che si evince che la salute nei paesi più poveri
si è notevolmente aggravata.
La stessa Organizzazione Mondiale della
Sanità vive negli anni Ottanta una profonda
crisi di legittimità. Nel 1988 viene eletto direttore un ricercatore giapponese, Hiroshi
Nakajiama, che sostituì il precedente Mahlera dopo la travagliata campagna per i farmaci
essenziali lanciata da quest’ultimo44. Questo
41 J.K. Boyce, L. Ndikumana, Is Africa a Net Creditor? New
Estimate of Capital Flight from Severely Indebted Sub-Saharan
African Counties, 1970-1996, in “Journal of Development
Studies”, 2001.
42 Per una visione integrale del documento della World
Bank, Financing Health Services in Developing Countries. An
Agenda for Reform, Washington DC, 1987.
43 J. P. Grant, The State of the World’s Children,
Oxford, 1989.
44 Il blocco dei finanziamenti budgetari, la crisi nei rapporti con il principale contribuente, gli USA, e la sostituzione della direzione sono stati interpretati da alcuni
studiosi come la diretta conseguenza delle scelte operate dall’amministrazione Mahler. Su questa linea citiamo
i lavori di F. Godlee, WHO in retreat: it is losing its influence?, in “British Medical Journal”, 1994. Inoltre, sempre
Il caso del Tracoma
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nuovo quadro istituzionale vede il blocco dei
finanziamenti all’istituzione e l’aumento, per
conseguenza diretta, di programmi finanziati fuori dal budget ordinario da vari donatori (cartelli industriali, case farmaceutiche) e
agenzie multilaterali come la Banca Mondiale.
All’inizio degli anni Novanta questo apporto
rappresentava il 54%45 dell’intero bilancio. Ma
questo tipo di finanziamento, oltre che vincolare i progetti alla soddisfazione dei bisogni
dei donatori, genera interventi dall’assetto
fortemente gerarchizzato e limitato generalmente alla durata di due anni. La popolazione,
una volta terminato il progetto, viene totalmente abbandonata46.
Inoltre, in programmi verticali, come quello
della vaccinazione universale, i metodi vengono
decisi dai donatori con esiti che possiamo apprezzare dalle pubblicazioni dei medici attivi nei
programmi: alla fine degli anni Ottanta si registra un impegno straordinario per le vaccinazioni nei Paesi in via di sviluppo con buoni risultati, ma si tornò rapidamente si livelli precedenti
quando terminò il programma. Nel caso delle
vaccinazioni in Nigeria, dal 70% della popolazione nel 1990 si è tornati al 20% nel 199447.
Malgrado le raccomandazioni e le dichiarazioni di principio, la salute dei Paesi più poveri,
particolarmente quelli dell’Africa Sub-Sahariana,
è precipitata in un baratro e accanto al progressivo degrado delle strutture pubbliche si assiste
alla fioritura del mercato sanitario, un mercato basato su farmaci illegali e messi in vendita
ovunque. Farmaci spesso scaduti o contraffatti48.
A questo proposito è particolarmente preoccupante l’esistenza di un mercato di farmaci
cinesi contraffatti, il più delle volte mortali e
prodotti esclusivamente per la loro distribudello stesso autore, The World Health Organization: WHO’s
special programmes: undermining from above, in “British
Medical Journal”, 1995.
45 A. Green, An Introduction to Health Planning in developing countries, Oxford, 1999.
46 G. Maciocco, L. Ombroni, L. Roti, Imperialismo umanitario, Firenze, 2007.
47 W. Hsiao, P. Heller, What should macroeconomists know
about health care policy?, in “International Monetary
Fund, Working Paper”, 2007.
48 Commission for Africa, Our common interest: report of
the Commission for Africa, London, 2005.
25
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
zione in Africa. Di fronte all’impossibilità di
accedere alle cure mediche professionali, la
popolazione nei Paesi poveri è costretta ad accettare ciò che gli si offre49.
Margaret Whitehead, professore di Sanità pubblica all’università di Liverpool, in un
articolo pubblicato nel 2001, presenta così gli
effetti prodotti dai programmi dell’ Organizzazione Mondiale della Sanità e le politiche
della Banca Mondiale in cui si riassumono le
conseguenze di questo processo: le malattie
dimenticate, ridotto accesso all’assistenza,
contrabbando di farmaci, impoverimento a
lungo termine50.
I programmi perseguono una politica di intervento su singole malattie che garantiscono
visibilità presso l‘opinione pubblica occidentale, dall’HIV, alle vaccinazioni, alla cardiochirurgia, disinteressandosi dell’intero sistema
sanitario locale. Così, può capitare che in un
paese il trattamento di una singola malattia sia
gratuito (per un tempo limitato), mentre tutto
il resto dell’assistenza sia a pagamento (ovvero
inaccessibile a gran parte della popolazione)51.
Gli operatori sanitari locali, a causa di stipendi bassissimi, o emigrano o si trasferiscono presso il servizio che in quel momento ha
il temporaneo privilegio di ricevere i finanziamenti dai programmi perché pagano stipendi
molto più alti. Il risultato è che, se da una parte,
per le malattie oggetto dei programmi verticali,
si ottiene qualche risultato (finchè durano i finanziamenti), dall’altro si impedisce lo sviluppo di un sistema sanitario nazionale che con fatica i paesi poveri stanno cercando di costruire.
La conseguenza finale di questo imperialismo umanitario, ovvero dell’imposizione di
modelli di intervento tarati sulle esigenze
dei donatori, è il peggioramento delle condizioni generali di salute delle fasce più deboli
della popolazione52.
49 G. Martin, C. Sorenson, T. Faunce, Balancing intellectual monopoly privileges and the needs for essential medicines,
in “Globalization and Health”, 2007.
50 M. Whitehead, Equity and Healthsector reforms: can
low income countries escape the medical poverty trap?, in
“Lancet”, 2001.
51 Ibidem
52 S.A. Okuonzi, Learning from failed health reform, in
Il caso del Tracoma
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Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Organizzazione Mondiale della
Sanità, visti i catastrofici risultati stanno rivedendo (finora solo a parole) le loro posizioni.
Questo ad esempio si legge in un recente studio pubblicato da quattro operatori del Fondo
Monetario Internazionale: le forti iniezioni di
risorse indirizzate a specifiche malattie hanno indebolito le infrastrutture e spostato le
risorse umane necessarie per prevenire e trattare le malattie comuni che colpiscono molte più persone. Inoltre i molteplici donatori,
ciascuno con le proprie priorità e le proprie
procedure amministrative e i propri metodi
di valutazione, hanno prodotto caos e sprechi
nei Paesi in via di sviluppo. Infine un’importante preoccupazione è la sostenibilità di questi programmi, dato che i fondi dei donatori
non sono stabili e duraturi. In conclusione,
per i Paesi poveri, questi fondi hanno rappresentato un elemento di destabilizzazione nella gestione del sistema sanitario53.
Per continuare a parlare di salute e per riflettere sul suo status di merce o diritto, è ora
indispensabile illustrare brevemente la questione dei brevetti sui prodotti farmaceutici.
5. la campagna per i farmaci essenziali
Abbiamo esposto precedentemente la politica
che l’Organizzazione Mondiale della Sanità portò avanti negli anni Settanta definita anche come
“rivoluzione pacifica”, ovvero una nuova politica
di sostegno per i farmaci essenziali a quei Paesi
che erano appena divenuti indipendenti, riscattandosi dai regimi coloniali ed acquisendo per
la prima volta, dopo lunghi anni, secoli a volte,
autonomia anche in campo sanitario.
Fu, in effetti, dopo la decolonizzazione, con
le speranze che essa portava, che l’Organizzazione Mondiale della Sanità elaborò vaste politiche sanitarie; tra queste, quella dei farmaci
essenziali. Il termine farmaco essenziale è un
concetto particolarmente rilevante nella nostra trattazione in quanto ci riconduce alla sfe“Lancet”, 2004.
53 G.J. Scheber, P. Gottet, L.K. Fleisher, A.A. Leive,
Financing Global Health: Mission Unaccomplished, in
“Health Affairs”, 2001.
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ra dei Diritti umani: soddisfano i bisogni della
gran parte della popolazione e quindi dovrebbero essere resi disponibili in ogni momento,
in quantità adeguate e nei dosaggi appropriati
ad un prezzo che l’individuo e la comunità possano permettersi54.
La campagna fu furiosa, osteggiata dai
gruppi d’interesse che cominciavano ad emergere, perché, almeno in linea teorica, veniva a
prevalere l’impegno dei governi per garantire
il diritto alla salute attraverso una serie di misure che fissavano le priorità tra il bisogno dei
pazienti e il rimedio dato dal farmaco.
Per la prima volta il diritto alla salute sancito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità
si tramutò in uno strumento in mano ai governi. Nel 1976 fu redatta una lista dei farmaci
essenziali (Essential Drugs List), cioè medicinali
scientificamente riconosciuti, adatti ad affrontare con efficacia i bisogni essenziali della popolazione: 230 medicinali. Quella lista esiste
ancora, e viene aggiornata periodicamente,
oggi include medicinali salvavita come quelli
recenti contro l’HIV55.
I brevetti sono il tema principale nella guerra ai prezzi dei farmaci, e questo è ciò che determina la mancanza degli stessi nelle zone
d’emergenza sanitaria. La protezione del diritto d’autore stabilisce, infatti, un monopolio del
brevetto, ovvero dell’invenzione intellettuale,
per la durata di 20 anni. Nella fattispecie, i detentori del brevetto farmaceutico (in genere
le multinazionali), detengono incontrastati il
controllo sulle varie fasi della ricerca, o sul singolo farmaco, nella piena titolarità di decidere
per 20 anni le regole di approvvigionamento
del farmaco ed il suo prezzo56.
Le ripercussioni sulla salute dei paesi poveri all’inizio del secondo millennio furono tanto importanti che condussero Médecins Sans
Frontières verso negoziati con l’Organizzazione Mondiale per il Commercio, un’organizzazione relativamente recente che, deputata a re54 R. Adlund, A. Carzaniga, Health services under the
General Agreement on Trade in Services, in “Bulletin of the
World Health Organization”, 2001.
55 Ibidem
56 M. Muller, Taking TRIPS, Patent Law and Access to
Medicines, in “Medicine”, 2007.
Il caso del Tracoma
issn 2035-584x
golamentare gli standard globali per gli scambi
commerciali, si ritrovava paradossalmente a
sostituire l’Organizzazione Mondiale della Sanità nel trattamento della salute globale.
La campagna si è occupata del prezzo dei
farmaci, della loro accessibilità, ma anche dei
target nella squilibrata ricerca medica. Infatti,
nell’attuale contesto politico e commerciale è
ovvio che un’azienda farmaceutica non investirà mai nella ricerca per le malattie da cui
non è possibile trarre profitto visto che colpiscono in prevalenza i poveri.
Gli accordi firmati da tutti i paesi membri
dell’Organizzazione Mondiale del Commercio
stabiliscono che i farmaci, come qualsiasi merce prodotta industrialmente e commercializzabile, devono essere brevettabili per un periodo
minimo di vent’anni. Nei paesi ricchi, dove i
servizi sanitari nazionali garantiscono l’accesso gratuito alle terapie essenziali, un regime di
monopolio rigido non ha ricadute sulla salute
individuale; ma nei paesi poveri si traduce in
prezzi inaccessibili e in morti evitabili.
Nella riunione interministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio di Doha
del 2002 si è ribadito che la lista dei farmaci va
interpretata in modo da favorire la salute pubblica garantendo “l’accesso ai farmaci essenziali per
tutti”, e che ogni governo ha il diritto di tutelare
la salute, adottando le salvaguardie previste, ad
esempio le licenze obbligatorie (che permettono
la produzione e utilizzazione di versioni generiche di un farmaco sotto brevetto)57.
Purtroppo però, con rare eccezioni, gli interessi commerciali continuano a prevalere
sul diritto alla salute dei più deboli. La ricerca farmaceutica assiste al crescere degli investimenti, ma contemporaneamente notiamo
un declino nella capacità di intervenire sulle
malattie più diffuse come la tubercolosi, la
malaria, il tracoma. Si continua ad investire
nelle aree che garantiscono visibilità internazionale ma senza un vero rinnovamento.
Questo ha un impatto drammatico per i Pa57 Per una visione completa degli accordi si veda World
Trade Organization Agreement and Public Health, A Joint
Study by the WHO and WTO Secretariat, 2002 scaricabile
al link http://www.twnside.org.sg/title/5187a.htm;
sito consultato in data 13/05/2011.
27
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
esi poveri e sulla diffusione delle cosiddette
malattie dimenticate58.
Il costo dei farmaci nel 2000 era così elevato
che Médecins Sans Frontières calcolò che “per
curare i primi 15 pazienti malati di HIV la spesa era uguale a quella necessaria per gestire un
intero campo profughi in Congo59.
Organizzazioni come Médecins Sans Frontières lottano per un’interpretazione umana
delle norme di proprietà intellettuale, che permetta l’uso di farmaci generici di qualità, e che
favorisca, o almeno non blocchi, lo sviluppo di
un’industria generica di qualità nei Paesi in via
di sviluppo.
La ricerca scientifica si è ormai concentrata da decenni sulle malattie del mondo ricco:
obesità, calvizie, impotenza, malattie cardiovascolari e tumori. Anche per quanto riguarda la
ricerca sull’HIV, viene finanziata per i pazienti
del nord e i prezzi dei farmaci sono tarati sulle capacità finanziarie dei pazienti ricchi. Il
95%60 dei pazienti sieropositivi che vivono nei
paesi poveri contano poco, al massimo meritano qualche iniziativa di donazione volontaria
di farmaci in occasionali campagne sanitarie.
La soluzione della questione sanitaria di
base nei paesi più poveri resta un passo obbligato sulla strada dei diritti umani.
6. prospettive
L’opinione pubblica è stata accerchiata da
iniziative demagogiche che hanno sfruttato
la disponibilità alla solidarietà, ma la carenza
di una reale volontà politica ha determinato
una qualità della cooperazione che è imbarazzante difendere61.
58 Medicine Sans Frontaire, A caro prezzo, Le disuguaglianze nella salute, Pisa, 2006.
59 Vedi il rapporto redatto per la World Bank da C. Fink,
Implementing the Doha mandate on TRIPS and public health
in “The World Bank Journal”, 2003. Inoltre si veda anche
il lavoro pubblicato da V.B. Kerry, K. Lee, TRIPS, The Doha
declaration and paragraph 6 decision: what are the remaining
steps for protecting access to medicines?, in “Globalization
and Health”, 2007.
60 Medicine Sans Frontaire, A caro prezzo, Le disuguaglianze nella salute, cit.
61 Nella sterminata letteratura critica sulla cooperazione internazionale citiamo qui alcune delle ana-
Il caso del Tracoma
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L’esperienza mostra che la capacità di intervento va valutata non solo per gli impegni
contrattati o le etichette di priorità ma anche e
soprattutto per l’impatto sullo sviluppo.
In maniera non dissimile dall’approccio coloniale, non sono rare, oggi, le incomprensioni
di fondo del contesto in cui si deve operare che
già preannuncerebbero il fallimento dell’intervento: il problema non può essere affrontato in maniera saltuaria o emergenziale. Le questioni legate alla sanità di base hanno carattere
multifattoriale e molte sono le tematiche che
vi sono connesse: autogoverno, sovranità alimentare, immunizzazione regolare, igiene ed
istruzione sono essenziali.
Nel complesso, nonostante i buoni propositi, i rimedi prospettati riguardano solo le carenze di un approccio superficiale egoistico e strumentale, che sin dagli esordi ha caratterizzato
le politiche della cooperazione, non le cause,
le quali vanno individuate nell’attività di quel
gruppo di interesse che ha impedito che la cooperazione fosse strumento di sviluppo da un
lato e dall’altro, per il mondo industrializzato, di
crescita culturale, politica e sociale.
Cosa possiamo fare? Ovvio che non si tratta di pretendere un francescano voto di povertà da parte del mondo industrializzato o
una generosità disinteressata da parte delle
multinazionali farmaceutiche, bensì di studiare e dibattere pubblicamente margini di
manovra che possano essere considerevoli in
ordine alla canalizzazione dei fondi per gli interventi sanitari globali.
Al fine di arginare il problema del tracoma e
di altre malattie prevenibili e curabili che imperversano nei paesi poveri, appare necessaria
una corretta comunicazione, non solo in riferimento alle popolazioni destinatarie dei programmi di cura e prevenzione, ma anche verso
l’opinione pubblica occidentale, in grado di sensibilizzare la società sulla base del binomio di
lisi politologiche più significative: R. Lemarchand
e K. Legg, Political Clientelism and Development: A
Preliminary Analysis, in “Comparative Politics”, 1972; R.A.
Rubinstein, International Health and Development. Theory
and Methods, Greenwood, 1990; C. Clapham, Africa and
the International System. The Politics of State Survival,
Cambridge, 1996; G. Carbone, L’Africa. Gli stati, la politica,
i conflitti, Bologna, 2005.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
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verità e giustizia da cui potrebbe scaturire una
solidarietà autentica.
Sarebbe infatti un errore interpretare i problemi legati alle malattie dimenticate nei Paesi
poveri come fossero inconvenienti secondari
dell’attuale ordine mondiale e non, invece,
conseguenza di politiche sociali ed economiche inadeguate a canalizzare le risorse nella
direzione di un reale sviluppo. Pertanto, un
ultimo e decisivo elemento per la formazione
di un forte movimento d’opinione nasce dalla
riflessione sui nostri stili di vita. Le domande sarebbero molte, ma in questa sede è inevitabile far riferimento agli aspetti legati alla
salute: a fronte dei 27 centesimi per salvare la
vista ad un bambino nei paesi poveri, abbiamo davvero bisogno di grattacieli, delle grandi
banche, degli impianti sportivi e di 600 modelli di automobili? Gli abitanti del Nord non
possono continuare a eludere queste domande se non vogliono aggravare ulteriormente il
conflitto tra Nord e Sud. Col pretesto che non
potremmo di certo accogliere tutti coloro che
vorrebbero stabilirsi nei Paesi industrializzati,
affronteremo la questione dell’emigrazione?
In passato, le società contadine avevano il
senso del vivere quotidiano fondato sulla solidarietà familiare62. Ma questa concezione è
andata del tutto perduta in conseguenza dell’accelerazione dei mutamenti tecnologici ed economici in seno alla società dei consumi, di sradicamenti e migrazioni forzate, di ogni sorta
d’inquinamento e della crescita esponenziale
dei costi sociali ed ecologici. Sicché, l’obiettivo
primario diventa ritrovare questa razionalità
contadina a un livello globale, tale da consentire
il raggiungimento di un livello di vita decente e
stabile per tutta la popolazione del globo.
Elisabetta Scala, laureata in Scienze e Tecniche
dell’Interculturalità.
Si è occupata di Cooperazione Internazionale operando in Etiopia e in Spagna
[email protected]
62 Nella nostra riflessione un richiamo letterario va
all’opera di Ignazio Silone, Fontamara: immagine delle
popolazioni povere ed oppresse di tutto il mondo.
Il caso del Tracoma
29
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
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La participatio tomista
come comunicazione
Tommaso Scandroglio
Abstract
Parole chiave
Quali sono le analogie e le differenze tra il termine tomista «participatio» e il sostantivo di uso corrente
«comunicazione»? Al fine di individuarle è necessario
sezionare il lemma participatio nei suoi costitutivi (p.
logica e ontologica; predicamentale e trascendentale) e
approfondire le relazioni tra i concetti di essenza ed essere, materia e forma, sostanza e accidenti e le dinamiche
causali che soggiacciono alla creazione e al fieri.
Partecipazione; Comunicazione;
Comunicare; Essenza; Essere;
Predicamentale; Trascendentale;
Causalità; Dio.
Sommario: 1. L’oggetto del presente articolo; 2. Un glossario; 3. Partecipazione logica
e ontologica; 4. Le tre forme di causalità; 5.
Partecipazione predicamentale e trascendentale; 6. Il modo dell’essere, tratto specifico della partecipazione.
espressioni linguistiche proprie della contemporaneità. Come si avrà modo di notare nello
sviluppo di questo scritto, i termini moderni
indicati in precedenza riceveranno mutua sollecitazione aprendosi ad approfondimenti ermeneutici condotti in più direzioni ma sempre vincolati al testo tomista.
1. L’oggetto del presente articolo
O
ggetto del presente saggio è il tentativo
di verificare se le accezioni del termine
«participatio» così come vengono usate da
Tommaso D’Aquino nei suoi scritti offrono
delle contiguità semantiche con i termini «comunicazione» e «comunicare», e lemmi affini per radice etimologica quali «comunione»
e «comune», nei loro significati correnti1. A
tal fine si cercherà di porre in evidenza le analogie e le differenze di contenuto tra un termine di stampo prettamente metafisico, così
come adoperato da un autore del Duecento, ed
2. Un glossario
Per meglio comprendere il senso di alcune espressioni ed affermazioni contenute
negli scritti dell’Aquinate è opportuno indicare in prima battuta le definizioni2 dei
termini di stampo metafisico più ricorrenti
nelle opere di Tommaso.
Essenza: ciò che una cosa è, ciò che è espresso nella sua definizione, la quidditas per dirla
in termini tomisti. L’essenza sul piano onto-
1 I sinonimi esplicativi di questi due lemmi sono stati presi in massima parte da Il Vocabolario Treccani, Roma, 2008.
2 Cfr. Tommaso D’Aquino, La Somma contro i Gentili, (a
cura di P. Tito Sante Centi), I, Bologna, 2000, Glossario,
pp. 49-54. Le voci sono state ampliate ed integrate nelle
loro rispettive definizioni.
La participatio tomista come comunicazione
30
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
logico-reale è individuale perché attualizzata
nell’ente singolare, è id quod habet esse nel particolare. Sul piano epistemologico l’essenza è
universale perché intesa come entità logica
della mente3.
Natura: è l’essenza in quanto principio
intrinseco di attività. Per Tommaso D’Aquino è «l’essenza della cosa in quanto ordinata
all’operazione della cosa stessa»4.
Essere: è l’attualità5, l’atto per cui qualcosa
esiste, attraverso cui il quid diventa ente: «essere sta ad indicare l’atto»6.
Ente: ciò che esiste, ciò che ha l’essere nel
singolare, ciò il cui atto è l’essere nel particolare. È l’attualità partecipata dall’essenza nello
specifico. Altresì può essere intesa anche come
attualità limitata dall’essenza nell’individuale7.
Forma: ciò che determina la struttura propria di una data realtà, ciò che, ad esempio per
i corruttibili, «dimensiona formalmente»8 la
materia: «forma autem substantialis est quae
facit hoc aliquid»9. La forma viene partecipata
dalla materia10. Ad esempio l’anima è la forma
sostanziale dei viventi.
Materia: è il sostrato fisico indeterminato11.
La materia ricevendo la forma sostanziale costituisce la sostanza materiale. Cornelio Fabro
definisce la materia come «soggetto fisico di
diverse determinazioni da parte di diverse forme o di modi di essere»12.
Sostanza: ciò a cui compete di esistere
in sé e non in qualcosa d’altro: un gatto, un
uomo etc. Ogni sostanza ha una sua natura:
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ad esempio «la persona è una sostanza individuale di natura razionale»13.
Accidente: ciò a cui compete di esistere in
qualcosa d’altro come nel suo soggetto: la bianchezza rende bianco un soggetto.
3. Partecipazione logica e ontologica
Occorre innanzitutto distinguere tra partecipazione logica e partecipazione ontologica.
Partiamo dalla prima14. La partecipazione logica può essere intesa secondo due accezioni.
Nella prima accezione rinveniamo una dualità
di significati: partecipazione come inclusione
e partecipazione come ricezione15. Ad esempio
la specie «uomo» partecipa del genere «animale», è inclusa in quella di animale, ma non
viceversa (ci sono animali non umani). A specchio possiamo affermare che la specie «uomo»
riceve dal genere la definizione: « “partecipare”
nel campo logico è ricevere in sé la “definizione” che è propria del partecipato»16. L’uomo è
un animale: la definizione «è un animale» appartiene ad «animale», essere partecipato. Già
da questa primissima analisi appare in filigrana un elemento concettuale proprio del verbo
«comunicare»: la ricezione infatti è momento
conclusivo e terminale della dinamica della
comunicazione dove un soggetto emette un
messaggio ed un secondo lo riceve. Dal rapporto genere-specie passiamo al rapporto specieindividuo. Parallelamente, seppur in un grado
inferiore dal punto di vista logico, l’individuo
«Carlo» partecipa alla specie «uomo», Carlo è
incluso nella specie umana17. In questo primo
senso di partecipazione albeggia nuovamente
il verbo «comunicare»: «ogni singolare [es.
Carlo] ha la sua propria natura […]. La mente la
percepisce simile a quella degli altri particolari, e così la vede come ragione formale comu-
3 Cfr. U. Pellegrino, Partecipazione e causalità secondo S.
Tommaso D’Aquino, in «La Scuola Cattolica», Anno XCI
(Gen.Feb 1963), p. 45.
4 Tommaso D’Aquino, De ente et essentia, c. 1.
5 Cfr. B. Mondin, La metafisica di San Tommaso e i suoi interpreti, Bologna, 2002, p. 100.
6 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, I, c. 22.
7 Cfr. U. Pellegrino, Partecipazione e causalità secondo S.
Tommaso D’Aquino, cit., p. 45.
8 Espressione di Giovanni Reale contenuta in Aristotele,
La Metafisica, (a cura di G. Reale), Napoli, 1968, Vol. I, p. 569.
9 Tommaso D’Aquino, De mixtione elementorum.
10 Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, Torino, 1960, p. 491.
11 Cfr. Aristotele, Metafisica, VII, c. 3, 1029a.
12 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo
San Tommaso D’Aquino, Segni (RM), 2005, p. 92.
13 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 29, a. 1.
14 Cfr. P. Lazzaro, La dialettica della partecipazione nella
Summa contra Gentiles di S. Tommaso D’Aquino, Reggio
Calabria, 1976, pp. 41-50.
15 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, I, c. 32
16 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo
San Tommaso D’Aquino, cit., p. 66.
17 Cfr. Tommaso D’Aquino, Commentarius in Boetium de
Hebdomadibus, lect. II.
La participatio tomista come comunicazione
31
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
nicata e comunicabile»18. La natura razionale
propria degli esseri umani19 è quindi predicabile per più enti (universale logico) ed è quindi
comune a più esseri, si comunica vicendevolmente: nel singolare si riflette per partecipazione l’idea del tutto20. Ma vi è una seconda
accezione di partecipazione logica: participatio
come composizione, unione tra genere e specie (l’uomo è unione di animalità e razionalità) e tra specie e individuo (Carlo è l’unione
di razionalità ed ente individuale)21. Infine appuntiamo qui, ma renderemo maggiormente
esplicita l’affermazione nel prosieguo dell’articolo, che la stessa dinamica gnoseologica
soggiace alla regola della partecipazione: la
conoscenza partecipa, in modo formale e imperfetto perché non completo, alla conoscenza
che Dio ha di se stesso, conoscenza che diventa
essa stessa bene partecipato22.
Vi è poi una partecipazione ontologica che
rende spiegazione del reale23. In essa il lemma
«comunicare» è pervasivamente presente.
Per comprendere l’intima struttura del concetto di partecipazione tomista occorre considerare che «soltanto Dio è essere per essenza, mentre tutte le altre cose sono esseri per
partecipazione»24; «Dio è ente per essenza,
e le altre cose per partecipazione»25. Nessun
ente può dare a se stesso l’esse perché per farlo dovrebbe esistere (per poter dare l’essere) e
nello stesso tempo non essere (per poterlo ricevere), cosa che è impossibile. Così come un
sasso non potrebbe darsi da sé il calore se non
irraggiato da una fonte di calore. Sia il sasso
issn 2035-584x
che il fuoco sono entrambi caldi, ma il sasso
possiede il calore, il fuoco è calore. Il primo
è caldo per partecipazione, il secondo per essenza, è caldo «di suo» diremmo. Perché negli enti creati non c’è coincidenza tra esse e
essentia? Come prima accennato Dio è l’essere
in forza della propria essenza: «l’essere di Dio
si identifica con la sua essenza»26, e dunque
«Dio è l’essere stesso per sé sussistente»27,
«Deus enim per suam essentiam est ipsum
esse subsistens»28. Questo accade dal momento che l’«essere sta ad indicare l’atto»29
e ciò che è distinto dall’atto, ma che a questo
compete, si trova in uno stato potenziale: il
blocco di marmo rispetto alla statua che dal
primo si caverà è attualmente un blocco di
marmo e potenzialmente una statua. Anche
l’essenza, come vedremo, è potenzialmente esistente fino a quando non parteciperà
all’actus essendi. Vi è quindi una distinzione
tra essenza che potenzialmente è esistente e
atto d’essere. Ma Dio è puro atto, in Lui non
esiste la potenza, a differenza dei rimanenti
enti. Quindi in Lui non può darsi un’essenza
in stato potenziale e dunque di conserva non
si può predicare una divisione tra essenze e
atto, bensì una coincidenza30. In secondo luogo pensare che in Dio esista sia l’essere che
l’essenza significherebbe dire che Dio è composto. Ma egli è semplice Uno, perché se fosse
composto sarebbe divisibile, cioè potrebbe essere diviso in sé, ma questo starebbe indicare
uno stato potenziale divino, il che contraddice il fatto che in Dio non è predicabile nessun
stato potenziale31.
Negli altri enti invece c’è una separazione
tra essentia ed esse. La prima, che non ha in sé
l’esse, non investita dalla forza attualizzante
dell’essere, che può venire solo da Dio, rimane inesistente. Solo l’essere può comunicare
attualità all’essenza: «Esse est actualitas omnis
18 P. Lazzaro, La dialettica della partecipazione nella Summa
contra Gentiles di S. Tommaso D’Aquino, cit., p. 45.
19 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 29, a. 3 c..
20 Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 27.
21 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, I, c. 17
22 Cfr. F. Di Blasi, Conoscenza pratica, teoria dell’azione e
bene politico, Palermo, 2006, p. 4.
23 Cfr. E. Lupia, La partecipazione logica e ontologica nella
«Summa contra Gentiles» di S. Tommaso D’Aquino, Messina,
1992, pp. 17-23. Annotiamo a margine che questo testo è un
estratto quasi completo del volume del Lazzaro qui citato.
24 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, III, c. 66.
Cfr. Ibidem, I, c. 60; III, c. 70.
25 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 4, a. 3 ad 3; q.
13, a. 11 c.. Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 502.
26 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, II, c. 52.
Cfr. Ibidem, I, c. 22; III, c. 66; Summa Theologiae, I, q. 3, a.
4; I, q. 75, a. 5 ad 4; I, q. 104, a. 1 c.
27 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 44, 1 c.
28 Tommaso D’Aquino, De Malo, q. 16, a. 3 c.
29 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, I, c. 22.
30 Cfr. Ibidem.
31 Cfr. Ibidem.
La participatio tomista come comunicazione
32
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
formae»32. Si può dire allora che l’esse, che è l’atto di essere, è l’astratto di ens, come il currere,
che è l’atto di correre, è l’astratto di currens. Il
«currere» è ciò, o per partecipazione del quale
il currens corre, dato che questi partecipa all’atto di correre33. Analogamente l’esse partecipato
sfocia nell’esistente: «l’esse è quella formalità o
attualità suprema per partecipazione alla quale
è compreso essere di fatto tutto ciò che in concreto esiste»34; «[l’actus essendi] è anzitutto ciò
per cui (quo) ogni formalità può essere indicata come reale, cioè distinta, non solo nozionalmente, da ogni altra, ma “separata” realmente
in natura, è l’atto dell’essenza»35; «Ente è un
termine participiale di senso attivo, che indica
in concreto l’esercizio di una formalità, quella
dell’essere: ENTE allora è “ciò che è”, Id quod est»36.
Dunque l’unico modo per avere l’essere è
partecipare all’essere, che non può che derivare da Dio: «quello che spetta a una data cosa
in forza della propria natura non può competere ad altri se non per partecipazione: cioè
come il calore del fuoco viene comunicato ad
altri corpi. Perciò l’essere stesso è comunicato
alle altre cose dal primo agente mediante una
comunicazione»37; «l’essere di qualunque cosa è
un essere partecipato, poiché all’infuori di Dio
nessuna cosa è il proprio essere […]. E così è necessario che Dio stesso il quale è il suo essere,
sia in modo primario e immediato la causa di
ogni essere»38; «ogni cosa esiste per il fatto che
possiede l’essere; pertanto nessuna cosa, la cui
essenza non è esistere, esiste per la sua essenza [non può passare da uno stato potenziale
di esistenza ad uno di attualità se non in virtù appunto di un atto che proviene dall’Esse di
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Dio che è Actus Essendi], ma per partecipazione,
cioè ricevendo l’essere»39; «tutti gli enti distinti da Dio non sono il loro proprio essere, ma
partecipano l’essere»40. L’ens allora ha l’essere41,
non è l’essere42, prende l’essere: la partecipazione dunque viene intesa come partem capere
dell’essere. E perciò gli enti esistono solo per
partecipazione a differenza di Dio che è essere
sussistente: «Rimane vero perciò che tutti gli
enti distinti da Dio non sono il loro proprio essere, ma partecipano l’essere»43. Da notare che
la partecipazione non significa far propria anche la natura dell’Essere-Dio partecipato così
come ricorda Tommaso: «ogni creatura è in
rapporto a Dio, come l’aria in rapporto al sole
che la illumina. Come infatti il sole è risplendente per sua natura, mentre l’aria diventa
luminosa partecipando la luce del sole, senza partecipare la natura del sole»44. Infatti si
partecipa all’atto di essere promanante da Dio
non alla sua essenza, sebbene i due concetti
metafisici in Dio coincidano. Non partecipare
alla natura divina comporta dunque che Dio è
assolutamente altro dagli enti, da questi separato e distinto, seppur partecipato. Quindi in
questo senso è incomunicabile rispetto agli esseri in merito al suo status ontologico45.
La partecipazione pertanto riguarda l’«atto di essere, che comunicandosi alle essenze
spiega la loro concretezza»46. L’essenza dunque prende l’essere, ma – è bene sottolinearlo – non partecipa dell’Esse divino, bensì
dell’esse proprio causato da Dio, esse che è atto
(e non Atto) e che attualizza l’essenza47. Avremo allora un’efficace definizione di essenza
32 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 3, a. 4 c.
33 Cfr. Ibidem, I; q. 50, a. 2 ad 3; Commentarius in Boetium
de Hebdomadibus, lect. II; C. Fabro, La nozione metafisica
di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 15.
34 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo
San Tommaso D’Aquino, cit., p. 16.
35 Ibidem, p. 89.
36 Ibidem, p. 84.
37 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, II, c. 52.
Nelle citazioni i termini «comunicazioni», «comunicare» e simili verranno scritti in corsivo per metterli in
evidenza. Gli altri termini o espressioni scritti in corsivo sono tali perché così presenti nei testi citati.
38 Ibidem, III, c. 65.
39 Ibidem, I, c. 22. Cfr. Ibidem, Summa Theologiae, I, q. 44,
a. 1 c.; De Veritate, q. 21, a. 5 c. Anche gli accidenti esistono
per partecipazione, attualizzandosi grazie alla sostanza.
40 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 44, 1 c.
41 Cfr. B. Mondin, La metafisica di San Tommaso e i suoi
interpreti, cit., p. 100.
42 Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 92.
43 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 44, a. 1 c.
44 Ibidem, I, q. 104, a. 1 c.
45 Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 630.
46 P. Lazzaro, La dialettica della partecipazione nella
Summa contra Gentiles di S. Tommaso D’Aquino, cit., p. 51.
47 Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 651.
La participatio tomista come comunicazione
33
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
come «id quod habet esse» in questo o quel
particularis48. L’actus essendi permette all’essentia di esistere (per gli enti corruttibili occorre per venire ad esistenza anche la materia:
«la forma [actus essendi partecipato dall’essentia] non ha l’essere [concreto], quindi, se
non nella materia»49), consente il venire ad
esistenza dell’ente concreto, il quale quindi
risulterà dalla composizione di atto d’essere
ed essenza50: «la forma sta all’essere come la
luce sta all’illuminazione, come la bianchezza
sta all’essere bianco. […] la forma è principio
dell’essere, perché il compimento della sostanza, il cui atto è l’esistenza»51. La «bianchezza» partecipando all’atto d’essere diventa
«essere bianco». L’atto d’essere chiama all’esistenza l’essenza e allora potremmo dire che,
grazie all’essenza che partecipa all’actus essendi, l’ens è ec-sistente cioè posto fuori dal nulla,
e nello stesso tempo, dato che l’actus essendi
proviene da Dio, l’ens in-siste in Dio52. Da appuntare però questo particolare nel processo
di individualizzazione dell’ente corruttibile
particolarissimo. È l’essenza che limita, ma in
senso ancora ampio, l’actus essendi, e l’essenza
singolarizzata in atto è individualizzata ancor più dalla materia. Perciò l’essenza limita
l’atto di essere, e la materia individualizza la
forma, che dunque era già stata limitata. Ad
esempio la razionalità (essentia) partecipando
all’atto di essere si compone nell’essere di natura razionale (natura razionale che è la forma), il quale informando la materia si individualizza infine nell’ente concreto (Marco).
Su quest’ultimo passaggio di specificazione
che attiene al rapporto forma-materia così si
esprime il Dottore Angelico: «La forma poi è
limitata dalla materia per questo che la forma, in sé considerata, è comune a molte cose;
ma dacché è ricevuta nella materia, diventa
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forma soltanto di una data cosa»53; «la composizione di materia e di forma, che costituisce una natura determinata»54.
La dinamica dell’esistenza si perfeziona
quindi tramite la partecipazione dell’essenza
all’atto di essere: «qualunque natura o forma
raggiunge la perfezione con l’essere in atto»55.
A sua volta la forma attualizzata sarà partecipata dalla materia: «la sostanza intellettiva […]
non è impedita dall’essere principio formale
ed esistenziale della materia, nel senso che comunica il proprio essere alla materia»56: l’esse
partecipato dall’essenza, che si struttura nella
forma, comunica la sua attualità alla materia.
E dunque si può concludere che «nelle nature
corporee, invece la materia partecipa all’essere
non per sé, ma mediante la forma»57: la materia partecipa di quell’essere già attualizzato
nell’essenza. Quindi non partecipa direttamente di quello stesso actus essendi di cui partecipa l’essenza prima che venisse attualizzata,
ma, se così vogliamo esprimerci, ne partecipa
indirettamente, cioè prende l’attualità d’essere
direttamente dall’essenza che a sua volta aveva
ricevuto l’esse da Dio58. Qui infine il «comunicare» viene inteso nella sua accezione di «trasmettere», di «contagiare» attualità.
Queste argomentazioni sottendono poi
un’altra considerazione. Il venire all’esistenza
a motivo dell’attualità dell’esse comporta che la
forma o l’essenza erano in potenza e congiungendosi con l’atto di essere si attualizzano: la
forma/essenza «sta all’essere in atto come la
potenza sta all’atto rispettivo»59; «dovunque
si riscontrino due cose di cui l’una è compimento dell’altra, il rapporto tra l’una e l’altra
è quello di potenza e atto: poiché niente può
essere compiuto che mediante il proprio atto.
[…] l’esistenza [ipsum esse] è il compimento di
una essenza esistente […]. Perciò in ciascuna
delle cose suddette c’è composizione di atto e
48 Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 88.
49 Ibidem, p. 58.
50 Cfr. U. Pellegrino, Partecipazione e causalità secondo S.
Tommaso D’Aquino, cit., pp. 44-45; C. Fabro, La nozione
metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino,
cit., pp. 17-18; Partecipazione e causalità, cit., p. 640.
51 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, III, c. 54.
52 Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 649.
53 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 7, a. 1 c.
54 Ibidem, I; q. 50, a. 2 ad 3.
55 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, III, c. 66.
56 Ibidem, II, c. 68.
57 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo
San Tommaso D’Aquino, cit., p. 104.
58 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, III, c. 66.
59 Ibidem.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
potenza»60; «ideo ipsa quidditas est sicut potentia,
et suum esse acquisitum est sicut actus; et ita per
consequens est ibi compositio ex actu et potentia»61.
La potenzialità richiama quindi il concetto di
inesistenza, di mancanza di attualità riferito
all’essere: «quanto è in potenza ancora non
esiste»62; «act is coinceived simply as perfection or
affirmation of esse, potency is conceived as capacity
to receive perfection or as negation or privation»63.
L’ente che partecipa allora concretizza un passaggio da potenza ad atto. Ma essendo Dio
puro atto e dunque non interessato dalla transizione dalla potenza ad atto, discende il fatto
che Egli mai potrà partecipare, potendo invece
solo essere partecipato64: «A Dio niente si può
attribuire per partecipazione»65.
4. Le tre forme di causalità
Il concetto di partecipazione non può che
richiamare quello di causalità66, come espressamente indica l’Aquinate: «poiché dal fatto
che una cosa è ente per partecipazione segue
che sia causata da altri»67. Dio è causa di tutto
perché tutto crea, cioè chiama dal nulla ogni
ente: «Dio ha prodotto le cose nell’essere»68;
«tutto ciò che in qualsiasi modo esiste deriva
da Lui»69. Dio causa direttamente senza intermediari, quindi nella creatura c’è presenza
immediata degli effetti causati da Dio, creatura perciò penetrata da Dio in tutti i suoi principi e perfezioni. Allora essendo Dio riflesso
nelle creature, anche le pure perfezioni che a
Lui appartengono saranno presenti negli enti,
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seppur queste perfezioni siano partecipate e
quindi limitate70. Ecco una prima accezione
dell’espressione «esse intensivo» di cui si dirà
meglio più avanti71.
Allineandosi sulla posizione aristotelica,
Tommaso afferma che Dio è il Motore immobile, il puro Atto che non è mosso da altri ma che
muove tutto72. Anche in questo caso viene alla
luce una particolare sfaccettatura del termine
«comunicare»: partecipare al moto del Primo
motore significa trasmettere il moto dalla Fonte originaria ad altri elementi che ricevono il
moto. Ma Dio non è solo la Causa incausata ed
efficiente, altresì è Colui che sostiene il moto,
cioè che permette che gli enti conservino la loro
esistenza73, la loro attualità d’esse. Poiché, se cessasse il moto che proviene dal Motore immobile, a cascata ed immediatamente ogni moto
inferiore cesserebbe: «è impossibile che il divenire e il moto di queste cose perdurino, se viene a cessare la mozione del movente. Dunque
è impossibile che permanga l’essere delle cose,
senza un’operazione da parte di Dio»74. Da ciò
consegue che Dio permette ogni atto, non solo
quello d’essere, ma ogni attualità che da questo
promana75. La causalità trascendentale, che trova in Dio la Causa efficiente, quindi consente
la causalità predicamentale, causalità che agisce solo all’interno dell’ordine degli enti creati,
intesa sia in senso dinamico come successione
delle cause seconde (la generazione, gli effetti delle azioni umane, etc.)76, sia in senso statico come elemento grazie al quale si produce
quell’ente particolare, a motivo della specializzazione della materia da parte della forma (con
esclusione ovviamente degli esseri privi di ma-
60 Ibidem, II, c. 53.
61 Tommaso D’Aquino, Scriptum super Sententiis magistri
Petri Lombardi, II, dist. 3, q. I, a. 1 c.
62 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, I, c. 17.
63 C. Fabro, The Intensive Hermeneutics of Thomistic
Philosophy: The Notion of Participation, in www.pao.chadwyck.co.uk, consultato il 18/04/2011, p. 464.
64 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, I, c. 38.
65 Ibidem, I, c. 60.
66 Cfr. S. Vanni Rovighi, Istituzioni di filosofia, Brescia,
1994, p. 128.
67 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 44, a. 1 ad.
1. Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 471.
68 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, II, c. 16.
69 Ibidem, II, c. 15.
70 Cfr. Tommaso D’Aquino, De Veritate, q. 21, a. 4 c.; C.
Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 525.
71 Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 473.
72 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, I, c. 13.
73 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 104, a. 1.
74 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, III, c. 65;
c. 20. Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 474.
75 Cfr. U. Pellegrino, Partecipazione e causalità secondo S.
Tommaso D’Aquino, cit., p. 46; C. Fabro, Partecipazione e
causalità, cit., pp. 481-483.
76 Cfr. U. Pellegrino, Partecipazione e causalità secondo S.
Tommaso D’Aquino, cit., p. 47.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
teria, quali gli angeli)77. In merito alle cause seconde appuntiamo solo che «la creatura non va
detta “operare per partecipazione” solo in senso
causale trascendentale [le nostre azioni sono
causate, cioè praticabili, solo a motivo di una
causa prima78], come vuole il Neoplatonismo,
ma anche in senso soggettivo predicamentale,
per mezzo di capacità e potenze [proprie]»79,
potenze che fluiscono dall’essenza. Tommaso
infatti a tal proposito scrive: «Operatur etiam
naturali sua potentia, quae est principium suae
operationis, scilicet sensu vel intellectu: quae
non est essentia ejus, sed virtus ab essentia
fluens»80. L’agere che dunque viene dall’interno
dell’ente è prodotto a motivo della causa predicamentale, perché causa racchiusa nell’ordine
dell’ente stesso. Quindi in merito alla creazione
(momento statico dell’esse) Dio è la causa prima
ed unica, cioè esclusiva; in merito al movimento (momento dinamico del fieri) Dio è sempre la
causa prima, ma non più esclusiva81.
Nel processo causale poi si inserisce un altro
elemento che va ad incidere sull’ente: «Poiché
ogni causa agente produce cose consimili, un effetto acquista la forma da quell’essere cui è reso
simile dalla forma acquistata: la casa materiale,
per esempio, deve la sua forma all’arte»82; «ciò
cui viene attribuita una qualifica per partecipazione non viene così qualificato se non in quanto ha una certa somiglianza di quell’essere che
è tale per essenza: il ferro, ad esempio, è detto
infuocato in quanto partecipa una somiglianza
del fuoco»83. Se ogni ente è stato creato da Dio, in
ogni ente risplende una somiglianza di Dio, dato
che nell’effetto residuano degli elementi della
causa84 (non si può dare identità tra causa ed ef-
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fetto, bensì solo somiglianza, perché – tra gli altri
motivi che si possono addurre – ciò comporterebbe la creazione di un altro dio, ma Dio è increato ed è uno). Ciò ci porta a due considerazioni. In
primis si può predicare non solo una somiglianza tra Dio ed enti, che vogliamo rappresentare
come una comunicazione verticale, bensì, proprio a motivo del fatto che tutti gli enti hanno in
comune l’esse, si può anche asserire l’esistenza di
una somiglianza tra gli enti, cioè una comunicazione orizzontale, data dalla simultanea presenza negli esseri di elementi identici (pensiamo
all’animalità tra un uomo e un cane) e di elementi differenti (poniamo mente alla razionalità tra
un uomo e un cane). Una comunicazione che significa «avere insieme, mettere in comune» gli
elementi uguali85, e di riflesso una mancanza di
comunicazione per gli elementi differenti.
In secondo luogo la participatio tra Essere e
creature si manifesta come una comunicazione non di una totalità, bensì come una trasmissione analogica di un’ontologia. Il concetto
di somiglianza, che platonicamente potrebbe essere espresso con il relativo concetto di
imitazione/mimesi86, disvela dunque un’altra
accezione del verbo «comunicare»: l’ente manifesterà nella sua struttura ontologica alcune
analogie con l’Ente divino87. «Comunicare»
quindi come appalesare, rivelare manifestamente tramite il proprio essere: una divulgazione ontologica potremmo dire. «La gloria
di Dio è l’uomo vivente e la vita dell’uomo è la
manifestazione di Dio»88, ci ricorda Ireneo. In
merito poi alla similarità con Dio, questa si articolerà su più aspetti e sarà predicabile nuovamente grazie alla partecipazione intesa come
comunicazione, cioè trasferimento di elementi costitutivi e di qualità, il primo dei quali è
necessariamente l’esse: «Dio vuole comunicare
il proprio essere alle altre cose sotto forma di
77 Cfr. B. Mondin, La metafisica di San Tommaso e i suoi
interpreti, cit., p. 101.
78 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q.
109, a. 1 c.; I, q. 75, a. 5 ad 1.
79 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo
San Tommaso D’Aquino, cit., p. 149.
80 Cfr. Tommaso D’Aquino, Scriptum super Sententiis magistri Petri Lombardi, II, dist. 17, q. I, a. 2 ad 6.
81 Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 478.
82 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, II, c. 43.
83 Ibidem, I, c. 40. Cfr. Tommaso D’Aquino, De Potentia,
q. 7, a. 7 ad 3.
84 Cfr. P. Lazzaro, La dialettica della partecipazione nella
Summa contra Gentiles di S. Tommaso D’Aquino, cit., p. 74.
85 Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 630.
86 Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 27.
87 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, III, c.
97; De Potentia, q. 7, a. 7 ad 3; Sententia super Physicam, IV,
lect. 7, 7.
88 Ireneo, Adversus haereses, IV, 20, 7.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
somiglianza»89. Sotto questa prospettiva Dio è
dunque inteso come causa esemplare. Analogamente anche nel fenomeno sociale della comunicazione, se questa avviene correttamente e se il mittente e il destinatario utilizzano
gli stessi sema con identici significati, c’è se
non identità di contenuti pensati-trasmessi e
pensati-ricevuti almeno similarità.
Nella causa esemplare si annida poi un altro
snodo concettuale che è pertinente con l’oggetto del presente articolo: la comunicazione agli
enti dell’esse e di altre qualità come la bontà, la
perfezione, la sapienza, l’agire etc.90 è intesa dal
Dottore Angelico come un dono, una elargizione: «Dio […] non agisce per acquistare, bensì
per elargire qualcosa con la sua azione»91. Il comunicare diventa quindi effondere/diffondere l’essere e tutte le preziosità metafisiche che
su di esso possono insistere, preziosità accidentali anch’esse esistenti nell’ente se non per
partecipazione92. Il comunicare poi è assunto
addirittura ad elemento intrinseco della bontà di Dio: «Egli perciò comunica ad altri esseri
la sua bontà, non per accrescere così il proprio
bene, ma perché il comunicare è a lui connaturale, essendo egli la fonte della bontà»93. In
questo donare all’ente la bontà ed altre qualità divine si rinviene poi un altro significato
affine a quello di «comunicare»: rendere partecipe qualcuno di un contenuto. Quindi condividere. Ma dato che questa azione di condivisione avviene, per così dire, tra due intimità,
cioè tra l’essere sussistente di Dio e l’essenza
attualizzata dell’uomo, allora il comunicare
assume i toni specialissimi del confidare, del
confessare, verbi più appropriati allo spettro
metafisico che investe la relazione tra due interiorità, quella profondissima dello spirito di
Dio e quella dell’anima della persona umana.
Il rapporto di esemplarità poi non si esaurisce considerando solo la relazione diretta
Dio-creatura, ma all’interno di questa relazione si instaura, come accennato prima, una
partecipazione tra genere e specie, e tra specie
89 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, II, c. 6.
90 Cfr. Ibidem, I, c. 93; III, c. 70.
91 Ibidem, III, c. 18.
92 Cfr. Tommaso D’Aquino, De Veritate, q. 21, a. 5.
93 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, I, c. 93.
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e individui. In merito a questa doppia partecipazione e trasferendoci dal piano logico
a quello ontologico-reale, se nella dinamica
Causa prima-effetti la perfezione di Dio si riverberava negli effetti da Lui prodotti e quindi sopravviveva in essi non in modo identico
ma analogico, parallelamente ciò accadrà anche tra genere e specie, e specie individui. Ad
esempio il singolo uomo non possiederà tutte
le perfezioni che in senso estensivo e pieno appartengono alla specie di riferimento: «si dice
che “uomo” partecipa di “animale” perché non
possiede la ragione di animale secondo la sua
intera estensione [communitatem]»94. La singola essenza attualizzata, dato che è legata ad un
individuo materiale, comunica all’individuo
solo una parte della perfezione della specie,
non tutte le perfezioni95. Così Tommaso per il
rapporto analogo tra genere e specie: «Ogni
creatura [che appartiene ad una data specie] ha
un essere definito e determinato [differente da
quello di una creatura appartenente ad un’altra specie ma possiede identico genus]»96. In
modo simile Fabro: «Quindi l’essenza di una
creatura superiore, benché abbia una somiglianza con quella inferiore, per il fatto di avere un genere comune, tuttavia non ha questa
somiglianza in modo completo, perché è determinata a una data specie, cui è estranea la
specie della creatura inferiore»97.
Come inciso annotiamo che ciò comporta
che la totalità della perfezione formale – presente solo nell’Ente supremo: «Dio è lo stesso
essere per sé sussistente; quindi niente gli può
mancare della perfezione dell’essere»98 – è stata come distribuita da Dio in tutti gli enti – ma
anche in questo caso non in modo esaustivo
dato che le possibilità di declinazione concre94 Tommaso D’Aquino, Commentarius in Boetium de
Hebdomadibus, lect. II.
95 Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 17, 76; U. Pellegrino,
Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso D’Aquino,
cit., p. 46.
96 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 84, a. 2 ad 3.
97 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo
San Tommaso D’Aquino, cit., p. 76.
98 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 4, a. 2
c. Cfr. Tommaso D’Aquino, De Potentia, q. 7, a. 7 ad 2; C.
Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 520.
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ta della perfezione formale sono illimitate: le
«cose causate […] ricevono frazionato e parzialmente ciò che in Dio si riscontra in maniera semplice e universale»99. Questa distribuzione richiama un’altra accezione del termine
«comunicare»: diffondere100, propagare un
messaggio. In questo caso il messaggio è innanzitutto l’essere: «comunicazione» come
irradiazione dell’esse, rendere comune l’essere
in tutti gli enti.
Ma torniamo allo snodo concettuale che vedeva la creatura attualizzare solo una parte delle perfezioni della specie. Sotto questa visuale
la partecipazione diventa similitudine tra due
stati più o meno perfetti di una stessa forma.
Pensiamo alla formalità dell’animalità del cane
e dell’uomo, la quale – pur essendo identica dal
punto di vista contenutistico tra questi due soggetti (entrambi partecipano all’animalità) – possiede una grado di maggiore perfezione nell’uomo, cioè una modalità di espressione dell’essere
più alta. In questa particolare prospettiva la partecipazione può venire spiegata come ordine intensivo, cioè come gradualità più o meno intensa
di perfezione101. Quanto più l’ente si avvicina alla
pienezza delle perfezioni che è presente solo in
Dio, tanto più l’espressione «partecipare l’essere» si eleva in quella di «attingere l’essere». Così
Fabro sul punto: «Più il “partecipare” è perfetto
e meno è “partecipare”, e diventa propriamente
“attingere”. E l’ “attingere” più cresce in perfezione, più dice immediatezza d’unione e pienezza
di comunicazione»102. Allora il «comunicare»
tra partecipante e partecipato è così intenso che
trascende nell’ «essere come il partecipato»: più
si cresce raffinandosi nella via della identificazione, più ci si avvicina al perfezione somma.
Analogamente anche nel processo della comunicazione verbale tanto più questa avviene tra due
soggetti consimili tanto più sarà univoca.
Facciamo ora ritorno alla questione della gradualità delle perfezioni negli esseri finiti. Dun-
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que l’atto di essere si comunica non in modo
identico per tutti gli enti bensì con gradualità
differenti – tramite un rapporto di magis et minus103 – determinando perfezioni differenti, realizzando quella dinamica ontologica che si può
definire come «dialettica dell’imperfetto»104. E
tra più individui della stessa specie, e tra specie
dello stesso genus, le differenze dovranno imputarsi agli accidenti105, non certo alla sostanza costitutiva degli stessi dato che «secondo l’angolo
intelligibile dell’astrazione formale […] tutti gli
uomini sono egualmente uomini, e la natura
umana, presente nell’uno, non può, come natura umana, esser diversa da quella dell’altro, altrimenti quest’altro non sarebbe più un uomo,
ma qualche altra cosa»106. Più in particolare e in
merito alle differenze tra gli enti dobbiamo dire
che questi ultimi «non si diversificano rispetto
alla forma o essenza come tale, ma essi stessi diversificano nel campo dell’essere reale tale forma
o essenza»107. Cioè l’actus essendi viene limitato
tramite l’essentia, la quale essenza attualizzata
comunicherà alla materia i suoi tratti specifici.
Da qui discende il fatto che l’esse per participationem è un esse accidentaliter108, secundum quid109. Le
differenze quindi dovranno essere rintracciate non nell’esse in quanto tale, bensì nelle varie
modalità di aver l’essere110. In sintesi potremmo
affermare che tutti gli uomini sono identici per
natura, ma altresì sono tutti diversi perché tale
identica natura fiorisce in modo unico in ciascuno di noi, cioè «each one shares humanity in his
own way»111. Su questo punto nuovamente Fabro
99 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, I, c. 32.
100 Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione
secondo San Tommaso D’Aquino, cit., pp. 122-123.
101 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 93,
a. 3 ad 3.
102 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 145.
103 Cfr. Tommaso D’Aquino, De mixtione elementorum.
104 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 54; F. Olgiati, La
filosofia tomistica e la nozione metafisica di partecipazione,
in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», a. XXXII (1940),
F. VI, p. 596.
105 Cfr. Tommaso D’Aquino, De Malo, q. 2, a. 9 ad 16.
106 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 78.
107 Ibidem, p. 81.
108 Cfr. Tommaso D’Aquino, De Potentia, q. 7, a. 4 c.
109 Cfr. Tommaso D’Aquino, De Veritate, q. 21, a. 5; C.
Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San
Tommaso D’Aquino, cit., p. 140.
110 Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 489.
111 C. Fabro, The Intensive Hermeneutics of Thomistic
Philosophy: The Notion of Participation, cit., p. 485.
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appunta che «in relazione all’atto di essere, l’individuarsi della specie umana appare come una
magnifica fioritura dai colori e dalle tinte più
varie»112. In questo senso le formalità particolari
possono essere rappresentate come predicazioni
univoche113. Allora il rapporto analogico ad esempio tra più individui appartenenti alla medesima
specie (o tra più specie appartenenti al medesimo genere) mostrerà una doppia relazione di
carattere antitetico: una comunicazione di un
elemento identico – la sostanza – e una mancanza di comunicazione dato dalle differenze specifiche – gli accidenti – che non possono rinvenirsi negli altri individui perché propri solo di un
singolo soggetto. Così ancora Fabro: «Per riassumere quanto è stato detto intorno allo sviluppo
della nozione tomista di partecipazione predicamentale, possiamo dire che la specie è detta partecipare al genere, e l’individuo alla specie non
soltanto in quanto vi sono altre specie che “comunicano” nella stessa ragione generica, ed altri
individui che “comunicano” nella medesima ragione specifica e che quindi hanno una medesima definizione, ma anche, e in conseguenza di
ciò, per il fatto che fra le molte virtualità formali
del genere ciascuna specie non ne realizza che
una sola, e fra i molteplici modi di essere di cui è
suscettibile una specie ogni individuo non ne realizza che uno solo, con esclusione degli altri»114.
Questa gradualità di perfezioni può predicarsi anche sul piano gnoseologico e trattasi di
astrazione intensiva: la ragione di esse ricomprende tutte le perfezioni dell’esse inferiori ad
essa. Così la ragione «Vita» si mostra come una
totalità formale verso cui le varie manifestazioni di «vita», oggetti della nostra conoscenza,
appaiono come partecipazioni, degradazioni115.
Il presente iter argomentativo ha allora
messo in luce l’esistenza di due modalità di
partecipazioni: l’una predicamentale-univoca, l’altra trascendentale-analoga116. Nella
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prima, ad esempio, due uomini possiedono
la medesima-univoca formalità. E la formalità non esiste in sé dal punto di vista ontologico117 bensì esiste solo nell’uomo concreto
e particolare. Ad esempio la razionalità non
esiste in sé, ma esiste nel momento in cui si
realizza nell’essere umano concreto, cioè nel
momento in cui viene partecipata dall’essere
concreto: «ciò che è detto essere per partecipazione è composto realmente dell’ “ipsum
esse”, che è il partecipato, e dal “quod est”, che
è il partecipante»118. Trattasi quindi di un’altra categoria concettuale di partecipazione:
la participatio di un soggetto alla forma119.
Formalità poi piena perché ogni ente riceve
completamente dal punto di vista intensivo
e non estensivo il contenuto essenziale: ogni
uomo possiede pienamente l’«umanità»
dell’essere uomo. Possiede cioè perfettamente l’«umanità» ma non nella sua totalità: Carlo non è la totalità dell’«umanità» bensì solo
una sua parte, parte che però in sé è completa
nell’«umanità». Il Maestro domenicano così
glossa: «Socrate, per esempio, è detto uomo
non perché è la stessa umanità, ma perché la
possiede»120. La pienezza di partecipazione
è spiegabile perché «ogni formalità invero,
quand’è considerata soltanto secondo il suo
contenuto intelligibile è unica e indivisibile
in sè: se quindi la si suppone esistere, secondo
la purezza di questo suo contenuto che la specifica, essa, anche in realtà, non può esistere
che unica»121. Formalità piena e nello stesso
tempo particolarissima dato che nel singolo
uomo fiorisce in modo unico e specialissimo,
appunto individuale. Quindi si potrebbe anche dire che egli non possiede tutte le perfezioni formali dell’«umanità» – ogni uomo,
112 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 78.
113 Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 484.
114 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 81.
115 Cfr. F. Olgiati, La filosofia tomistica e la nozione metafisica di partecipazione, cit., p. 599.
116 Nel prossimo paragrafo spiegheremo meglio cosa si
debba intendere per partecipazione predicamentale e
per partecipazione trascendentale.
117 Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione
secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 15, 59. Il termine
«ontologico» è qui usato nell’accezione di esistente
nella realtà, ben consci che anche la formalità pensata è
essa stessa ente e quindi ontologicamente esistente.
118 Ibidem, p. 15.
119 Cfr. Ibidem, p. 16.
120 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, I, c. 32.
121 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 91.
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come è stato accennato, non è l’«umanità»,
ma partecipa all’«umanità» cioè ha una sua
umanità specifica. Oppure, esemplificando
su altro versante, potremmo dire che la razionalità è espressa perfettamente in ogni
uomo, ma questi non possiede tutti i modi in
cui la razionalità si può estrinsecare. Possedere tutta una formalità non significa necessariamente possederla totalmente122 (cosa invece predicabile per Dio). Entrambi gli esempi
sono dunque casi di «immanenza piena della
formalità universale negli inferiori»123.
Allora – e il sostantivo «comunicazione»
viene nuovamente interessato dalla nostra indagine – c’è tra tutti gli uomini un’identità e
insieme una similarità. Identità di forma, ma
diversità di modalità attraverso cui la forma
esiste, si appalesa nel concreto124: «esse uniuscuiusque est ei proprium et distinctum ab esse cuiuslibet alterius rei»125; «Tutti gli esseri convengono
in questo: nell’avere la propria ragion d’essere,
ma la nozione non dice di più, perchè in concreto ciascun essere ha il proprio modo di essere, che è distinto e diverso da ogni altro»126;
«l’umanità certamente è la ragione per la quale
e Pietro e Paolo sono detti “uomini”, ma l’umanità non dice tutto quanto è costituito in Pietro e Paolo, altrimenti Pietro e Paolo in nulla
differirebbero e s’identificherebbero»127. Dunque esiste una specialissima comunicazione/
relazione tra gli individui a motivo del loro status ontologico, insieme uguale e diseguale. Dal
punto di vista estensivo invece, come prima
accennato, nessun uomo esaurisce in sé tutti
i modi in cui può estrinsecarsi la razionalità.
Nella partecipazione trascendentale analoga invece i partecipanti possiedono una similitudine/analogia degradata del partecipato, che
è esistente in sé. Così ad esempio l’esse degli
uomini è una degradazione dell’Esse-Dio, ed
è quindi imago dell’essere divino. Dio quindi
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non comunica imperfettamente l’essere dato
che questo, si potrebbe appuntare, si trova
degradato, ma comunica perfettamente un
esse che viene limitato dall’essenza. Trattasi di
un’analogia di proporzionalità trascendentale che riguarda creatore-creatura (nell’ordine
predicamentale invece attiene al rapporto
sostanza-accidenti) che li considera secondo il
contenuto di realtà che essi hanno, cioè in proporzione alla loro ontologia128. Esse dunque imperfetto perché non così estensivamente presente nell’uomo come in Dio, ma altresì esse
perfetto perché l’uomo, dal punto di vista intensivo, possiede pienamente l’esse, è formalmente finito, completo, seppur limitatamente
alla sua condizione di creatura.
Infine se Dio causa l’atto di essere, se conserva l’atto di essere e se ogni ente somiglia al
primo Ente innanzitutto perche esistente, ciò
significa che tutto ciò che è tende ad esistere,
tende allora a somigliare a Dio che è atto puro
di esistere129: «Ma il supremo agente causa tutte
le azioni delle cause agenti inferiori, muovendole alle loro operazioni, e quindi ai loro fini.
Perciò ne segue che tutti i fini di codeste cause
sono ordinati dalla prima causa agente al fine
suo proprio. Ebbene, la prima causa agente di
tutte le cose è Dio […]. Ora, la Sua volontà non ha
altro fine che la Sua bontà, la quale è lui stesso
[…]. Perciò tutte le cose […] sono ordinate a Dio
come a loro fine»130. Analogamente Fabro: «Ma
la bontà divina può esser ancora considerata
come causa finale di tutte le altre bontà: essendo il primo principio di origine di tutte le cose,
è anche il termine di tutte le loro operazioni per
le quali si perfezionano, onde non possono esser dette buone se non in quanto sono ordinate
all’ultimo fine, la bontà divina»131 Ecco dunque
che Dio è anche causa finale132.
Volendo allora sintetizzare le tre modalità
causali in cui si estrinseca il rapporto tra Dio e
gli enti e recuperando un efficace esempio pro-
122 Cfr. Ibidem, p. 142.
123 Ibidem, p. 62.
124 Cfr. Ibidem, p. 60; Tommaso D’Aquino, Sententia super Metaphysicorum, X, lect. 1, n. 11.
125 Tommaso D’Aquino, De Potentia, q. 7, 3 c.
126 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 63.
127 Ibidem, p. 71, 74.
128Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 648.
129 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, III, c. 19.
130 Ibidem, III, c. 17.
131 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 19.
132 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, III, c.
18; De Veritate, q. 22, a. 1 c.
La participatio tomista come comunicazione
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
posto da Fulvio Di Blasi, potremmo affermare
che Dio è causa efficiente: tengo sollevato un
libro (ente) con la mia mano (Dio). Se tolgo la
mano il libro cade. La mano è causa efficiente
del fatto che il libro stia sollevato: «ogni volta
che qualcosa sta agendo in un modo che non
può essere causato dalla sua natura, dobbiamo
logicamente riferire l’agire a una causa esterna capace di causarlo per essenza, e diciamo
che il soggetto dell’azione partecipa di quella
causa»133. In merito poi alla causa esemplare
il partecipante è reso simile alla causa: il libro
sospeso rivela ad esempio la forza della mano
che riesce a sollevarlo, mostra in sé questa qualità che appartiene però originariamente alla
mano. Infine il libro obbedisce nell’effetto alla
teleologia della causa. Detto in altri termini
l’ens che partecipa è teleologicamente orientato verso la direzione impressa dalla causa: il libro è posto esattamente all’altezza dove è stato
sollevato, cioè voluto-finalizzato, dalla mano.
Trattasi di causa finale134.
5. Partecipazione predicamentale
e trascendentale
Questo excursus ha messo quindi messo in
evidenza l’esistenza di due partecipazioni, oltre a quella logica e ontologica di cui si è già
accennato: la partecipazione predicamentale e
quella trascendentale135. Nella partecipazione
predicamentale sia partecipato che partecipante rimangono nell’ambito dell’ente finito,
e può aver luogo sia nella prospettiva logica (la
partecipazione della specie al genere: l’uomo
che partecipa all’animalità) sia in quella ontologica (la partecipazione della materia alla
forma: il corpo che partecipa all’anima). Così
Fabro: «Per “partecipazione predicamentale”
intendo quella nella quale ambedue i termini della relazione, partecipato e partecipante,
restano nel campo dell’ente e della sostanza
finita (predicamenti). Di essa nel Commento
al De Hebdomadibus sono ricordati due modi:
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uno formale-nozionale ed uno reale; e ciascuno di questi due modi è stato presentato sotto
due forme: A = la specie partecipa al genere e
l’individuo alla specie; B = la Materia partecipa
alla Forma ed il soggetto (la sostanza) partecipa all’accidente»136. La partecipazione predicamentale allora è una partecipazione immanente che si articola come una relazione, una
comunicazione armonica cioè collaborativa
tra gli esseri, e altresì all’interno di ogni singolo ente tra le sue parti costituenti. Questa
comunicazione virtuosa può essere spiegata
solo se c’è una regia somma, solo se le parti
sono in relazione tra loro e un unum superiore.
Nella sua totalità allora la partecipazione predicamentale può essere intesa come un organismo, un ordo composto da parti che si coordinano tra loro in modo razionale. C’è dunque
una specie di affinità universale, affinità ontologica tra gli esseri, un legame che li unisce in
rapporto gerarchico a Dio137 e che si appalesa
come un principio di continuità metafisica tra
gli esseri138: «sicut est ordo quidam inter substantias corporales […] ita est etiam quidam
ordo inter substantias spirituales»139.
La partecipazione trascendentale riguarda
invece l’Ente e l’actus essendi-essentia. Partecipare in questa accezione significa, come afferma
Fabro, «avere in modo limitato, imperfetto,
particolare un atto e una formalità [essenza] che
altrove si trovano in modo illimitato, perfetto
e totale»140; è «un rapporto di partecipazione,
di “avere”, in opposizione allo “essere” senza
contrazione o limitazione»141: è prendere una
parte, non prendere la totalità. E più avanti in
modo analogo: «“Partecipare” si predica di un
soggetto che ha una qualche formalità od atto,
ma non in modo esclusivo e in modo totale»142.
133 F. Di Blasi, Conoscenza pratica, teoria dell’azione e bene
politico, cit., pp. 8-9.
134 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 6, a. 4 c.
135 Cfr. C. Fabro, The Intensive Hermeneutics of Thomistic
Philosophy: The Notion of Participation, cit., pp. 471-473.
136 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 66.
137 Cfr. Ibidem, p. 123.
138 Cfr. Tommaso D’Aquino, De Veritate, q. 11, a. 1 c.; q. 16,
a. 1 c.; q. 25, a. 2 c.; C. Fabro, The Intensive Hermeneutics of
Thomistic Philosophy: The Notion of Participation, cit., p. 479.
139 Tommaso D’Aquino, De Veritate, q. 15, a. 1 c.
140 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 140.
141 Ibidem, p. 19.
142 Ibidem, p. 142.
La participatio tomista come comunicazione
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
Così infine Tommaso: «Inoltre ogni volta che
un essere riceve in maniera particolare, ciò che
a un’altra cosa appartiene universalmente, si
dice che partecipa»143. Inoltre è da notare che
«questo avere o essere secondo limitazione si
può realizzare tanto nell’ordine predicamentale (di qualche natura universale rispetto agli
individui ai quali vien comunicata), [l’uomo
partecipa alla natura razionale] come nell’ordine trascendentale dello esse rispetto a tutti gli
enti finiti materiali e spirituali [l’essenza degli
uomini partecipa all’esse]»144. Allora la differenza tra l’Ente Dio e gli enti particolari dovrà
rinvenirsi nella limitatezza della possessione
dell’essenza attualizzata, cioè nella modalità
particolare in cui l’essere diviene esistente nella creatura: «in relazione alla quale [la qualità
d’essere] ciascuna forma o grado, non è che una
particolarizzazione, cioè partecipazione»145. La
partecipazione trascendentale individua l’alveo ove incanalare l’essere, una partecipazione quindi che «permette il fluire dell’essere
nell’ambito dei predicamenti»146. Tale participatio poi, come già in precedenza abbiamo visto,
si articola nel modo seguente: la forma partecipa all’actus essendi, «l’atto d’essere comunica alla forma che la rende principium essendi et
agendi dell’ente concreto»147. La concretezza,
sotto questa particolare angolatura, sta ad indicare la determinazione dell’esse che dà una
parte conferisce attualità all’essenza e dall’altra
riceve da questa specificazione: l’essenza individualizza l’essere e lo rende dunque unico148.
In tale dialettica il sostantivo «comunicazione» risulta perciò quanto mai appropriato ad
indicare questo scambio reciproco e virtuoso di
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proprietà strutturali dell’ente tra esse ed essentia. Scambio che indica relazione profonda tra
più soggetti, espressione che ancora una volta
trova addentellati semantici con il comunicare.
Allora se ci riferiamo contemporaneamente ai
due tipi di partecipazione ne risulta che la creatura è ente per partecipazione in senso trascendentale perché composta di essenza ed esse, e
nell’ordine predicamentale perché composta
di sostanza e accidenti, e forma e materia149.
Le due partecipazioni, trascendentale e
predicamentale, si riflettono in due causalità
corrispettive, che prendono quindi anche loro
il nome di causalità trascendentale e predicamentale, di cui già innanzi si fece un cenno.
Anche in questo caso il verbo «comunicare»
esprime al meglio il senso profondo del termine «participatio». Nella causalità predicamentale la forma comunica l’esse alla materia. Questo può avvenire dato che la forma – essentia
già permeata dall’esse – ha già in sé l’atto di essere e quindi lo può trasmettere di suo. Quindi
la forma nei corruttibili insieme alla materia
determina l’ente predicamentale nel suo grado
ontologico150: «nei composti di materia e forma si dice che la forma è principio d’essere»151.
Da notare quindi che Dio, in questa forma di
partecipazione, non è attore principale, sebbene ovviamente si muova dietro le quinte della
scena ontologica. La causalità predicamentale
coinvolge anche il rapporto tra sostanza e accidenti: la prima comunica l’esse agli accidenti. Nella causalità trascendentale invece viene
messo in evidenza il fondamento ultimo sia
degli esistenti (rapporto statico) sia del divenire (rapporto dinamico). E Dio che causa gli
enti facendo partecipare l’atto d’essere alle
varie essenze; è sempre Dio che causa il moto
degli atti. La Causa prima è «causa universalis
omnibus rebus (creazione e conservazione),
e [causa universalis] agendi omnium rerum
(rapporto tra Causa prima e cause seconde)»152
cioè causa che permette l’agire, che trasmette/
comunica il moto.
143 Tommaso D’Aquino, Commentarius in Boetium de
Hebdomadibus, lect. II.
144 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 19. In merito alla partecipazione predicamentale su questo specifico punto
cfr.C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 642.
145 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 75.
146 P. Lazzaro, La dialettica della partecipazione nella
Summa contra Gentiles di S. Tommaso D’Aquino, cit., p. 126.
147 Cfr. B. Mondin, La metafisica di San Tommaso e i suoi
interpreti, cit., p. 101.
148 Cfr. F. Olgiati, La filosofia tomistica e la nozione metafisica di partecipazione, cit., p. 599.
149 Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 648.
150 Cfr. Ibidem, p. 645.
151 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, II, c. 54.
152 F. Olgiati, La filosofia tomistica e la nozione metafisica di
partecipazione, cit., p. 102.
La participatio tomista come comunicazione
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
6. Il modo dell’essere,
tratto specifico della partecipazione
A questo punto, al fine di comprendere meglio il concetto di partecipazione e di come
questo possa declinarsi nelle sfumature di
significato della coppia di termini «comunicazione/comunicare», torniamo per un
momento all’etimo del verbo «partecipare».
Tommaso nel Commentarius in Boetium de Hebdomadibus afferma che «Est autem partecipare
quasi partem capere»153. Il lemma «partecipare» in prima battuta si può riferire all’aspetto
quantitativo: uno tutto che si divide in parti assegnate a più soggetti. Ad esempio la divisione
testamentaria, oppure la divisione dei beni tra
i coniugi che si contrappone alla comunione
dei beni. Come appare intuitivo in questa accezione il «partecipare» è antitetico alla «comunione» perché indica una dinamica esattamente opposta: non un mettere insieme, una
creazione di unità, una comunicazione di beni,
bensì una parcellizzazione della stessa, una
segmentazione e distribuzione di una totalità.
Nello stesso tempo però si può predicare una
«comunanza» una volta che la totalità si è divisa, «comunanza» intesa come riconoscimento che le parti provengono da un’unica fonte,
che in esse c’è la medesima qualità d’origine154.
Quindi a ben vedere la partecipazione quantitativa cessa di per se stessa una volta che il bene
materiale è stato diviso, rectius esiste solo nel
mentre dell’atto divisorio e sopravvive in un
certo qual senso unicamente nella prospettiva
storica, cioè nel già ricordato riconoscimento
di una origine comune delle parti.
Su un primo livello di generalizzazione potremmo dire allora che la partecipazione quantitativa è un affettare un unicum, dunque ha relazione con un oggetto. Se invece applichiamo
il concetto di partecipazione ad un piano metafisico, e non più meramente empirico, la participatio interessa il modo155. Partecipare ad un
dolore, ad una gioia di una persona non intacca
153 Tommaso D’Aquino, Commentarius in Boetium de
Hebdomadibus, lect. II.
154 Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione
secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 22.
155 Cfr. Ibidem, p. 23.
La participatio tomista come comunicazione
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l’oggetto «dolore» o «gioia» bensì riguarda la
particolare modalità attraverso cui si fa proprio
il dolore o la gioia di una persona156. Similmente per i concetti di esse, forma, sostanza – tutti
elementi che abbiamo visto possono essere
partecipati rispettivamente da essenza, materia e accidenti – i quali in sé ovviamente sono
indivisibili e quindi non suscettibili di frammentazione in parti. La partecipazione metafisica intesa come «entrare in comunione con»157
evidenza dunque il modo limitativo, il come
specifico attraverso cui si ha l’esse, la forma, la
sostanza. Allora il partecipare è un partialiter
esse, un partialiter habere, espressioni che sono
antagoniste dell’esse, habere, accipere totaliter.
Tutto ciò ci spinge ad un’analisi ancora più
profonda del termine «comunicazione» e degli affini «comunicare-comunione-comunanza». Sotto il profilo quantitativo ad esempio la
«comunanza» è effetto della partecipazione, è
una risultante della stessa: prima della divisione non ci sono le parti di cui si riconosce una
comune origine. Sotto il profilo metafisico
la «comunanza» è invece la radice della partecipazione, perché è entrare in comunione
con il dolore o la gioia di un soggetto, e – per
l’oggetto delle nostre riflessioni – con l’esse, la
forma, la sostanza. Tale accezione allora supera il primo significato di participare che si ha in
latino e che è riferibile all’aspetto quantitativo:
partem capere o partem habere. Un dividere una
totalità, come abbiamo visto. Bensì è più vicino al corrispettivo verbo greco. La traduzione
infatti di participare nella lingua di Omero è e
che letteralmente significano «comunico, ho
in comune, mi unisco, mi associo». E se infine, attraverso un percorso etimologico circolare, cerchiamo il corrispettivo latino di questi
verbi greci scopriamo che la traduzione indica
habere simul, habere cum alio, communicare cum
aliquo in aliqua re158. Ed infatti tutti gli enti han156 Cfr. C. Fabro, The Intensive Hermeneutics of
Thomistic Philosophy: The Notion of Participation,
cit., p. 453.
157 Non è un caso che la partecipazione al sacramento
dell’eucarestia per il rito cattolico venga definita appunto come «comunione».
158 Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione
secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 23.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
no in comune la prima formalità più astratta
che possa darsi, cioè l’esse: «Omnes autem causae creatae communicant in uno effectu qui est
esse»159. Questo iter etimologico rivela un dato
interessante. Nella prima accezione quantitativa veniva in evidenza un rapporto dualistico
tra soggetto e cosa: il successore e la parte di
eredità che gli spetta. Nella seconda accezione,
in modo interlocutorio, potremmo dire che la
partecipazione si appalesa come un trittico:
due soggetti e l’oggetto della partecipazione.
E così nel partecipare al dolore di una persona
c’è la sofferenza, chi soffre e chi partecipa alla
sofferenza. Però sul piano metafisico e in relazione ai termini esse, forma e sostanza, il rapporto torna ad essere duale, ma gli elementi
della relazione sono mutati. Non vi sono più,
come sotto il profilo quantitativo, il soggetto
e l’oggetto, bensì due soggetti: l’actus essendi e
l’essentia; la forma e la materia, la sostanza e gli
accidenti. In questo caso non c’è più nemmeno
l’oggetto del rapporto a tre che abbiamo visto
poco prima. In certo qual senso l’oggetto della
partecipazione diventa lo stesso soggetto: egli
stesso viene partecipato. L’esse offre sé stesso
alla partecipazione. Questo ci conduce al senso più profondo di partecipare che indica l’innestarsi in qualcosa per vivere della sua stessa
vita all’interno della limitazione propria, il ricevere l’essere di qualcuno in una singolarità
data, così come dal mare si attinge parte della
sua acqua con un secchio. Anzi il rapporto di
comunanza è così intimo che quasi la dualità
dei soggetti svanisce, dato che l’uno si confonde con l’altro, l’uno si fonde nell’altro: infatti
l’essere e l’essenza si compongono dando vita
all’ente che è uno. Analogamente il sinolo di
forma razionale e materia costituisce l’uomo
vivente nella sua interezza. In tale accezione
allora il verbo «comunicare» appare insufficiente a far comprendere l’intimo significato
del termine «partecipazione». Infatti «comunicazione» evoca dualità, che come abbiamo
descritto, effettivamente esiste: essere-essenza, forma-materia, sostanza-accidenti. Però
d’altro canto la comunione dei due elementi
è così forte che genera unità. Ecco quindi perché, tra l’altro, il rapporto tra Dio e l’uomo è
159 Tommaso D’Aquino, De Potentia, q. 7, a. 2 c.
La participatio tomista come comunicazione
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trascendente – indicando una dualità di poli
ontologicamente assai distanti – ma altresì indica una pervasiva traccia divina in ogni
ente. Ed infatti Tommaso si spinge a dire che
«tutti gli esseri hanno in se stessi qualcosa di
divino, cioè l’inclinazione naturale, che deriva
dal Primo principio»160. E questa inclinazione
naturale negli esseri razionali non è altro che
la lex naturalis, la quale ancora una volta trova
la sua definizione nel concetto di partecipazione: «la partecipazione della legge eterna nella
creatura razionale si dice legge naturale»161.
Il comunicare in quest’ultima prospettiva ermeneutica quasi diviene l’«essere con», una
sorta di identificazione del partecipante con
il partecipato, appunto una somiglianza come
sopra descritto. Quanto sin qui detto allora
potrebbe farci concludere che forse il termine
«comunicazione» è spendibile laddove si volesse mettere l’accento sul rapporto dualistico
della participatio, ma apparirebbe debole ove si
desiderasse indicare l’unità dei due elementi
che costituiscono ogni rapporto partecipativo.
Tommaso Scandroglio è dottore di ricerca in
Filosofia del diritto (Università degli Studi di
Padova) ed è docente del corso Legge naturale e
diritto presso l’Università Europea di Roma.
160 Tommaso D’Aquino, Sententia libri Ethicorum, VII, l.
13, n. 14.
161 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I - II, q. 91, a. 2.
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Diritti sociali e pluralismo giuridico
in Gurvitch
Alberto Scerbo
Abstract
Parole chiave
Il concetto di diritto sociale, connesso ai valori transpersonali, opposto a quello di diritto individuale, che
esprime valori personali, si lega alle differenti forme
di socialità, da cui discendono le diverse modalità di
estrinsecazione dei fatti normativi. Gurvitch procede,
quindi, alla partizione del diritto sociale in una pluralità di livelli. Uno sguardo è, quindi, rivolto al contenuto
della Dichiarazione dei diritti sociali.
diritti sociali; Gurvitch;
Pluralismo sociale; Democrazia.
1- Diritto sociale e diritto individuale
L
’unité du droit s’affirme dans cette échelle d’une
façon purement immanente et se réalise dans la
pluralité même des faits normatifs équivalents. Unité
immanente dans la varieté, tel est le dernier mot de la
théorie pluraliste du droit”1. In tal modo Gurvitch
pensa di ovviare ai limiti riscontrabili nelle più
diffuse teorie giuridiche. Infatti, l’impostazione
seguita consente di pervenire ad una soluzione
dialettica che procede alla sintesi delle tradizionali opposizioni tra essere e dover essere e tra
autonomia ed eteronomia, ma anche di definire in modo preciso e completo il rapporto tra la
sfera della soggettività e la sfera dell’oggettività, e di cogliere, inoltre, la necessaria unità tra
la funzione sociale e la struttura giuridica. La
positività del diritto è, così, soggetta ad un’analisi del tutto parallela a quella concernente gli
aspetti costitutivi del fenomeno sociale, poiché
la specificazione della socialità finisce per porsi
come condizione del processo di configurazione dei fatti normativi, che, a sua volta, determina la concettualizzazione delle forme di diritto.
“
1 G. Gurvitch, L’experience juridique et la philosophie pluraliste du droit, Paris, 1935, pp. 150-151.
Fonti del diritto diventano, perciò, i “fatti
normativi”, che “in un solo e medesimo atto
generano il diritto e fondano la loro esistenza sul diritto”, nel senso che “creano il loro
essere generando il diritto che serve loro di
fondamento”2: essi costituiscono, cioè, tutte
le manifestazioni della realtà sociale capaci di
creare il diritto. Pertanto, ogni forma di socialità può diventare fonte del diritto, di modo che
«le forme di socialità svolgono, accanto e nell’interno dei gruppi e delle società globali in cui sono
integrate, la funzione di fonti primarie del diritto; funzione assai importante e decisiva, essendo
impossibile capire la vita giuridica dei gruppi e
delle società globali senza tener conto della vita
giuridica delle forme di socialità»3.
Con una specificazione, però, dal momento che
«i fatti normativi delle società globali godono
nella vita giuridica di una supremazia nei con2 G. Gurvitch, L’idée du droit social, Paris, 1932, p. 119.
3G. Gurvitch, Sociologia del diritto, Milano, 1967, p. 174.
Precise annotazioni si rinvengono nel saggio di G.
Marchello, Pluralismo e dialettica sociale, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, (1950).
Diritti sociali e pluralismo giuridico in Gurvitch
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
fronti dei fatti normativi dei gruppi particolari,
mentre questi a loro volta hanno la supremazia
nei confronti dei fatti normativi delle forme di
socialità»4.
Il nucleo della teoria sociologico-giuridica
di Gurvitch risiede nella distinzione tra socialità spontanea, o diretta, e socialità organizzata, o riflessa. La socialità spontanea si presenta
sotto due forme distinte, per interpenetrazione e per interdipendenza, corrispondenti rispettivamente alla fusione parziale nel Noi e
alla mera instaurazione di rapporti con gli altri. Il primo tipo comporta la reciproca immanenza di parti e tutto, mentre la seconda forma
determina uno stato in cui le coscienze e i comportamenti restano in contrasto con l’insieme.
Da questa biforcazione discende un diverso
atteggiarsi del grado di intensità della socialità spontanea. In tal modo, dal punto di vista
della forza della fusione parziale si individua
una integrazione superficiale, che si esprime
nella Massa, una più intima, che si realizza
nella Comunità, ed un’altra profonda al massimo grado, rappresentata dalla Comunione.
All’interno di queste forme di socialità si scopre la presenza di una relazione inversamente proporzionale tra intensità ed estensione,
poiché all’espansione dell’una corrisponde il
restringimento dell’altra; ciò non è privo di
conseguenze, dal momento che mette in luce
come il maggior equilibrio si realizzi nell’ambito della forma intermedia dello stato di comunità, che, per tale ragione, si appalesa quale
forma più stabile e più sicura di socialità. Dal
lato della socialità per interdipendenza, il differente grado di intensità produce relazioni
di avvicinamento, di allontanamento e miste.
I rapporti con altri si condensano in processi
di unione o separazione tra i gruppi e tra gli
individui, ma bisogna considerare che nessun
rapporto di questo tipo può instaurarsi senza
una preesistente fase di interpenetrazione, visto che l’interdipendenza presuppone sempre
l’operatività di simboli comunicativi, i quali
possono favorire l’unità delle coscienze solamente in dipendenza di una precedente unione intuitiva. Il cerchio si chiude attraverso la
4 Ibidem, p. 174.
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precisazione che il risvolto giuridico di tali
connotazioni è offerto dalla caratterizzazione
sociale e individuale del diritto.
La differenziazione tra le due forme di socialità, che riverbera i suoi effetti nella individuazione delle distinte modalità di estrinsecazione
dei fatti normativi, conduce direttamente alla
concettualizzazione del diritto sociale, “inteso
come diritto di integrazione, di comunione e di
collaborazione in una totalità antigerarchica”5.
Strettamente connesso ai valori transpersonali,
in quanto espressione della socialità per interpenetrazione fondata sull’unione intuitiva, si
differenzia dal diritto individuale, che esprime
valori personali, perché manifestazione della
socialità per interdipendenza costituita sulla
comunicazione simbolica.
Il diritto sociale “è diritto di pace, di aiuto
scambievole, di lavoro in comune”, mentre il
diritto individuale “è diritto di guerra, di conflitto, di separazione”6. Sì che “ogni potere giuridico è funzione del diritto sociale” ed è
«sempre impersonale, oggettivo, immanente;
non costituisce mai una dominazione e non è
proiettato al di fuori della molteplicità dei membri che costituiscono un «Noi». Al contrario, il
diritto individuale, diritto di separazione e di
equazione per eccellenza, non costituisce mai di
per se stesso un potere»7.
Su queste basi si comprendono le ragioni poste a fondamento del favore dimostrato da Gurvitch per il diritto sociale, che non
discende mai da atti impositivi provenienti
dall’esterno, perché è «sempre un diritto autonomo, inerente ad ogni “Noi” particolare,
favorevole all’autonomia giuridica delle parti
interessate»8.
5 G. Gurvitch, Le temps present et l’idée du droit social, Paris,
1932, p. 7. Essenziale rimane il riferimento al saggio di
N. Bobbio, Istituzione e diritto sociale (Renard e Gurvitch), in
“Rivista internazionale di filosofia del diritto”, (1936).
6 G. Gurvitch, Sociologia del diritto, cit., p. 184.
7 Ibidem, p. 185. Il problema del diritto è analizzato in
chiave critica da V. Palazzolo, La teoria del diritto di Georges
Gurvitch, in “Archivio di cultura italiana”, (1940).
8 Ibidem, p. 184. Nell’approfondire il rapporto tra diritto
e potere, La Torre osserva che in Gurvitch il potere politico, “anche là dove assume le forme estreme della “dominazione” si basa sempre su un qualche tipo di socia-
Diritti sociali e pluralismo giuridico in Gurvitch
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
In concomitanza con i diversi gradi della socialità per interpenetrazione, Gurvitch
opera una suddivisione del diritto sociale, che
acquista pieno significato in opposizione al
diritto subordinativo, da intendere come una
forma degenerativa del diritto sociale, in virtù
della soggezione al diritto individuale. Questo
fenomeno può essere spontaneo, quando la
prevalenza del diritto individuale è imputabile a credenze mistiche, o organizzato, allorché
la sovrastruttura organizzata si mostra come
il risultato non di una socialità spontanea sottostante, bensì di manifestazioni esterne di
diritto individuale.
Da tali premesse si dipanano le partizioni
del diritto sociale ipotizzate da Gurvitch. Il livello più superficiale di integrazione è realizzato dal diritto sociale della massa, in cui alla
esclusività del diritto oggettivo segue la negazione dei diritti soggettivi, con l’effetto di dare
origine ad una specie di diritto molto vicina
al diritto subordinativo di dominazione. Il diritto sociale della comunità realizza, invece, il
maggiore equilibrio tra aspetti soggettivi ed
oggettivi del mondo del diritto, soprattutto
perché la comunità costituisce, per un verso,
l’espressione di socialità più stabile ed efficace
e, per l’altro, la fonte del diritto più sicura, in
considerazione della capacità di far emergere
la distanza tra le caratteristiche essenziali delle
credenze giuridiche e tutte le altre. A dispetto
dell’intensità del grado di interpenetrazione,
la comunione favorisce un diritto sociale con
una validità più attenuata, dal momento che la
comunione è solitamente fugace ed instabile,
e per lo più legata all’influenza di fattori mistici e morali; in questo campo il diritto di integrazione si svolge con il predominio del momento oggettivo e il contemporaneo processo
di annichilimento del diritto in quanto tale.
È interessante notare quale volto assume
il diritto individuale in concomitanza con i
vari tipi di rapporti connessi alla socialità per
interdipendenza; si riconosce, così, un diritlità, in genere quella «per interpenetrazione», talvolta
(nei casi di «dominazione» sulla socialità «per interdipendenza»”, di modo che si può ritenere che “il potere
politico è saldamente vincolato al fenomeno giuridico”
(M. La Torre, Norme, istituzioni, valori. Per una teoria istituzionalistica del diritto, Roma-Bari, 1999, p. 180).
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to interindividuale di allontanamento, che si
origina dal conflitto e si traduce, in fondo, nel
diritto del più forte, di cui sono manifestazione concreta il diritto di guerra e il diritto alla
proprietà alienabile, un diritto individuale di
avvicinamento, che trova compiutezza in istituti come la donazione e la concessione, ed un
diritto individuale misto, la cui manifestazione classica è il diritto contrattuale.
Un ulteriore tassello va inserito nella costruzione di Gurvitch, che riguarda i piani di
profondità delle diverse specie di diritto. Sotto
questo profilo rileva il contrasto tra diritto organizzato e diritto non organizzato:
ogni diritto organizzato – si precisa – è sempre
sovrapposto ad un diritto non organizzato ad
esso sottostante, ed ogni diritto non organizzato ha sempre la tendenza a coprirsi di una crosta
più stabile e più fredda di diritto organizzato. Tra
questi due piani fondamentali della realtà giuridica sussiste, tuttavia, una perpetua tensione,
– che – deriva dal fatto che il diritto organizzato non riesce, nel suo schematismo riflesso, ad
esprimere appieno il diritto non organizzato più
dinamico e più ricco di contenuto9.
Gurvitch rompe, così, la necessaria concatenazione tra diritto ed organizzazione, che
sembra costituire il passaggio obbligato per
innalzarsi dalla dimensione dinamica della
socialità a quella certa della giuridicità. Di
conseguenza apre la strada ad una modalità
di confronto più articolata, per la quale esiste
vero diritto di integrazione quando è fondato
sul diritto non organizzato prodotto dalla comunità sottostante, ragion per cui si assiste
all’espansione del diritto di subordinazione
nel momento in cui si realizza il distacco tra
diritto organizzato e diritto spontaneo e l’organizzazione che ne deriva acquista il carattere di una associazione di dominazione.
Attraverso tali premesse Gurvitch rileva la
complessità della realtà sociale, che lo induce a
privilegiare, accanto ad uno studio in profondità, o in verticale, uno studio in orizzontale,
o di tipo differenziale10. Proprio questo speci9 Ibidem, p. 193.
10 Alcune precisazioni sono contenute anche in C. Faralli,
Il tempo dello storico e il tempo del sociologo: la polemica tra
Braudel e Gurvitch, in “Sociologia del diritto”, (1996), n. 3.
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Da parte sua Gurvitch schematizza piuttosto minuziosamente l’analisi sociologica del
diritto, precisando la necessità di distinguere
la microsociologia e la sociologia differenziale del diritto. La prima, diretta a «studiare le
specie di diritto in funzione delle diverse forme di socialità, – nonché – a studiare le specie
di diritto in funzione dei livelli di profondità
individuabili nell’ambito di ogni forma di socialità in quanto fatto normativo»13; l’altra,
rivolta all’indagine delle strutture giuridiche
rappresentative di unità collettive reali, rilevanti nelle forme della tipologia giuridica dei
gruppi particolari e della tipologia giuridica
delle società globali. Il modello si completa,
quindi, con la previsione dell’ulteriore campo
esplorativo della sociologia genetica, che, prescindendo da ogni impostazione di carattere
evoluzionistico, si propone di definire le «“regolarità tendenziali” di mutamento nell’ambito di ogni tipo di sistema giuridico, – ma anche
i – fattori di siffatte regolarità di trasformazione nella vita giuridica in genere»14.
La sistematizzazione concettuale elaborata
da Gurvitch implica di necessità una serie di
specifiche e dettagliate partizioni, che denotano il più compiutamente possibile l’intersecazione tra pluralismo sociale e pluralismo
giuridico15, basato peraltro sul superamento di
una concezione individualistica a vantaggio
della valorizzazione dell’aspetto sociale, sulla
preferenza accordata al momento aggregativo piuttosto che all’elemento atomistico, sulla
rilevanza attribuita ad una scelta di decentramento del potere e di diversificazione della capacità normativa in contrapposizione ad una
tendenza centralistica.
Il risvolto di un approccio di tal genere è lo
sviluppo in concreto della teoria pluralistica,
che si verifica a partire dall’idea che ogni comunità dotata di socialità attiva e portatrice di un
valore positivo si impone come fatto normativo
che dà origine ad una propria regolamentazione giuridica. Si precisa, però, che anche i gruppi con le caratteristiche indicate non sempre si
dimostrano capaci di costruire un ordinamento giuridico, in ragione della loro temporaneità
o stabilità o ancora della funzione rivestita. È
certa, però, l’affermazione della pluralità degli
ordinamenti giuridici, che sposta l’attenzione
dal piano formale a quello sostanziale ed induce ad una rielaborata riflessione sul tema della
sovranità, da osservare sotto l’ottica giuridica
piuttosto che sotto quella politica, per pervenire ad uno spostamento di visuale nell’ambito
della socialità spontanea.
Il campo della sovranità giuridica non organizzata costituisce il fondamento del riconoscimento e della previsione di una pluralistica
diffusione degli ordinamenti giuridici, che si
prospetta, tra l’altro, senza una precisa disposizione giuridica, perché aperta ai mutamenti
e alle variazioni dettate dalla storia. Tale organizzazione ricostruisce in termini antiformalistici il rapporto tra società e diritto e propone
una diversa interpretazione di alcune categorie
11 G. Gurvitch, Sociologia del diritto, cit., p. 127.
12 Ibidem, pp. 133-134.
13 Ibidem, p. 176.
14 Ibidem, p. 249. Per un approfondimento della sociologia del diritto v. M. A. Stefani, Georges Gurvitch sociologo
del diritto, Roma, 1982, 1974.
15 Un quadro sistematico del pluralismo di Gurvitch
è dovuto a M. D’Aguanno, Gurvitch pluralista, Napoli,
1974. Nello specifico, sul rapporto tra pluralismo sociale
e pluralismo giuridico, v. il saggio di A.R. Favretto, Dal
pluralismo dei rapporti sociali al pluralismo delle normatività. Individui e diritto in Tönnies e Gurvitch, in “Sociologia
del diritto”, (1992), n. 3.
fico punto è oggetto di attenzione critica nei
riguardi di alcuni autori precedenti. Si evidenzia, così, che
la tipologia giuridica dei gruppi non costituisc[e] il
punto forte della sociologia del diritto di Hauriou,
il cui merito consiste piuttosto nelle sue analisi in
profondità della realtà del diritto, che di tale realtà
pongono più accuratamente in luce il “pluralismo
verticale” che non il ”pluralismo orizzontale”11.
Ugualmente
il difetto essenziale della sociologia giuridica di
Ehrlich (…) è la mancanza assoluta di qualsiasi analisi microsociologica e differenziale, vale a dire di
una spiegazione che renda conto delle forme di socialità e dei tipi giuridici dei gruppi. Il pluralismo
sociologico e giuridico di Ehrlich è esclusivamente
verticale e lo porta a confondere, sotto il termine
vago di “diritto della società”, svariati tipi di diritto12.
Diritti sociali e pluralismo giuridico in Gurvitch
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della politica, al punto che anche il soggetto politico più rappresentativo, lo Stato, non soltanto assume un ruolo non esclusivo nella produzione del diritto, ma è chiamato a confrontarsi,
proprio sotto l’aspetto giuridico, con le altre
diverse realtà sociali. I rapporti dello Stato con
gli ordinamenti giuridici non statuali sono catalogati in funzione del particolare tipo di diritto sociale rappresentato. É possibile, perciò,
distinguere tra ordinamenti del diritto sociale
puro, in cui la coazione è condizionata, perché
è ammessa l’opportunità giuridica di sottrarsi
mediante l’abbandono della comunità, e ordinamenti del diritto sociale condensato nello
Stato, caratterizzati dalla coazione incondizionata, non suscettibile di deroghe.
Il diritto sociale puro incontra una ulteriore
partizione. Può essere, infatti, indipendente,
quando è concentrato entro ordinamenti giuridici superiori o equivalenti a quello statale,
come nel caso del diritto nazionale sovrafunzionale, del diritto internazionale e del diritto
della Chiesa, e non indipendente ma sottoposto alla tutela dello Stato, quando soccombe,
nell’ipotesi di conflitto, all’ordinamento statale, come accade per tutti quei sistemi che sono
ricondotti nel campo del diritto privato. Si
possono individuare, infine, gli ordinamenti
del diritto sociale ammessi dallo Stato, che occupano una posizione intermedia tra il diritto
puro e il diritto condensato, i quali si caratterizzano per una precisa autonomia, ma sono
pur sempre al servizio dello Stato: l’esempio
più illuminante è il diritto dell’autogoverno
locale, ma vale anche per il diritto degli enti
decentrati che svolgono funzioni tecniche o
esercitano servizi pubblici.
2. Pluralismo sociale
e democrazia pluralista
La visione pluralistica della realtà sociale e la
costruzione di una teoria sociologico-giuridica
capace di assicurare la sostanziale limitazione
del potere dello Stato favoriscono, perciò, una
precisa presa di posizione dal punto di vista
politico16. Gurvitch non manca, infatti, di pre16 Su questo aspetto cfr. lo studio critico di A. Tanzi,
Georges Gurvitch. Il progetto della libertà, Pisa, 1980.
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stare attenzione al riscontro operativo delle
scelte concettuali formulate. E rileva innanzitutto che il diritto di integrazione lascia spazio
all’espansione della violenza nel momento in
cui contemporaneamente si verifica lo scarto
tra diritto organizzato e diritto spontaneo e
l’affermazione di un potere basato su fattori
mistici e non giuridici. Il diritto di subordinazione si instaura in queste condizioni e produce rapporti sociali in cui la dominazione raggiunge il massimo livello: tale effetto negativo
giustifica in maniera razionale il giudizio di
fondo espresso nei confronti dei regimi totalitari e delle teocrazie orientali.
Per converso, il pensiero di Gurvitch si dirige verso la valorizzazione ed il sostegno della
democrazia, che critica nella forma trasmessa
dalla modernità, incentrata essenzialmente
su una impostazione individualistica di stampo monistico. Si ritiene necessario, invece,
prodigarsi per l’attuazione di una democrazia
pluralista, capace di consentire il pieno dispiegamento delle sue molteplici sfaccettature e di
dare consistenza alle differenti componenti di
autonomia operanti al suo interno. Quasi anticipando il dibattito contemporaneo sull’essenza della democrazia, Gurvitch analizza in chiave problematica l’idea della “democrazia come
metodo” e tutte le formule generiche, sicuramente riduttive della nozione, che sono state
sostenute nel corso del tempo dagli studiosi.
Non manca di soffermarsi sull’opera di
Rousseau, che ha avuto il merito di sintetizzare i caratteri fondamentali dell’anima democratica mediante la teorizzazione del principio
della volontà generale, concepita come l’idea
di una sostanza razionale presente in tutti gli
individui e resa operativa dal suffragio universale. È preciso, anche se fugace, l’accenno ai
limiti strutturali del potere democratico inteso alla maniera rousseauiana, che discendono
dalla sostanziale coincidenza tra volontà generale e volontà di tutti e finiscono per evidenziare solamente l’aspetto puramente operativo della vita democratica, dove l’oscuramento
dell’elemento qualitativo e l’esaltazione del
valore del consenso in termini di calcolo numerico. La stessa idea di libertà individuale annichilisce dinanzi all’esito delle deliberazioni,
Diritti sociali e pluralismo giuridico in Gurvitch
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soprattutto in considerazione del fatto che la
singola scelta non appare più come il risultato
della volontà dell’individuo, ma come la manifestazione di una volontà superiore, detentrice della misura delle cose.
La successiva attribuzione al principio di
libertà di una maggiore concretezza, la modificazione in senso qualitativo dell’uguaglianza, concepita in maniera sostanziale oltre che
formale, e la visione della sovranità popolare
non come un dato acquisito, ma come oggetto
di ricerca da porre a sostegno delle istituzioni
statali, ha determinato una nuova prospettiva
dell’ideologia democratica, che rende inaccettabile le teorie di formazione atomistica ed
impone una revisione del fondamento tradizionalmente assunto. L’attenta analisi dei
principi costitutivi dell’ideale democratico
conduce, in verità, a comprendere che la premessa filosofica non si ritrova in una matrice
individualistica, bensì in una prospettiva che
sintetizza individualismo e universalismo,
per la quale le parti si compongono con il tutto
in un rapporto di interpenetrazione dell’unità
e della molteplicità, in cui si prospetta l’equivalenza tra valori personali e transpersonali.
Questi specifici riferimenti rinviano direttamente alla teoria del diritto di Gurvitch e dimostrano come la filosofia giuridica elaborata
dal giurista francese ha come conseguenza necessaria la proiezione verso una scelta politica
di tipo democratico, ma anche come il concetto di democrazia che ne scaturisce è profondamente connesso con l’idea di diritto sviluppata
secondo il modello transpersonalistico17. Infatti, il principio dell’unità nella varietà applicabile alla dottrina giuridica pluralista costituisce il fondamento anche della teoria politica
democratica, perché, per un verso, impedisce
di identificare il diritto con la forza e, per l’altro, di pensare allo Stato come strumento per
la realizzazione di un ordine coercitivo incondizionato destinato al controllo sociale.
Si comprende come la scelta autenticamente democratica di Gurvitch sia legata al
problema giuridico, e soprattutto al bisogno
17 Su transpersonalismo si rinvia a A. Olgiati, Il transpersonalismo in Gurvitch, in Il concetto di giuridicità nella scuola moderna del diritto, Milano, 1943.
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di recuperare un’intima connessione tra il diritto e l’organizzazione sociale: per Gurvitch
«la démocratie est la voie indespensable, la seule
possible, vers la réalisation du droit au sein d’une
organisation sociale»18. La formula ha valore
tanto nella direzione del diritto, quanto, all’inverso, dal lato della politica, dal momento che
non è soltanto l’organizzazione di governo
democratica a garantire la configurazione di
un ordine giuridico radicato nella società, ma,
all’opposto, è anche il diritto a definire l’identità del potere e ad assicurare una condizione
politica caratterizzata dalla subordinazione
del potere al diritto.
L’antidemocraticità è, per Gurvitch, il connotato di ogni teoria che antepone il potere al
diritto, perché, anche se involontariamente o
indirettamente, pone le premesse per l’instaurazione di un regime fondato sull’autolegittimazione del potere, sulla mancanza di controlli efficaci e sulla tendenziale arbitrarietà dei
comportamenti. Per tale ragione il processo di
realizzazione della democrazia è inseparabile
dall’idea del diritto, visto che è proprio di un
regime autenticamente democratico l’affermazione di un reale “potere del diritto”, per
il quale tutti gli atti del potere esecutivo sono
soggetti al controllo di legalità da parte degli
organi della giurisdizione. E così
«à force d’être impregées de droit, les relations
d’organisation se trouvent subordonnées à un
genre particulier du droit, le droit social; ce droit
élimine de la structure de l’organisation l’ordre du
droit individuel, qui ne masque, en tant qu’il est appliqué au pouvoir social, que l’arbitraire, la violence et
la hiérarchie ; de sorte que, du point de vue purement
juridique, la démocratie peut être definie comme l’institution de la souveraineté du droit social à l’interieur
d’une organisation»19.
Il concetto qui espresso può costituire, in
un certo qual modo, la sintesi del poliedrico
e variegato percorso intellettuale di Gurvitch,
perché coniuga i fondamenti dell’impianto filosofico, le risultanze dell’analisi sociologica,
18 G. Gurvitch, L’experience juridique et la philosophie pluraliste du droit, cit., p. 252. Il volume ripropone il saggio
Le principe démocratique et la démocratie future in “Revue
de Métaphisique et de Morale”, (1929).
19 Ibidem, p. 254.
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i risvolti della dottrina giuridica e le applicazioni della scienza politica in un quadro sostanzialmente unitario, che mostra come la
problematizzazione dell’esperienza giuridica
permette di scoprire la forma di diritto più
rappresentativa della natura sociale dell’uomo e, quindi, più rispondente alle esigenze
e alle aspettative della realtà, e ad indirizzare, di conseguenza, verso la definizione delle
regole di funzionamento del potere politico.
In un rapporto di convergenza tra politica e
diritto, in cui la democrazia si prospetta come
l’esito naturale dell’approccio “filosofico” al
problema dell’esperienza.
L’idea di Gurvitch è, così, di trasformare la
questione da specificamente politica in giuridica ed inoltre di considerare che il problema
della democrazia deve caricarsi anche di una
valenza economica, per ritagliare soluzioni
di convenienza rispetto alla prassi e del tutto
adatte alla formazione di una forma organizzativa tendenzialmente “unitaria” e “completa”.
In verità il sistema democratico esprime,
con la più ampia chiarezza, il significato, e la
realtà, di una concezione pluralistica, tanto è
vero che Gurvitch non esita a considerare che
«l’avenir de la démocratie est dans l’universalité et la
multiplicité de ses faces, dans son caractère, pour ainsi
dire polyédrique, dans son extension continuelle à des
nouvelles régions des rapports humains, dans le fait
qu’elle sort des limites exclusives de l’organisation politique».
Che costituisce, senza dubbio, il metodo
più vantaggioso per approdare ad una condizione di integrazione della «liberté individuelle dans son acception plus concrète avec
l’idée de l’égalité»20.
Pertanto, è evidente che la democrazia politica ha bisogno senz’altro del sostegno della
democrazia economica, in considerazione del
fatto che solamente attraverso questo metodo è possibile attenuare le discriminazioni
sociali, impedire un esercizio arbitrario del
potere capitalista ed assicurare la convivenza
tra le classi. Il pensiero di Gurvitch è, perciò,
20 Ibidem, pp. 256-257. Spunti interessanti si trovano
nel saggio di N. Abbagnano, La sociologia della libertà di
Gurvitch, in “Quaderni di sociologia”, (1955), n. 18.
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proteso verso una strada “riformista”, per allargare gli spazi di democraticità e per valorizzare il ruolo dei gruppi che partecipano
attivamente alla vita economica. Tutto ciò si
realizza per il tramite del diritto sociale. La
democrazia acquista, così, il valore di forma
ideale di stato, perché espressiva, e attuativa,
del diritto delle comunità, nel senso che stigmatizza il fatto che
«chaque totalité sociale s’affirme comme la source
d’un nouveau droit objectif et participe directement
aux relations juridiques internes auxquelles il donne
lieu»21.
Questo preciso riferimento giuridico richiama immediatamente in opposizione la categoria del diritto individuale. Gurvitch chiarisce che la distinzione prospettata non rievoca
affatto quella tradizionale tra diritto oggettivo
e diritto soggettivo, né la classificazione del diritto in pubblico e privato. Innanzitutto perché
tanto il diritto sociale quanto il diritto individuale contengono insieme elementi oggettivi
e soggettivi; in secondo luogo va sottolineato
che sia il diritto individuale che quello sociale
partecipano del diritto privato allo stesso modo
del diritto pubblico. A tal proposito, si deve ricordare che la partizione tra pubblico e privato
rappresenta un prodotto convenzionale dello
Stato e, se diversi autori hanno giustamente
rilevato la presenza di esempi di diritto sociale
all’interno del diritto privato, un processo dello stesso tipo non è stato avviato per il diritto
pubblico, dove, invece, ad avviso di Gurvitch,
si possono scoprire concrete espressioni di diritto individuale.
In verità, è proprio la coesistenza di questo
contenuto nel diritto pubblico a determinare
la struttura moderna dell’organizzazione del
potere, che, evidenziando la matrice individualista della concezione dello Stato, rende
più agevole l’esercizio arbitrario dell’attività di
governo ed intacca l’essenza stessa della democrazia politica. Si afferma, così, la necessità di
espellere dal diritto pubblico l’ordine del diritto individuale, poiché la vera democrazia politica comporta la “reductio du droit public au seul
21 Ibidem, p. 261.
Diritti sociali e pluralismo giuridico in Gurvitch
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et pur droit social engendré par la communauté politique sous-jacente à l’organisation superposée»22.
A queste condizioni la democrazia si prospetta come l’istituzione della “sovranità del
diritto sociale” all’interno di una organizzazione, poiché si propone espressamente lo scopo
di strutturare l’organizzazione sovrapposta
alla totalità puramente oggettiva della comunità, che costituisce, in definitiva, il fondamento
di ogni organizzazione. E pertanto
«le droit social est l’essence même de la démocatie. Il
symbolise juridiquement et incarne en lui l’idée su
self-government collectif à base d’égalité et de liberté”
– per cui – “la démocratie est le droit social organisé; la
souveraineté du droit social est la démocratie»23.
Lo stesso meccanismo funziona per la democrazia economica, chiamata ad ispirare
l’organizzazione industriale ai principi del
diritto sociale, che esprime l’essenza della comunità oggettiva sottostante. Di conseguenza, per Gurvitch la democrazia sotto l’aspetto
economico riflette «la rébellion du droit social
à l’intérieur de chaque entreprise contre son assujettissement anormal à l’ordre hétérogène du droit
individuel»24. Il significato ultimo di tale asserzione coincide con il bisogno di una azione
pubblica diretta a modificare l’assetto della società capitalistica, la quale è sostanzialmente
improntata sul perseguimento e la difesa degli
interessi dei titolari delle attività produttive,
con il conseguente predominio di un ordine
giuridico ispirato al diritto individuale.
Il rinnovamento non può che consistere
nella instaurazione di rapporti di potere basati sul diritto sociale dei gruppi, che sfaldano
l’associazionismo di dominio ed eliminano
la confusione che scaturisce dalla soggezione del potere esercitato da tutti all’influenza
del diritto individuale. In tal modo Gurvitch
manifesta un particolare favore per l’indirizzo socialista, in forza, probabilmente, anche
dell’esperienza politica vissuta in patria, ma
seguendo un processo di rivisitazione che,
se per un verso ribadisce il rifiuto dell’in22 Ibidem, p. 263.
23 Ibidem.
24 Ibidem, p. 264.
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dividualismo capitalistico, per l’altro critica
l’impianto collettivistico, di matrice statalista e a struttura dirigista. L’intento perseguito è l’annullamento dell’esercizio del potere
dell’uomo sull’uomo, al fine di sconfiggere
l’idea della supremazia dello Stato e smantellare ogni forma di individualismo. Ciò a
cui si aspira è, in definitiva, la sostituzione
dell’interesse comune all’interesse particolare, in un campo come quello economico
generalmente caratterizzato dagli egoismi
delle singole componenti.
3. La dichiarazione dei diritti sociali
La sintesi di questi concetti si trova espressa
nella Dichiarazione dei diritti sociali, pubblicata a
New York nel 1944, in cui si supera la dimensione del pluralismo di fatto per recuperare
quella del pluralismo come ideale morale e
giuridico, accompagnato da una una tecnica
pluralista, al fine di
«limiter l’Etat par une Organisation Economique
indépendante se gouvernant elle-même, et réciproquement, à instaurer des contrepoids effectifs entre la
Constitution Politique et la Constitution Sociale, entre
la Démocratie Politique et la Démocratie Economique,
entre la Propriété Publique et la Propriété Sociale, entre
l’Intérêt Général Politique et l’Intérêt Général Economique, entre les Producteurs et les Consommateurs,
entre les deux derniers pris ensemble et les Citoyens»25.
«Dans la plénitude concrète des ses manifestations –
spiega Gurvitch – plusieurs aspects de l’être humain
se distinguent nettement. Il est producteur et plus
spécialement, travailleur, ouvrier; il est consommateur et souvent usager (client); il est citoyen, bien
entendu. Mais les catégories de producteur, consommateur et citoyen, n’épuisent pas son être: sous le citoyen, le producteur et le consommateur, demeure
l’homme indépendant de toutes ces fonctions et
qualités»26.
La dichiarazione dei diritti sociali è, pertanto, strutturata rispecchiando questo quadro di
riferimento e, quindi, differenziando le diverse
sfere di incidenza, seguendo un modello basato sulla integrazione delle varie attività sociali
e sulla individuazione di un complesso circolo
25 G. Gurvitch, La déclaration de droits sociaux, Paris, 1946,
pp. 62-63.
26 Ibidem, p. 66.
Diritti sociali e pluralismo giuridico in Gurvitch
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combinato di contrappesi, idoneo a convogliare l’esercizio dei poteri entro misure adeguate.
La costruzione di un sistema organizzativo generale fondato sulla convivenza reciprocamente condizionata dei gruppi e degli
apparati istituzionali, fonte di equilibrio politico, giuridico e sociale, assicura, ad avviso
di Gurvitch, l’effettività della tutela giurisdizionale delle nuove dichiarazioni dei diritti,
che, esprimendo il “diritto spontaneo della
nazione”, colgono e realizzano autenticamente i valori essenziali della democrazia.
La proposta di nuove tecniche aspira al superamento di una prospettiva meramente
strumentale, per approdare al riconoscimento
di accorgimenti che incidano sulla organizzazione complessiva della società, ma in quanto
rappresentativi di un modo più radicale di intendere la democrazia. L’accentuazione delle
limitazioni del/i potere/i diventa così il segno
del ruolo effettivamente incisivo rivestito dalla comunità sociale, che si attesta quale soggetto centrale della politica, per un recupero
della dimensione ontologica della democrazia.
Ed infatti, il riconoscimento della necessità
di nuove strade per la realizzazione dei valori
democratici e per l’affermazione della libertà
dell’uomo rinvia principalmente all’attuazione del principio di autonomia, inteso come
capacità di autoregolamentazione responsabile, condizione indispensabile per dispiegare
compiutamente le forme più ampie di autogoverno degli individui e dei gruppi sociali.
Il riferimento al momento economico, oltre
che a quello politico, come il richiamo alle diverse sfere della soggettività, nonché al ruolo
dei diversi gruppi ed insiemi, costituiscono
il presupposto, e la ragione ultima, della formulazione di una dichiarazione che ha per
contenuto diritti strutturalmente “sociali”, che
evidenziano la partecipazione dei singoli ad
un tutto, che prende parte direttamente alle
relazioni giuridiche, sulla base di una reciproca fiducia di fondo e sull’impegno di vivere il
concetto di solidarietà.
L’obiettivo è di evitare la ripetizione di
precedenti esperienze, risolte nella propugnazione di «programmes de l’action de l’État
– trattando soltanto – de ses devoirs et de ses
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droits, n’attribuant aux intéressés, groupes et
individus, aucun droit social propre, aucune
autonomie juridique, aucune capacité même de
revendiquer et de contrôler, aucune garantie de
leur liberté et de leur rôle actif, aucune faculté de
se gouverner eux-mêmes et de défendre effectivement leurs droits»27.
Per favorire, al contrario, l’incontro di teoria e prassi, di società e diritto, di individuo
e comunità, di “me” e “noi”, con l’obiettivo di
far rivivere nella sua purezza “la richesse du
flux du vécu”28.
Alberto Scerbo, Ordinario di “Filosofia del diritto”
presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “Magna Graecia” di Catanzaro, dove insegna anche “Teoria e tecnica della normazione e
dell’interpretazione”.
Ha scritto, oltre a numerosi saggi, le monografie
Felice Battaglia. La centralità del valore giuridico (Napoli, 1990), Tecnica e politica del diritto nella teoria del processo, Soveria Mannelli
(CZ), 2000, Giustizia Sovranità Virtù, Soveria
Mannelli (CZ), 2004 e Istituzionalismo giuridico e pluralismo sociale, Soveria Mannelli
(CZ), 2008. Ha curato, insieme a Massimo La Torre,
Una introduzione alla filosofia del diritto,
Soveria Mannelli (CZ), 2003 ed insieme a Massimo
La Torre e Marina Lalatta Costerbosa Questioni di
vita o morte, Torino, 2007. È coautore del volume
Prospettive di filosofia del diritto del nostro
tempo, Torino, 2010. Per Rubbettino è co-curatore
della collana Res Publica, per la quale ha curato la
Dichiarazione dei diritti sociali (2004).
[email protected]
27 Ibidem, p. 74.
28 G. Gurvitch, L’experience juridique et la philosophie pluraliste du droit, cit., p. 21.
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Esistenza, esigibilità e giustiziabilità
dei diritti sociali
Paola Chiarella
Abstract
Parola Chiave
Nel dibattito contemporaneo sulla tutela dei diritti sociali, il problema della loro protezione passa attraverso le
questioni dell’esigibilità e della giustiziabilità. Se rispetto ai diritti di prima generazioni i diritti sociali sembrano non tenere il passo quanto alla effettività della tutela,
occorre indagarne le ragioni dal punto di vista teorico e
individuare precise responsabilità e relativi rimedi.
Diritti Sociali; Esistenza; Esigibilità;
Giustiziabilità; Responasabilità Statale;
Rimedi.
Premessa
I
l cuore del dibattito contemporaneo verte intorno ai diritti sociali è dato dal problema della
mancanza di giustiziabilità. Parte della dottrina,
erede dell’impostazione kelseniana imperniata
sulla centralità della sanzione, ritiene, infatti,
di dover riconoscere il carattere di diritto soggettivo unicamente alle pretese sottoponibili al
vaglio di un giudice, tali da legittimare una condanna del soggetto inadempiente ad eseguire
quanto richiesto dal titolare del diritto.
Il bisogno dell’intermediazione legislativa
di specificazione del contenuto del diritto e,
soprattutto, di predisposizione di procedure
volte a rimediare eventuali inadempienze appare, per tale ragione, evidente. Infatti, si ritiene che, solo quando gli elementi di dettaglio,
necessari per enucleare compiutamente un
diritto sociale, siano precisati attraverso una
legge, come ad esempio, l’oggetto della prestazione ed il soggetto obbligato, allora il titolare
potrà fruttuosamente intraprendere un’azione
legale per rivendicare la propria pretesa.
In tal senso, appare utile richiamare la distinzione tra l’esistenza, l’esigibilità e la giustiziabilità di un diritto. In sostanza ci si doman-
da se, attraverso le tecniche ermeneutiche, sia
possibile venire a capo di un’interpretazione
che consenta di concepire i diritti sociali, esistenti a livello costituzionale e giustificati sul
piano morale, come diritti esigibili e, come
tali, anche giustiziabili. Occorre indagare se il
paradigma giuspositivistico, del primato della legge e del giudice quale applicatore della
stessa, possa, ancora ai nostri giorni, essere
presentato come elemento ostativo per la tutela di diritti essenziali.
Il punto nevralgico è, dunque, presto individuato nel problema di ovviare alla mancanza
di una legge che specifichi il contenuto di un
diritto sociale. In definitiva, occorre provare se
l’esistenza di diritti sociali, espressione di valori fondamentali e incorporati nei testi costituzionali, possa trovare la forza per affermarsi
in tecniche interpretative capaci di creare ponti di sostegno laddove manchi l’impalcatura
legislativa. In assenza della legge, individuare
procedure, per vie alternative, pone il problema della legittimità delle procedure stesse.
Proponendo una soluzione in questi termini
si giunge altresì ad una interpretazione del
senso della separazione dei poteri dello Stato e
più, in generale, della democrazia.
Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
1. Diritti sociali e obblighi dello Stato
Il fenomeno della costituzionalizzazione
dei diritti sociali ha fatto sì che la moralità che
fonda tali diritti trovi la sua forza nel dato costituzionale. Se ci muoviamo all’interno della
componente morale, che riempie di contenuto tali diritti, ci troveremo dinnanzi all’impellenza di rinvenire vie alternative alle omissioni parlamentari che si traducono in contrasto
con le indicazioni costituzionali. È possibile
configurare un obbligo morale in capo allo
Stato se teniamo presente che lo stesso non
è un’istituzione irriflessiva nei confronti dei
consociati, la cui attività possa essere svolta
senza dar conto del proprio operato soprattutto laddove quest’ultimo si concretizzi in una
violazione delle situazioni giuridiche soggettive. L’idea evoca il Principio di razionalità1 posto da Ackerman tra i principi rettori del dialogo liberale volto a risolvere il problema della
diseguaglianza. Il Principio di razionalità postula che ogni posizione di potere debba essere
giustificata, allorché si chieda al detentore di
renderne conto. Nessuno, infatti, può godere
del “privilegio dell’invisibilità”.
Gli organi dello Stato, detentori di potere,
sono chiamati a rispondere circa il proprio
operare o meno nei confronti della collettività.
Il potere si esercita, non più come in passato,
principalmente nell’interesse del sovrano secondo la formula del sic volo, sic iubeo, ma in
nome e per conto della collettività. La teoria
dei diritti pubblici soggettivi secondo cui sovrano è lo Stato e i cittadini sono suoi organi è,
infatti, ormai superata. La funzione di rappresentanza delle istituzione politiche ci porta a
riconoscere che le «istituzioni che esercitano
potere sulle persone devono trattare queste
persone come esseri umani»2. Come ricorda Norberto Bobbio, l’azione politica non si
sottrae affatto al giudizio morale poiché essa
è soggetta, «come ogni altra azione libera o
presunta libera dell’uomo, al giudizio di lecito
1 B. A. Ackerman, La giustizia sociale nello Stato liberale,
Bologna, 1984, p. 42.
2 R. Dworkin, Cosa sono i diritti umani, in “Ragion Pratica”,
(2007) II, p. 471.
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e illecito, in cui consiste il giudizio morale»3.
L’agire politico si deve, infatti, confrontare
non solo con il problema dell’idoneità dei mezzi circa il raggiungimento del fine, ma deve
porre altresì la questione della legittimità del
fine, poiché anche per chi ritiene che l’azione
politica abbia natura essenzialmente strumentale, essa non è «strumento per qualsiasi
fine che all’uomo politico piaccia perseguire»4.
Se il fine dell’azione politica è il bene comune,
e non il perseguimento di interessi di parte, allora essa deve attivarsi con i mezzi più idonei
al raggiungimento di quel fine.
La realtà istituzionale della politica nasce in
virtù di un’intenzionalità collettiva di funzione5.
Gli organi dotati di poteri di rappresentanza
esercitano le loro funzioni grazie all’investitura
popolare. Così facendo, si materializza un’ontologia che seppure invisibile fa sì che l’agire politico sia rappresentativo della volontà popolare. Allorché tale agire non sia rappresentativo
degli interessi e dei bisogni della collettività,
l’ontologia invisibile si sgretola ed il detentore
del potere non ha più un titolo valido per svolgere le suddette funzioni. Lo stesso accade per
il Parlamento che ritardi ingiustificatamente la
predisposizione di quanto necessario per rendere giustiziabili i diritti sociali, definiti come
«il più importante fondamento di legittimità
delle istituzioni politiche e degli assetti sociali
nel vecchio continente»6. L’investitura di potere rappresentativo a cui consegua però assenza
di intervento legislativo in materia sociale determina la messa in mora del Parlamento.
Quando ci si interroga sui fondamenti della democrazia e del riconoscimento dei diritti
fondamentali «è necessario ricorrere a considerazioni di valore (…) che non possono essere
determinate da norme giuridiche che compongono il sistema»7, e ciò in ragione del fatto
3 N. Bobbio, Elogio della mitezza, Milano, 2010, p. 84.
4 Ibidem, p. 85.
5 J. R. Searle, La costruzione della realtà sociale, Milano,
1996, p. 33.
6 A. J. Menéndez, La linfa della pace: i diritti di solidarietà nella Carta dei Diritti dell’Unione Europea, in “Diritto e
questioni pubbliche”, (2004), n.4, p. 96.
7 C. S. Nino, Il diritto come morale applicata, a cura di
Massimo La Torre, Milano, 1999, p. 60
Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
che il discorso giuridico non è «un discorso
insulare in quanto è immerso in un discorso
giustificativo più ampio»8. La validità delle
norme non può poggiare sull’esistenza di altre
norme dal momento che questa operazione,
sebbene possibile, non sarebbe giustificativa, ma meramente descrittiva di un rinvio di
norma in norma. Essa lascerebbe insoddisfatti
coloro che pretendono una ragione o una giustificazione in senso pragmatico circa l’esistenza della norma. Chi, ad esempio, per stipulare
un contratto segua una certa forma, potrebbe
giustificare la sua condotta riferendosi all’articolo del codice civile che ne prescrive il formalismo per quella tipologia. Tuttavia la ragione
pragmatica della forma, ammettiamo per atto
pubblico, non poggia solo sull’articolo che la
contempla. Un fatto (l’aver rispettato la forma
prescritta) «può essere certo la causa di una condotta, ma non ne costituisce la ragione»9 che invece può consistere nell’esigenza di maggiore
certezza ed opponibilità ai terzi che quella forma consente di ottenere.
Lo stesso ragionamento vale per gli altri tipi
di norme per cui, detto in altri termini,
«le ragioni inerenti al ragionamento giuridico che alludono al fatto che certe norme sono
parte di un sistema giuridico non sono, esse
stesse, ragioni giuridiche, ma appartengono
ad un sistema giustificativo più ampio»10.
Dietro l’incorporazione dei diritti sociali
nel testo costituzionale si deve riconoscere la
componente giustificativa dal punto di vista
morale, che consiste nell’assicurare ad ogni
individuo le condizioni necessarie a condurre
una vita dignitosa rispetto alla quale autonomia
e benessere sono condizioni imprescindibili
per «la capacità di formulare, modificare, e
perseguire una concezione della vita buona e
l’assenza di sofferenza fisica»11.
Mancando queste due condizioni, la vita
dell’uomo verrebbe negativamente compromessa e quando ciò non dipende dalle scelte
8 Ibidem.
9 M. La Torre, Presentazione a C. S. Nino, Il diritto come morale applicata, cit., p. VIII.
10 C. S. Nino, Il diritto come morale applicata, cit., p. 69.
11 C. Fabre, Social Rights under Constitution. Government
and the Decent Life, Oxford, 2004, p. 15.
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personali del soggetto, ma dalla mancanza di
intervento statale e di cooperazione sociale,
mantenere lo status quo di indifferenza appare inaccettabile. I diritti sociali esprimono
il bisogno di protezione contro quei fattori
che minacciano la soddisfazione di necessità basiche, rappresentando, infatti, «uno
scudo per gli indifesi, almeno contro alcune
delle forme più devastanti e più comuni di
minacce alla vita»12.
L’obbligo del legislatore ha poi una natura
oltre che morale anche giuridica13. Infatti, la
previsione di diritti sociali nel testo costituzionale e la ratifica del Patto internazionale sui
diritti economici, sociale e culturali del 1976 (PIDESC), consentono di individuare da subito
almeno un soggetto obbligato che è lo Stato,
e più in particolare il legislatore, tenuto ad
affrontare le questioni sociali attraverso lo
strumento della legge. Su questo aspetto Hayek ha fondato una delle ragioni che militano
contro i diritti sociali poiché un diritto può
dirsi esistente nella misura in cui ad esso corrisponda l’obbligazione di un altro soggetto
individuato attraverso la legge.
In realtà, il soggetto originariamente “individuato” è lo Stato, poi soggetti ulteriormente
“individuabili” saranno coloro che il legislatore riterrà opportuno gravare di determinati
obblighi sociali. Infatti, alla luce del
diritto internazionale, le obbligazioni relative ai
diritti umani attengono primariamente gli Stati.
Quando gli Stati cercano di mettere in atto queste obbligazioni nel diritto nazionale, è necessario che essi impongano dei doveri sulle persone
soggette alla loro giurisdizione. Doveri di rispettare i diritti di altre persone, e doveri di contribuire al benessere comune, rendono possibile che
lo Stato assista e provveda in modi che rendono
12 H. Shue, Basic Rights. Substistence, affluence and U.S. foreign policy, Pricenton, New Jersey, 1996, p. 18.
13 Si afferma, ad esempio, che la Dichiarazione universale dei
diritti umani contenga sia l’obbligo morale che giuridico
di realizzare i diritti economici, sociali e culturali. Cfr. A.
Eide, Economic, Social and Cultural Rights as Human Rights,
e M. Scheinin, Economic, and Social Rights as Legal Rights,
entrambi in A. Eide, C. Krause, A. Rosas (ed.), Economic,
Social and Cultural Rights. A textbook, Dordrecht, Boston,
London, 1995, rispettivamente p. 35 e p. 41. Sul rapporto
tra moral rights e legal rights cfr. C. Fabre, Social Rights under
Constitution. Government and the Decent Life, cit., p. 100.
Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
ciascuno capace di godere i propri diritti economici, sociali e culturali14.
L’art. 2.1 del PIDESC, ad esempio, dichiara
che ciascuno degli Stati parte
si impegna ad operare, sia individualmente sia
attraverso l’assistenza e la cooperazione internazionale, specialmente nel campo economico
e tecnico, con il massimo delle risorse di cui dispone al fine di assicurare progressivamente con
tutti i mezzi appropriati, compresa in particolare
l’adozione di misure legislative, la piena attuazione dei diritti riconosciuti nel presente Patto.
Sono configurabili allora obblighi “immediati” in capo agli Stati che consistono
nell’adottare misure di attuazione e nel garantire che i diritti contenuti nel Patto si esercitino senza alcuna discriminazione15. Ciò significa che l’inattività dello Stato è in re ipsa
l’inadempimento di un obbligo.
Su tale aspetto un gruppo di esperti ha elaborato nel 1986 alcuni Princìpi interpretativi
sull’implementazione del PIDESC (detti di Limburgo) che contribuiscono a specificare e chiarire quanto richiesto dal Trattato16.
Il princìpio 16 prevede, ad esempio, che tutti
gli Stati parte hanno l’obbligo di iniziare immediatamente a compiere i primi passi nella realizzazione dei
diritti contemplati. Infatti, sebbene i diritti sociali
si realizzino di regola in “misura progressiva”
ciò non significa che lo Stato possa trattenersi
dal compiere a tempo indefinito, gli sforzi necessari alla sicura realizzazione (princìpio 21). La
componente della progressiva realizzazione del Patto è spesso erroneamente concepita come implicante che i diritti economici, sociali e culturali possano
essere realizzati solo quando un paese raggiunga un
certo livello di sviluppo economico. Questo non è né
l’intento né l’interpretazione giuridica di questa disposizione. Piuttosto, questo dovere obbliga tutti gli
14 A. Eide, Economic, Social and Cultural Rights as Human
Rights, in A. Eide, C. Krause, A. Rosas (ed.), Economic,
Social and Cultural Rights. A textbook, cit., p. 35.
15 Cfr. Economic, Social and Cultural Rights. Handbook for
National Human Rights Institution, United Nations, New
York and Geneva, 2005, p. 9.
16 I princìpi sono detti di Limburgo dal luogo in cui si
sono tenuti gli incontri tra gli esperti. Lo stesso vale per
i princìpi di Maastricht derivanti da un altro incontro tenutosi nella città olandese nel 1997.
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Stati membri, a prescindere dal livello di ricchezza
nazionale, a muoversi il più velocemente possibile
verso la realizzazione dei diritti economici, sociali e
culturali (princìpio 25). Il Patto esige immediatamente l’uso efficace ed equo delle risorse17.
A tale scopo tutti gli Stati dovranno utilizzare gli strumenti più appropriati e tra questi
sono incluse anche le misure legislative, amministrative, giudiziali, economiche, sociali
ed educative (princìpio 17). Le misure legislative possono in alcuni casi non essere sufficienti
oppure in altri apparire indispensabili laddove
le legislazioni già esistenti fossero in contrasto con quanto richiesto dal Trattato e pertanto debbano essere modificate (princìpio 18). In
particolare poi, tutti gli Stati devono prevedere
rimedi effettivi che includono chiaramente anche quelli giudiziali (princìpio 19). Oltre ai Princìpi di Limburgo sono stati individuati successivamente altri principi, detti di Maastricht, sulle
violazioni dei diritti economici, sociali e culturali
che distinguono tra violazioni attive e passive.
Le prime possono consistere, tra le tante,
nella deroga o sospensione di misure legislative o nella negazione della titolarità di diritti
ad alcuni individui o gruppi. Le seconde possono concretizzarsi nella mancata adozione di
misure appropriate in base a quanto richiesto
dal Patto (ovvero nel mancato adoperarsi affinché sia assicurata l’efficacia di questi diritti secondo standard minimi internazionali); nella
mancata riforma della legislazione contraria a
tali diritti; nell’incapacità di portare ad effetto
la legislazione e le politiche di implementazione; nella mancata regolazione delle attività di
individui o gruppi che con il loro comportamento violino tali diritti, oppure ancora nella
mancata previsione di strumenti di controllo
sulla loro realizzazione18.
17 Economic, Social and Cultural Rights. Handbook for
National Human Rights Institution, cit., p. 10. L’espressione
“al massimo delle risorse disponibili” include sia le risorse nazionali che l’assistenza e la cooperazione economica e tecnica che lo Stato può ricevere dalla comunità
internazionale (princìpio 26). Secondo Robert Robertson
le risorse possono essere di cinque tipi: 1) risorse umane; 2) risorse tecnologiche; 3) risorse conoscitive; 4) risorse naturali; 5) risorse finanziarie.
18 V. The Maastricht Guidelines on Violations of Economic,
Social and Cultural Rights, Princìpio 14 Violations through
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Alla luce di quanto sinora sostenuto, dovremmo ragionare sui rimedi che devono
essere individuati a livello nazionale allorché la lacuna legislativa minacci seriamente
il godimento di diritti essenziali per la vita
di ognuno. Infatti,
le norme costituzionali sui diritti prive di garanzie
(per esempio non giustiziabili, o prive di leggi attuative delle necessarie agenzie) sono invece norme che introducono (quantomeno) un dovere giuridico di completamento a carico del legislatore19.
La funzione promozionale che il diritto svolge nello Stato sociale richiede il compimento
di azioni positive dei poteri pubblici volte a
soddisfare esigenze fondamentali degli individui20. Per tali ragioni, come afferma PecesBarba, il dovere originario dello Stato avente
carattere negativo/astensivo si scompone in
una pluralità di doveri positivi finalizzati alla
soddisfazione di diritti di credito originatisi
dal valore di uguaglianza21. Come tramandato
dalla tradizione repubblicana e socialista
l’atto costitutivo del politico crea una comunità il
cui valore risiede non nella protezione che offre
contro l’aggressione altrui, ma nel fatto che rende
possibile una forma di vita veramente umana, nella
quale ciascuno può ora relazionarsi con gli altri22.
2. Esistenza ed esigibilità
dei diritti sociali
Nel momento in cui si prende coscienza
dell’inadempimento, da parte del legislatore,
dell’obbligo morale e giuridico derivante dalle
norme costituzionali e internazionali sui diritti sociali, non si può fare a meno di riscontraacts of commission e Princìpio 15 Violations through acts of
omission; cfr. V. Abramovich - C. Curtis, Los derechos sociales como derechos exigibles, Madrid, 2004, pp. 80-81.
19 M. Jori, Aporie e problemi nella teoria dei diritti fondamentali, in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito
teorico, Roma-Bari, 2001, p. 80.
20 N. Bobbio, Sulla funzione promozionale del diritto, in
“Riv. trim. dir. proc. civ.” (1969), pp. 1313 e ss.
21 G. Peces-Barba, Los deberes fundamentales, in Doxa
(1987), n. 4, p. 338.
22 F. Atria, ¿Existen derechos sociales? in Biblioteca Virtual
Miguel de Cervantes, Alicante, 2005, p. 17.
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re l’esistenza di vuoti normativi, che rendono
l’ordinamento giuridico incompiuto.
Tale incompiutezza viene definita da Ferrajoli, in una delle quattro tesi presentate nella
teoria dei diritti fondamentali, come una lacuna che ci porta a distinguere l’esistenza dei
diritti dalle loro garanzie. Questo concetto ci
consente di concepire separatamente l’esistenza di un diritto dalla sua esigibilità e giustiziabilità. Se queste categorie non fossero distinte, dovremmo negare l’esistenza di un diritto
laddove manchino le norme che ne specificano il contenuto, nonché le procedure che lo
rendano giustiziabile. Dato che non sappiamo
contro chi fare valere il diritto, né in concreto
che cosa esso comporti e neppure se si possa
ottenere tutela giudiziale, taluni deducono
che il diritto in questione non esista. Questa
impostazione, fondamentalmente kelseniana, ha però anche un certo sapore realista allorché la dimensione pratica e fattuale venga
assunta come unica norma di riconoscimento
all’interno del sistema giuridico. Se tuttavia
teniamo presente il carattere nomodinamico
di un ordinamento giuridico in virtù del quale
l’esistenza o meno di una situazione giuridica
ovvero di un’aspettativa, di un obbligo, di un
divieto o di un permesso, dipende dall’esistenza di una norma che li contempli, allora appare evidente che è possibile trovarsi dinnanzi
a diritti esistenti perché costituzionalmente
previsti per i quali però, in mancanza di una
legge, non sia possibile individuare l’obbligo
o il divieto preciso ad essi corrispondente. Il
diritto esiste, ma manca come dice Ferrajoli la
“garanzia primaria” a precisione dell’obbligo e
del divieto e tale mancanza è fonte di una lacuna nell’ordinamento giuridico. Accanto poi alle
garanzie primarie di esigibilità, il filosofo italiano individua le garanzie secondarie di giustiziabilità che consistono negli «obblighi di riparare o sanzionare giudizialmente le lesioni dei
diritti, ossia le violazioni delle loro garanzie
primarie»23. La presenza di lacune primarie e
secondarie non incide sull’esistenza del diritto
che si pone in un momento anteriore rispetto
alla specificazione di quegli elementi pur tut23 L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico,
cit., p. 11.
Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali
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tavia indispensabili per il diritto stesso. Questo appare più chiaro allorché si distinguano i
diritti fondamentali dai diritti patrimoniali.
Questi ultimi non sono essi stessi norme
come accade per i diritti fondamentali, ma sono
predisposti da norme (quelle ad esempio del codice civile) che «non ascrivono né impongono
immediatamente nulla, ma semplicemente
predispongono situazioni giuridiche quali effetti degli atti da esse previsti»24. In virtù allora
di un contratto, di un testamento, di una donazione, (che sono atti singolari), il soggetto potrà
dire di avere un diritto e che un altro consociato è nei suoi confronti obbligato. I diritti patrimoniali sono quindi «predisposti da norme
ipotetiche quali effetti di contratti, i quali sono
sempre, simultaneamente, le fonti delle correlative obbligazioni che ne formano le garanzie primarie»25. I diritti fondamentali invece
sono disposti da norme tetiche che cioè «immediatamente dispongono le situazioni con esse
espresse»26. Ecco allora che, mentre per i diritti
patrimoniali predisposti da norme ipotetiche,
l’esistenza del diritto implica la garanzia primaria e pertanto diritto e garanzia sono co-originari, per i diritti fondamentali, che sono norme
ascrittive di situazioni giuridiche, può ben configurarsi l’esistenza di un diritto e l’inesistenza
della garanzia primaria. Negare ciò, ricorda Ferrajoli, significa sminuire il valore di due grandi
conquiste del XX secolo, che sono, appunto, l’internazionalizzazione dei diritti fondamentali e la
costituzionalizzazione dei diritti sociali.
La mancanza della garanzia primaria incide
su un piano diverso, che è quello dell’efficacia,
e non dell’esistenza di un diritto. Che i diritti
fondamentali siano ancora inefficaci in alcune
parti del mondo, non significa che essi non esistano, ma, piuttosto, che occorre impegnarsi
a livello politico e istituzionale per assicurarne la più piena protezione. La proclamazione
di un diritto non coincide, infatti, con il suo
adempimento, né l’impegno a realizzare garanzie sociali è di per sé satisfattorio27.
24 Ibidem, p. 17.
25 Ibidem, p. 30.
26 Ibidem.
27 H. Shue, Basic Rights. Substistence, affluence and U.S. foreign policy, cit., p. 16.
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Le garanzie di cui parla Ferrajoli sono «i
diversi strumenti attraverso i quali i diritti si
rendono effettivi»28, sicché allora occorre distinguere «l’oggetto di un diritto e le forme in
cui questo può essere realizzato, perché un
diritto può realizzarsi in diversi modi»29. A
questo punto, però, appare chiaro che l’inefficacia non è una lacuna, perché il diritto esiste
comunque e dunque la sua esigibilità potrebbe
essere definita per via interpretativa.
A tal fine sembra utile il principio di covalidità di Ota Weinberger, che consente di superare la prospettiva nomo-dinamica kelseniana
e dunque il postulato di Ferrajoli30. Il filosofo ceco sostiene che l’ordinamento giuridico
non è solo “dinamico” (per cui le norme di
grado inferiore sono derivate da quelle di grado superiore mediante attribuzioni formali di
competenza a certi organi), ma anche “statico”
e pertanto costituito da regole di condotta in
cui le norme meno generali o individuali sono
derivate da quelle più generali tramite inferenze logiche e senza la necessità di ulteriori
atti di autorizzazione31.
In questa prospettiva l’inefficacia non è
semplicemente un difetto tecnico, ma si profila, piuttosto, come la mancata adozione
delle norme sui diritti fondamentali quali
“criteri di riconoscimento della validità di un
ordinamento”32. Questo concetto rende ragione dell’esistenza dei diritti fondamentali
all’interno di un sistema giuridico, in virtù
della posizione che essi assumono nella struttura dell’ordinamento e più in generale della
funzione da essi svolta. E dunque,
non è in primo luogo la natura dei diritti economici, sociali e culturali che nega l’applicazione
giudiziale di questi diritti, ma la mancanza di
28 J. L. Rey Pérez, La naturaleza de los derchos sociales, in
“Derechos y Libertades”, (enero 2007), n. 16, Època II, p.
141.
29 Ibidem, p. 142.
30 Cfr. O. Weinberger, Rechtslogik, Berlin, 1989.
31 In argomento si v., M. La Torre, Ota Weinberger, Neil
MacCormick e il neoistituzionalismo giuridico, in G. Zanetti,
(a cura di) Filosofi del diritto contemporanei, Milano, 1999,
capitolo I.
32 G. Palombella, Diritti fondamentali. Per una teoria funzionale, in “Sociologia del diritto”, (2000), n. 1, p. 55.
Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali
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competenza e buona volontà dei corpi giudicanti
nel ricevere, esaminare, pronunciarsi sui reclami
che riguardano questi diritti33.
I diritti fondamentali vanno visti come
norme che
effettivamente prevedono come obbligatoria la tutela
di un bene, il quale ha valore per la comunità, sostiene
un interesse individualizzato, e colloca in una posizione di vantaggio i soggetti cui quel bene deve riferirsi34.
I diritti sociali costituzionali svolgono poi una
funzione caducatrice determinando l’illegittimità
degli atti legislativi, esecutivi e anche giudiziari
ad essi contrari. Se allora una norma «diviene
criterio di validità (di altre norme e delle attività poste in essere dai poteri costituiti), un diritto
fondamentale certo possiede un peculiare valore normativo»35. Da ciò ne consegue che i diritti
fondamentali, essendo giuridicamente vincolanti,
non possono essere lasciati alla disponibilità della sfera politica, nel senso che tale remissione
«deve essere evitata poiché esiste già una decisione (politica) che ha reso positivi quei diritti, a
livello internazionale e/o statale»36.
Le difficoltà che presentano i diritti sociali
si possono così superare per via interpretativa,
fintanto che il legislatore non intervenga. Questo comporta il coinvolgimento degli organi
giudiziari. I giudici ordinari potrebbero svolgere
un ruolo significativo nella tutela dei diritti sociali, se quest’ultimi fossero interpretati come
diritti soggettivi e non piuttosto come norme
programmatiche. Si può condividere che in
Italia pur in assenza di un’esplicita previsione normativa che prescrive l’applicazione diretta dei diritti costituzionali nei rapporti tra soggetti privati,
quest’ultima non pare essere seriamente contestata
da alcuno. Così, in assenza di una intermediazione
del legislatore, spetta ai giudici evitare che i precetti
costituzionali rimangano come in attesa di attuazione con grave violazione di beni a valenza massima37.
33 Economic, Social and Cultural Rights. Handbook for
National Human Rights Institution, cit., p. 26.
34 G. Palombella, Diritti fondamentali. Per una teoria funzionale, cit., p. 63.
35 Op. cit., p. 65.
36 Op. cit., p. 68.
37 G. Comandé, Diritto privato europeo e diritti fondamentali, in G. Comandé (a cura di) Diritto privato europeo e
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Se questo vale per i rapporti tra privati, dovrebbe valere anche per i rapporti Stato-cittadino.
Anche la giurisprudenza delle Corti costituzionali può rivelarsi particolarmente importante per la chiarificazione e lo sviluppo
del contenuto concettuale dei diritti. Le Corti
sono, infatti, «ad un tempo organi giudiziari
ed organi legislativi, organi cioè dotati d’un
certo potere di legislazione (sia pure, talvolta,
solo abrogativo) superiore a quello goduto ed
esercitato dai rispettivi Parlamenti»38. In questi casi potrà apparire evidente un conflitto
tra la “democrazia come società retta da una
costituzione” e la “democrazia come governo
del popolo”39 e bisognerà allora compiere una
scelta, che non costringe alla sospensione del
giudizio se teniamo presente che
sia la libertà individuale sia la democrazia presuppongono, e rinviano a, un corpo di princìpi
verso i quali la stessa libertà e la stessa sovranidiritti fondamentali, Torino, 2004 p. 30. Nell’àmbito del
diritto privato: «le tecniche adottare e adottabili sono
quelle ormai consuete di utilizzo dei precetti costituzionali in funzione integratrice di clausole generali
ovvero attraverso la “mediazione di norme ordinarie a
struttura aperta” come l’articolo 2043 c.c. e, oggi, l’art.
2059 c.c. che consentono di trasformare il precetto di
tutela dalla potenza in atto».
38 M. La Torre, Democrazia, in M. La Torre – G. Zanetti,
Seminari di filosofia del diritto, Soveria Mannelli, (CZ),
2000, p. 191 e pp. 213-214 in cui si legge: «Il garantismo
insomma è ben poca cosa se equivale al controllo plurilaterale tra poteri, sfociando in un sistema di reciproci
condizionamenti istituzionali tra gli organi costituzionali dello Stato: il sistema dei “pesi e contrappesi” che
impedisce ad un organo, quale che sia la sua posizione
costituzionale, di elevarsi decisivamente su tutti gli altri. [Potremmo invece dire che l]a Grundnorm per questo
garantismo normativo sostanziale risiede nei princìpi
metagiuridici della Costituzione e non già nel compromesso raggiunto dai poteri dello Stato».
39 In questi casi può «esservi cioè conflitto tra la democrazia come società retta da una costituzione (da princìpi e regole dotati di dignità e forza superiori a quelle
godute dalle leggi ordinarie espresse dagli organi della
sovranità popolare) e la democrazia come governo del
popolo (della volontà decisionistica e legibus soluta di
questo). Tale tensione può presentarsi nella forma d’un
conflitto di competenze tra il potere legislativo e quello
giudiziario, tra il “rappresentante del popolo” e il “custode della costituzione” (che nei sistemi dotati di costituzioni “rigide” è oggi in genere il giudice, costituzionale
e/o ordinario)». Ibidem, p. 217.
Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali
60
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
tà (come volontà rispettivamente individuale e
collettiva) nulla (giustificatamente) possono. Si
tratta eminentemente di una serie di diritti la
cui violazione – anche con l’assenso consapevole
degl’interessati – sancirebbe una situazione moralmente inaccettabile; la cui violazione da parte
di un certo regime politico – sia pure per consenso unanime dei cittadini – ci segnalerebbe la natura illiberale e non democratica di quel regime40.
3. Efficacia soggettiva
dei diritti sociali e giustiziabilità
Dell’inefficacia dei diritti sociali se ne fa
spesso un uso retorico simile a quello della
sineddoche, per cui un aspetto viene assunto
come rappresentativo del tutto. Con questo non
s’intende negare che l’inefficacia è un aspetto
problematico, ma si vuole piuttosto evidenziare che esso non lo è di tutti i diritti sociali e che
comunque non è totale o definitivo.
Se si intende
prendere sul serio una costituzione o un patto
di diritti umani che consacrano diritti sociali, se
uno assegna a questi strumenti non solamente
valore normativo, ma un valore normativo supremo, destinato a limitare e imporre obbligazioni
ai poteri pubblici, importa giustamente reclamare questa costruzione e non – come fanno molti
giuristi – leggere nel termine «diritto», quando
si tratta di diritti sociali, una espressione figurata
o metaforica, tesi che tuttavia non sosterrebbero
quando si trattasse di interpretare i diritti civili41.
In questo modo s’intende superare l’angusta concezione che propone una lettura separata delle leggi ordinarie e della Costituzione,
per cui le norme costituzionali sarebbero un
mero limite per l’attività del legislatore, finendo per ridurre
l’assetto costituzionale ad una funzione di delimitazione della regole del gioco e sottraendo ad
esso in positivo ogni capacità promozionale, che
invece la natura delle stesse norme in oggetto e
ragioni storico-politiche inducono ad attribuirgli
addirittura in via privilegiata42.
40 Ibidem.
41 V. Abramovich - C. Curtis, Los derechos sociales como
derechos exigibles, cit., p. 58.
42 P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale,
Napoli, 1991, p. 190.
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Anche a livello internazionale alcuni diritti, consacrati nel PIDESC, (come ha evidenziato il Comitato sui diritti economici, sociali e
culturali nell’Osservazione Generale n. 3),
sono applicabili immediatamente dagli organi giudiziali e sono: “l’uguaglianza tra uomo
e donna” come previsto dall’art. 3; “un equo
salario ed una eguale remunerazione per un
lavoro di eguale valore, senza distinzione di
alcun genere” (art. 7.a.1); “la libertà sindacale
ed il diritto di sciopero” (art. 8); “la protezione
e l’assistenza di fanciulli e adolescenti senza
discriminazione alcuna per ragioni di filiazione o per altre ragioni e protezione contro lo
sfruttamento economico e sociale” (art. 10.3);
“l’istruzione obbligatoria e gratuita accessibile a tutti e libertà dei genitori di scegliere
l’educazione per i propri figli e libertà d’insegnamento” (art. 13 2.a, 3.4); “la libertà della ricerca scientifica e attività creativa” (art. 15.3)43.
Ma anche per gli altri diritti, il riconoscimento internazionale e costituzionale
determina, in ogni circostanza, un nucleo indisponibile per i differenti poteri costituiti, dal
legislatore all’amministrazione fino agli stessi
tribunali. Come conseguenza di ciò, nessuno di
questi organi può disconoscerlo né lasciare di assicurarlo a tutte le persone, iniziando da quelle
che si trovano in situazione di maggiore necessità44.
Ecco che,
mentre i rispettivi rami del governo devono essere rispettati, è appropriato riconoscere che i tribunali sono generalmente già coinvolti in una serie
considerevole di questioni che hanno implicazioni importanti circa le risorse. L’adozione di una rigida classificazione dei diritti economici, sociali e
culturali che li ponga, per definizione, oltre la portata dei tribunali sarebbe così arbitraria ed incom43 Cfr. V. Abramovich - C. Curtis, Los derechos sociales
como derechos exigibles, cit., p. 88; H. J. Steiner , P. Alston,
R. Goodman, International Human Rights in context. Law,
Politics, Morals, Oxford, 2007, p. 314; M. Sepúlveda, The
Nature of the Obligations under the International Covenant
on Economic, Social and Cultural Rights, Schoten, 2003, p.
134; A. Saccucci, Profili di tutela dei diritti umani, Padova,
2005, p. 59; L. Pineschi, (a cura di), La tutela internazionale dei diritti umani, Milano, 2006, p. 138.
44 G. Pisarello, Los derechos sociales y sus garantías. Elementos
para una reconstrucción, Madrid, 2007, p. 86.
Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
patibile con il principio secondo cui i due gruppi
di diritti umani sono indivisibili e interdipendenti. Essa ridurrebbe anche drasticamente la capacità
dei tribunali di proteggere i diritti dei gruppi più
vulnerabili e svantaggiati della società45.
Infatti, come ricorda Alexy, «i diritti fondamentali sono posizioni così importanti la
cui decisione di proteggerli non può essere semplicemente lasciata alle maggioranze
parlamentari»46. Dire che un diritto è fondamentale significa che è collegato a situazioni
giuridiche soggettive così esiziali per la vita
degli individui, che la sua lesione non potrà
mai trovare giustificazioni adeguate.
Le norme sui diritti fondamentali contenute nella Costituzione obbligano il legislatore
democratico, stabilendo cosa non possa decidere
o debba decidere. I diritti sociali constano di tre
elementi: il titolare, lo Stato e l’azione positiva
dello stesso. Se dunque il titolare ha diritto ad
un’azione positiva messa in atto dallo Stato, ne
deriva che lo Stato ha il relativo obbligo di compiere l’azione positiva. Se questo è vero allora
«il titolare del diritto ha il potere di far valere
il diritto dinnanzi ai giudici»47.
Ciò emerge anche dalla giurisprudenza della
Corte costituzionale tedesca, secondo cui, allorquando il legislatore tardi arbitrariamente ad
adempiere ai suoi obblighi, gli individui possono far valere i loro diritti in sede giudiziaria.
Non c’è dubbio, ha affermato la Corte costituzionale che, tra gli obblighi gravanti sullo Stato
si possono annoverare quelli di prestare aiuto
a quei cittadini che sono ostacolati nel loro sviluppo personale e sociale da debolezza fisica e
mentale e che non sono capaci di provvedere a
se stessi. E dunque grava sullo Stato l’obbligo di
assicurare le condizioni essenziali per un’esistenza dignitosa48. Sulla base dei ragionamenti
seguiti dalla Corte costituzionale tedesca si può
constatare che sebbene la Costituzione federale non enumeri espressamente molti diritti
sociali, essa presenta tuttavia dei punti di par45 H. J. Steiner, P. Alston, R. Goodman, International
Human Rights in context. Law, Politics, Morals, cit., p. 315.
46 R. Alexy, A Theory of Constitutional Rights, Oxford,
2004, p. 297.
47 Ibidem, p. 296.
48 Ibidem, p. 290.
issn 2035-584x
tenza oggettivi per un’interpretazione orientata
verso l’assegnazione di diritti soggettivi. Per tali
ragioni Alexy inquadra i diritti sociali o “diritti
in senso stretto” nella categoria dei “diritti ad
azioni positive dello Stato”, in cui sono compresi anche i “diritti di protezione contro gli altri
cittadini” ed i “diritti di organizzazione e procedimento” e giustifica l’attribuzione di diritti
sociali come diritti soggettivi evidenziando il
loro carattere liberale, nel senso che senza i diritti sociali, che garantiscono la libertà reale, la
libertà formale non avrebbe alcun valore, finendo per essere – riprendendo Böckenförde – una
formula vuota. Infatti, i diritti fondamentali
tra le altre cose, esprimono princìpi che richiedono che l’individuo sia capace di sviluppare liberamente la sua dignità nella comunità sociale,
che presuppone un certo grado di libertà fattuale.
Irresistibilmente la conclusione è che se lo scopo
dei diritti costituzionali è il libero sviluppo della
personalità umana, allora essi sono anche rivolti verso la libertà fattuale, e così sono ‘non solo
princìpi che prevedono un potere giuridico, ma
anche la reale capacità d’agire’49.
In questo modo, alla luce del sistema tedesco
Alexy giustifica in materia sociale l’intervento della Corte costituzionale, sollevando così il
problema del bilanciamento tra il principio della libertà reale e quello della separazione dei poteri
e della democrazia (che include la competenza
finanziaria del Parlamento). La soluzione viene tracciata nei seguenti termini: se la lesione
del principio della separazione dei poteri e il
princìpio democratico fossero lesi in misura
non così rilevante rispetto a quanto accadrebbe
nel caso della lesione del principio della libertà
reale, allora a quest’ultimo deve essere riconosciuta la prevalenza allorché i diritti sociali siano garantiti ad un livello essenziale o minimo.
Sebbene questo riconoscimento allargato ad un
numero elevato di persone comporti una spesa
non indifferente per lo Stato, ciò non può condurre “né ad affermare che i diritti sociali non
esistano, né che il principio della competenza
finanziaria del Parlamento sia illimitato, dal
momento che non esistono princìpi assoluti”50.
49 Ibidem, p. 340.
50 Ibidem, p. 344.
Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
Questo ragionamento ricorda la tesi
espressa da Henry Shue sui diritti fondamentali, o meglio “essenziali”, “basic” secondo la
sua definizione. Infatti, sono ritenuti essenziali i diritti di sussistenza perché il loro godimento è condizione indispensabile per il
godimento di tutti gli altri diritti. Da ciò deriva che il tentativo di godere di altri diritti,
sacrificando un diritto essenziale, sarebbe
controproducente. Si priverebbero gli altri
diritti non essenziali del loro fondamento sostanziale. Per tali ragioni
se un diritto è essenziale, si può sacrificare un altro diritto non essenziale, se necessario, al fine di
assicurare il diritto essenziale. Ma la protezione
di un diritto essenziale non può essere sacrificata al fine di assicurare il godimento di un diritto
non essenziale. Esso non può essere sacrificato
perché non può essere sacrificato con successo51.
In virtù di tali considerazioni si può dire
che la tutela dei diritti sociali non può sicuramente essere sacrificata per preservare la
separazione dei poteri.
Al fine di trovare il giusto equilibrio tra i
poteri dello Stato nel caso di inattività del legislatore, si potrebbe configurare in materia di
diritti sociali il diritto al risarcimento del danno
per mancata predisposizione delle garanzie
primarie e secondarie. Questa soluzione non
dovrebbe apparire teoricamente eccentrica e
praticamente irrealizzabile, se consideriamo
che essa è già alla base del sistema di diritto
europeo in tema di risarcimento del danno
per tardivo recepimento delle direttive comunitarie. Difatti, in ambito europeo la Corte di
giustizia ha previsto il risarcimento del danno
a carico del singolo Stato in quanto la piena
efficacia delle direttive comunitarie è subordinata ad un’azione da parte dello Stato, di modo
che per i cittadini si profila l’impossibilità di
far valere dinanzi ai giudici nazionali i diritti
riconosciuti dal diritto comunitario.
Allo stesso modo, i diritti sociali impongono agli Stati l’obbligo di predisporre misure
necessarie a renderne effettivo il godimento
e la garanzia sicché l’inattività del legislatore
51 H. Shue, Basic Rights. Substistence, affluence and U.S. foreign policy, cit., p. 19.
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può certo configurare la possibilità del risarcimento del danno.
Procrastinare la tutela di diritti fondamentali, come renderli ineffettivi, si traduce in
un’azione fraudolenta, come lo sarebbe «fornire alle persone dei buoni pasto senza fornire
cibo»52. Ora, se la giustizia, come ricorda Rawls, è la prima virtù delle istituzioni sociali, il rimedio all’agire fraudolento risulta condizione
indispensabile per la legittimazione dello Stato. Altrimenti, in tema di diritti sociali, si pone
in atto una prassi di scorrettezza costituzionale e
pratica antidemocratica53 che finisce per rendere
l’esercizio del potere del tutto ingiustificato.
Paola Chiarella è Dottore di ricerca in Teoria del diritto e ordine giuridico europeo
[email protected]
52 Su carattere fraudolento e per la citazione si v. H.
Shue, Basic Rights. Substistence, affluence and U.S. foreign
policy, cit., p. 27.
53 L’espressione di Norberto Bobbio non si riferisce
esplicitamente al tema dei diritti sociali, ma più in generale al rapporto tra morale, politica e diritto e constata la frequenza con cui l’agire politico segue una prassi
volta ad aggirare il rispetto delle norme costituzionali
e ad sottrarsi al giudizio morale. Si v. N. Bobbio, Elogio
della mitezza, cit., p. 86.
Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
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Momenti di sostenibilità sociale.
Riflessione filosofico-giuridica
sul pensiero di Émile Durkheim
Daniela Teobaldelli
Abstract
Questo studio tende a mostrare come Durkheim, ponendo l’imperativo morale ad elemento centrale della distribuzione del lavoro e della socialità, ha il merito di intuire
i problemi della contemporaneità sollevati dalla globalizzazione economica e dalle crisi ad essa connesse.
Attraverso l’analisi della proprietà e della divisione del
lavoro si accede allo studio degli equilibri socialmente
sostenibili. Durkheim procede all’ipotesi di una ridefinizione del legame sociale basato sulla centralità del
lavoro, come tentativo di interpretare un consenso che
giustifichi il rapporto della persona con i propri beni.
Durkheim mostra come il principio del profitto, che
traduce le rappresentazioni collettive in rapporti contrattuali, rischia di ignorare le condizioni reali della
N
ell’analisi di Durkheim della solidarietà organica derivante dalla divisione del lavoro,
i diritti reali occupano una regione della normatività sociale in cui il diritto di proprietà viene
considerato «la relazione più completa che possa
esistere tra una cosa ed una persona perché sottomette completamente la prima alla seconda»1.
In tal senso, la solidarietà negativa, che ha origine dalla differenziazione delle funzioni, non
vincola le persone tra loro, non elabora scopi
comuni verso i quali coordinare e dirigere le volontà, ma si limita a consentire un’integrazione
ordinata della società2 e, affinché possa postulare
l’astensione da turbative considerate illegittime
1 E. Durkheim, La divisione sociale del lavoro, trad. di F.
Airoldi Namer, Milano, 1999, p. 134.
2 In altri termini, i diritti reali, che delimitano e rendono palese erga omnes il rapporto del dominus con i
propri beni, sembrano non contribuire in alcun modo
all’unità del corpo sociale, cfr. R. Marra, Il diritto in
Durkheim : sensibilità e riflessione nella produzione normativa, Napoli, 1986, p. 71.
società esponendo il consenso ai pericoli della strumentalizzazione. In questa direzione, il valore morale che regge il contratto appare come medio politicoeconomico delle differenze per definire il consenso
sull’interesse generale, costituendo la principale spinta verso un diritto del lavoro capace di armonizzare le
differenze sociali.
Parole chiave
divisione del lavoro; Consumo; Proprietà;
Consenso; Rischio; Equità; Socialità;
Imperativo Morale; Sostenibilità.
nel particulare di ciascuno, è necessario che sia
preceduta e fondata da una solidarietà condivisa
di tipo contrattuale che regoli lo scambio e le comunicazioni sociali3. La normatività contenuta
nei diritti reali, e nella proprietà in primo luogo,
sembra rappresentare una socialità imperfetta e
non autosufficiente che, per determinarsi e legittimarsi, richiede un solido consenso esterno
«determinato altrove dall’intreccio positivo delle relazioni umane»4.
3 L’espressione di solidarietà negativa sembra impropria per designare tali relazioni poiché non vi si rinviene un’autentica coesione, ma solo il lato negativo di qualunque cooperazione. La solidarietà negativa non può
prescindere da quella positiva perché «al massimo della
sua estensione ed in un funzionamento ideale, un accordo di questo tipo farebbe somigliare la società ad una
ordinata costellazione, nella quale ogni astro si muove
senza interferire nel movimento degli altri corpi», E.
Durkheim, La divisione sociale del lavoro, cit., p. 136.
4Ibidem, p. 137; i rapporti internazionali sono esempi
di tale dipendenza perché essi intervengono soprattut-
Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
Le ipotesi condotte nella Divisione sociale
del lavoro sulla natura della proprietà sembrano concentrarsi soprattutto nell’interpretazione del consenso diffuso che garantisce
socialmente il rapporto della persona con i
propri beni.
Contrariamente alla teoria classica della
scienza sociale sul nesso proprietà-lavoro,
dove l’attività umana è posta a fondamento
dell’appropriazione legittima della ricchezza,
e in seguito alla considerazione che «l’individuo non si appartiene del tutto»5, Durkheim
ritiene che i diritti che l’uomo ha su se stesso
non siano assoluti ma limitati dai fini collettivi e morali ai quali è chiamato a collaborare
e che il solo valore individuale che deve essere
affermato e garantito è il rispetto della «persona umana in generale, cioè dei caratteri
comuni essenziali che fanno la qualità di un
uomo»6. In questa direzione, cadrebbe il nesso costitutivo tra lavoro e diritto di proprietà7.
Tuttavia, il dedurre le cose dalla persona può
apparire un procedimento vano perché i due
termini, non solo sono del tutto eterogenei,
ma sembrano potersi congiungere solo con la
mediazione di una causa che sia loro esterna8.
In altri termini, posto che l’individuo non è
to per regolare l’estensione dei diritti degli Stati sulle
«cose», cioè sui territori, cfr.R. Marra, op.cit., p.72.
5 La duplicità dell’individuo fa sì, infatti, che l’io individuale non possa, esclusi i casi di anomia soggettiva,
prescindere dall’io-sociale, ed è per tale motivo che la
persona non può considerarsi tale se non in relazione
con l’ambiente sociale, E. Durkheim, Lezioni di sociologia : fisica dei costumi e del diritto, trad. di M.L.Corvi, A.S.
Piergrossi, Milano, 1973, p. 146.
6 R. Marra, op. cit., p. 77.
7Destituendo il lavoro da ogni pretesa di giustificazione legittima del diritto di proprietà, l’attività pratica potrebbe essere conservata principalmente come fonte di
produzione, indipendentemente dalla questione sulla
titolarità dei beni medesimi, cfr. Ibidem, p. 78.
8 La ricchezza non si costituisce soltanto attraverso
la produzione, essa non deriva semplicemente da un
elemento materiale e impersonale che sia possibile
apprezzare oggettivamente perchè i gusti, i bisogni
sociali, le mode e tutto quanto costituisce l’attività rappresentativa della società, interviene a modificarne il
concetto stesso e a conferirgli una dimensione relativa
e parzialmente casuale, estranea alle relazioni rigorose
prefigurate dalla scienza economica, cfr. E. Durkheim,
Lezioni di sociologia, cit., p. 151.
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in grado di rinvenire nella propria costituzione naturale la capacità di orientare, se non
con atti di costrizione, la questione giuridica
dell’appropriazione legittima dei beni e che la
stessa attività materiale deve attendere il vincolante giudizio di valore da parte della società, per poter misurare adeguatamente la consistenza degli effetti utili conseguiti, sembra
allora necessario pervenire ad una categoria a
priori del possesso che prescinda dal fatto fisico della detenzione9.
Il diritto di proprietà, che consiste nell’esclusione dell’uso di un bene nei confronti di tutti
gli altri soggetti diversi dal proprietario, ad eccezione dello Stato, sembra definirsi negativamente nel divieto che esso sanziona piuttosto
che per le attribuzioni che conferisce10.
Il diritto di proprietà accordato agli uomini sembra, nelle intuizioni di Durkheim,
essere l’evoluzione e il perfezionamento di
un diritto di proprietà divino e il carattere
che lo rende inviolabile e che fonda in definitiva l’istituzione stessa, ancor prima di essere trasferito alla persona, sembra risiedere
nell’ordine naturale delle cose. L’intangibilità
conferita alla proprietà deriverebbe, non dal
rispetto dovuto alla personalità umana, individuale o collettiva, ma da una sacralità esterna e superiore all’individuo11.
L’analisi del diritto moderno permette di
definire i differenti caratteri della proprietà
fondiaria e di quella mobiliare, corrispondenti entrambe a due fasi distinte dell’evoluzione
giuridica. Infatti, mentre la prima risulta anco9 L’impostazione del problema e l’uso di categorie concettuali prelude ad un incontro con la dottrina di Kant in
cui si rinviene una confutazione della proprietà-lavoro:
«la lavorazione, quando si tratta di un primo possesso,
non è altro che un segno esterno della presa di possesso, che si può sostituire con molti altri che costano minor fatica». Durkheim riporta questa argomentazione
kantiana come la giustificazione più sistematica mai
tentata dei diritti del primo occupante all’interno di una
morale essenzialmente spiritualista, cfr. ivi, p. 156; vedi
anche I. Kant, La metafisica dei costumi, trad. di G. Vidari,
Milano, 1916, pp. 55 ss.
10 Cfr. E. Durkheim, Lezioni di sociologia, cit., p. 169.
11 Il rispetto della proprietà non è un’estensione alle
cose del rispetto che si deve alla persona umana, ma deriva da elementi esterni e superiori la persona, cfr. ibidem, p. 187.
Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
ra gravata da limiti e divieti, a ricordo della sua
antica natura religiosa, la seconda, al contrario
sembra godere di una legislazione più mobile
e flessibile affidata, del tutto o in larga misura,
all’arbitrio dei privati e alle esigenze del mercato. Se, come in Durkheim, la proprietà non
deriva dal lavoro come una necessità logica e il
legame che unisce i beni alla persona non è naturale, l’attuazione di una società civile sembra
rimanere l’esclusivo trait d’union tra gli individui e i beni appropriabili poiché «è essa che fa
l’attribuzione e procede alla distribuzione in
accordo con i sentimenti che prova per l’individuo, secondo il criterio mediante il quale valuta i propri servizi»12.
Se si considera che gli economisti sempre
più spesso parlano di una società dei due terzi
e si attendono che presto diventi la società di
un terzo, nel senso che tutto quello che serve
per soddisfare la domanda del mercato potrà
essere prodotto da un terzo della popolazione13, le affermazioni di Durkheim sembrano
offrire un importante contributo alla ridefinizione sociale ed economica degli attuali princìpi mercantili e alla ridefinizione sociologica
delle regolamentazioni e degli equilibri.
In questa direzione, l’analisi di Bauman
spiega che l’odierna versione liquefatta e deregolamentata dei legami che uniscono il capitale al lavoro ammette la traduzione della flessibilità in una costante precarietà14 e conduce
12 Ibidem, p. 239; Durkheim supera così gli errori degli
economisti e dei socialisti che fondano la proprietà sul
lavoro spiegando che «una identificazione di questo
tipo tende in effetti a far prevalere la quantità del lavoro sulla qualità» facendo sì che il valore di una cosa
non venga determinato dal lavoro, ma dal modo in cui
la società, nelle molteplici circostanze, valuta la cosa;
sul punto vedi anche M. A. Toscano, Evoluzione e crisi del
mondo normativo: Durkheim e Weber, Roma, 1975, p. 147.
13 Cfr. Z. Bauman, Modernità liquida, trad. di S. Minucci,
Roma, 2002, p. 170.
14 La crescente indipendenza del capitale deve comunque confrontarsi con considerazioni di carattere locale e
il «potere di disturbo» dei governi nazionali può ancora,
anche se in maniera sempre minore, imporre restrizioni alla libertà di movimento dello stesso. Quest’ultimo,
tuttavia, è diventato extraterritoriale e il suo livello di
mobilità spaziale è quasi sempre sufficiente a ricattare
gli organismi politici legati al territorio e a imporre dipendenza. I governi nazionali non possono non subordinare le proprie politiche, in misura sempre crescente,
issn 2035-584x
il lavoro, spogliato di reali prospettive e perciò
reso episodico, a non esser più adeguato nel
definire le modalità di impegno reciproco15.
Le nuove fonti di profitto sono le idee anziché gli oggetti fisici e l’odierno coinvolgimento del capitale riguarda, di conseguenza, non più il produttore e i lavoratori, ma
i consumatori, e, solo nell’ambito di questo
rapporto, sembra possibile stabilire legami
di reciproca dipendenza16.
Contrariamente alla divisione del lavoro
teorizzata da Durkheim, diretta a creare legami di solidarietà tra le differenti funzioni
alle minacce del capitale globale e al suo finanziamento.
Un governo dedito al benessere del proprio elettorato
non ha altre speranze che implorare e sedurre, anziché
costringere, il capitale a entrare e, una volta entrato, a
trattarlo con tutti i riguardi. E ciò si può fare soltanto
«creando condizioni migliori per la libera impresa», il
che significa porre tutto il potere di regolamentazione di
cui il governo dispone al servizio della liberalizzazione,
per smantellare le ancora esistenti leggi e statuti «che
ostacolano la libertà di impresa». In pratica tutto questo significa meno tasse, meno regole per le imprese e
soprattutto un «mercato del lavoro flessibile», cioè una
popolazione di lavoratori docile, incapace o incurante di
opporre una resistenza organizzata a qualsiasi decisione il capitale possa prendere; cfr. ibidem, p. 172.
15 Le definizioni di lavoro flessibile, a seconda della prospettiva da cui le si stabiliscono, sono varie e di opposto
significato, quindi, se per la classe dei lavoratori la precarietà è un destino, per quella degli investitori è una
scelta o una necessità. L’idea di flessibilità, che questi
sperano di raggiungere, è quella per cui il lavoro, deve
essere forgiato sulle tendenze instabili del mercato e
quindi perdere la sua originaria rigidità, affinché non
debba più essere considerato come una variabile economica, cioè come una incognita nei calcoli degli investitori. Si potrebbe paragonare la flessibilità del lavoro alle
oscillazioni di un pendolo. Tanto più il movimento è
rapido, tanto più le sue variazioni si riducono ad una costante prossima allo zero, e quindi, non valutabile come
incognita, cfr. ibidem, p. 174.
16 Le idee sono prodotte una sola volta, e quindi continuano a produrre ricchezza a seconda del numero
di persone che riescono ad attirare in qualità di acquirenti/clienti/consumatori, non dal numero di
persone assunte e incaricate di replicarne il modello.
Per essere competitivo, efficiente e redditizio, il capitale dipende dai consumatori e dalla pianificazione dei suoi spostamenti, e quindi, la presenza di una
manodopera locale e il suo «potere di presa» sul capitale sono, oggi, dei fattori secondari, cfr. Z. Bauman,
Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone,
trad. di O. Pesce, , Bari, 2006, p. 174-175.
Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim
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e riconoscimento di una complementarietà
e mutua dipendenza, i soggetti attualmente
impegnati in una attività economica sembrano «essere più che mai consapevoli del loro
ruolo usa e getta»17.
La metamorfosi dell’ultima modernità
sembra aver invertito il rapporto tra capitale
e lavoro e declinato il capitalismo industriale
in capitalismo cognitivo, in cui la produzione
e il controllo delle conoscenze sono centrali
nella valorizzazione del capitale.
L’attuale struttura della divisione del lavoro sembra pertanto comprendere quattro
categorie. Da un lato, ci sono i manipolatori
simbolici, che inventano le idee e i modi per
farle apparire desiderabili e commerciabili e,
dall’altro, coloro che sono impegnati nella riproduzione del lavoro, come gli educatori o i
funzionari. Nella terza categoria figurano coloro che sono inseriti nei vari servizi personali per creare un diretto contatto con i fruitori
del servizio, cioè i venditori di prodotti. Infine, la quarta categoria comprende le persone
che tradizionalmente formano il substrato
sociale del movimento operaio o, in altri termini, i lavoratori di routine, legati alla catena
di montaggio o, nelle fabbriche più moderne,
alle reti informatiche o ai dispositivi automatizzati, che risultano essere gli elementi più
facilmente sostituibili dal sistema economico
poiché il loro lavoro non specializzato riduce
il potere contrattuale al minimo o ad essere
del tutto inesistente18.
17 Z. Bauman, Modernità liquida, cit., p. 175
18 Il ruolo centrale che la nozione di tempo giocava
all’interno del capitalismo industriale sembra, nello
stesso movimento di trasformazione, cedere il posto,
nel capitalismo cognitivo, alla nozione di tempi sociali
necessari alla costituzione e alla valorizzazione dei saperi. Queste trasformazioni nella divisione del lavoro e
nell’economia della conoscenza vanno di pari passo con
i cambiamenti profondi che riguardano i meccanismi
di regolazione del mercato del lavoro. In particolare, lo
sfaldamento del modello canonico del rapporto salariale
(il contratto a tempo indeterminato) e la crisi del sistema di tutela sociale costruitogli attorno, si combinano
con un importante processo di desalarizzazione formale della manodopera. Un’autonomia crescente delle
conoscenze dei lavoratori si trova così associata a una
precarietà altrettanto importante che riguarda le condizioni di impiego e di remunerazione della forza lavoro,
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Parafrasando Durkheim, ciò che per Bauman dà un senso alla classe dei lavoratori,
oltre alle strutture sociali ad essi connesse19,
risiede nel precetto comportamentale/attitudinale, diffuso e perciò condiviso, del concepire l’attività come «ritardo della gratificazione, come la negazione dell’immediatezza
che, svilendo gli obiettivi, li traduce paradossalmente nella loro esaltazione»20 e contribuisce, allo stesso tempo, a diffondere e radicare
l’etica del lavoro21.
Supposta la condizione di una globale flessibilità del lavoro, che sempre più volge ad una
disoccupazione di tipo strutturale, il ritardo
della gratificazione sembra non essere più un
segno di virtù morale, quanto un onere problematico, sintomo di ordinamenti sociali imperfetti e di inadeguatezza personale. All’etica
del lavoro, che stimolò l’inversione di ruolo tra
mezzi e obiettivi, proclamando la virtù del lavoro fine a sé stesso, sembra essersi sostituita
in larga misura un’estetica del consumo, che
riduce il lavoro ad un ruolo meramente subordinato e strumentale rispetto a quello cui è
preposto: il poter consumare e, possibilmente,
entro termini non troppo estesi22.
secondo una relazione sulla quale sarebbe opportuno
interrogarsi. In questo passaggio, i modelli di rete, di laboratorio di ricerca e di relazioni di servizi, potrebbero,
in un certo senso, giocare lo stesso ruolo che la fabbrica
degli spilli di Smith ha giocato nell’avvento del capitalismo industriale, cfr. ivi, pp. 176-177; vedi anche R. Reich,
L’economia delle nazioni: come prepararsi al capitalismo del
Duemila, trad. di M. A. Giannotta, Milano, 1993.
19 Si riferisce alle strutture sociali del Welfare State, cfr.
Z. Bauman, Modernità liquida, cit., pp. 59-61.
20 Ibidem, p. 183.
21 Nella sua forma di «ritardo della gratificazione», la
procrastinazione preservava tutta la sua implicita ambivalenza: si preferiva l’arare e il seminare piuttosto che
il raccogliere e consumare i frutti del raccolto, l’investire piuttosto che il distribuire i guadagni, il risparmiare
allo spendere, il lavoro al consumo, cfr. ibidem, p. 184.
22 Nella società dei produttori della prima modernità, il principio etico della gratificazione ritardata assicurava, di norma, lo sforzo lavorativo. Nella società
liquida dei consumatori, viceversa, lo stesso principio
è necessario all’atto pratico per garantire la curabilità
del desiderio: per restare vivo e crescere, il desiderio,
ha bisogno di essere periodicamente e ripetutamente
gratificato e, tuttavia, la sua gratificazione ne decreta
anche la sua fine. Una società governata dall’estetica
Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
In questo senso, l’individualismo moderno
teorizzato da Durkheim, che ha elevato la dignità
della persona a culto e ha legato l’identità al lavoro svolto, è stato sostituito da un processo di individualizzazione che, qualificando l’individuo
non come lavoratore ma come consumatore, lo
ha reso oggetto di un’attività endemicamente e
irrimediabilmente individuale tanto che, anche
laddove viene espletata in compagnia di un centro commerciale affollato23, le relazioni che lo
stesso intrattiene tendono ad essere considerate
come res consumens, completamente estranee da
ogni proposito di solidarietà morale, in quanto
sociale, e sociale, in quanto morale.
Se Durkheim alla costrizione aveva sostituito un’azione individuale di spontanea adesione ad un comportamento condiviso, la globale
ubbidienza a logiche di consumo regolabili ed
uniformate secondo standars flessibili, tende a
raggiungere l’individuo attraverso la lusinga
e la seduzione e, mostrandosi mascherata da
del consumo ha bisogno di un tipo di gratificazione
che non sia mai completa, che rimanga sempre interrotta a metà. La procrastinazione serve la cultura del
consumatore attraverso la sua stessa autonegazione:
la fonte dello sforzo creativo non è più il desiderio indotto di ritardare la gratificazione del consumo, ma il
desiderio indotto a ridurre il ritardo o abolirlo del tutto, insieme a quello di ridurre la durata della gratificazione allorché questa dovesse giungere, cfr. Z. Bauman,
Homo Consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la
miseria degli esclusi, trad. di M.de Carneri, P. Boccagli,
Trento, 2007, pp. 21 ss.
23 «In una società di consumi, il condividere l’universale dipendenza da shoppihg è la conditio sine qua non della completa libertà individuale: l’articolo prodotto in
massa è lo strumento della differenziazione dell’individuo. L’identità può essere acquisita solo tramite il prodotto che tutti comprano e può essere preservata solo
attraverso lo shopping, alimentato da gadgets e prodotti
usa e getta, destinati all’obsolescenza immediata, forniti dal mercato. Il processo di costruzione delle identità dipende anche dai mass media: la vita desiderata è
quella che si vede in tv. Gli shopping malls, cioè i viali
dove poter fere acquisti, rendono la vita del consumatore un posto sicuro perché nei suoi spazi sono garantiti
incontri cercati e incontri mancati, episodi momentanei e apparenze riflesse da apparenze. La libertà di voler controllare e lasciarsi sorprendere dalle apparenze,
trova il suo apice nel mondo non assolutamente impegnativo della televisione, dove il potere dello zapping
rende il consumatore apparentemente incondizionato
e in-condizionabile, cfr. ibidem, pp. 39 ss.
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esercizi di libero arbitrio24, meglio nasconde il
proposito volto unicamente al profitto25.
La società contemporanea, che rappresenta
le categorie di consumatori, non dei produttori, come il motore dello sviluppo economico,
considera coloro che non dispongono di sufficienti risorse per adattarsi agli standards non
più una provvisoria anomalia che attende di
essere corretta e rettificata, ma come una classe al di fuori delle classi, una categoria mantenuta permanentemente off limits dal sistema
sociale. I poveri, coloro che non hanno risorse
sufficienti per adattarsi agli standards, non vivono in una cultura diversa da quella dei ricchi, e devono convivere nello stesso mondo
costruito a beneficio di coloro che sono stati
scelti dal mercato dei produttori percependo
così maggiormente il loro disadattamento e la
loro inferiorità. In altri termini si può affermare che, poiché il consumo è un comportamento condiviso da tutti, e viene condotto in
modo estremamente diverso a seconda delle
risorse individuali, esso di fatto, anziché produrre una condizione di cooperazione e solidarietà, distribuisce la libertà in molteplici
categorie di consumo e di target.
In questa prospettiva analitica, alimentata
dai rilievi di Durkheim, il lavoro sembra non
essere più quel perno socialmente etico, economico e politico attorno al quale si potevano
legare definizioni di identità, di funzioni, di
proprietà, di progetti di vita e riconoscimenti
di classe. Il lavoro ha acquisito oggi un signi24Se la definizione dell’attuale incertezza può essere riassunta come la paura dell’inadeguatezza agli standards,
allora le proposte del mercato, per far fronte a tale timore, diventano numerose ed irresistibili per il consumatore. Se prima il vecchio regime della coercizione e della
sorveglianza offriva, come ricompensa alla gratificazione differita, la libertà dai tormenti della scelta e dalla responsabilità, ora il mercato, a fronte di una incertezza
privatizzata, perché tradotta come inadeguatezza personale, elabora e distribuisce soluzioni ad hoc affinché il
consumatore non si senta gravato dal peso della responsabilità di una scelta sbagliata, cfr. ibidem, p. 123.
25 Il principio del profitto legalizza le funzioni economiche e politiche dedicate all’assunzione e alla riproduzione di standards individuati (su «modello del consumatore»), superando ogni morale solidarista ed equitativa ed
eleggendo il Profitto stesso ad esclusivo Valore, cfr. C. B.
Menghi, Logica del diritto sociale, Torino, 2006, pp. 55 ss.
Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim
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ficato puramente estetico che viene valutato
non in base alla capacità di contribuire ad una
sostenibilità sociale, ma alla capacità di creare
bisogni e desideri al consumatore.
L’ipotesi di una solidarietà sociale basata
sulla centralità del lavoro e il tentativo di interpretare un consenso diffuso che, nel tempo,
giustifichi socialmente il rapporto della persona con i propri beni, rendono il contributo di
Durkheim un’interessante momento di riflessione per una definizione più ampia di interesse generale e di diritto sociale26.
Come la proprietà, anche lo scambio, che
nei suoi caratteri esteriori crea interessi eterogenei e lega i contraenti per un tempo assai
limitato, non è in grado, senza il coordinamento di un corpo centrale, di poter garantire una
regolazione sociale. «Il contratto ha bisogno
di un controllo, di formalizzazione giuridica
e di organizzazione perché, altrimenti, la volizione sarebbe destinata a rimanere allo stato
di mera intenzione»27e gli egoismi produrrebbero un antagonismo permanente, uno stato
di conflitto continuo, poco favorevole allo sviluppo delle relazioni economiche e l’interesse,
non adeguatamente normato, diventerebbe
un motivo di contrapposizione e di conflitto28.
Per dimostrare che l’attività sociale diminuisce costantemente a favore dell’individuo,
Durkheim pone il diritto come unità di misura che rileva i caratteri generali dell’estensione
reale della vita sociale29. Il crescente ampliamento del diritto restituivo, che fornisce gli
strumenti ed i fini da perseguire, dimostra
l’interesse della società per le relazioni private e sostituisce alla materialità dello scambio
una reciprocità di diritti e doveri. «Non tutto
nel contratto è contrattuale»30 perchè la complessità delle condizioni esterne impone un
26 «Tutte le attività che si producono nell’organismo
sociale sono pubbliche e stabiliscono relazioni tra i
funzionari, pertanto il diritto privato è una dizione impropria; esiste soltanto il diritto della collettività, esiste
soltanto il diritto sociale», cfr. E. Durkheim, La divisione
sociale del lavoro, cit., p. 142.
27 Ivi, p. 358.
28 Cfr. R. Marra, op. cit., p. 126 ss.
29 Cfr. E. Durkheim, La divisione sociale de lavoro, cit.,
p. 213.
30 Ibidem, p. 218.
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sistema di riferimenti, segni, consuetudini e
semplificazioni che l’individuo non può riprodurre. Il diritto contrattuale sembra così esistere in una dimensione del tutto diversa da
quella normalmente attribuitagli dagli utilitaristi: esso non è semplicemente un utile complemento delle relazioni particolari, ma ne è,
propriamente, la norma fondamentale, la base
necessaria dalla quale non si può deviare che
parzialmente e accidentalmente31.
Posto che il diritto corrisponde allo stato
della società, inteso come ambiente sociale interno e alle sue condizioni densimetriche e volumetriche, e che i costumi assumono il ruolo
di leggi naturali non contraddette, almeno in
condizioni normali, dal legislatore, è possibile
dedurre che alla regolamentazione del contratto contribuiscono non soltanto il diritto formalizzato ma anche le obbligazioni e le consuetudini professionali e morali32, la cui ricezione
giuridica nei codici appare come un lento processo di assorbimento, di razionalizzazione e di
adeguamento ai principi di solidarietà e sensibilità sociali. Se nei contratti solenni l’elemento
che garantiva l’osservanza della convenzione
era principalmente il rapporto instaurato con
la divinità, nel contratto consensuale è il riconoscimento morale dei diritti dell’individuo a
contenere il rispetto sociale che è dovuto alla
persona e a istituzionalizzare il giudizio e la
riparazione di torti. Il contratto consensuale
permette alla solennità di produrre i suoi effetti non per opera di formule ad invocazione
divinatoria ma invocando la legge, e permette
di reperire, corrispondentemente all’affermarsi
31 È vero che i contraenti possono talvolta derogare alle
disposizioni di legge, ma non va dimenticato che il contratto deve comunque soddisfare le condizioni di validità
richieste dal codice e che, inoltre, è previsto un sovente
intervento del giudice nelle relazioni provate per accordare , ad esempio, una proroga al debitore o l’obbligo di
restituire una cosa prima del termine fissato da parte del
mutuatario. I contratti originano anche delle obbligazioni non convenute; è la previsione della norma che obbliga le parti non solo a quanto espressamente pattuito, ma
anche a tutte le conseguenze che derivano dall’equità,
dalla consuetudine o dalla legge, cfr. ibidem, p. 219.
32 Il costume, tranne nei casi di anomia illustrati da
Durkheim, non si oppone al diritto e ne costituisce,
anzi, la base, essendo la sintesi di tutte le esperienze della vita sociale e della tradizione, cfr. ibidem, p. 87.
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del diritto laico dell’individuo, una più autentica espressione delle volizioni personali33. In
altri termini, affinché il contratto consensuale
potesse essere ammesso tra gli istituti del diritto, è stato necessario che le credenze collettive,
le sole capaci di garantire un fondamento morale alle istituzioni, fossero orientate dal culto
dei valori religiosi al rispetto della persona e
all’affermazione di diverse prerogative, come i
diritti dell’individuo34.
Le conseguenze implicate dal principio del
consenso sembrano appartenere a tre specifici
ordini. Innanzitutto, il contratto consensuale è
un rapporto sanzionato dove l’organizzazione
giuridica interviene dall’esterno ad assicurare
alle parti la piena realizzazione degli obblighi
e dei diritti convenuti. In secondo luogo, mentre nel contratto reale la definizione delle parti dipendeva solo dalla cosa consegnata e nel
contratto solenne si prevedeva unicamente un
soggetto che prometteva ed un altro che riceveva la promessa, il contratto consensuale è di
natura bilaterale e consente di rappresentare
un duplice ruolo per entrambi i contraenti,
ciascuno, ad un tempo, debitore e creditore35.
Le relazioni consensuali, infine, sono necessariamente dei contratti bona fides, nel senso che
le conseguenze giuridiche sono fatte dipendere esclusivamente dalle volizioni delle parti36.
Nel contratto reale, infatti, non ci si interrogava su che cosa si era voluto scambiare, perché
33 Cfr. R. Marra, op. cit., p. 138; vedi anche E. Durkheim,
La divisione sociale del lavoro, cit., p. 228.
34Si tratta di una produzione sociale e normativa che
deriva spontaneamente da certe condizioni morfologiche, densimetriche e volumetriche, del corpo sociale;
cfr. E. Durkheim, Lezioni di sociologia, cit., p. 145.
35 Cfr. ibidem, p. 234.
36 A differenza del contratto solenne, le parole hanno
valore solo come segni da interpretare, rilevano unicamente se esprimono con precisione degli stati delle
volontà, altrimenti non rappresentano nient’altro che
espressioni prive di senso, cfr. R. Marra, op. cit., p. 142; nel
contratto reale e in quello solenne, il semplice consenso non era mai sufficiente a produrre un’obbligazione;
occorreva un elemento superiore che si sovrapponesse
per legare realmente i contraenti. Nel primo era la natura e la quantità delle cose ricevute a determinare esattamente l’entità del debito, nel secondo contratto questo
ruolo era assolto dai riti e dalle parole, cfr. E. Durkheim,
La divisione sociale del lavoro, cit., p. 236.
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era il valore intrinseco della cosa a determinare ciò che il debitore doveva all’altra parte. Anche nelle formule del contratto solenne non vi
era la necessità di esplorare le intenzioni, dal
momento che la parola era dotata di una intrinseca chiarezza tale da escludere ogni contemplazione sulla buona fede37.
Insieme al principio del consenso ha origine anche la norma secondo cui il contratto non
è considerato valido se stipulato in circostanze
per cui la volontà delle parti non si è determinata liberamente38. In questo modo, l’avvento
del contratto consensuale, unito ad uno sviluppo dei sentimenti di solidarietà e rispetto
tra gli uomini, conduce le coscienze a ritenere
che un contratto è morale, meritevole quindi
di essere riconosciuto e sanzionato dalla società, solo quando esso è giusto, quando cioè una
parte non ha il sopravvento sull’altra. Tale principio, non soltanto pretende di valutare le conseguenze oggettive degli impegni assunti, ma,
al contempo, impedisce al contratto di convertirsi in un mezzo di sfruttamento per le parti.
La condizione della giustizia nel contratto
consensuale, che pretende l’esclusione di ogni
forma di costrizione e considera fondamentale la natura della volontà espressa dalle parti,
introduce le definizioni fondamentali che reggono il contratto equitativo39.
Sembra potersi dire, nella direzione di
Durkheim, che l’evoluzione delle relazioni contrattuali comunica il sentimento di
una natura individuale imperfetta che, per
potersi rafforzare attraverso i legami e poterne diventare pienamente consapevole,
37 Cfr. M. A. Toscano, op. cit., p. 142.
38 L’actio quod metus causa è tra le prime procedure istituite a protezione di colui che è costretto al contratto con
mezzi non leciti, con la violenza o le minacce, sulla base
dell’interpretazione per cui il contratto non è valido perché il consenso non si è formato spontaneamente ed è
nato da una imposizione, cioè senza il dovuto rispetto
della libertà naturale dell’individuo. Questa, infatti, è il
presupposto in base al quale muoverebbe il principio
dell’invalidità dei contratti per vizio di consenso, poiché
la legge suppone che il consenso strappato con la forza
è contrario all’interesse del contraente e pertanto l’ethos
collettivo si rifiuta di ratificare un atto che si trasforma
in una condanna immeritata a carico del contraente costretto; cfr. ibidem, p. 143.
39 Cfr. ibidem.
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necessita costantemente della regolazione
esterna della società.
Quando i sociologi definiscono l’attuale
società di tipo complesso, intendono una società sempre più individualizzata, differenziata e globalizzata in cui il pluralismo e la
tolleranza sono diventati valori degni di una
totale considerazione40. Tuttavia, la libertà
individuale sembra essere sempre meno capace di incidere concretamente sulle situazioni sociali, economiche e politiche, tanto
che «se vogliamo essere individui, e questo è
l’esito paradossale della modernità, possiamo
esserlo ormai soltanto fuori dalla società»41.
L’autoreferenzialità dell’individuo e la società
pluralista, liberale e globale che vive di rappresentazioni collettive e le traduce in rapporti
contrattuali, sembrano sempre più esporre il
consenso al pericolo di strumentalizzazione.
Infatti, se si considera che l’accordo intenzionale di volontà sull’oggettività dei bisogni42
è stato sostituito, nel passaggio dalla necessità alla rappresentazione, dal successo delle
rappresentazioni economico-politiche43 che
ignorano le condizioni reali o demografiche,
il consenso allora, piuttosto che libero, può
dirsi presunto. La natura bilaterale dell’accordo e la manifestazione del pieno consenso
delle parti perdono la loro centralità di fronte
alla crescente espansione dei contratti d’iscrizione i quali, attraverso l’utilizzo di formulari
e modelli, da un lato, riducono la volontà delle parti a mere adesioni o astensioni e precludono a priori ogni possibilità di comunicazio40 «La vera contraddizione che sta emergendo in modo
sempre più marcato, anche grazie alla globalizzazione, è
quella che sembra essersi istituita nella società occidentale tra la tendenza all’inidividualizzazione e la tendenza alla differenziazione», S. Belardinelli, La normalità e
l’eccezione. Il ritorno della natura nella cultura contemporanea, Catanzaro, 2002, p. 88.
41 Ibidem, p. 89; sul punto anche N. Luhmann, movendo dal fatto che l’uomo in quanto «sistema psichico»
si è spostato ormai «nell’ambiente del sistema sociale», afferma che «l’uomo non è più il metro di misura
della società» e rappresenta un sistema autoreferenziale, cfr. N. Luhmann, Sistemi sociali: fondamenti di
una teoria generale, trad. di A. Febbraio, R. Schmidt,
Bologna, 1990, p. 354.
42 Cfr. C. B. Menghi, op. cit., p. 79.
43 Cfr. ibidem.
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ne e di prospettiva sociale44 e, dall’altro, fanno
sì che il contratto stesso diventi l’oggetto del
consenso45, superando a priori il principio
dell’uguaglianza tra le parti46.
Secondo l’analisi di Durkheim, pur essendo
il contratto il segno di una conquistata libertà ed autonomia, affinché la discussione e gli
accordi possano aver luogo, è necessario che la
società sia pervasa da sentimenti di fiducia, di
senso del bene comune, di tolleranza e di responsabilità i quali, non potendo essere prodotti per via contrattuale, sembrano potersi
rintracciare soltanto «in quel lento processo
di socializzazione»47 che considera l’altro non
come un limite alla libertà personale ma come
la sua condizione necessaria48.
Il tentativo di attribuire al contratto, o più
esattamente all’idea morale che lo sostiene,
un valore socializzante, posto che lo scambio
è il mezzo che consente un confronto di posizioni e l’affermazione simultanea di personalità uguali e distinte, sembra condurre attualmente ad una nuova definizione dei caratteri
e dell’estensione della solidarietà come una
necessità morale volta a procurare, al di là dei
vantaggi, dei doveri permanenti di socialità e
44 I contratti di iscrizione, a contrario di quelli di ascrizione, in cui il nesso di imputazione è la condotta dell’agente,
inseriscono la volontà del contraente nel loro stesso meccanismo adeguandola a standards predefiniti. «Il contratto
di iscrizione abbandona nella società di rappresentazione
la prospettiva dell’obbligazione positiva, secondo cui la società ha il diritto di assoggettarsi a obblighi autodeterminati, alla trasformazione dell’obbligazione stessa secondo
la percezione dell’interesse generale», cfr. ibidem, p. 121.
45 Cfr. ibidem, p. 79.
46 L’anomia costrittiva che segue la divisione del lavoro
si ripropone anche nelle relazioni contrattuali laddove,
non essendo stata stabilità una eguaglianza delle condizioni e delle opportunità iniziali esterne, una delle parti
si trova costretta ad accettare le limitazioni dell’altra, cfr.
E. Durkheim, La divisione sociale del lavoro, cit., pp. 365 ss
47 Il tentativo di Durkheim di rendere il contratto lo
strumento moderno di socializzazione, sembra emergere anche, seppur con motivazioni non identiche, nelle considerazioni più attuali, ibidem, p. 90.
48 Anche nel contratto Durkheim considera fondamentale la duplicità dell’individuo in cui, al di là dei caratteri
strettamente personali, sono insiti soprattutto quelli sociali, sul punto cfr. G. Paoletti, Dualismo o dualità? La nozione
di “homo duplex” in Durkheim, in Homo Duplex. L’esperienza
della dualità come problema filosofico, Pisa, 2004.
Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim
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imperativi di cooperazione rispetto ai quali, si
suppone, non si ha il diritto di sottrarsi49.
Seppur con argomentazioni che lasciano
spazio ad ampie critiche, Durkheim, quando
parla della necessità di un nuovo diritto che nasce dalla subordinazione degli interessi particolari a quelli generali, sembra riferirsi all’idea
di una costituzione materiale che, a differenza
di quella formale, legata al principio territoriale
dello Stato, propone di raccogliere un consenso infra-politico, sottostante al piano politico
istituzionale, e che, proprio per questo, risulta
essere più idonea ad agire secondo i bisogni riconosciuti di interesse generale.
In questa direzione, gli aspetti sociologici
della critica di Durkheim sembrano inserirsi
nella complessa relazione interdisciplinare
che lega la sociologia alla filosofia del diritto, alle teorie degli economisti, dei giuristi
positivi, delle scienze politiche e delle teorie
generali, che negli ultimi anni propone una
visione del diritto sociale come mezzo coniugativo, nel passaggio dalla Legge alla norma,
ossia alle regole politico-economiche che sottendono i diritti sociali50.
Alla separazione tra proposizioni scientifiche, giudizi di fatto e giudizi di valore, 51 Durkheim sostituisce l’interazione tra mezzi e finalità per evitare errori simili a quelli espressi
dal modello utilitaristico della società che li
considerava come prodotto empirico della
forma della società52. «Tutti i mezzi sono essi
stessi dei fini, se considerati da un altro punto di vista; per essere messi in pratica, infatti,
49 «Proprio per questo il diritto contrattuale risulta
come l’espressione della particolarità e della differenziazione e come il diritto della divisione del lavoro», cfr.
E. Durkheim, La divisione sociale del lavoro, cit., p. 203.
50 Cfr. C. B. Menghi, Rappresentazioni della sovranità,
Torino, 2003, p. 131.
51 La contrapposizione tra mezzi e finalità viene colta da
numerosi sociologi, tra cui Giddens. Secondo i giudizi di
valore, «i dati scientifici possono essere utilizzati come
mezzi tecnici che si adoperano per rendere agevole il
conseguimento di finalità date, ma il valore delle finalità in se stesse non può essere provato attraverso l’applicazione di procedimenti scientifici», cfr. A. Giddens,
Capitalismo e teoria sociale : Marx, Durkheim e Max Weber,
trad. di C. Cantini, Milano, 1979 , p. 162
52 Cfr. E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, trad.
di F. Airoldi Namer, Milano, 1963, p. 59.
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essi devono essere scelti proprio come è scelto il fine alla cui realizzazione sono volti. Vi
sono sempre numerose strade che conducono
alla stessa meta; si deve fare quindi una scelta
tra esse»53. Non essendo la scienza da sola in
grado di indicare la scelta del fine che meglio
risponde ad un interesse generale, allo stesso
modo, non può essere in grado indicare quali sono i mezzi più adeguati per raggiungerlo.
«Per quale motivo essa dovrebbe consigliarci
il mezzo più rapido invece di quello più economico, quello più sicuro piuttosto che quello più semplice o viceversa? Se la scienza non
può esserci di guida nella determinazione dei
suoi fini ultimi, essa è ugualmente impotente riguardo a quei fini secondari e subordinati
che chiamano mezzi»54.
Se il biologico contempla una distinzione
chiara tra normalità e patologia, nella sfera
sociologica, col proposito di superare la dicotomia tra mezzi e fini, l’individuazione di ciò
che è anormale sembra non essere altrettanto
certo e determinabile.
Il criterio preliminare della generalità per
cui «un fatto sociale che è generale per un
dato tipo di società è quindi normale quando si dimostra che tale generalità si fonda
sulle condizioni del funzionamento di quel
tipo di società»55, sembra non essere in grado di fornire un modello di normalità alle
società moderne poiché, essendo queste in
una perenne fase di transizione, alle visioni
tradizionali viene dato ancora un rilievo tale
da indurre ad affermare che la loro fine progressiva è un fenomeno patologico56. Infatti,
53 Ibidem, p. 60.
54 Ibidem.
55 Cfr. E. Durkheim, La divisione sociale del lavoro, cit.,
p. 160.
56 In altri termini si può semplificare facendo riferimento alla coscienza collettiva, rigorosamente incompatibile con il modo secondo cui funziona un tipo
di società che presenta un’alta divisione del lavoro. Il
crescente prevalere della solidarietà organica conduce
alla fine progressiva delle forme tradizionali di credenza; anzi, proprio perché la solidarietà sociale è sempre
più subordinata alla interdipendenza funzionale nella
divisione del lavoro, la fine delle credenze collettive è
una caratteristica normale del tipo moderno di società.
Il fatto che queste credenze persistano a livello generale non è dunque, in questo caso, un indice esatto di ciò
Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim
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in occasione dei rapidi cambiamenti sociali,
quando «un’intera collettività vive un processo di evoluzione e non si è ancora stabilizzata nella nuova forma»57, gli elementi di
ciò che è normale per quel tipo di società che
sta per essere sostituita continuano ancora
ad esistere e, pertanto, «è necessario analizzare le condizioni che hanno reso generale il
fenomeno nel passato e poi indagare se queste condizioni sussistono ancora nel presente e, se tali condizioni non si danno, allora il
fenomeno in questione non si può definire
normale, sebbene sia generale»58. L’elaborazione di criteri di normalità nei confronti
dei tipi specifici di società permette di seguire, nella teoria morale, una via intermedia
tra coloro che concepiscono la storia come
una serie di avvenimenti unici e irripetibili e quelli che cercano di formulare principi
etici sovrastorici. Nella prima prospettiva si
esclude la possibilità di ogni generalizzazione dei valori etici, mentre, nella seconda, si
enunciano regole morali valide «per l’intera specie umana in modo definitivo». Solo
con una conoscenza precisa delle tendenze
potenziali che emergono nella realtà sociale,
sostiene Durkheim, può avere successo l’intervento che mira a promuovere il cambiamento e la mobilità sociale.
Lo studio scientifico della moralità permette, da un lato, di individuare quegli ideali che
sono in fase di formazione, ma che sono ancora in gran parte nascosti alla coscienza comune e, dall’altro, di mostrare che, analizzando i
cambiamenti delle condizioni sociali che sono
alla loro base, e che servono a favorirne la crescita, si è in grado di indicare quali tendenze
devono essere favorite e quali devono essere
respinte perché obsolete59. Tuttavia il criterio metodologico basato sull’osservazione dei
fatti sociali, ammette di poter indagare sulla
che è normale e di ciò che è patologico, cfr. A. Giddens,
op. cit., p. 164.
57 E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, cit., p.
69.
58 Ibidem.
59 «Il futuro è gia scritto per chi sa leggerlo», inoltre
sulla determinazione del «fatto sociale» vedi ibidem, p.
165 ss.
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realtà per trarne delle regole di condotta morale «a partire da ciò che è normale e a partire
dall’eccezione»60.
La condizione di normalità, secondo una
connotazione descrittiva e valutativa, corrisponde ad una normatività che viene non
soltanto seguita e accettata perché ritenuta
valida, ma anche imposta secondo i criteri
che la legittimano61. Se nelle società semplici la validità della norma era sostenuta da
criteri religiosi e, per questo, comportava
immediatamente la sua idoneità ad essere
operante, nelle società attuali il fatto che una
norma, seppur condivisa dalla maggioranza
dei membri di una società, possa dirsi valida,
non autorizza sempre la sua imposizione. Ciò
vuol dire che l’estrema differenziazione tra la
validità e la cogenza di una norma è uno dei
presupposti principali della normalità flessibile, tipica delle culture liberali e democratiche, attenta a non imporre norme senza consenso e, allo stesso tempo, senza mantenere
vivo il dialogo sulla validità, a prescindere
dal fatto che vengano o meno riconosciute62.
L’importanza dell’equilibrio tra la cogenza e la
validità di una norma sembra essere la traduzione dell’importanza, espressa da Durkheim,
dell’accordo morale e del potenziale culturale
o, in altri termini, dei capitali sociali, da cui le
società attingono la loro forza integrativa63.
Tale convinzione emerge in modo particolare nella società contemporanea dove, da una
parte, si assiste ad un deperimento delle morali sociali, in primis della solidarietà e, dall’altra,
il problema stesso dell’integrazione sociale, affidato agli equilibri economici di un mercato
sempre più precario ed incerto, viene considerato secondario. Infatti, se si riduce la morale
a funzione sociale, «in linea di principio nulla
vieta di pensare che una società differenzia60 Cfr. S. Belardinelli, op. cit., p. 5.
61 Cfr. ibidem, p. 18.
62 Cfr. ibidem.
63 «un fatto che l’esistenza sociale dipende, in gran
parte, dal consenso morale dei suoi membri e che
una crisi radicale di tale consenso porterebbe al limite dell’estinzione sociale», cfr. T. Parsons, La struttura
dell’azione sociale, trad. di M. A. Giannotta, Bologna,
1986, p. 440.
Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim
73
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
ta, qual è la nostra, per esigenze sociali, abbia
dovuto farsi prima individualista e, successivamente acentrica, priva cioè di un centro, e
tendente a funzionare come se gli individui
non esistessero»64. In altri termini, da un lato,
ciascuno è libero di seguire come meglio crede le proprie convinzioni morali e, dall’altro,
l’integrazione sociale avviene per adattarsi ad
esigenze che non coinvolgono direttamente
l’individuo ed appartengono ad una logica sistemica65 sovraindividuale e fattuale. La normalità di una cultura liberale e democratica
«non può non fare i conti con una certa dose
quasi endemica di anomia»66 perché nel pluralismo è concessa la possibilità a ciascuno di
«coltivare la propria eccezione»67. Tuttavia, se
l’attitudine comportamentale dell’ultima modernità continua ad affermare che ogni eccezione è concessa, fatto salvo il principio di non
invadere la libertà dell’altro, si rischia, non solo
«di cadere nel più radicale indifferentismo»68,
ma anche di svuotare di significato quei patrimoni culturali che hanno reso possibile la valorizzazione dell’eccezione stessa.
Se si ammette che esiste una situazione
normale di estrema differenziazione, nella
quale è lecito ritenere che le divergenze indi64 S. Belardinelli, op. cit., p. 21; vedi anche E. Durkheim,
La divisione sociale del lavoro, cit., pp. 187 ss.
65 Cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, trad.di
P. Rinaudo, Bologna, 1986.
66 Cfr. S. Belardinelli, op. cit., p. 22.
67 Cfr. ibidem.
68 Se nelle epoche passate la coscienza comune tendeva a privilegiare la normalità al punto di imporla anche
con la forza contro l’evidenza più elementare, come coloro che non volevano guardare dentro al cannocchiale
di Galileo, nell’era postmoderna, al contrario, sembra
che il sentire comune, attratto sempre più dall’eccezione, non riconosca più alcuna normalità. Tanto una casa
è unica, particolare, conforme ai nostri gusti e alle nostre scelte personali, e in questo, appunto eccezionale,
tanto più essa ci sembra meritevole di essere seguita.
Fatto salvo il principio che non bisogna invadere lo
spazio altrui, qualsiasi stile di vita ci appare legittimo,
quindi normale. Il sistema massmediatico è sempre
più avido di fatti piuttosto che di valori e, l’unico di
cui riesce a farsi veicolo è il valore dell’indifferenza.
Persino di fronte ai comportamenti più criminosi c’è
l’incapacità di giudicarli anormali, tanto ormai sembra
usurato, stantio, esteticamente fastidioso il lessico della normalità, ibidem, p. 6.
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viduali, di classe e di gruppo, esprimano dei
valori e degli interessi non omogenei, che
possono essere individuati come istanze normative, allora sembra coerente ammettere il
venir meno della generalità del riconoscimento quale principio del governo democratico
delle differenze con esso compatibili69. Nella
discrasia tra principio di generalità e riconoscimenti avanzati delle particolarità, la definizione della realtà contenuta nelle singole
istanze normative risulterebbe essere troppo
debole, parziale, inidonea e frammentata, comunque socialmente conflittuale.
Durkheim come sociologo genetico, potente disegnatore sintetico e dotato di grandi
capacità di aggregazione di conoscenze, avendo elevando, seppur con argomentazioni non
del tutto condivise dalla critica70, l’imperativo
morale ad elemento centrale della distribuzione del lavoro, della proprietà e della socialità e
avendone indicati anche i limiti, ha il merito
di presentare, a fronte di una globalizzazione
economica che fa dell’anomia (e dell’eccezione) la sua stessa ragion d’essere, ulteriori momenti di indagine.
Beck spiega che si parla di rischio quando è
impossibile predire in maniera determinata
l’esito di azioni che intendiamo intraprendere, per cui ogni decisione appare ambigua ed
69 Cfr. R. Marra, op. cit., p. 66.
70 «Come sociologo contemporaneo Durkheim mostra ampiamente la sua inattendibilità». Egli aspira a
trattare le società odierne con lo stesso stile intellettuale con il quale si è occupato delle forme elementari
della vita associata, adottando gli stessi criteri esemplificativi. Perciò, anche quando ci parla dell’oggi, il
suo è un resoconto che spinge la soglia del presente
lontano di millenni nel passato. Questo è evidente
soprattutto nel caso del diritto e dello Stato. Il diritto
rimane, in un’epoca di enormi sconvolgimenti sociali
e politici, che svelano ancora una volta dietro le leggi,
agenti manipolatori e prevaricatori, il simbolo visibile
della solidarietà. Lo Stato è ancora l’organo della riflessione, dotato di una sua superiore coscienza, mentre è
abbondantemente strumentalizzato dai detentori del
potere. Grava il peso di un consensualismo ipertrofico che può risultare vanificante. Egli ha preparato un
edificio complesso e, a suo modo, completo: se introduciamo in questo edificio la storia di ogni giorno, e
dei nostri giorni in particolare, rimaniamo delusi e
dobbiamo andare alla ricerca di altri luoghi e di altri
supporti; cfr. M. A. Toscano, op. cit., p. 212.
Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim
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ogni desiderio di agire sembra ambivalente.
Il rischio è l’incurabile mancanza di chiarezza
che incita la scienza e la tecnologia, i due veicoli principali dello sviluppo contemporaneo,
a risolvere le liquidità del contemporaneo71
e a far sì che l’ambiguità diventi, in termini
odierni, un fattore di progresso che gioca la
propria sovranità tra le necessità pragmatiche e le pianificazioni teleologiche del profitto. Sebbene l’ambivalenza sia un fenomeno
sociale, ciascun individuo lo affronta come
un problema personale e cerca le soluzioni
che reputa migliori tra gli sconfinati prodotti
che il mercato dei beni, dei servizi e delle idee
propongono72. Se si considera che tra un decennio solo un europeo su due potrà godere
di un’occupazione regolare a tempo pieno, e
che anche per questa metà di occupati la sicurezza di lungo periodo del posto di lavoro
sarà difficilmente paragonabile a quella che
la tutela sindacale poteva garantire anche
solo venticinque anni fa, quelli non occupati
stabilmente cercheranno di guadagnarsi da
vivere attraverso lavori occasionali, casuali,
di breve durata, senza garanzie contrattuali e
diritto alla pensione, ma con la concreta possibilità di essere licenziati con breve preavviso e secondo la necessità del datore di lavoro,
che riflette i capricci del mercato globale73. Se
si ammette come fine ultimo del sistema economico globale il profitto con la conseguente
legittimazione dei suoi strumenti, assunti di
fatto dall’intero corpo sociale, come nei casi di
rischio ecologico, l’intuizione di Durkheim,
che invoca una valutazione dei mezzi condot71 Quella che Bauman chiama modernità liquida, Beck la
nomina modernità riflessiva poiché in questa ritrova degli
effetti collaterali che si producono come un automatismo
e si riflettono sulle strutture (concetti) e le trasformano,
cfr. U. Beck, La società del Rischio. Verso una seconda modernità, trad. di W. Privitera, C. Sandrelli, Roma, 2000, p. 17.
72 Cfr. Z. Bauman, La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, trad. di G. Arganese, Bologna,
2002, pp. 39 ss.
73 Se la teoria di Beck dovesse avvicinarsi alla verità, allora i recenti e popolari progetti di passaggio dal welfare
state al workfare state, non sono considerabili come misure intese a migliorare le sorti degli inoccupati, ma piuttosto «un esercizio statistico per cancellarli, attraverso
il semplice trucco delle riclassificazione, dal novero dei
problemi sociali e soprattutto etici», cfr. ibidem, p. 103.
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ta con la stessa dignità con cui si stabiliscono
i fini, sembra più che mai importante.
Particolare attenzione sembra dover esser
posta anche al principio che pretende di raggiungere una massima uguaglianza delle parti
nelle relazioni che investono i maggiori ambiti della vita sociale, il lavoro e il contratto.
Recenti studi hanno dimostrato che numerosi
problemi sociali e di salute sono più diffusi in
quelle società in cui c’è una distribuzione più
iniqua delle ricchezze che crea un divario sempre più incolmabile tra i ricchi e i poveri. «Le
società più ineguali soffrono di più per tutti i
problemi che tendono ad essere più frequenti se si scende nella scala sociale: più violenza, più detenuti, peggiore stato di salute, più
madri adolescenti, più persone con problemi
di droga»74. Sebbene si possa risolvere la questione adducendo la motivazione alle minori
risorse disponibili, gli effetti che ne derivano
possono raggiungere dimensioni allarmanti
che rischiano di portare l’intero sistema sociale al collasso. A livello individuale, vivere
in una società profondamente sperequata che,
paradossalmente, invita all’omologazione attraverso la coazione al consumo, fa aumentare la competizione, il disagio, l’insicurezza e
contribuisce al deterioramento della fiducia,
elemento primo della qualità delle relazioni.
Sembra non contare più la ricchezza complessiva di una nazione, piuttosto come questa è
distribuita. Affinché l’uguaglianza economica
sia maggiore è necessario, non soltanto che ci
sia una minore differenza nei guadagni75, ma
74 G. Camardo, Uguali o no? in “Focus” n. 214, Agosto
2010, p. 23. I fattori presi in esame vanno dalla speranza
di vita ai risultati scolastici. In media, i risultati peggiori
sono quelli delle società con maggiore disuguaglianza,
Usa in testa, e i migliori quelli delle nazioni dove c’è più
uguaglianza, come i Paesi scandinavi o il Giappone, sul
punto cfr. K. Pickett, R. Wilkinson, La misura dell’anima.
Perché le disuguaglianze rendono le società più infelici, trad.
di A. Olivieri, Milano, 2009.
75 Secondo I. Kawachi, professore di epidemiologia sociale alla Harvard School of Public Healt (Usa), «una delle
caratteristiche del Giappone è una egualitaria distribuzione
del reddito. Gli stipendi dei dirigenti sono molto più bassi
degli standard dei Paesi ricchi e c’è l’idea che grandi disparità rovinino l’unità degli impiegati in azienda». La Svezia ha
circa lo stesso livello di disuguaglianza della Gran Bretagna,
ma se si considerano le tasse e i trasferimenti di denaro allo
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
che anche la politica ridistributiva dello Stato, oltre ad applicare le tasse, operi in maniera
sostenibile per i più bisognosi e contribuisca
a ridurre la disuguaglianza nel reddito disponibile dei cittadini e ad incrementare le opportunità, vale a dire, «quanto più la posizione a
cui si può arrivare è indipendente dalle origini
sociali»76. Se, con i termini di Durkheim, ad
essere uguali dovrebbero essere le opportunità iniziali, appare sempre più necessario allora
che alcuni diritti siano costantemente garantiti e che gli organi rappresentativi, primari e
secondari77, si adoperino per assicurare a tutti
un livello di benessere che permetta un’esistenza dignitosa78.
In conclusione, nel rapporto tra morale e
profitto, l’ipotesi di un diritto sociale civile
retto dal bisogno di armonizzare le istanze
delle differenze sociali nell’interesse generale
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sembra essere l’unica via possibile per attuare
esigenze di equità ancora in attesa di riconoscimento e per garantire alla società gradi di
sostenibilità.
Daniela Teobaldelli è dottore di ricerca in Teorie
del diritto e della politica, Università degli Studi di
Macerata.
Stato, diventa uno dei paesi più egualitari. La Scandinavia è
l’area dove l’uguaglianza è maggiore. La politica redistributiva dello Stato offre sostegni, come sussidi per i giovani che
studiano, e prevede un’alta spesa sociale per offrire servizi,
sanità, asili e assistenza alle donne», cfr. ibidem, p. 26 ss.
76 Ibidem, p. 25 ss; sul reddito disponibile vedi anche
R. Lenti Targetti, Economia delle materie prime. Forme di
mercato e politiche di controllo, Milano 1979.
77 Durkheim considera di primo ordine gli organi che
sono direttamente parte dell’apparato statale, mentre
chiama organi secondari quelli riflessivi, che stabiliscono
quali interessi generali sono sostenuti direttamente dalla
società, cfr. E. Durkheim, Lezioni di sociologia, cit., p. 137.
78 Gli studiosi dei collassi delle civiltà prevedono che se
per altri quaranta anni i consumi procederanno senza
limiti, le possibilità di sostentamento che il pianeta offre saranno sempre meno disponibili. Se si realizzasse
poi la condizione per cui, gli abitanti del Terzo mondo,
che consumano un volume di risorse trentadue volte
inferiore a quello di un americano, raggiungessero il
livello di consumi che appartiene al mondo civilizzato,
le risorse del pianeta sarebbero già esaurite. L’idea che
l’umanità possa crescere senza limiti col modello attuale è priva di fondamento. Abbiamo ormai quasi raggiunto il nostro limite in termini di risorse utilizzabili
e dobbiamo agire al più presto per preservarle, il che
comporta un cambiamento nel nostro modo di vivere.
Trent’anni fa credevamo che il problema più grande
della nostra civiltà fosse la sovrappopolazione. Siamo
cresciuti da 1,5 miliardi a 6,5 miliardi in poco più di un
secolo e fra trent’anni si stima saremo 9 miliardi, ma
solo ora si comprende che il problema non è il numero di persone che popolano la terra, ma la quantità che
ognuna di queste consuma», cfr. P. Conti in “Focus” n.
217, Novembre 2010, pp. 143-144.
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Non è gentile accontentarsi delle parole.
Il dono del senso
Paolo Sommaggio
Abstract
Parole chiave
Questo scritto tratta alcuni aspetti caratteristici del
dono nella società giapponese. Nello scambio del dono,
l’oggetto conferito e gli agenti che vi partecipano si trasformano in simboli e la relazione che li lega può essere
avvicinata al linguaggio, al logos.
Dono; Scambio; Sacrificio; Linguaggio;
Logos; Struttura; Significante; Senso.
“Kotowa da wa warui”
(trad. it.: “Non è gentile accontentarsi delle
parole” antico detto giapponese che accompagna lo scambio di un dono1)
“Hoc habeo, quodcumque dedi” (antico detto
attribuito al poeta Rabirio, in Seneca, De beneficiis, 6, 5)
“Ecco perché si eleva un tempio alle Grazie
in un luogo dove sia bene in vista: è per insegnare a ricambiare i benefici ricevuti” (Aristotele, Etica nicomachea, 1133, a 3-5)
Sommario: 1. Esordio; 2. Metamorfosi dell’oggetto donato; 3. Metamorfosi dei soggetti donanti; 4. Metamorfosi del messaggio. Il rito;
5. Epilogo.
1. Esordio
S
embra che il termine dono derivi etimologicamente dal sanscrito: rah, ratih. L’espres-
1 Gran parte del materiale sulla cultura giapponese,
di cui mi sono servito per la formulazione di queste
riflessioni, proviene da J. Cobbi, L’obligation du cadeau au Japon, in C. Malamoud (a cura di), Lien de vie
noeud mortel. Les Représentations de la dette en Chine,
au Japon et dans le monde entier, Paris, 1988, pp.113165.
Non è gentile accontentarsi delle parole
sione significa cosa gradita, cosa piacevole2.
Ricevere un dono, però, non è sempre una
fortuna3, poiché implica il sorgere di una par2 Altri percorsi etimologici sono reperibili in E.
Benveniste, Don et échange dans le vocabulaire indo-européen, in «L’Année sociologique», 3, pp. 7-20; si veda,
naturalmente, anche Id., Le vocabulaire des insitutions indo-européennes, Paris, 1969, v. I, (trad.it.) Id., Il vocabolario
delle istituzioni europee, Torino, 1976.
3 Come è noto il nipote di Emile Durkheim, Marcel
Mauss, ha fornito la prima e più importante opera di
approfondimento sociologico ed etnografico relativa
al dono, che oggi può essere considerata un classico
per la sua originalità e completezza, indicando nella
simbolizzazione il suo fine non materiale. Come è altrettanto noto, egli sottolinea con particolare arguzia
l’ambiguità che pervade l’espressione «dono» nelle
lingue germaniche antiche: il termine gift , infatti,
indica tanto dono che veleno vedi M. Mauss, Essai sur
le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés
archaiques, in «Anné sociologique» (nouvelle série),
1, (1925), ora in Id., Sociologie et anthropologie, Presses
Universitaires de France, Paris, 1985, pp. 145-279
(nuova ed. Paris, 2007); (trad. it.), Teoria generale della
magia e altri saggi, Torino, 1991 (ed. or. 1965), nota p.
267. Dal 1982 in Francia la critica al sistema economico basato unicamente sul profitto, l’approfondimento degli studi sul dono e la riscoperta di Marcel
Mauss hanno dato origine al movimento anti-utilitarista (da cui l’acronimo MAUSS: Mouvement Anti
Utilitariste dans les Sciences Sociales), animatore
della rivista «La Revue du MAUSS». Recentemente
è apparso in questa stessa rivista un articolo molto
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ticolare sollecitazione, ovvero l’impegno a rendere. Potremmo pensare che questa reazione
costituisca semplicemente un gesto che genericamente definiamo educato, ma ad uno
sguardo più attento lo scambio di doni costituisce l’indizio di relazioni culturali e sociali
molto più profonde4. Tanto da costituire una
interessante ai fini delle nostre riflessioni: F. Fistetti,
Il paradigma ibrido del dono tra scienze sociali e filosofia. Alain Caillé e la “Revue du MAUSS”, (2010), on line
www.journaldumauss.net. Questo saggio rappresenta l’introduzione alla traduzione italiana di un recente testo di Alain Caillé: A. Caillé, Théorie anti-utilitariste de l’action, Paris, 2009, (trad.it) Critica dell’uomo
economico. Per una teoria anti-utilitarista dell’azione,
Genova, 2010. Alain Caillé è docente all’Università di
Parigi Nanterre ed autore, nel lontano 1992 con il collega canadese Jacques T. Godbout (professore emerito al National Institut of Scientific Research della
Università di Montreal), di uno dei testi più noti, Lo
spirito del dono, ove si tracciano le basi per una identità individuale e collettiva in una prospettiva critica rispetto alla impostazione utilitarista sulla base
della constatazione che oltre alla azione “interessata” esistono anche forme d’azione che hanno come
scopo il proprio riconoscimento come agenti e che
aprono un accesso al simbolico. J. T. Godbout, L’Esprit
du don,, Paris, 1992, (trad.it, A. Salsano), Lo spirito del
dono, Torino, 1993. Ricordo, per inciso, che la Rivista
del movimento si è chiamata «Bulletin du MAUSS»
dal 1982 al 1988, mutando poi denominazione in
«Revue du MAUSS» dal 1988 sino al 1993 (trimestrale). Da questa data la rivista è semestrale.
4 Possiamo trovare una conferma, certo indiretta, tra
matrici culturali del dono e matrici culturali della società, intesa come gruppo costituito da relazioni reciproche.
Appare degno di considerazione il fatto che l’espressione
communitas derivi dal termine munus che significa legge, ufficio, ma anche dono in un significato particolare
ovvero ciò che si dà per saldare un impegno precedente
rispetto alla dazione. Una sorta di obbligo che impone di
rinunciare in parte alla propria assolutezza, in funzione
del sorgere di una realtà che supera la (presunta) autarchia dell’individuo. Dunque non un contratto sociale, se
per contratto intendiamo una relazione sinallagmatica
a base volontaria dominata dall’interesse e dall’utile, ma
una sorta di munus, sociale potrebbe indicare più compiutamente la relazione di base della comunità, intesa
come entità ove il soggetto si manifesta. Considerazioni
analoghe si ritrovano in R. Esposito, Il dono della vita
tra «communitas» ed «immunitas», in M. Fimiani-V.G.
Kurotschka-E. Pulcini (a cura di), Umano post-umano.
Potere, sapere, etica nell’età globale,, Roma, 2004, pp. 63-77.
Del medesimo autore si vedano altresì Id., Communitas.
Origine e destino della comunità, Torino, 1988 e Id.,
Immunitas. Protezione e negazione della vita, Torino, 2002.
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vera e propria sorgente della comunità politica e giuridica alternativa, per molti aspetti, alla
nota metafora del “contratto sociale” (fondata
sull’individualismo e sulla volontarietà del sinallagma contrattuale) tanto cara agli autori
del Giusnaturalismo moderno.
In una delle sue opere forse più note, il Saggio sul dono5, Marcel Mauss indica con il termine paradigmatico di potlàc un analogo contesto
di prestazioni e controprestazioni che costituisce e cementa i legami sociali presso alcune
tribù del Nord-ovest americano6. La pratica del
potlàc (che significa essenzialmente nutrire o
consumare) si svolge in occasione di banchetti rituali ed assume i connotati di una vera e
propria “lotta per la ricchezza”7, nel corso della quale ogni capo tribù cerca di mostrarsi più
munifico degli altri gareggiando in generosità.
Nella relazione agonistica, che si instaura tra i
gruppi, si consuma l’abbondanza di beni in offerte e controfferte “al rialzo”. Questa cerimonia tuttavia si conclude, il più delle volte, con
la uccisione dei capi delle tribù, i quali pagano
sulla propria pelle la natura tanto rituale quanto sacrificale del potlàc. I beni offerti, il loro
scambio, ed il loro sacrificio, assumono valore
e senso nel momento dello scontro, della gara
che innesca una relazione di reciprocità potenzialmente infinita: una particolare forma
di relazione sociale, che preesiste rispetto al
singolo, si manifesta nel rapporto agonistico e,
indirettamente, ri-afferma il gruppo sociale.
Anche nella società contemporanea, dove
riteniamo che l’elemento individuale e volontario costituisca la base etica della azione
del dono, possiamo notare come dietro certi
gesti si celino invece schemi di azione che anticipano la soggettività, forse costituendola. Il
rapporto tra donante e ricevente, che solo in
5 Mauss, Saggio sul dono, cit.
6 Sul concetto di potlàc vedi ibidem, n. 3, p. 162 (edizione
italiana); vedi inoltre G. Meillassoux, voce «Potlach»,
Encyclopedia Universalis, Paris, 1980 t. 13, p. 424, ed inoltre U. Galimberti, Il corpo, Milano, 1989, pp. 247-251. Per
ulteriori approfondimenti sul concetto di “dare” come
rapporto di forza, rimando a J. Starobinski, A piene mani:
dono fastoso e dono perverso, Torino, 1995.
7 Questa espressione è stata coniata da H. Codere,
Fighting with Property; a Study of Kwakiutl Potlatching and
Warface, Seattle, 1950.
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apparenza si instaura ex novo, pre-esiste infatti tanto alla offerta quanto alla controfferta e
trascende entrambe, manifestando una relazione che appare molto simile ad una relazione sociale di tipo linguistico.
Per analizzare questa particolare forma di
reciprocità all’interno della nostra cultura,
utilizzeremo (come veri e propri strumenti
ermeneutici) alcune considerazioni relative
ad azioni sociali di dono in una cultura differente, quella giapponese. Quella società costituisce un terreno privilegiato di analisi poiché
ignora apertamente la volontarietà e la individualità nello scambio di doni. Il Giappone,
infatti, può essere considerato figura di quello
che la cultura occidentale definisce come luogo estraneo, il luogo Altro: dunque perché non
ricercare ciò che costituisce una delle matrici
celate della nostra società in un luogo ove certi
schemi si presentano con maggiore evidenza.
Non vi è, in quel contesto sociale, alcun mistero sul fatto che la fitta rete di relazioni di dono
e ricambio sia indisponbile al singolo8.
La brevità di questo intervento ci impone,
tuttavia, di tratteggiare solo alcuni elementi della cultura giapponese, senza alcuna pretesa di
esaustività o di particolare approfondimento.
Pertanto ci limiteremo ad analizzare come,
nello scambio del dono, l’oggetto conferito e
gli agenti (che vi partecipano) si trasformino
in senso simbolico e quale valore costituisca
questa particolare relazione che avvicineremo al linguaggio, al logos.
Infine questo scritto, se possibile, vuole rendere omaggio ad una popolazione così diversa
nelle forme quanto così simile nelle strutture
relazionali alla cultura del nostro paese. Un gesto che assume un particolare significato proprio oggi che quel paese è stato tristemente
colpito da catastrofi tanto grandi.
8 Un’interessante analisi della società giapponese che approfondisce l’ importanza dello scambio dei doni si trova
in: R. Benedict, The Chrysanthemum and the Sword: Patterns
of Japanese Culture, Boston, 1946, trad. it, Il crisantemo e la
spada, Bari, 1993; vedi inoltre B. Harumi, Gift-Giving in a
Modernizing Japan, sta in T. Sugiyama Lebra – W.P. Lebra,
Japanese Culture and Behavior, Hawai’i, 1987, pp. 158-170;
per una puntuale e profonda raffigurazione della cultura giapponese vedi: C. Nakane, Japanese Society, London,
1970, (trad. it.), La società giapponese, Milano, 1992.
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2. Metamorfosi dell’oggetto donato.
La trasfigurazione
Esaminiamo le unità base della relazione
che costituisce l’azione del dono in Giappone. Innanzitutto possiamo constatare che la
funzione comunicativa dello scambio è resa
possibile dal fatto che non è il contenuto del
dono ciò su cui si concentrano l’interesse del
donatore e del ricevente9. L’interesse maggiore
è concentrato invece sulla presentazione, sulla
composizione, sulla preparazione, sulla forma,
sulla manifestazione di quanto viene offerto.
La tradizione culturale giapponese prevede,
infatti, una serie di infinite combinazioni delle
forme esteriori in cui il dono può manifestarsi; sarà perciò la presenza e la disposizione di
quegli elementi a caratterizzare e a porre in essere l’azione di scambio. La confezione, infatti,
costituisce di gran lunga il tema più importante dell’omaggio, anche in termini di valore
economico: la scelta della carta, la sua qualità,
il suo colore e consistenza, la sua elaborazione
definiscono e caratterizzano il dono celando
l’oggetto, celebrandone una vera e propria sacralizzazione (allontanandolo dallo sguardo).
L’allontanamento metaforico generato dalla
confezione consente l’attivarsi di una vera e propria
trasmutazione: la realtà materiale, bruta, del manufatto muta in un significante che partecipa di una
sorta di linguaggio10. Il lemma-dono può così diventare, dunque, la rappresentazione di se stesso a
colui che viene omaggiato: la sua simbolizzazione.
Il dono, pertanto, se da un lato è caricato di
forza simbolica, dall’altro viene eroso nel contenuto. Questo processo di trasfigurazione (o
evaporazione) consente la sua metamorfosi.
L’oggetto consegnato, come tale, “muore” occultato e trasformato dall’imballaggio, per presentarsi (una nuova nascita) come puro significante,
come puro segno11. Una sorta di rito sacrificale.
9 A tale riguardo vedi il saggio di R. Barthes, L’ empire des
signes, Gèneve, 1970; (trad. it.), L’impero dei segni, Torino
1984, pp. 51-55; in particolare p. 54.
10 La prima formalizzazione del termine «significante»
è contenuta come noto in F. de Saussure, Cours de linguistique générale, Paris, 1922, (trad.it.), Corso di linguistica
generale, Roma-Bari, 1997, pp. 83-88.
11 Sulla nuova forma di valore dello scambio vedi G. Piana,
Baudrillard ed il partito preso dell’illusione, Postfazione alla
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
Solitamente, infatti, il rito del dono in Giappone
consiste nello scambio di piccoli oggetti di prezzo
modesto, presentati tuttavia con una cura ed un
apparato certamente non proporzionati rispetto
al valore economico di ciò che viene regalato.
La metamorfosi, resa possibile dall’involucro, costituisce un vero e proprio sacrificio
poiché allontana dallo sguardo (creando una
membrana dialettica che separa dentro e fuori) e confina ciò che viene donato in una ulteriorità spaziale e temporale12. Il contenuto,
infatti, è confinato in un altrove nascosto che
rende la superficie (che lo rappresenta) il vero
centro di attrazione. In altre parole, più ci si
avvicina al contenuto (ad esempio eliminando
gli involucri) più si procede (anche in termini
cronologici) nel sistema di rimandi e più si ha
l’impressione che gli stessi non rimandino a
null’altro che a loro stessi13. Come in un gioco
di specchi in cui l’immagine si perde in mille
frammenti di qualcosa che sfugge sempre allo
sguardo dell’osservatore. Ciò che emerge in
questo rimbalzarsi di significanti è la relazione che a queste modalità dà forma, dirigendole. Il rito del dono, dunque, sacrifica l’oggetto
per consentire una epifania: l’epifania di un logos, ovvero di quell’insieme di relazioni ad un
tempo razionali e linguistiche.
3. Metamorfosi dei soggetti.
Gli officianti
Tuttavia nel rito del dono non viene sacrificato solamente l’oggetto, ma anche l’assolutezza dei soggetti che vi partecipano14. Vediamo in quale modo.
edizione italiana di J. Baudrillard, Le crime parfait, Paris,
1995; (trad.it.), Il delitto perfetto, Milano, 1996, p. 159.
12 Il rapporto paradossale che esiste tra dono e tempo
è il tema centrale del saggio: J. Derrida, Doner le temps,
Paris, 1991, (trad. it.) Id., Donare il tempo. La moneta falsa,
Milano, 1996; vedi in modo particolare pp. 44 e ss.
13 Traggo spunto per queste suggestioni da J. Lacan, Fonction
et champ de la parole et du langage, sta in Id, Ecrits, Paris, 1966,
(trad. it.) Scritti, Torino, 1974; soprattutto pp. 230 e ss.
14 Gli elementi simbolici rilevanti nella relazione di
dono sono all’opera, altresì, nella cd. donazione degli
organi. Mi sia consentito, su questo tema, rimandare al
mio P. Sommaggio, Il dono preteso. Il problema del trapianto di organi: legislazione e principi, Padova, 2004.
Non è gentile accontentarsi delle parole
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La serie di rimandi simbolici, di cui si compone l’azione rituale del dono, si caratterizza
anche per una forma di obbligatorietà (di natura etica) che non lascia né il mittente né il destinatario completamente autonomi nell’atto
di offrire e di ricambiare ma indica un sentiero
“comunicativo” costituito di tracce già segnate.
Una sorta di contesto “deontologico” in cui la
scelta si impone come un dovere indisponibile
e tuttavia non soverchiante.
Un labirinto fatto di rappresentazioni
che tentano di rimandare a qualcosa d’altro,
ma che quanto più faticano a sfuggire a questo continuo rimbalzo, tanto più consentono
l’emergere di una forma di eticità: come se partecipassero di una struttura comportamentale
che sembra manifestarsi da sé, un linguaggio
non verbale con il quale i protagonisti cercano
di comunicare l’uno con l’altro.
Gli artifici attraverso cui il giapponese viene immerso in questa fitta rete di rapporti di
scambio sono molteplici. Il donante, innanzitutto, si propone in qualità di agente etico quando15, attraverso la cura tributata alla confezione
dell’oggetto, sacrifica quest’ultimo a favore della sua sublimazione in simbolo comunicativo,
rendendo indirettamente omaggio a ciò che
consente a questa pura forma di entrare in un
contesto, ovvero la struttura che abbiamo denominato deontologica16. In questo modo, inoltre,
egli relativizza l’assolutezza della sua individualità e della sua volontarietà: tanto più il dono è
ben confezionato, tanto meno esso dovrà risultare originale ed esclusivo, ma piuttosto frutto
di un’attenta ricerca e studio di quelle indicazioni non scritte (che pertanto assumono una nota
prescrittiva) che fanno parte di un certo «galateo
dell’omaggio». Impegni che si riflettono anche
sul ricevente, che a sua volta è obbligato a ricambiare attraverso modalità del tutto analoghe.
Tutto è pronto: la trasformazione di chi offre e la trasformazione di chi riceve. L’eventodono, nella sua ripetizione rituale, dispiega in
questo modo la sua intima funzione sacrale:
15 Sul rapporto tra esistenza e dono nella società occidentale in particolare nei rapporti tra soggetti durante la terza età,
vedi: E. Guidolin, G. Piccoli, L’imbarazzo della vecchiaia. Lettura
psicopedagogica della condizione anziana, Padova, 1991.
16 Cfr. Barthes, op. cit..
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
la metamorfosi-trasformazione degli agenti e
dell’agito in una relazione comunicativa17.
Il dono viene offerto: l’offerta provoca una
risposta necessaria che mantiene la comunicazione aperta, “obbligando” alla risposta18.
Il messaggio (e di messaggio è corretto parlare dato che si tratta di un contesto comunicativo anche se non viene espresso attraverso le
parole), si svolge su livelli differenti.
Il primo livello è materico in un senso ben
preciso: il semplice scambio, la traditio di un
bene qualsiasi per sé sola non permette alcuna trasfigurazione comunicativa. Solamente
se l’oggetto viene in qualche misura modificato, celato, sacrificato è possibile salire ad un
livello ulteriore. Questo primo piano, dunque,
esprime l’azione trasformativa sull’oggettodono che, come abbiamo visto, viene mutato
in puro significante.
Ma vi è di più; il fine determinante di questa
prima fase del rito è non solo quello di “distillare” l’oggetto, ma altresì quello di trasfigurare le
due parti della relazione per il fatto che (e nel
momento in cui) entrano in rapporto: si sacrificano anch’esse nell’evento-dono. O, meglio,
perdono la propria assolutezza ed originalità
(individualità e volontarietà).
Questa metamorfosi genera una modificazione del livello della relazione: consente
di raggiungere un ulteriore livello. Mentre
infatti il rapporto primitivo (quello per dire
che ha originato l’occasione del dono) è tra
due individui in carne ed ossa, il secondo costituisce entrambi come partecipi del contesto comunicativo comune che li rende ruoli
di una relazione più complessa, con la quale
entrambi si rapportano e che permette loro,
in quanto medium, di rapportarsi19. E questo
17 Cfr. M. Godelier, L’énigme du don, Paris, 1997, p. 21.
18 Il termine che indica l’obbligatorietà del dono, come
risposta alla benevolenza altrui nelle relazioni sociali
è indicato, nella lingua giapponese, dalla espressione
giri. Questo termine esprime il connettersi di legame
sociale, obbligo e scambio. Cfr. J. Cobbi, op. cit., p.116, ed
inoltre Id., Don et contre don. Une tradition à l’épreuve de
la modernité; sta in A. Berque (a cura di), Le Japon et son
double, Paris, 1987 pp. 159-168; vedi anche Id., Pratiques
et représentations sociales des japonais, Paris, 1983.
19 A differenza tanto dell’individualismo metodologico
quanto dell’olismo, il dono si pone veramente come me-
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legame ha le stesse sembianze di un discorso, di un logos.
La fonte di cui si serve questo linguaggio è
proprio l’evento-dono che, grazie al sacrificio/
rinascita di tutti i termini che ne fanno parte
(l’oggetto e i due soggetti), consente il rinnovarsi continuo, di persona in persona, di tempo in tempo, di generazione in generazione, di
una realtà che, pur essendo sempre differente,
rimane costante nel proprio mutare20.
Il dono, quindi, è come un rito che manifesta la presenza, in un certo contesto culturale,
di una realtà relazionale che ha perso la sua natura materica a favore di una natura simbolica,
non logorabile e, perciò, sempre sussistente.
L’importanza dell’individuo in questa attività
metamorfica è data dal sacrificio di una parte
della sua assolutezza (individualità e volontarietà) a favore di una vera e propria epifania.
L’epifania di una realtà, quella del logos, che
esiste prima e oltre a lui. Che, in altre parole,
non è a sua disposizione.
L’avere coscienza di questa forza permette,
forse, di vivere con serenità l’evento della caducità, l’evento del passaggio, della trasformazione. Di ogni trasformazione: anche da individuo a parte di una comunità.
Il costo di mantenimento di un simile contesto è molto alto: la negazione delle pretese
di assolutezza delle soggettività individuali
che partecipano al rito. Un buon esempio per
l’ethos della società contemporanea21.
Questa operazione di distillazione, che culmina nello scambio del dono, appare dunque
come una operazione altamente simbolica: un
rito sacrificale di passaggio, di trasformazione,
che permette di fare esperienza del logos e, con
dium anche in quanto paradigma che differisce da ambedue i precedenti approcci i quali considerano o l’individuo o il gruppo come concetti primitivi ed assoluti.
Su questo tema rimando ad A. Caillé, Il terzo paradigma:
antropologia filosofica del dono, Torino, 1998.
20 Sul rapporto tra dono e suicidio del donante vedi M.
Perniola, Scambio simbolico, iperrealismo, simulacro, in
«Aut Aut», (1979), n. 170-171, p. 70.
21 Si veda a tale riguardo, A. Salsano, Il dono: solidarietà
e interesse, in «Democrazia e Diritto», n. 2/3, (1994), pp.
516-525; R. Guidieri, Ulisse sena patria: etica ed alibi del dono,
Napoli, 1999; si veda altresì C. Champetier, Homo consumans: morte e rinascita del dono, Casalecchio (BO), 1999.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
esso, di un fenomeno molto importante: la nascita di quello che siamo soliti definire il senso.
4. Metamorfosi della relazione. Il rito
Come è noto, nella società occidentale la
modalità di estrinsecazione di rapporto simbolico tra due elementi è data da quello che possiamo definire un rimando analogico, ossia lo
“stare per”. Il simbolo è ciò che sta per qualcosa
d’altro. In ciò si manifesta tanto l’oggetto della
rappresentazione quanto un surplus, che può
essere indicato come un’immagine e quindi
un rimando diretto, oppure una forma di relazione indiretta in quanto situata in un medium
posto tra l’oggetto e la sua rappresentazione.
Questo medium è frutto di una sedimentazione di aspetti tanto culturali quanto storici, di
costume e di sensibilità: sempre e comunque
un ponte che collega due realtà22.
Il dono in Giappone non sfugge a questo tipo
di logica, o meglio, il rapporto tra il donante ed
il ricevente è sì rappresentato dallo scambio,
ma questo è solo la superficie. In realtà le cose
stanno in maniera diversa: la trasformazione
dei relati e dell’oggetto rimanda costantemente alla relazione (“stanno per” la relazione); eppure, a sua volta, il processo di simbolizzazione di questa relazione non trova alcuna realtà
simbolica ulteriore nella quale scaricarsi. Esso
subisce, pertanto, una involuzione nella quale
il punto d’arrivo è, paradossalmente, la struttura relazionale stessa.
Sembra perciò un vicolo cieco: la metamorfosi della struttura è costretta, per proseguire
questa ritualità, grazie alla quale metaforizzarsi, a ripiegare su se stessa divenendo così un
simbolo di sé, un simulacro23.
22 Per approfondire ulteriormente questo tema rimando a S. De Donatis, Antropologia filosofica del dono: uno
scambio “simbolico”, in «Dialeghestai», 7, (2005), on line
<http://mondodomani.org/dialeghestai>
23 La nozione di simulacro è elaborata nelle opere narrative di Pierre Klossowski, soprattutto in Les lois de
l’hospitalitè, (trad. it.), Milano, 1968. Nella discussione filosofica il problema del simulacro è stato introdotto da
G. Deleuze, in particolare attraverso i saggi: G. Deleuze,
Simulacro e filosofia antica, e Fantasma e letteratura moderna, contenuti nel saggio Logique du sens, Paris, 1969,
(trad.it.) Logica del senso, Milano, 1997; sul medesimo
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La natura di questo simulacro è data dal
fatto che esso sembra essere un segno che
non significa nulla o, meglio, che rimanda
solo a se stesso, ed ha nella sua forma anche e
soprattutto il suo contenuto.
E tuttavia possiamo notare che questo segno
ha una funzione ben precisa: far scomparire
la realtà materica dell’oggetto e mascherare
questa scomparsa. Ciò può apparire di difficile comprensione, ma se si esamina la dinamica di confezione e scambio dell’omaggio in
Giappone si può vedere come le cose vadano
effettivamente in questo modo. Ad esempio,
come abbiamo già notato, sussiste una forte
sproporzione tra la cura posta nella confezione
rispetto a quella tributata al contenuto: questa
è una caratteristica precipua del dono giapponese, come ci ricorda anche Roland Barthes24. È
la scatola, l’involucro il vero obiettivo del dono:
protegge ma nel contempo manifesta, rende
evidente e innesca quel meccanismo per cui «...
trovare l’oggetto che sta nel pacchetto, ovvero il
significato che sta nel segno, significa gettarlo
via»25. Trovare il significato nel segno, dunque,
significa liberarsi del segno, ovvero della carta.
La confezione, pertanto, oltre che rendere
manifesta una struttura comunicativa, crea la
sublimazione necessaria al contatto: l’evaporarsi del contenuto nella sua manifestazione.
Nell’atto stesso di creare e scambiare un dono,
quindi, è il dono che si crea e, contemporaneamente, si rende palese. Ciò che fa del dono un
apparente simulacro, dunque, è il fatto che nel
suo esprimersi esso si occulta e che, quindi,
nel suo venire ad esistenza si distrugge.
Però, osservando meglio, qualche considerazione ulteriore può essere svolta. Non si
tratta di un simulacro, ma di un vero e proprio
simbolo: come un linguaggio nel quale ogni
parola, per dare significato al suo articolarsi in
frasi, deve smorzare il proprio suono nel senso
tema vedi anche J. Baudrillard, L’échange symboliqùe
et la mort, Paris 1976, (trad. it.) Lo scambio simbolico e la
morte, Milano, 1992; e M. Perniola, La società dei simulacri,
Bologna, 1980; per un approfondimento del concetto di
simulacro nella riflessione filosofica italiana si veda anche G. Cantarano, Immagini del nulla. La filosofia italiana
contemporanea, Milano, 1998.
24 R. Barthes, L’impero dei segni, cit., p. 54.
25 Ivi, p. 55.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
generale del discorso, così il dono si esprime
proprio nel momento in cui si occulta.
La carta del regalo, quindi, oltre che nascondere alla vista, propone la caratteristica fondamentale dell’omaggio: dissolve ciò che contiene nella pura forma di sé come le parole, i logoi.
Possiamo azzardare che gli spiriti maligni,
da cui la carta tradizionalmente protegge,
rappresentino proprio tutto ciò che il giapponese, a sua insaputa, vuole tenere lontano
dal rito che si compie: trasformare un oggetto
della realtà in un simbolo di qualcosa che non
ha forma e non ha dimensione. La carta, pertanto, non contiene ciò che nella sensibilità
occidentale chiameremmo un contenuto. Per
il giapponese la carta è essa stessa una sorta di
forma-contenuto.
Ricapitoliamo brevemente: per poter sublimare un rapporto in pura forma di sé, e quindi in un apparente simulacro, le operazioni da
compiere sono relativamente semplici: 1) autoeliminazione del donante e del donatario attraverso il loro ingresso nella struttura che dà
loro senso nell’evento-dono; 2) distruzione rituale dell’oggetto nella purezza del suo segno:
l’occultamento che lo manifesta in termini
nuovi e simbolici. Ma non è finita qui.
5. Epilogo. Cercando la grazia
Sicuramente il lettore più avveduto o smaliziato si sarà accorto che il vero tema del nostro discorso non è il Giappone né tantomeno
il dono. O, meglio, il Giappone ed il dono rappresentano i fondali, i frames, le condizioni di
pensabilità che permettono una chiarificazione del problema della donazione di senso26. Le
riflessioni svolte su questo modo così diverso
dal nostro di avvertire e vivere un fenomeno
come il dono e l’azione del donare possono
rappresentare il clima migliore, il contesto più
utile nel quale poter riflettere su di un argomento spinoso quale il senso di un discorso, di
ogni discorso. Il Giappone, quindi, è in grado
26 Il dono ed il senso si legano alla nota distinzione
tra significante e significato, di serie e di struttura. Si
vedano in proprosito, Deleuze, Logica del senso, cit. in
modo particolare le pp. 41 e ss., e p. 50 ed il più recente
G. Panizza, Il dono: inizitore di senso, di relazioni e di polis,
Soveria Mannelli (CZ), 2003.
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di sostenere il ruolo del massimamente diverso che, nel gioco di fascinazione esotica, lancia
il nostro discorso così lontano da agevolare il
formarsi di un’immagine macroscopica anche
sul problema del senso nel linguaggio ordinario. Il Giappone ed il dono sono, pertanto, dei
pre-testi che servono da esempio del controverso rapporto tra significante e senso.
La distanza che ci separa da una cultura così
diversa permette quindi di analizzare più agevolmente ciò che avviene in forma meno appariscente anche in quei meccanismi che noi
stessi poniamo in essere ogni giorno, con tanta naturalezza da dimenticare la loro esistenza. E infatti, come ci assicura Jacques Lacan,
sono proprio le cose poste di fronte ai nostri
occhi quelle più nascoste27.
Alcune considerazioni, reperibili in Logica
del senso di Gilles Deleuze, concludono la nostra ricerca proprio con un ritorno a Marcel
Mauss, dalle cui parole siamo partiti. Il filosofo francese ricorda, infatti, che nella Introduzione28 alla Teoria generale della magia di
Mauss, Lévi-Strauss indica con questa felice
formula il concetto di struttura: «date due
serie, significante e significata vi è un eccesso naturale della serie significante, un difetto naturale della serie significata»29; questo
valore sarebbe «vuoto di senso e perciò suscettibile di ricevere un senso qualunque, la
cui unica funzione consiste nel colmare uno
scarto tra il significante ed il significato». Ciò
che gli strutturalisti chiamano struttura sarebbe perciò lo scarto che possiamo intravvedere
tra due serie di cui la prima, quella dei significanti, appare come predominante.
Le analogie che possiamo scorgere, ponendo a confronto queste proposizioni con
le riflessioni sinora svolte a proposito del valore rituale e simbolico del dono nella realtà
27 J. Lacan, Le Séminaire sur «La lettre volée» in Id., Ecrits,
Paris, 1966; (trad. it.), Scritti, Torino, 1995, vol. I, pp.7-58.
In quest’opera, come è noto, Lacan rilegge con straordinaria maestria la catena significante che attraversa il
celebre racconto di E.A. Poe, La lettera rubata così come
tradotto da C. Baudelaire.
28 C. Levi-Strauss, Introduzione all’opera di Mauss Teoria
generale della magia, cit., introduzione presente nella
edizione italiana.
29 Deleuze, cit., p. 51.
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giapponese, sono assai significative. Che cosa
impedisce di riconoscere nel dono, come declinato nella realtà giapponese, le caratteristiche che Lévi-Strauss indica come proprie di
questo eccesso di significante, la cui funzione
è così essenziale all’esistenza di una struttura,
sia essa culturale o sociale?
Poco sopra abbiamo indicato che il dono
trasforma l’oggetto donato, di poco o nessun
valore economico, in simbolo che sembra divenire simulacro poiché non rimanda ad alcuna
altra realtà (anche se abbiamo notato che una
realtà relazionale emerge comunque). Perché
a questo punto non spingerci ancora più in là
con l’immaginazione e provare a pensare che
la società giapponese sia dotata di un referente
di quel valore vuoto, ovvero l’eccesso di significante studiato da Lévi-Strauss?
E se fosse proprio il dono, o meglio l’azione
del donare, che permette di colmare lo scarto
tra la serie dei significanti e quella dei significati? Facendo emergere una struttura relazionale comunicativa?
Vediamo, brevemente, quali possono essere
le assonanze che avvicinano le condizioni minime di esistenza di una struttura a quel logos
che abbiamo cercato di evidenziare a proposito del dono in Giappone30.
Secondo Deleuze, per poter individuare una
struttura, occorrono almeno due serie eterogenee, di cui una sarà determinata come «significante» e l’altra come «significata»; inoltre, ciascuna di queste serie deve essere costituita da
termini che esistono solamente per i rapporti
che hanno gli uni con gli altri. A questi rapporti corrispondono eventi molto particolari, cioè
singolarità31. Ultima caratteristica saliente è il
fatto che le due serie eterogenee devono convergere verso un elemento paradossale che non
deve appartenere a nessuna serie, o piuttosto
appartenere ad entrambe ad un tempo. Detto
elemento deve svolgere il ruolo di «casella vuota», che appare per una serie come un difetto
(quella del significato) e per l’altra come un eccesso (quella del significante) e che ha la funzione di articolare le due serie l’una con l’altra, di
farle comunicare, coesistere e ramificare.
30 Così come sottolineate da Deleuze, cit., pp. 51-52.
31 Deleuze, cit., p. 52.
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Se vediamo la serie dei significanti (che,
ricordiamolo, deve essere in eccesso) come
gli involucri del dono, e la serie dei significati
come il contenuto del dono, ecco che il quadro
che tentiamo di abbozzare acquista maggiore completezza: le singolarità hanno la loro
corrispondenza nelle occasioni di offerta che
esistono per l’appunto solamente nel momento in cui avviene il rito del dono. L’elemento
paradossale, poi, è proprio il dono in quanto
evento: chi potrebbe negare che il dono viva di
un’esistenza paradossale in una realtà economica come quella del mondo contemporaneo.
Infine, l’azione di offrire e ricevere collega l’oggetto contenuto con l’imballaggio e ramifica ed articola le due serie che li formano.
Dunque la struttura del dono può, con buoni
argomenti, essere considerata analoga al linguaggio, al logos.
A questo punto l’espressione usata da Deleuze «donare senso», che appare come lontana ed esoterica, potrebbe rappresentare,
in un altro registro, l’espressione che funge
da titolo a questo lavoro, e che accompagna
tradizionalmente lo scambio dei doni in
Giappone: «non è gentile accontentarsi delle
parole». È un’esortazione ad andare oltre le
parole: testimonia la necessità di una azione,
di un gesto etico che in qualche misura trasformi i significanti (gli involucri, e le parole)
attraverso un rito sacrificale in grado di manifestare, come in una epifania, tutta la loro
potenza. Per far sì che questo accada è necessario dunque donare, donare senso.
Il senso può emergere attraverso uno schema rituale dove ciascun officiante sacrifica
una parte della propria assolutezza e dove i rimandi dei significanti si rimbalzano apparentemente senza direzione. E tuttavia una direzione esiste: grazie a questo evento, ciò che è
celato viene a galla attraverso l’eticità di coloro
che partecipano alla struttura deontologica del
logos. Il senso celato dalle parole-involucro è,
dunque, quell’elemento che non si può consegnare direttamente, ma che si manifesta in
seguito ad un sacrificio, che esige la trasformazione degli officianti e dell’oggetto immolato
nel momento dello scambio: il rito trasforma
ciò che è imprigionato nelle parole e permette
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l’epifania più importante, la grazia del senso.
Proprio come in un dono.
L’unica differenza con il logos parlato o
scritto è che in Giappone questo rito è compiuto anche nel gesto cortese di chi offre e ricambia un omaggio.
Perché non è gentile accontentarsi delle
sole parole.
Paolo Sommaggio è professore associato confermato
nell’Università degli studi di Trento dove insegna
Filosofia del diritto, Metodologia della scienza giuridica e Deontologia e retorica forense. Avvocato e docente in diverse Scuole Forensi e di Specializzazione
alle professioni legali, è autore di numerose pubblicazioni di argomento giuridico e bioetico
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La crisi della democrazia tra rappresentazioni
ed economia biopolitica.
Note per una discussione critica
Romano Martini
Abstract
Parole chiave
L’odierno primato nomico dell’economia nell’ordinazione della vita sociale appare mettere in questione il concetto stesso di democrazia, soprattutto in relazione alle sue
dicotomie strutturali –sovranità-diritti, pubblico-privato, ecc.-. Oltre ai propri limiti, la democrazia rappresentativa esibisce tuttavia anche un’intrinseca dinamicità,
come l’attuale predominanza della forma-governance
sembrerebbe indicare (ma non senza problemi).
Democrazia; Rappresentazione;
Economia; Segreto; Pubblico/Privato;
Eccezione; Conflitti;
Governamentalità/Governance.
1 -Rappresentazione, comunicazione
e segreto nella sovranità democratica
E
venti, singolarità e forme di ordinamentazione: estremi da dover congiungere. Il
congiungere diviene, più che essere, compito del
diritto. È qualità precipua di una logica prassica giuridica ambire a tenere unite, insieme,
le singolarità che eventi (sempre inaspettati)
esprimono, con le formalità astrattamente
generali formulate attraverso leggi codificate.
Diversi anni di riflessione sopra la contemporanea dimensione globale, segnalano diffusamente di una primazia delle prerogative
di ordinamentazione/organizzazione sociale
transitate dal politico-giuridico all’economico
nella sua versione capitalistico-neoliberista1.
1 Senza ulteriormente questionare la tesi di fondo proposta dall’autore, ci limitiamo, in questa sede, a convenire sulla seguente diagnosi: «Anche gli scopi “economici” sono scopi che esigono scelte politiche e posizioni
di norme: si dicono “economici”, e rifiutano altri aggettivi, soltanto per presentarsi sotto schermo di naturalità e neutralità. Un che di incontrovertibile, dinnanzi
a cui le lotte della politica dovrebbero tacere», N. Irti,
Nichilismo giuridico, Roma-Bari, 2004. Per una breve ma
efficace analisi ricognitiva della questione del «primato
Sono le stesse categorie fondanti della modernità giuridica –statualità, democrazia rappresentativa, supremazia della legge, ecc.-, a presentarsi oggi sotto forma critica di fronte alle
funzionalità imposte dalle ragioni dell’economia. Le formulazioni normative del giuridico
appaiono essere un mero effetto –o, per meglio
dire, una mera effettività- della causalità prescrittiva delle ragioni dell’economia egemone.
Non limitandosi a un astratto postulare
normativistico -o, se si preferisce, aprioristicamente deontologico-, diviene compito giuridico attingere a un contenuto sociale, a una
“materia vivente”, onde ottenere non soltanto
un “legalistico” consenso (politico-economico), vale a dire non limitandosi a un’adesione
appiattita su di un volontarismo sgorgante
da leggi sociali ritenute “eterne”, “naturali”,
benché effettivamente e storicamente determinate. Diversamente e superando l’adesione moralistica a presunte leggi neutrali/
naturali, un agire giuridico e politico dovrebbe mostrarsi di essere capace di operare una
composizione di interessi molteplici che manomico» dell’economia, si veda inoltre V. Olgiati, Il mercato legislatore e il declino dei fondamenti sacrali della laicità
dello Stato, in “Novum Jus”, III (2009), n. 2, pp. 189-212.
La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica
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terialmente connotano il sociale (economia,
diritto e politica). Il problema della congiunzione diviene allora la questione della composizione
pratico-materiale di bisogni, interessi e ragioni.
Il tradizionale modello sillogistico che univa
rigidamente su di un piano strutturalmente
astratto la dimensione del pubblico con quella del privato -vale a dire il modello dello Stato
democratico di diritto- sembra oggi scontare inadeguatezze, imbattendosi in un limite
(forse) intrinseco.
La relazione tra governanti e governati implica inevitabilmente una relazione comunicativa. Ma cosa accade se la dimensione pubblica
deve preservarsi con il segreto, per non corrompersi o, meglio, per poter riprodursi? Come
può esistere un alcunché di pubblico se non c’è
comunicazione di ciò che per diritto avanza la
pretesa di essere il Pubblico? E cosa ci sarebbe
di privato se non ci fosse qualcosa che per proprio statuto ontologico non deve o non vuole
essere comunicato in pubblico? E se il canale
comunicativo tra pubblico e privato istituisce
una relazione che si separa e autonomizza, ipostatizzandosi come apparato nella sua separatezza, sopra una dicotomia (pubblico-privato)
che appare in tal modo divenire surrettizia?
Oscuro ma lucido profeta della Società dello
spettacolo, Guy Debord avvisava:
La nostra società è costruita sul segreto, dalle “società schermo” che mettono al riparo da qualsiasi
luce i beni concentrati dei possidenti, fino al “segreto difesa” che copre oggi un immenso territorio di piena libertà extragiudiziale dello Stato2.
2 G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo,
in Id., La società dello spettacolo, trad. di P. Salvadori e F.
Vassari, Milano, 2004, p. 223. Nei Commentari, scritti a
distanza di un decennio dall’uscita della Società dello
spettacolo nel 1967, Debord (preconizzando di fatto l’implosione dei “socialismi reali” e la caduta di un “ordine
mondiale” sorrettosi sulla contrapposizione dei due
“blocchi”) introduce la fondamentale categoria dello
«spettacolo integrato». Quest’ultima descrive una nuova forma spettacolare che, imponendosi su scala mondiale, integra i due modelli di spettacolo precedentemente
descritti (denunciandone, in tal modo, l’intimo e segreto
rapporto): lo spettacolo concentrato –tipico degli Stati totalitari e autoritari- e lo spettacolo diffuso – caratteristico
degli USA e delle democrazie occidentali-. La società che
raggiunge lo stadio dello spettacolo integrato si contraddistingue per «il continuo rinnovamento tecnologico;
issn 2035-584x
Tra formazione ed informazione, il gioco
della comunicazione va oltre le possibili rigide categorizzazioni tra pubblico e privato. In un
mondo separato e organizzato in rappresentazioni attraverso i media, nel quale si compenetrano forme/poteri dello Stato e dell’economia
capitalistica, è quest’ultima ad assumere uno
statuto sovrano al di sopra di un «rapporto
sociale fra individui, mediato attraverso le
immagini.»3 È quindi in questa forma di separazione che, secondo le tesi di Debord, può
agire e autolegittimarsi l’odierno primato
nomico-sociale dell’economico-politico, in una
dimensione di segretezza, coprendo – o meglio
rovesciando e mistificando- le proprie scelte
irresponsabili (ossia, sostanzialmente a-nomiche). L’egemonia –la forza ed il consenso sociali- deontologico-normativa dell’economico
trova oggi una propria ragione sufficiente nella forza degli interessi particolari che promuove e nel consenso sociale che per essi ottiene,
soprattutto attraverso i sistemi di formazione
ed informazione sociali/individuali che amministra attraverso la comunicazione organizzata
con i media. È il funzionamento/funzionalismo di un apparato capace di rappresentare la
socialità stessa –ovvero, di alienarla ed espropriarla in una forma reificata di separazione-,
che si manifesta in tutta la propria luminosità
accecante. In un contesto non più concentrato
e concentrabile entro un’esclusiva dimensione statual-nazionale, qual è quello dei sistemi
di comunicazione contemporanei, deve tuttavia rilevarsi l’incapacità di adeguamento delle modalità operative del giuridico –modalità
che traducono tradizionali “logiche rigide”-, il
quale inevitabilmente finisce con l’assumere
un ruolo subordinato e dedicato alle istanze
dell’economico capitalistico. E una sorte non
migliore tocca al politico. Se la forza e il consenso, il conseguimento dei quali dovrebbe
essere uno specifico compito pratico assegnato all’esercizio politico applicato ad istituziola fusione economico-statale; il segreto generalizzato; il
falso indiscutibile; un eterno presente.» (ibidem, p. 196).
Oltre questi brevi cenni, in questa sede non è possibile
esaminare con maggiore accuratezza le tesi e le implicazioni logico-giuridiche dei testi di Debord.
3 Ibidem, p. 54.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
ni come la scuola, la famiglia o la religione,
ecc., ovvero ai media sociali in senso lato, sono
sussunti nella specifica logica rappresentativa
dell’economia capitalistica, ben poco margine
operativo resta alla “autonomia della politica”.
La critica delle forme di rappresentazione -nonché della rappresentanza democratico-parlamentare- del potere, dice allora di un rapporto
con una dimensione di segretezza che il medesimo potere intrattiene intimamente con le
individualità della società che dovrebbe governare e che pubblicamente istituisce e rivendica come propria specifica prerogativa, in qualità di rappresentante di “un’ultima istanza”. Se
l’economico è divenuta la forma rappresentativa
che più di altri oggi esprime le istanze prime
ed ultime del potere, vale forse allora la pena
di inquadrare l’intera questione come problema dell’iconomia (avviando una riflessione in
tal senso sopra il manifestarsi di una effettiva
«dominanza organizzativa»4), ossia di un potere normativo dell’immagine e del simbolico
che, con la rivoluzione post-industriale (vale a
dire con l’affermarsi della cd. knowledge economy/society, soprattutto mediante l’acquisita
egemonia della produzione info-telematica e
di quella trans-genica)5, diviene uno dei fondamentali perni su cui ruota le possibilità di
organizzazione delle società globali.
In questo quadro generale appena approssimato, l’istituto del segreto di Stato rappresenta
soltanto la classica “punta dell’iceberg”. In effetti, la necessità proclamata del segreto di Stato,
non rinvia forse a quella segretezza che sembra
fornire la sintassi di una determinata logica che
soggiace alla costituzione ed istituzione della
stessa forma-Stato, di quella stessa Ratio Status?
Nel contesto moderno il segreto di Stato si
è progressivamente mostrato essere una componente irrinunciabile, quando non necessaria, per lo svolgimento dell’attività politica e
amministrativa6. Ciononostante, all’origine
del pensiero costituzionalista liberaldemocra4 Cfr. V. Olgiati, op cit., pp. 203-208.
5 A riguardo cfr. A. Zanini, U. Fadini (a cura di),
Lessico postfordista. Dizionario di idee della mutazione,
Milano, 2001.
6 Si veda ad es. U. Rossi-Merighi, Segreto di Stato. Tra politica e amministrazione, Napoli, 1994.
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tico, nato per imporre limiti al potere sovrano
assoluto, sussisteva un reale conflitto tra le necessità proprie alla conservazione dello Stato
e le prerogative da riconoscere alle libertà e ai
diritti degli individui che costituivano il corpo
sociale dello Stato medesimo. La necessità di limitare e controllare l’esercizio dei poteri e delle competenze attribuite alle diverse autorità
statuali, onde evitare abusi e ingerenze nella
vita privata, impone criteri di trasparenza e
pubblicità agli atti e alle attività di governo. Gli
individui devono poter veder protetti e garantiti i propri diritti e interessi, perciò rinunciano
a specifici poteri, delegandoli a un’autorità che
da un lato li rappresenti e dall’altro li tuteli. Il
rapporto che in tal modo si instaura e si istituisce tra individui e autorità, chiama in causa
un do ut des7 come forma di un’obbligazione
politico-giuridica, di un contratto per cui autorità diviene sinonimo di garanzia di sicurezza, per le libertà e per i diritti degli individui che
agiscono nelle società. Formalmente, l’autorità
dello Stato non deve abusare dei poteri conferitigli attuando un eccessivo controllo della
sfera privata, poiché in tal modo tradirebbe
il patto per cui è stata istituita e legittimata.
Così, parimenti, devono essere gli individui
della società a mantenere il massimo controllo sui poteri pubblici, ma ciò diviene appunto
possibile solo con un massimo di pubblicità e
trasparenza degli stessi. Questa sarebbe la logica che istituisce, sostiene, limita e controlla
un potere pubblico, autorizzato ad essere tale in
quanto rappresentanza e rappresentazione della
sovranità di individui ri-uniti in un popolo. È,
detto altrimenti, la logica che sta alla base della
moderna nozione di democrazia come “sovranità che appartiene al popolo”8. È la medesima
7 Ma, va detto, è un rapporto che si instaura tra ciò che
esiste e un alcunché che non esiste prima di un contratto sociale: dov’è il sovrano eminente che, controparte,
“scambia” sicurezza con libertà prima della delega conferitagli? In altri termini, il do ut des esiste in quanto
forma regolativa solo come un “possibile”, ovvero come
finzione normativa –al pari della “società naturale”- ritenuta essere necessaria per organizzare/ordinamentare
una “società civile”.
8 Per un quadro sinottico sulla questione si cfr. N.
Bobbio, Teoria generale della politica, Torino, 1999, pp.
323-69 (ma si veda in particolare pp. 352-69, dove l’auto-
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logica che assicura allo Stato il monopolio della forza/violenza legittima per portare a compimento la promessa, nella massima trasparenza e pubblicità, di riduzione della violenza
e dei conflitti che attraversano le società. Il potere dello Stato sarebbe con ciò una sorta di duplicazione –rappresentazione- delle potenzialità
sociali (potestas vs. potentia), necessaria a realizzare le premesse di libertà ed eguaglianza
degli individui, quali soggetti di diritto agenti
in un regime di democrazia che persegue –rappresenta- il fine della giustizia.
In riferimento alla problematica del segreto
di Stato, la contrapposizione autorità-libertà assume profili e gradazioni mutevoli a seconda
del contesto storico di riferimento. Ciò detto, il
principio della pubblicità degli affari e degli atti
dello Stato, quale pilastro delle costituzioni liberal-democratiche moderne, deporrebbe senza
meno a sfavore della necessità di un potere segreto legalmente (e più o meno legittimamente) detenuto dalle autorità, in un ordinamento
che, appunto, si vuole e si dice democratico.
Tuttavia, abbandonata un’originaria ed irenica
immagine idealizzata di libertà e giustizia per
gli individui da contrapporre agli abusi di regimi con poteri assolutistici, il segreto di Stato
finisce con il divenire un istituto irrinunciabile delle democrazie rappresentative: è in nome
della conservazione dell’ordine/ordinamento
democratico che una prassi governamentale9
ricorre con una certa frequenza all’istituto del
segreto di Stato. Il segreto di Stato rinvia allora
a questioni non risolte e non facilmente risolvibili nella mera suggestione degli “arcana imperii” di tacitiana memoria.
Il diritto, in quanto relazione sociale, non può
essere ridotto alla pura e semplice dimensione
autoritativa, la quale pone in gioco una produzione di norme attraverso decisioni pertinenti
alla politica, ovvero ai soggetti deputati a legiferare, a produrre leggi come strumento di pore tratta di “Democrazia e segreto”).
9 Il concetto di governamentalità è sviluppato soprattutto da M. Foucault durante le lezioni tenute sul finire degli anni Settanta del Novecento al Collège de France (in
particolare si veda M. Foucault, Nascita della biopolitica.
Corso al Collège de France 1978-1979, trad. di M. Bertani e V.
Zini, Milano, 2005).
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tere o difesa di interessi e privilegi particolari.
Parimenti, il diritto non può appiattirsi sulla
formale nozione di isolati individui “liberi” ed
“uguali”, che tra loro intrattengono rapporti di
mero scambio mercantile, richiedendo forme
di minima regolazione in vista della gestione
e della tutela dei propri interessi particolari.
Ciò che emerge in simili concezioni e pratiche
del giuridico, compresso verso il politico da
un lato e subordinato alle facoltà prescrittive
dell’agire economico sic et simpliciter dall’altro
lato, è un diritto dedicato e incapace di generarsi e svilupparsi come pratica e concreta esperienza di un comune vivere sociale.
Nella tradizione dominante del pensiero
moderno, vi è stata la tendenza a risolvere in
forme di rappresentazione della sovranità la discrasia tra politica, economia e diritto che via
via veniva a presentarsi nel corso storico10. Tali
forme di rappresentazione sono tuttavia risultate efficaci, in modo quasi esclusivo, sul piano
della produzione di un campo di sapere e di un
ordine di discorso sulla democrazia. Volgendo
lo sguardo al divenire storico dell’Occidente,
infatti, si assiste a un progressivo disciplinamento del discorso stesso sulla democrazia che,
a sua volta, ha sorretto la produzione e riproduzione di un ordine simbolico e di un immaginario i quali, in un modo specifico e del tutto
differente rispetto l’antichità, sono risultati assai efficaci nell’incidere fino al livello antropologico sociale e individuale. L’oikonomía, come
produzione di regole confinata entro le mura
della casa-dimora e dedicata alla riproduzione
della vita privata, era nel mondo classico esplicitamente tenuta separata dalla vita della polis,
che riguardava piuttosto la sfera pubblica nella quale agivano i liberi cittadini, discutendo e
producendo quelle norme poste a regolazione
della vita, appunto, pubblica/politica11. La cru10 Cfr. sul tema C. B. Menghi, Rappresentazioni della sovranità, Torino, 2003 e Id., Logica del diritto sociale, Torino,
2006. Si veda anche A. Zanini, Filosofia economica.
Fondamenti economici e categorie politiche, Torino, 2005.
11 Cfr. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, trad.
di S. Finzi, Milano, 1988. Ma rinviamo soprattutto alla
ricerca avviata da Giorgio Agamben a riguardo della «teologia economica», un concetto inesplorato che però si
impone, nella contemporaneità, come preminente e
in progressiva sostituzione della tradizionale “teologia
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
ciale distinzione tra sfera privata e sfera pubblica, che tanto peso avrà nella storia del pensiero
e delle pratiche giuspolitiche dell’Occidente,
troverebbe così una parziale genealogia nel
paradigma democratico dell’antichità. Tuttavia,
come accennato, lo stesso concetto di democrazia subirà numerose mutazioni nel corso
dei secoli seguenti. Quanto più appare nella
sfera pubblica la dimensione sociale (categoria
di per sé irriducibile al privato o al pubblico),
tanto più la rigida dicotomia tra pubblico e privato assumerà contorni problematici, incidendo così significativamente nelle possibilità di
costituzione o di costituzionalità di una democrazia -ossia nella sua teoria e nella sua prassi-.
È di fatto una rappresentazione risultata egemone quella che ha finito con il coniugare, apparentemente senza soluzione di continuità,
homo oeconomicus e homo democraticus, risolvendo il concetto stesso di democrazia -giuridica e/o politica- nella teoria e nelle tecniche di
governo liberali ovvero, in definitiva, nel costituzionalismo liberal-democratico12.
Assunto nel suo senso moderno, il termine
democrazia non indica solamente una specifica teoria, bensì anche una pratica; non rinvia
solo a una forma costituzionale, ma anche a
un’istituzione e a una prassi di governo concrete. Questa doppia valenza di significato del
termine democrazia ha potuto ben attecchire
nelle dottrine sovraniste (o se si preferisce nella
schmittiana tradizione “teologico-politica”).
Le teorie moderne della sovranità pongono una distinzione tra titolarità ed esercizio
del potere sovrano. In breve, in quanto forma
di governo, la democrazia sarebbe un regime
prodotto, conservato e riprodotto come specifica articolazione di una forma di dominio e
potere. Ma, al contempo, la democrazia è anche
stata istanza di liberazione da poteri, a vari gradi
e livelli oppressivi, e di progressione e/o progettazione verso una sempre maggiore libertà
ed eguaglianza sociali e politiche. Questa doppolitica”, di ascendenza schmittiana. Per un quadro sinottico di questi argomenti, si veda G. Sacco, Intervista a
Giorgio Agamben: dalla teologia politica alla teologia economica, in “Rivista della Scuola superiore dell’economia e
delle finanze”, I, (2004), n. 4, , pp. 10-17.
12 Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit.
issn 2035-584x
pia possibile declinazione della democrazia in
quanto concetto e della democrazia reale in quanto
pratica, ne restituisce una dimensione dinamica
suscettibile di variazioni, anche molto importanti, e niente affatto priva di aspetti ambigui
e paradossali (come ad es. l’idea molto atlantica
di “esportazione della democrazia”)13.
In periodi di relativa normalità, esercizio di
dominio e istanza di liberazione/progressione
appaiono integrarsi (come ad es. nel secondo
dopoguerra del Novecento –i “gloriosi anni” del
compromesso fordista-keynesista-). Al contrario,
in periodi di crisi, in periodi di stato d’eccezione14, le due opposte tendenze che connotano la
democrazia si manifestano in aperto conflitto
tra loro. In quest’ultimo caso, i termini che dovrebbero formalmente descrivere un circolo virtuoso -autorità e libertà, diritti e sicurezza, società e
Stato, ecc.- innescano di sovente un processo cortocircuitante. È soprattutto in virtù di uno stato
d’eccezione (reale o artificialmente proclamato
come emergenza) che l’autorità avanza la pretesa di usufruire di poteri speciali come proprie
esclusive prerogative, fino a rivendicare per sé il
diritto a sospendere libertà altrui e le norme vigenti, in nome di una normalità da doversi ripristinare. Ed è in questi casi che le due tendenze,
e cioè esercizio di potere/dominio e istanza di
liberazione, che attraversano la dimensione democratica descrivono un campo di forze o, meglio
ancora, entrano in un rapporto di forza dal quale
dipende il prevalere dell’una o dell’altra.
2. Il Pubblico, il Privato, la Democrazia:
breve excursus storico-genealogico
In effetti, autorità-libertà, diritti-sicurezza e
individui/società-Stato appaiono come categorie che circoscrivono un ambito di riflessione
abbastanza problematico. Per il fatto che, nel
comune senso moderno di democrazia, tali
categorie richiamino criteri di pubblicità delle
13 E per estensione della stessa concezione occidentale del diritto e del “regime di legalità”: cfr. U. Mattei, L.
Nader, Il saccheggio. Regime di legalità e trasformazioni globali, trad. di A. M. Poli, Milano-Torino, 2010.
14 Un’ottima e sintetica tematizzazione sullo stato di
eccezione è proposta da G. Agamben, Stato di eccezione,
Torino, 2003, il quale avvia una stimolante ricerca sulla
questione.
La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica
90
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
attività di uno Stato (un facere notum), esse rinviano alla necessità di un pubblico (un factum
notum), quale elemento che diviene di tutti e
che da tutti è giudicabile. Ciò che intrinsecamente viene a pesare in questo gioco di forze
interpolate è allora un’ulteriore coppia oppositiva: il pubblico contrapposto al privato15. La
dicotomia pubblico-privato sta all’origine e ha
retto, come un Giano bifronte, lo sviluppo
concettuale-pratico della democrazia moderna nella storia occidentale.
Un breve excursus storico –qui, necessariamente riduttivo e limitato- nel pensiero moderno risultato dominante, pare allora risultare opportuno per sostenere gli argomenti
proposti da chi scrive. Per Thomas Hobbes, caposaldo della teoria sovranista, sembrano non
sussistere particolari dubbi. La pace e la sicurezza rappresentano i termini del postulato logico che fonda l’autorità del sovrano come incarnazione di un potere assoluto e irresistibile.
La sovranità trova fondamento in un pactum
subjectionis –ossia in una dedizione di potestà
a un sovrano- che succede a un pactum unionis
stipulato tra liberi individui, altrimenti tra
loro in conflitto. Dal momento in cui è in tale
maniera istituito e riconosciuta quale autorità, nessuna ragione potrà opporsi alla volontà
del sovrano medesimo, anche e soprattutto
quando questi non dovesse rispettare i patti
in nome di quella sicurezza per cui ha ricevuto
mandato e delega di potere. La sicurezza è infatti la condizione necessaria alla conservazione
e riproduzione dell’ordine dello Stato e altrettanto, perciò, degli individui consociati che del
corpo dello Stato sono parti16.
Specialmente da John Locke in poi, il
privato diviene sinonimo di “proprio” individuale, ricevendo una determinata (e per
molti aspetti epocale) sanzione giuridica
nella moderna proprietà privata. Per Locke,
infatti, la proprietà dell’individuo privato
è tout court espressione della sua libertà e,
15 Sul tema cfr. N. Bobbio, La democrazia e il potere invisibile, in “Rivista Italiana di Scienze Politiche”,(1980),
n. 2, p. 182.
16 Cfr. Th. Hobbes, Leviatano, ossia la materia, la forma e
il potere di uno Stato ecclesiastico e civile, trad. di A. Lupoli,
M. V. Predaval Magrini, R. Rebecchi, Roma-Bari, 1998.
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simmetricamente, la libertà dell’individuo si
esprime di diritto attraverso l’appropriazione privatistica delle cose e del mondo, ovvero la proprietà privata è un naturale diritto di
ognuno17. Il pubblico inizia così ad assumere
una connotazione di senso in forte contrapposizione al privato, benché entrambi questi
concetti mantengano una necessaria relazione di complementarietà, in una prospettiva
“pratica” orientata verso una possibile ordinamentazione della “società civile”18.
Sarà Jean-Jacques Rousseau che, prima e più
risolutamente di ogni altro, si scaglierà contro
l’idea di proprietà privata, quale fonte generatrice di disuguaglianza sociale. L’individuo “libero” si appropria -privatisticamente- di ciò che
in natura è comune, lasciando altri individui
espropriati di questa comunanza naturale. La
proprietà privata rappresenta perciò il principale elemento corruttore di un possibile sistema
democratico egualitario. Ma come può, per
Rousseau, il proprio di ciascuno concepirsi oltre la dimensione privatistica per essere restituito come il proprio di tutti, ovvero per essere
democraticamente un alcunché di “pubblico” e
di egualitario? La risposta del filosofo ginevrino è abbastanza controversa. Le tesi di Rousseau così potrebbero riassumersi: il pubblico è ciò
che, insieme, appartiene a tutti e non appartiene a nessuno. Il pubblico è la “volontà generale”;
è la Repubblica che lo Stato e il Sovrano devono
incarnare come unità politica degli associati,
ovvero è il (la rappresentazione del) popolo, dove
essi sono insieme cittadini, in quanto partecipano all’autorità del sovrano, e sudditi, in quanto soggetti alla legge dello Stato stesso19.
17 Cfr. J. Locke, Due trattati sul governo, (a cura di L.
Pareyson), Torino, 1960 (qui si fa riferimento soprattutto al secondo dei due trattati).
18 Senza meno, entro questa direzione prospettico-argomentativa scelta, meriterebbe una parentesi di accurata riflessione a parte il pensiero di Adam Smith (nome
tra i più autorevolmente annoverabili tra i “padri” della
Political Economy e del liberalismo moderni -ma, va evidenziato, filosofo morale e giurista, prima ancora che
economista-), rivolgendosi specialmente alla sua concezione di jurisprudence. Non potendo qui indugiare ulteriormente sopra tale questione, rinviamo alle eccellenti
pagine che ad essa dedica A. Zanini, op. cit., pp. 21-135.
19 I testi presi qui a riferimento (soprattutto Il contratto
sociale) sono tratti da J. J. Rousseau, Scritti politici, Torino,
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Ma in che cosa consiste la volontà generale,
ossia quali sono le procedure che la istituiscono in quanto sovranità del popolo e fonte imprescindibile della forza che la legge esprime?
Poiché la democrazia viene ad essere pensata
sulla base di una concezione che postula individui neutri senza differenze di ceto, di classe o
di sesso, ecc., liberi e reciprocamente uguali, la
reciproca concorrenza tra essi diviene un fatto
inevitabile. I conflitti che da una tale condizione scaturiscono devono essere ricomposti in
un ordine stabile e disciplinato da un dispositivo di potere eminente e superiore. Tale potere,
però, non può essere percepito come il potere di
un altro, poiché se così fosse verrebbe meno la
premessa logica della libertà assoluta e di diritto propria a ogni soggetto in natura. Gli individui hanno la volontà (e, pertanto, la pretesa) di
essere riguardati e trattati come se fossero tutti
liberi e uguali. Per questo motivo, essi si sottopongono alla volontà generale e agiscono come
se fossero uno o, per meglio dire ancora, come se
fossero un popolo senza differenze, un soggetto
collettivo indifferenziato –ad unum versus-, che
parla come unico corpo identitario e sovrano
(successivamente identificato con la nazione).
In definitiva, il popolo si esprime con una volontà
generale che dà forma a una legge che obbliga
tutti allo stesso modo. La volontà generale guarda
all’interesse comune, ma ciò a differenza della
volontà di tutti la quale, essendo una semplice
somma di volontà particolari, persegue solo
l’interesse privato di ogni singolo. La volontà
generale si esprime infatti con una legge erga
omnes che obbliga il popolo tutto all’obbedienza, in quanto obbedendo alla legge il popolo
obbedisce alla propria volontà, vale a dire a se
stesso in quanto individuale e volontaria appartenenza al popolo quale generalità coesiva.
Rousseau abolisce formalmente in tale maniera il pactum subjectionis hobbesiano attraverso
1970 (trad. it. condotta secondo l’edizione critica stabilita da J. Halbwachs, Paris, 1943). Per ciò che concerne l’impianto dell’interpretazione critica degli stessi si è fatto
riferimento a L. Althusser, L’impensato di J.-J. Rousseau,
trad. di V. Morfino, Milano, 2003; A. Negri, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, Milano, 1992,
soprattutto pp. 223-86; A. Illuminati, Rousseau, in A.
Pandolfi (a cura di), Nel pensiero politico moderno, Roma,
2004, pp. 383-404.
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l’idea di una democrazia diretta. Il politico è
pensato tuttavia costituirsi con un processo
di totale alienazione dei singoli nell’astratto
e formale concetto di volontà generale, il quale
dovrebbe conseguire come spontaneo e individualistico atto (nel quale è ridondate un
certo “pre-romanticismo”) intellettuale-sentimentale di subordinazione alla totalità del
corpo sovrano: un impulso poco razionale che
dà luogo, senza particolari mediazioni, a un risultato che invece una razionalità la pretende,
quale fondamento del diritto ordinativo del
sovrano democratico. Si tratta, infatti, di quella
stessa astrattezza formale della volontà generale che funge da base alla normatività giuridica. L’istanza di eguaglianza sociale, presupposta da Rousseau come un ideale “naturale”,
si risolve in una dichiarazione di eguaglianza
solo politica, vale a dire in una concezione di
uno spazio politico trascendentale al di sopra
delle differenze sociali. Tanto Rousseau si distacca da Hobbes escludendo la delega a un
sovrano che sia un terzo rispetto coloro che
stipulano il patto sociale, quanto gli è molto
prossimo nel definire i caratteri e le prerogative della sovranità stessa. Il sovrano che la volontà generale esprime viene dotato di un vero e
proprio potere costituente, incondizionato e tutto condizionante20. È soprattutto quest’ultima
caratteristica a rendere il pensiero di Rousseau
controverso e non privo di ambiguità relativamente alla sua ricezione e applicazione: esercizio di democrazia diretta entro una dinamica sempre aperta della produzione di norme
–funzione di un potere costituente- per un
verso; esclusività e irresistibilità di un potere
costituito nella totale alienazione che rischia
di chiudersi nella sua autoreferenzialità –un
potere costituito che blocca e limita il potere
costituente-, per altro verso. Non sarà allora
un caso che Rousseau potrà, perentoriamente
e tautologicamente, affermare che «il Sovrano, per il solo fatto di essere, è sempre tutto ciò
che deve essere». Il potere di fatto fonda e le20 Cfr. A. Illuminati, Rousseau, cit., p. 394. Sul concetto generale di potere costituente come fonte creativa di
continua innovazione delle norme e delle costituzioni,
nonché sulle relative problematiche che ha comportato
in senso il pensiero giuridico-politico moderno, si veda
A. Negri, Il potere costituente, cit.
La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica
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gittima l’autorità di diritto. Lo jus legato a una
dimensione pratica e comune si risolve nelle
potestas e auctoritas della lex pubblica del sovrano quale diretta emanazione della volontà
generale. Il popolo, nei regimi democratici evocato quale titolare esclusivo del potere, appare
solo come forma indifferenziata di un corpo
sociale di individui isolati e depoliticizzati, posto all’ombra dell’identità sovrana dello Stato e
dei suoi rappresentanti: un popolo, uno Stato.
Lo Stato deve garantire una gestione pubblica, una rappresentazione pubblica di se stesso
che appartiene a tutti ma è il proprio di nessuno (l’improprio del sociale-naturale postulato).
La società deve in tal modo essere organizzata
e governata sotto lo specifico comando statale,
così come il lavoro sociale, che con la Rivoluzione francese impone la sua potente apparizione
organizzata, deve essere ordinato nei rapporti
di comando della proprietà privata.
Nel meccanismo genealogico congeniato
da Rousseau, la volontà di ciascuno appare
inesorabilmente condurre a una totalità che
rappresenta una comunità che, come necessaria mediazione normativa giuridico-politica, domina nella sua trascendentalità -ovvero in una forma di separatezza-. Lo Stato
e la sua autorità pubblica appaiono sempre
più come “legittimi” detentori di prerogative esclusive, di un potere legittimamente secretabile, benché nei limiti –invero, valicabili
in questo senso- delle Costituzioni.
Il processo storico-teorico di trasposizione
di una singolarità sociale e dell’individuale
nella cornice di un assoluto universale incarnato dal diritto pubblico-statuale, si compie
attraverso lo sviluppo del sistema dialettico
hegeliano. L’Aufhebung con cui Hegel esalta il
passaggio dall’individuale al particolare della
società civile prima, e da questo particolare
all’Universale statuale poi –del “popolo” e della
“nazione”-, è la traduzione logica dei passaggi che vieppiù sussumono, sottomettono questo individuale e questa società civile nell’etico
razionale-sostanziale della costituzione politica
rappresentata, appunto, nello Stato. Ma questo
Stato che così risulta, altro non è che, di nuovo,
un trascendente normativo che riproduce –ripeteseparatamente la logica dell’Individuale iniziale
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–e del “proprio” che asceticamente, quando non
misticamente connotava questo individuale-. Nel sistema di Hegel la mediazione è immediata; le differenze sono sussunte, attraverso
l’estenuante lavoro di mediazione dello Spirito
nel mondo, nel circolo dell’Idea e riunificate
nell’Identità dello Stato (individuale-statuale).
L’Aufhebung non è che una ideo-logica trascrizione di un sostanziale Auflösung21. All’apice
di una parabola del pensiero moderno, la dialettica hegeliana restituisce coerentemente il
mondo sdoppiato delle rappresentazioni liberali e borghesi: la libertà individuale nega l’autorità dello Stato, salvo poi ri-affermarla come
necessaria mediazione per i propri interessi
particolari. Alla stessa maniera l’autorità dello Stato nega la libertà individuale, salvo poi
(di nuovo) ri-affermarla come necessità della
propria mediazione: negazione della negazione
come separata immagine giuridico-politica
del mondo, come rappresentazione dell’universale spirito del mondo.
Eccedendo a questo troncone egemone del
pensiero liberaldemocratico, Karl Marx, specialmente nei suoi scritti giovanili, costruisce la sua critica al diritto moderno22. Questa
critica si traduce da subito in critica della filosofia hegeliana del diritto. Il postulato della
scissione tra Stato e società che sta alla base del
sistema di Hegel è immediatamente posto in
crisi dalla critica marxiana. Per Marx, le moderne costituzioni politico-giuridiche altro
non rappresentano che una perfetta unità formale astratta di ciò che effettivamente deve e
vuole rappresentare: la moderna proprietà privata –e i particolari interessi di classe- come asse
cardinale su cui può svilupparsi lo Stato. Nella
critica marxiana, la moderna proprietà privata
–ovvero il processo di accumulazione di potenza sociale produttiva, sancito giuridicamente-,
la sua titolarità di comando, è il vero contenuto
materiale che lo Stato conserva in segreto e riproduce dentro e oltre sé. In altri termini, la scis21 Cfr. C. Menghi, La negazione normativa. Aufhebung e
Auflösung nella Scienza della logica di Hegel, Torino, 1997.
22 Cfr. in specie K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, trad. di G. Della Volpe, Macerata,
2008; Id., Scritti politici giovanili, a cura di L. Firpo, Torino,
1950.
La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
sione tra Stato e società civile, tra il citoyen e il
bourgeois, che contraddistingue le costituzioni
moderne, è una conseguenza inevitabile entro i termini di una concezione giuridica che
pone la distinzione tra una forma giuspolitica
astrattamente ordinativa (Stato) e il principio
materiale che organizza la società (i rapporti
sociali capitalistici di moderna proprietà privata,
determinantesi soprattutto come accumulazione di forze e potenze socialmente produttive).
La concezione borghese della proprietà privata trova una precisa traduzione giuridica, la
quale fonda l’uguaglianza formale davanti alla
proprietà nell’uguaglianza formale dinnanzi alla legge come espressione della “volontà
generale”. Il principio materiale della proprietà
privata –quale titolo di comando sul lavoro vivo
sociale- può così concretizzarsi solo attraverso
il sistema di rappresentanza che costituisce
il moderno Stato politico, vale a dire attraverso quell’istituzione che, rappresentandosi
una società depoliticizzata, garantisce unità
ed eguaglianza formali agli individui isolati
e la pretesa unica comunanza nell’esclusivo
generale interesse di proteggere i propri interessi particolari. Parimenti, per il Marx critico dell’economia politica che ne studierà i
rapporti interni, la cooperazione del lavoro vivo
sociale è il segreto –soggettività socializzata
sempre potenzialmente conflittuale- che i rapporti proprietari capitalistici accumulano, organizzano, ma, insieme, nascondono23. Letto
nella filigrana della sua critica dell’economia
politica, Marx mostra come l’accumulazione
capitalistica del lavoro sociale transiti attraverso le diverse forme di Stato, in quanto forme
di governo e amministrazione delle società:
lo stesso “socialismo”, in effetti, appare negli
scritti marxiani sempre come “forma di transizione” (verso il comunismo) che assume consistenza mediante il passaggio –appunto- per
la forma-Stato. Relativizzato e riportato su di
un piano d’immanenza dalla critica marxiana,
l’ideale della democrazia di poter rappresentare l’unità egualitaria di differenze sociali sembra ideologicamente perdersi in un’identità
23 Cfr. soprattutto K. Marx, Lineamenti fondamnentali
della critica dell’economia politica 1857-1858, 2 voll., trad. di
E. Grillo, Firenze, 1997.
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formale-astratta, che tuttavia è capace –forse
proprio per questo suo potere di astrazione (e
di rappresentazione)- di esercitare e organizzare il dominio politico-sociale di una specifica
classe e dei propri interessi particolari.
Non risulterà essere, pertanto, un mero caso se
il carattere mistico-identitario del rappresentativo
Stato democratico (separato nel proprio rappresentare) verrà criticamente rilevato, con forti analogie, da due autorevoli pensatori di cose giuridiche
e politiche, per altri versi agli antipodi su tutto:
Hans Kelsen e Carl Schmitt. Afferma Kelsen:
La discordanza tra la volontà dell’individuo, punto di partenza dell’esigenza di libertà, e l’ordine
statale, che si presenta all’individuo come una
volontà estranea, è inevitabile. […] La protesta
contro il dominio esercitato da uno che è simile
a noi, porta, nella coscienza politica, ad uno spostamento del soggetto del dominio, dominio che
è inevitabile anche in regime democratico, vale
a dire porta alla formazione della persona anonima dello stato. L’imperium parte da questa persona anonima, non dall’individuo come tale [ma
da questa persona anonima dello Stato- n.d.r.].
La volontà delle singole personalità liberano una
misteriosa volontà collettiva ed una persona collettiva addirittura mistica24.
Sostiene Schmitt che
la democrazia (tanto come forma di Stato quanto
come forma di governo o di legislazione) è l’identità dei dominanti e dei dominati, dei governanti e dei governati, di quelli che comandano e di
quelli che ubbidiscono. […] La parola “identità” è
utile nella definizione della democrazia perché
indica la completa identità del popolo omogeneo[…]. Nella democrazia pura c’è solo l’identità
del popolo effettivamente esistente con se stesso, ossia nessuna rappresentanza. Con la parola
“identità” è indicata l’effettività dell’unità politica del popolo a differenza di tutte le eguaglianze
normative, schematiche o fittizie. 25
3.Diritto ed eccezione
L’emersione delle differenze (di classe, di
genere, di etnie, ecc.) ha vieppiù posto in questione il preteso carattere unitario, identitario
24 H. Kelsen, La democrazia, trad. di A. M. Castronuovo,
Bologna, 1981, p. 53.
25 C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, trad. di A.
Caracciolo, Milano, 1984, pp. 307-308.
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e universalistico del demos, in quanto speculare a quello dell’individuo astrattamente e formalmente inteso, nonché a quello dello Stato
quale entità monolitica. La democrazia, come
“sovranità che appartiene al popolo”, è di sovente apparsa ostile alle differenze che provocano scissioni nell’identità presupposta normale
–e normativizzabile- tra il kratos e il demos.
La celeberrima definizione di Schmitt per
cui «Sovrano è colui che decide sullo stato
d’eccezione»26, segnala una natura paradossale della sovranità stessa, innestando un elemento per molti aspetti inediti nel pensiero
giuridico moderno. Poiché sovrano è colui
al quale l’ordinamento giuridico riconosce
il potere di proclamare lo stato di eccezione
-che altro non significa se non potere di sospendere la validità dell’ordinamento stesso-,
se ne deduce che la sovranità si definisce, al
contempo, come inclusa ed esclusa nell’ordinamento giuridico, ovvero essa è insieme
dentro e fuori tale “normale” ordinamento che
conserva e riproduce come valido ed effettivamente vigente27. In virtù di questo suo potere
legale di sospendere la validità della legge,
il sovrano si pone, di fatto e di diritto, legalmente fuori legge. Nelle argomentazioni proposte da Schmitt, la norma rappresenta per
definizione un caso medio e generale, e con
ciò finisce con l’esprimere una rigida identità
che meccanicamente deve ripetersi: in quanto
generale e astratta, la norma deve cioè valere erga omnes, indipendentemente dal caso
singolo a cui si applica. All’opposto, l’eccezione esprime l’esclusività di un caso singolo, di
una differenza, rispetto l’identità della norma,
«che rompe la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione»28. Tuttavia, poiché sia
la norma che l’eccezione sono prerogative della
decisione del sovrano, esse intrattengono e
conservano un rapporto tra loro. Infatti, se è
vero che nessuna norma può essere applicata
al caos, poiché solo in una situazione normale
(in un ordinamento stabilito) essa può avere
un senso; altrettanto vero è che solo il sovrano può essere colui che decide in modo definitivo se uno stato di normalità regna davvero. Consegue da ciò che l’eccezione -struttura
fondativa della sovranità- non precede la norma e l’ordine in quanto caos, essa è bensì ciò
che risulta dalla sospensione della norma e
dell’ordine vigenti. Nel rapporto con il caso
singolo, la regola generale deve presupporlo
come eccezione, come esclusività da includere nello stato di normalità. La differenza singolare è inclusa –catturata- nell’ordinamento
giuridico-politico mediante una sospensione di quest’ultimo, ovvero è inclusa come
esclusione, come un esterno da internare. Lo
stato di eccezione, che per definizione eccede
alla norma, riguarda il sovrano, ma in quanto eccedenza alla norma, lo stato di eccezione
riguarda ugualmente anche chi è respinto,
fuori o irriducibile nei confronti dello stato di
normalità che regge l’ordinamento. La minaccia per il “normale” ordine costituito diviene
condizione necessaria per la riproduzione e
conservazione –per la sicurezza- dell’ordine
medesimo. Il paradossale processo di identificazione tra il dentro e il fuori della norma, fino
all’indiscernibilità tra l’autorità-potestà e il
fuorilegge è per Schmitt, in ultima analisi, risolvibile in una sovradeterminazione irrazionalistica della sovranità che si presenta come
accadimento di un evento puro del potere
(con un implicita violenza connotante un tale
evento). Sebbene Walter Benjamin non potesse ancora confrontarsi direttamente con
le tesi schmittiane, molte considerazioni che
nel 1920-21 proponeva (anno di pubblicazione del saggio Zur Kritik der Gewalt) sembrano
anticiparne i temi e la sua critica.
26 C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, trad. di P. Schiera,
Bologna, 1972, p. 33. Assumiamo (non senza torsioni
concettuali) l’interpretazione della categoria dello stato
di eccezione, sviluppando parzialmente quanto in merito
riferisce con le proprie analisi G. Agamben, Stato di eccezione, cit. e Id., Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita,
Torino, 1995.
27 Cfr. C. Schmitt,Le categorie del ‘politico’, cit., p. 34.
28 Cfr. ibidem, pp. 39-41.
«La funzione della violenza nella creazione giuridica è -scrive Benjamin- duplice nel senso che
la creazione giuridica, mentre persegue ciò che
viene instaurato come diritto, come scopo con la
violenza come mezzo, pure –nell’atto di insediare come diritto lo scopo perseguito- non depone
affatto la violenza, ma ne fa solo ora in senso
stretto, e cioè immediatamente, violenza crea-
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trice di diritto, in quanto insedia come diritto,
col nome di potere, non già uno scopo immune e
indipendente dalla violenza, ma intimamente e
necessariamente legato a essa»29.
Queste parole confermano il sussistere di una
zona di indistinzione tra coppie che tra loro sembrerebbero porsi su piani antinomici: violenza e
diritto, norma ed eccezione, potere e libertà, ecc.
In modo sobrio, anche Norberto Bobbio non
manca di sottolineare intrinseci paradossi che
il concetto di democrazia presenta. Ragionando
sul rapporto tra segreto di stato e richiesta di pubblicità e trasparenza degli atti di uno Stato scrive:
In linea generale si può dire che il segreto è ammissibile quando esso garantisce un interesse protetto dalla costituzione senza ledere altri interessi
ugualmente garantiti (o perlomeno occorre fare
un bilanciamento degli interessi). Naturalmente
quello che vale negli affari pubblici di un regime
democratico in cui la pubblicità è la regola e il segreto è l’eccezione, non vale negli affari privati,
cioè quando è in gioco un interesse privato. Anzi
nei rapporti privati vale esattamente il contrario: il
segreto è la regola, contro l’invadenza del pubblico
nel privato, e la pubblicità è l’eccezione30.
In linea teorico-generale funge qui da premessa l’esistenza insuperabile di un conflitto
tra interessi pubblici e interessi privati, di fatto non ricomponibili per gli stessi presupposti
su cui basa la democrazia moderna. Tutto ciò
non può che condurre a inevitabili paradossi,
che chiamano in causa, di nuovo, il rapporto
tra norma ed eccezione.
È insomma nella logica stessa della democrazia
che il rapporto tra regola ed eccezione sia invertito, rispettivamente, nella sfera pubblica e nella sfera privata. Un dibattito dedicato al segreto
nella sfera pubblica non può svolgersi se non
sul versante dell’eccezione e non della regola […]. Un caso davvero esemplare di questo
paradosso ci è offerto proprio dal sistema
democratico: abbiamo visto che la democrazia esclude in linea di principio il segreto di
stato, ma l’uso del segreto di stato, attraverso l’istituzione dei servizi di sicurezza, che
29 W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Id., Angelus
Novus. Saggi e frammenti, trad. di R. Solmi, Torino, 1995,
pp. 5-30, p. 24.
30 N. Bobbio, Teoria generale della politica, cit., pp. 368-69.
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agiscono nel segreto, viene giustificato tra
l’altro come strumento necessario per difendere, in ultima istanza, la democrazia. 31
Nel dominio del diritto, un’eccezione, ossia
una deroga a un principio, appare sempre giustificabile sulla base di altri principi posti alla base
dell’ordinamento stesso e che verrebbero lesi
nel caso di un’applicazione pubblica delle regole.
Evidenti sono le petizioni di principio e i circoli
viziosi discendenti da una tale impostazione formalistica riguardo la questione qui posta.
Se l’eccezione risulta una sospensione necessaria del diritto, al fine di garantirne la conservazione, la riproducibilità permanente di uno stato di eccezione rischia di divenire una normale
condizione, fagocitando in sé ogni ideale “stato
di normalità” giuridicamente qualificabile.
Il segreto (incomunicabile), quale istituzione dello Stato, appare in tutto e per tutto come
un caso dell’eccezione. Tutto ciò, che in linea generale è condiviso per ciò che concerne gli affari pubblici, assume però –come visto- un senso
affatto contrario per ciò che concerne i rapporti
sociali privati/privatizzati (per definizione, poco
comunicabili e secretabili). Proprio perché il
pubblico non deve invadere la libertà e gli affari privati, allo stesso modo la norma prodotta
dall’ordinamento dello Stato deve prevedere
eccezioni alle proprie autorità e facoltà regolative. Ma in ciò si determina un paradossale chiasmo per cui anche la stessa autorità, in quanto
pubblico separato dal privato, procede secondo
una propria autonoma logica di eccezione –ovvero con una sua dimensione segreta- che conserva
come una propria prerogativa esclusiva. Il dovere di riconoscere diritti di privati diviene diritto
di dirigere da parte dell’ordine costituito e diritto di
dovere da parte del suddito/cittadino.
4. Democrazia conflittuale
A uno sguardo storicamente attento, non
può sfuggire che lungo il XX secolo siano stati
soprattutto i conflitti sociali ad aver contrassegnato quelle modificazioni dello Stato liberale nel mondo occidentale (nonché –con
importanti distinzioni- nella parabola dei
31 Ibidem, p. 369.
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“socialismi reali”), tanto da far parlare da più
parti di “democrazia regolata”. La materialità
sociale guadagna il proscenio in un progressivo amalgamarsi di pubblico e privato, di
Stato e mercato, di economia e politica. La
Costituzione di Weimar, il New Deal negli
USA., il “piano Beveridge” in Gran Bretagna,
la maggior parte delle costituzioni europee
nel secondo dopoguerra, sono solo alcune
delle tappe che descrivono una curva espansiva dei diritti sociali per tutto il Novecento, di
pari passo alla progressiva industrializzazione e, dunque, alla formazione delle “società
di massa”32.Quanto chiama in causa questo
sviluppo del diritto sociale è, senza meno, un
processo di costituzionalizzazione del lavoro
sociale. L’unità lavorista si è vieppiù ricercata
quale fondamento da porre come principio
–una Grundnorm- delle moderne costituzioni, come base per una produzione normativa finalizzata ad ordinamentare la società.
Il rifiuto del dualismo tra norma e fatto e la
corrispettiva assunzione di un approccio monistico, ben potevano ritrovare nell’unità del
lavoro sociale prodotta dalla realtà industriale di massa un saldo punto di ancoraggio, una
ben definita costituzione materiale delle forze
sociali e delle diverse rappresentanze politiche di riferimento33.
Il quadro teorico entro il quale tali argomentazioni e temi possano trovare sviluppo,
prende buona forma nelle riflessioni attorno
ai concetti di Welfare State, di Stato sociale, di
fordismo-keynesismo, ecc. (termini rinvianti
comunque alla presenza massiccia dello Stato,
dell’autorità pubblica nell’organizzazione/regolazione della vita e del lavoro sociali). L’autorità dello Stato, a cui sono vincolati i diritti sociali e il loro riconoscimento, garanzia e
tutela, appare agire come vera e propria mano
visibile, che regola e disciplina ex ante (non
ex post come la nota invisible hand del “libero
32 Per questi temi, tra altri, si veda Th. H. Marshall,
Cittadinanza e classe sociale, trad. di P. Maranini, RomaBari, 2002 e l’importante studio di F. Ewald, L’Etat
Providence, Paris, 1986.
33 Cfr. A. Negri, La forma stato. Per la critica dell’economia politica della costituzione, Milano, 1977. Per il concetto di costituzione materiale cfr. il classico C. Mortati,
Costituzione in senso materiale, Milano, 1940.
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mercato” di derivazione smithiana) la società
attraverso il dispositivo del piano34.
Tanto John M. Keynes nell’ambito delle discipline economiche quanto Hans Kelsen in
quelle giuridiche, contestano l’idea di un ordre
naturel, di una lex naturae, di un laissez-faire allo
scopo di conseguire un determinato “equilibrio” sociale. «L’emergenza normativa è perciò
chiara e ineludibile: è il fondamento su cui
poggia la moderna democrazia regolata.»35
Avanza un’idea di relatività rinviante a un
rapporto convenzionale-pattizio, allo scopo
di conseguire praticamente un determinato
equilibrio sociale che deve essere perseguito
agendo sui conflitti che capitale e lavoro –
intesi come grandi aggregati sociali- esprimono per conservare e ottenere diritti (il cd.
compromesso fordista-keynesista). Il controllo
della domanda e dell’occupazione, quali elementi caratterizzanti le politiche keynesiste, segnalano la necessità di impedire grandi fluttuazioni della stessa domanda sociale
(nonché domanda politica dei diritti) e, al
contempo, di stabilizzare il quadro sociale complessivo nel quale essa si determina.
Ciò che risulta decisamente significativo è
una sovradeterminazione politico-sociale
dell’istituzione statuale sui rapporti economici che il sistema politico-giuridico è chiamato a governare.
Il ciclo di lotte dell’operaio-massa, le contestazioni antiautoritarie delle nuove soggettività sociali –costituitesi attraverso i
dispositivi della scolarizzazione, della comunicazione e dei consumi di massa- espresse
dai movimenti a partire dalla data-simbolo
del 1968, e così via fino all’implosione delle
burocrazie del socialismo reale, hanno indotto (la deregulation e le privatizzazioni della cd. Tacherite-Reaganomics stava compiendo
il resto) a nuove forme di ristrutturazione
delle macchine organizzativo-ordinative –
economiche, giuridiche e politiche– delle
società contemporanee.
34 Per queste argomentazioni e sul concetto di Statopiano, si cfr. M. Tronti, Operai e capitale, Torino,1966;
A. Negri, La forma stato, cit. e Id., Crisi dello Stato-piano,
Milano, 1974.
35 A. Zanini, op. cit., p. 293 (corsivi miei).
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5.Note sul modello
governamentale biopolitico
Le considerazioni appena fatte ci conducono nell’ambito di una riflessione sulle relazioni di potere rispetto cui Michel Foucault ha
scritto pagine estremamente importanti. La
domanda che egli si pone non è quella tradizionale della filosofia politica: “cosa è il potere/
cosa sono le sue istituzioni?”; né il suo approccio ricalca quello tipicamente giuridico: “come
si giustifica/legittima il potere?”. La domanda
di fondo che Foucault si pone è “come funziona il potere?”. Gli studi foucaultiani sulle relazioni del potere vietano di pensare quest’ultimo
come una “proprietà” localizzabile, ad es., nello
Stato. Il potere, appunto, non lo si possiede né
esso rappresenta un semplice privilegio. Il potere, piuttosto, sempre lo si esercita passando
attraverso un insieme di tattiche e strategie, in
base a determinate tecnologie che pone in atto
sopra l’intero corpo sociale. Così, ad es., il
potere poliziesco deve vertere “su tutto”: tuttavia
non è la totalità dello Stato né del regno come corpo visibile e invisibile del monarca; è la polvere degli avvenimenti delle azioni, delle condotte, delle
opinioni […]; l’oggetto della polizia sono quelle
“cose di ogni istante”36.
La stessa forma-Stato, in questo quadro, appare come una risultante di ingranaggi e procedure che non istituisce, bensì ratifica (il concetto dello Stato come macchina). Il rapporto di
potere non si attua tra forme –come appunto
la forma dello Stato- (ché, la forma è piuttosto
pertinente all’ordine con cui il pensiero agisce
e ordina), ma tra forze37. Il raffinamento dei
36 M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione,
trad. di A. Tarchetti, Torino, 1976, p. 233. Inoltre, descrivendo il dispositivo panottico della prigione, quale emblema del funzionamento del potere, Foucault scrive:
«Ciascuno, al suo posto, rinchiuso in una cella […]. È visto ma non vede; oggetto di una informazione, mai soggetto
di una comunicazione.», ibidem, p. 218 (enfasi mia).
37 Precisando ulteriormente questo, si può allora dire
che «la forza non è mai al singolare, la sua caratteristica essenziale è di essere in rapporto con altre forze, di
modo che ogni forza è già rapporto, e cioè potere: la forza non ha un oggetto o un soggetto diverso dalla forza
stessa. Non dobbiamo vedere qui un ritorno al diritto
naturale, poiché da parte sua il diritto è una forma di
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meccanismi e dei dispositivi contemporanei
nel controllo sociale, spingono ben oltre la logica del Panopticon, mediante cui Foucault descriveva le “società disciplinari”. Se non altro è
a una diffusione dei medesimi dispositivi di
controllo a cui oggi assistiamo38.
Sarà comunque lo stesso Foucault, ampliando il proprio campo di ricerca attraverso lo studio della governamentalità biopolitica, in quanto
specifico paradigma dell’arte di governo liberale,
a proporre un’avanzata analisi di logiche e dinamiche sociali del neoliberalismo contemporaneo39. Con la governamentalità la compenetrazione tra economia e politica diviene
completa, tanto che sono gli stessi criteri formali dell’economia ad entrare a pieno regime
performativo nel funzionamento dei dispositivi del potere40, ovvero fino a configurare
tecniche di governo dispiegate in maniera del
tutto immanente in seno alla società, secondo
la specifica razionalità economica41. Il mercato
diviene il luogo fondamentale di «veridizione» continua di un determinato «regime di
verità» (un paradigma). Tanto che lo si intenda
come “libero” gioco della “domanda-offerta” o
della “concorrenza-competitività”, quanto che
lo si intenda come “regolato/pianificato”, il
mercato deve poter istituirsi e funzionare per
riprodurre –appunto- un determinato regime
governamentale. Quest’ultimo non basa su di
una logica di rinuncia e delega a un sovrano di
alcuni diritti, bensì funziona in modo immanente tenendo insieme eterogenei dispositivi,
espressione, la Natura una forma di visibilità e la violenza è concomitante o conseguente alla forza, ma non
la costituisce». G. Deleuze, Foucault, trad. di P. A. Rovatti
e F. Sossi, Napoli, 2002.
38 A modo suo lo sottolineò G. Deleuze, La Société du
Contrôle, in Id., Pourparlers (1972-1990), Paris, 1990, pp.
240-247.
39 Il riferimento è, in questo caso, soprattutto M.
Foucault, Nascita della biopolitica, cit.
40 Cfr. M. Koivusalo, Le antinomie del “displacement biopolitico”, in “aut-aut”, luglio-agosto (2000), n. 298, pp.
63-80.
41 Foucault chiama “società” o “società civile” la dimensione correlativa alle tecniche di governo informate dalla razionalità specificamente economica –un “regime di
verità”-, da non intendersi però nel tradizionale senso
di sfera autonoma rispetto allo Stato e/o il Politico: cfr.
M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., pp. 237-258.
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al contempo giuridici, politici e, soprattutto,
economici. Il management42, la principale tecnica dell’economico, investe ed informa di sé
l’agire politico e quello giuridico, i quali assumono i caratteri dell’amministrazione del corpo
vitale delle società, sotto gli imperativi dell’effettività e dell’efficacia. In altri termini, si tratterebbe di adeguare la politica e soprattutto il
diritto a un paradigma di tipo gestionale, ossia
a criteri normativi capaci di orientarsi nella realtà, sulla base di concrete situazioni e specificità, anziché lasciarli agire sulla realtà, secondo
i tradizionali criteri di “generalità/universalità” e “astrattezza” delle norme43.
Sebbene il concetto di governamentalità
non possa propriamente essere sovrapposto
a quello di governance44, vanno tuttavia rilevate fra i due forti similitudini. Entrambi i concetti, in effetti, dicono di una crisi che investe
le principali categorie giuspolitiche fondanti
la modernità occidentale (forma-Stato, democrazia rappresentativa, supremazia della
legge, diritto pubblico/diritto privato, divisione dei poteri, ecc). Inoltre, essi rinviano a
un effettivo “primato nomico” dell’economia
(primato, invero, sempre in bilico tra iconomia ed eco-anomia socialmente deresponsabilizzanti). Parimenti -e perciò-, tanto governance, quanto governamentalità evocano un
modello istituzionale “aperto e flessibile”,
privo di un determinato centro di potere e affidato a dispositivi eterogenei di produzione
42 In riferimento alla genealogia nella «teologia economica», dell’attuale paradigma biopolitico (e dunque di
un certo primato odierno dell’ economico); un paradigma
capace di tenere insieme eterogenei dispositivi e relazioni sociali, così argomenta Agamben:«Ciò che tiene
insieme queste relazioni è un paradigma che potremmo
definire “gestionale”: si tratta cioè di un’attività che non
è vincolata a un sistema di norme né costituisce una episteme, una scienza in senso proprio, ma implica decisioni e disposizioni di volta in volta diverse per far fronte a
problemi specifici. In questo senso, una traduzione corretta del termine oikonomìa sarebbe, come suggerisce il
Liddell-Scott, management.», in G. Sacco, op. cit., p. 12.
43 Si veda a riguardo P. Napoli, Le droit efficace. Aux origenes de la rationalité gestionaire, in “Rivista della Scuola
superiore dell’economia e delle finanze”, I (2004), n. 4,
pp. 48-75.
44 Sul concetto di governance si veda M. R. Ferrarese, La
governance tra diritto e politica, Bologna, 2010.
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normativa, potenzialmente sempre forieri di
competizioni e conflitti tra interessi, norme
e ordinamenti. In questa cornice quindi, visto il relativo successo del termine, governance rappresenta un reale aggiustamento della
moderna democrazia liberale? O non ne suona piuttosto il rintocco funebre? Nato in seno
a studi sulla grande impresa, la praticazione
del concetto di governance doveva indirizzarsi
verso una soluzione consensuale dei conflitti
scaturenti con i rapporti di lavoro. Adottato
in seguito dalle discipline urbanistiche, il termine diviene soprattutto sinonimo di strategie di ottenimento del consenso riguardo
politiche del territorio. Con il neoliberalismo
governance assume una connotazione di senso
che sembra indicare un’amministrazione dei
rapporti sociali esistenti a fronte della crisi
della democrazia rappresentativa. Questa polisemia non indica forse una forte ambiguità
strutturale che solo una rappresentazione del
concetto stesso tenta di occultare? Di certo,
se il minimo comun denominatore di tale polisemico termine è rintracciabile nell’idea di
costruire un consenso sociale a fronte di conflitti
esprimenti istanze, rivendicazioni e/o diritti, diviene necessario comprendere meglio il
ruolo e la funzione che la forma-governance intende riconoscere a tali conflitti nel praticare
la propria soluzione per un’ordinamentazione sociale. In breve, se la “quarta rivoluzione
industriale” è concentrata sulla riproduzione
virtuale dell’interazione/comunicazione sociale e sulla riproduzione artificiale della vita
–bio-logia-, come può l’ “ordine simbolico”,
vale a dire il controllo dell’infosfera e della conoscenza, imporsi sulla società quale forma di
ordinamentazione45? Il conflitto entro questa
dimensione deve essere ricomposto in forme
cripto-autoritative della rappresentazione, nella “dominanza organizzativa” dell’economico
anche sul terreno simbolico, o piuttosto non
risulta più procrastinabile una ricomposizione sociale e potente di un general intellect46
45 Cfr. V. Olgiati, op. cit.
46 Il concetto di general intellect è stato introdotto da
K. Marx, Lineamenti per la critica dell’economia politica,
II, cit., p. 403. Tra i numerosi studi che sviluppano
tale concetto, segnaliamo qui, congruamente allo svi-
La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica
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-non più solo una volonté générale- già pienamente in opera nelle economie e società della
conoscenza?
Romano Martini è dottore di ricerca in Teorie del
diritto e della politica, Università degli studi di
Macerata. Tra i suoi lavori: Logica normativa del
capitale sociale. Analisi teorico-giuridica dei
Grundrisse di Karl Marx, Torino, 2010
[email protected]
luppo delle argomentazioni proposte, A. Fumagalli,
Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo paradigma di accumulazione, Roma, 2007 ed inoltre, il già
citato Lessico postfordista, cit.
La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
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Sull’interpretazione della disposizione normativa
e su i suoi possibili rapporti
con l’interpretazione musicale*
Marco Cossutta
Abstract
Parole chiave
Ricollegandosi alla possibilità di fondare una teoria
generale dell’interpretazione, si accostano due mondi
dell’interpretazione: quello giuridico a quello musicale.
Si ritiene di poter ravvisare delle similitudini tali da poter
ipotizzare che le due forme di interpretazione possano fra
loro ricollegarsi, vuoi per quanto concerne la ineliminabile creatività dell’interprete, vuoi per quanto riguardano le procedure di controllo del prodotto di tale attività.
Procedure che testimoniano l’aderenza dell’interpretazione-prodotto non tanto al testo originale, quanto alla
sensibilità sociale in cui questo trova riproduzione.
Emilio Betti; Interpretazione arbitraria;
Interpretazione giuridica;
Interpretazione musicale;
Fedeltà interpretativa;
Grafia musicale e linguaggio giuridico;
Salvatore Pugliatti.
Sommario: 1.Una specificazione; 2. Delimitazione dell’universo di discorso; 3. Vincoli all’attività interpretativa; 4. Alcuni problemi insiti all’interpretazione giuridica; 5. Sull’interpretazone
musicale (il contributo di Salvatore Pugliatti);
6. Utili indicazioni tratte dall’interpretazione
musicale; 7. Sull’adeguatezza del linguaggio; 8.
Per un superamento dell’arbitrarietà.
La seconda: “la speculazione moderna accentua nel linguaggio il carattere triadico del significare semantico, per cui esso […] consiste in un
processo che si svolge fra tre termini: a) un soggetto, al quale perviene il messaggio del semàntema e che è chiamato ad intenderlo; b) un oggetto, che è […] forma rappresentativa, dalla
quale proviene il messaggio; c) un altro soggetto, attualmente o virtualmente presente, che è il
fulcro del senso e «parla» attraverso l’oggetto”2.
La terza: “il problema dell’intendere è unico
e identico negli elementi fondamentali che ne
fanno un processo triadico, non ostante il necessario differenziarsi delle sue applicazioni”3.
1- Una specificazione
P
rima di iniziare il discorso introno all’interpretazione pare d’uopo riportare tre citazioni al fine di definirne i generali contorni.
La prima: “il problema interpretativo, in generale, risponde al problema epistemologico
dell’intendere. Utilizzando qui una distinzione
familiare ai giuristi, quella fra azione ed evento, possiamo provvisoriamente caratterizzare
l’interpretazione come l’azione, il cui esito od
evento utile […] è l’intendere”1.
1 E. Betti, Teoria generale della interpretazione, cap. II. Citiamo
dalla edizione corretta ed ampliata a cura di Giuliano Crifò,
Milano, 1990, pp. 157-158. La prima edizione appare nel 1955.
2 - Delimitazione dell’universo
di discorso
Il discorso che seguirà si colloca nell’ambito della interpretazione giuridica, ma necessita preliminarmente di una delimitazione del
2 Ibidem, p. 205.
3 Ibidem, p. 258.
Sull’interpretazione della disposizione normativa
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
campo d’indagine ché il sintagma interpretazione giuridica lo designa come troppo ampio.
L’intervento verrà pertanto ristretto alla
sola interpretazione della disposizione legislativa, che, seguendo le indicazioni di Carnelutti, offerte nella voce Documento (teoria
moderna) redatta nel 1937 per il Nuovo digesto
italiano, è documento dispositivo frutto di
una dichiarazione di volontà.
Si tralascia volutamente, in questa sede,
ogni questione intorno all’essere o meno della disposizione legislativa un documento dispositivo riproduttivo (ovvero documento che
recepisce una dichiarazione di volontà che ha
preceduto la redazione del documento stesso),
anche se l’opzione prescelta apparirà implicita
nel prosieguo del discorso. Si riconosce, infatti,
che la disposizione è una forma rappresentativa che, come tutte le forme rappresentative, dà
agio all’interprete di indagare il pensiero o lo
spirito, per richiamarsi ancora all’opera di Betti, dell’autore della stessa.
La costante presenza di tre elementi nel
processo interpretativo, ovvero la forma rappresentativa, oggetto dell’attività in parola,
l’autore della stessa e l’interprete che pone in
essere un’attività cognitiva prima, riproduttiva o normativa poi, offrono, sia pur avendo
riguardo ad ambiti di applicazione differenti,
la possibilità di riconosce e di delineare una
teoria generale dell’interpretazione (da cui al
magistero di Emilio Betti), che permette di poter accostare in questa sede musica e diritto.
3 - Vincoli all’interpretazione giuridica
Se quanto fin’ora sommariamente richiamato permette la formulazione di una teoria
unitaria dell’interpretazione nella triplice accezione di interpretazione ricognitiva, di interpretazione riproduttiva e di interpretazione normativa, ciò non di meno appare fuori
dubbio che ogni forma di interpretazione, in
considerazione del suo particolare oggetto e
delle sue proprie finalità, abbia delle caratteristiche precipue tali da differenziarla sostanzialmente della altre.
Nel nostro caso, l’interpretazione giuridica come sopra delimitata, ove la stessa voglia
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manifestarsi come interpretazione normativa4, è costitutivamente guidata da regole, nel
senso ristretto di altre disposizioni legislative,
preordinate alla (e vincolanti la) attività stessa.
Sicché si può predicare d’essere giuridico di un
prodotto conseguente ad un’attività interpretativa di un testo legislativo solo se la stessa è
stata condotta sotto l’egida delle regole giuridiche sull’interpretazione giuridica5.
Non così rigidamente predeterminato
sembra lo svolgersi di altre forme di attività
interpretative, le quali, pur non potendo manifestarsi in forme sregolate, ritrovano nel
generale criterio di fedeltà all’originale l’unico
vincolo, il quale, per così dire, appare di natura
quasi esclusivamente morale6.
In tal senso ed a prima vista, una interpretazione riproduttiva drammatica o musicale,
che travalichi tale limite operando un fraintendimento (involontario o volontario) va incontro il più delle volte all’insuccesso (da cui il
proverbiale fiasco). In modo diverso procedono
le cose nel mondo del diritto, se una interpretazione giuridica, che non rimanga nell’alveo
tracciato dalle regole sull’interpretazione, nel
nostro caso da prima l’articolo 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, corre il rischio di
vedersi, come si suol dire, cassata.
Pare in ogni caso che, sia pur su piani diversi, la non ottemperanza dei vincoli posti im4 L’interpretazione con finalità normative mira a condizionare il comportamento; qui l’intendere ha principalmente lo scopo di regolare l’agire attraverso massime ricavate dalla forma rappresentativa oggetto di
interpretazione. La disposizione legislativa può essere
approcciata dall’interprete anche con altri intenti ed allora, più correttamente, potremmo parlare di interpretazione di un testo giuridico, ma non di interpretazione
giuridica (con funzione normativa).
5 In senso ancora più ristretto si predica la giuridicità di
tale risultante solo se l’attività che l’ha preceduta è stata
posta in essere da un’autorità giuridicamente competente; cfr. in proposito H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, trad. it. Torino, 1975 (ma Wien, 1960), §§ 45-47.
6 Si richiama in ogni caso l’attenzione sull’articolo 20,
comma primo, della legge n. 633 del 1941 in materia di
Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo
esercizio, ai sensi del quale “l’autore conserva il diritto di
rivendicare la paternità dell’opera e di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione od altra modificazione, ed
a ogni atto a danno dell’opera stessa, che possano essere
di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione”.
Sull’interpretazione della disposizione normativa
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
plicitamente od esplicitamente, siano essi di
natura morale oppure delle regole giuridiche,
sia esiziale per l’interpretazione-prodotto, la
quale ritroverebbe un generale rifiuto nei destinatari e nel caso particolare dell’interpretazione giuridica, perderebbe addirittura la sua
qualificazione giuridica, tanto da poter generalmente riconosce che la fedeltà, sia intesa in
senso ampio di fedeltà allo spirito dell’autore,
che nel senso più ristretto di fedeltà alla legge7, debba necessariamente informare l’attività dell’interprete.
4 - Alcuni problemi insiti
all’interpretazione giuridica
Ritornando allo specifico della interpretazione giuridica, i limiti ed i criteri propri ad una corretta interpretazione sarebbero da ricercarsi in
primis nel già richiamato articolo 12 delle Preleggi. Senza entrare nel merito dello stesso, appare
in ogni caso evidente che la stessa disposizione
menzionata debba essere a sua volta sottoposta
ad un processo interpretativo, la cui risultante,
come sembra assodato scorgendo il dibattito
dottrinale, non sarebbe certamente univoca.
È stato osservato come “le norme sull’interpretazione non impongono – a differenza
delle norme interpretative dettate per interpretazione autentica – la conclusione concreta di un giudizio logico, ma stabiliscono
solo limiti e criteri, principali o sussidiari,
entro l’ambito dei quali quella conclusione
va liberamente cercata”8.
Risulta pertanto sottoposta a serrata critica
la concezione, ben radicata nella cultura giuridica moderna, per la quale l’attività interpretativa ed applicativa della legge debba venire guidata esclusivamente da criteri logici,
di natura deduttiva, quasi che le proposizioni
conclusive di tale operazione possano venire
7 L’espressione è tratta dall’opera di Uberto Scarpelli;
cfr. in particolare i saggi I magistrati e le tre democrazie e Il
metodo giuridico apparsi sulla “Rivista di diritto processuale”, rispettivamente sulle annate XXV (1970), n. 4 e
XXVI (1971), n. 4.
8 E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici
(teoria generale e dogmatica). Citiamo dalla edizione curata da G. Crifò, Milano, 1971, pp. 248-249. L’opera apparve nel 1949.
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annoverate fra i giudizi analitici di carnapiana memoria9.
Quale antesignano dell’incontro fra il mondo
del diritto ed il positivismo giuridico può essere citato l’Alfredo Rocco de La sentenza civile, per
il quale, “ogni applicazione della norma giuridica, da chiunque, in qualunque forma, ed a qualunque scopo sia fatta, presuppone sempre un
giudizio logico, e precisamente un sillogismo,
in cui la premessa maggiore è data dalla norma,
la minore dal singolo rapporto di cui si tratta, la
conclusione da una norma di condotta speciale per quel dato rapporto, desunta dalla norma
generale”10. Contro tale posizione si esprime,
come noto, con toni polemici che sfiorano l’irriverenza, il Guido Calogero de La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione11.
Se il testo di Calogero può apparire, a ben
vedere e paradossalmente, marginale alla dottrina giuridica, proprio nei suoi gangli vitali si
manifesta l’avversione all’idea che l’interpretazione della legge si debba risolvere in un’automatica applicazione del testo.
In proposito Salvatore Satta, sulla scorta delle riflessioni di Giuseppe Capograssi12,
9 In proposito, più di cinquanta anni fa, è stato rilevato
all’interno della prospettiva processuale del diritto: “l’aspirazione ad un discorso interpretativo svolto secondo il
rigoroso procedimento definitorio e sillogistico, cioè
come una ricerca di carattere logico-formale, indifferente ad ogni contenuto di esperienza, può dirsi in fondo il motivo, latente o esplicito, di tutte quelle tendenze
metodologiche che vorrebbero risolvere ogni problema
e ogni dubbio interpretativo mediate l’esplicazione, in
definitiva tautologica, di ciò che logicamente è già tutto
contenuto o nella singola norma, o nel principio, o nel
sistema, o nell’intero ordinamento. Vale a dire in tutte
quelle tendenze che vanno dalle tradizionali posizioni
del dogmatismo e del concettualismo tuttora resistenti e rinnovatesi nel mondo dei giuristi, attraverso la
mediazione gnoseologicamente più approfondita del
formalismo, fino a quegli sviluppi recentissimi che
vorrebbero adattare ai problemi della giurisprudenza i
criteri di validità e i procedimenti elaborati dalla logica
simbolica, con un riferimento ancor più rigoroso alle
esigenze del formalismo logico e del matematismo”,
così L. Caiani, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, 1954, p. 146.
10 La sentenza civile. Saggi, Torino, 1906, p. 5.
11 Cfr. La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione,
Padova, 1937, p. 50.
12 Del pensatore di Sulmona in argomento si vedano
almeno i saggi Intorno al processo (ricordando Giuseppe
Sull’interpretazione della disposizione normativa
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
ebbe a rilevare come “difficilmente si possono ritenere esaustive le comuni definizioni
della giurisdizione, che anzi in certo qual
modo, in quanto presuppongono un sistema
chiuso, sono la negazione della giurisdizione
e comunque ne sminuiscono la portata. La
dimostrazione più evidente è data dalla definizione della giurisdizione come attuazione
della legge […]. Il fatto è che nella riferita definizione la legge è concepita come una volontà
esaustiva di tutta la realtà, un esterno comando, che è in rapporto meramente formale con
la giurisdizione, la quale si limita appunto ad
attuare quel comando. È come se si riducesse l’ordinamento ad uno spettacolare giuoco
delle parti, di cui una pone la legge, l’altra
l’applica, l’una comanda, l’altra trasmette il
comando e obbedisce o fa obbedire”13.
Il processual-civilista, che ritiene la giurisdizione essere attuazione di giustizia, ci fa
intendere senza mezzi termini, che la legge,
il testo che il giurista è chiamato ad interpretare, non esaurisce la realtà giuridica e che
l’ordinamento giuridico, a cui l’interprete
concorre, non si manifesta con la mera, pedissequa, applicazione della legge.
Per Satta, infatti, “se l’ordinamento vive nel
concreto, l’azione, la comune azione di tutti
gli uomini è l’ordinamento, perché nell’azione si chiude il ciclo che si è idealmente iniziato con la posizione della norma”14.
Sicché qui si tratta, prendendo le mosse dal
testo, di ri-produrre, di ri-creare, la legge, ovvero, riprendendo i termini propri alle speculazioni di Massimo Severo Giannini e di Vezio Criusafulli15, di trarre dalla disposizione la norma.
Chiovenda), ora in Opere, vol. IV, Milano, 1959 (ma 1938)
e Giudizio scienza verità processo, ora in Opere, vol. V,
Milano, 1959 (ma 1950).
13 Così sub voce Giurisdizione (nozioni generali), in
Enciclopedia del diritto.
14 Ibidem.
15 Cfr. Massimo Severo Giannini, Alcuni caratteri della
giurisdizione di legittimità delle norme, in “Giurisprudenza
costituzionale”, I (1956), n. 4-5, a cui segue il contributo
di Vezio Crisafulli, Questioni in tema di interpretazione
della Corte Costituzionale nei rapporti con l’interpretazione
giudiziaria; si rimanda altresì alla voce Disposizione (e
norma) redatta da Crisafulli ed apparsa nel 1964 sulla
Enciclopedia del diritto.
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Rileva in proposito, ancora sulla scorta
del pensiero capograssiano, Enrico Opocher
come il diritto non può “esser posto indipendentemente da un continuo confronto con la
cangiate realtà di quel mondo umano dal quale esso sorge come norma astratta ed al quale
ritorna come definizione di concreti rapporti. Come se l’applicazione, sia pure intesa in
quello che io preferirei chiamare il suo momento finale di osservanza spontanea e di accettazione vincolante e conseguente realizzazione forzata, non attuasse la piena posizione
del diritto […] giacché ciò che si pone indipendentemente dal processo di attuazione non è
il diritto e nemmeno la norma astratta, bensì
la fonte da cui la norma discende”16.
5 - Sull’interpretazione musicale
(il contributo di Salvatore Pugliatti)
L’osservatore si trova di fronte ad una prospettiva, nella quale si annovera la prospettiva
processuale del diritto17, che, pur non negando
l’esistenza e la cogenza di regole sull’interpretazione, ovvero l’obbligo che ha il giurista di attenersi strettamente alle disposizioni, ritiene,
senza per questo richiamarsi in modo esplicito alla Freirechtsbewegung, che la posizione della norma debba scaturire, in ultima istanza, da
una libera ricerca, che suppone l’adeguamento
della disposizione alla realtà sociale nella quale si concretizza in quanto norma.
A prima vista, questo modo di procedere si
fonda su di una (solo apparente) insanabile
contraddizione, i cui due poli sono rappresentati, per un verso, dall’obbligo di attenersi alle
regole e per altro, dalla necessità di una libera
ricerca del diritto. Oltre a questa questione si
palesa un altro e più pregante problema offerto dal pericoloso allontanamento dalla linea
della certezza (formale) del diritto segnata
dalla fedeltà alla legge.
La stessa questione pare possa venire ravvisata anche nell’ambito della interpretazio16 Rapporti tra teoria generale ed interpretazione nella prospettiva della «applicazione» del diritto, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, XLII (1965), n. 3.
17 Cfr. in argomento F. Cavalla, La prospettiva processuale del
diritto. Saggio sul pensiero di Enrico Opocher, Padova, 1991.
Sull’interpretazione della disposizione normativa
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
ne musicale, se l’indagine storica ci segnale
come, a detta di Richard Wagner, esecutore
ideale è l’interprete dotato in pari tempo di
talento inventivo e capacità di assimilare ed
eseguire il pensiero altrui18.
Anche nel campo musicale pertanto si
propone la contraddizione palesatasi nell’incedere d’una certa prospettiva giuridica, e
si ripropone anche il conseguente dibattito
dottrinale che vede, ad esempio, il Parente
schierarsi a favore della assoluta identità con
il pensiero dell’autore19, per una figura di esecutore passivo e perfettamente obiettivo, anche se questa esigenza è, a suo dire, impossibile da raggiungersi e rimane sul piano ideale
data “la insopprimibilità del personale spirito artistico dell’interprete”20, ed a lui opporsi
il Cione21 ed anche il Pugliatti, il quale, abbandonando momentaneamente gli studi giuridici, esige nell’esecuzione “una umana partecipazione, che di quei segni sparsi e morti
faccia una sola parola viva, intieramente sciogliendo ogni frammento esteriore, oggettivo,
nella libera creatività del soggetto”22.
Soffermiamoci brevemente sullo sconfinamento di Pugliatti dal mondo del diritto a
quello dell’interpretazione musicale23. Il no18 Così per lo meno Marc Pincherle, Interpretazione dello
strumentista, in Encyclópèdie française (citato da E Betti,
Teoria generale della interpretazione, cit., p. 760).
19 “L’esecuzione dell’opera d’arte è da riferire ad una
funzione pratica e non lirica, ed è insomma tecnica, non
creativa […] l’originalità può valere nell’ambito della creazione, non già in quello della resurrezione del passato,
rispetto al quale ogni originalità o soggettività si trova
in arbitrio”, A. Parente, La musica e le arti, Bari, 1936.
20 Ibidem.
21 E. Cione, Problemi di estetica musicale, in “Logos”, 1938.
22 Il testo di riferimento è il quasi introvabile saggio
su L’interpretazione musicale, redatto dal Pugliatti nel
settembre del 1938 e pubblicato a Messina (edizioni di
«Secolo nostro») nel 1940.
23 Come noto, la produzione letteraria di Pugliatti abbina scritti giuridici a riflessioni di carattere letterario
e musicologico. Se fra le prime vanno annoverati gli
scritti Interpretare la poesia, Messina, 1932, su Salvatore
Quasimodo e sul Mondo poetico di Vann’Antò, Messina,
1962; fra i secondi, oltre alla monografia che verrà qui
richiamata, spiccano i saggi Canti di primitivi, Messina,
1942, Carattere dell’arte di Vincenzo Bellini, Messina,
1946, “Semantica patetica” della musica, Messina, 1948,
Chopin e Bellini, Messina, 1952 e Le musicae traditiones
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stro autore, all’interno di un itinerario speculativo di chiara ispirazione idealistica24, che
lo porta ad enunciare il suo “credo nella realtà e nella creatività perenne dello spirito”25,
ritiene come “i fatti della esperienza, carichi
dei segreti sensi dell’umano (e di quell’insopprimibile divino che è nell’umano), non si lasceranno mai ridurre a cifre o segni, da legare
con tecnico giuoco di trasformazioni e combinazioni e semplificazioni. Meno che mai i
fatti dell’esperienza artistica, che sembrano
destinati a riscattare la nostra esistenza dal
ritmo monotono della quotidianità, e a realizzare l’unità superiore della vita e del sogno”26.
Per Pugliatti l’attività interpretativa si rivolge,
anche nell’ambito musicale, ad un testo da intendesi “come necessario limite esterno all’attività spirituale”27; ma il testo non va approcciato con intento meramente pratico28, dato
che attraverso l’interpretazione “si attua una
nuova sintesi creativa, nella quale l’opera del
compositore (o del poeta) opera come un fatto
dell’esperienza dell’interprete”29.
In questo senso, “i segni del testo possono
essere soltanto un veicolo attraverso il quale
di Francesco Maurolico, Messina, 1968. Va ricordato che
l’Università degli Studi di Messina dedicò al filone di
ricerca musicologico il convegno “Salvatore Pugliatti e
l’interpretazione musicale”, 9 e 10 febbraio 2004.
24 Cfr. ibidem, pp. 71-80.
25 Ibidem, p. 9. Per Pugliatti, “ciò vuol dire che l’interprete si definisce per virtù di una funzione creativa, la quale, nell’atto, può essere più o meno intensa, ma è sempre
e necessariamente presente”, ibidem, p. 22.
26 Ibidem, p. 10.
27 Ibidem, p. 17
28 Pugliatti in tal modo esemplifica l’interpretazione
“piegata a fini che sono esclusivamente pratici. La ricostruzione di un testo mutilo offrirà la materia al futuro
interprete della poesia; la determinazione del senso
della legge, ne renderà possibile l’applicazione al caso
concreto; la traduzione da una ad un’altra lingua, può
proporsi il modesto compito di apprestare uno strumento atto a stimolare la curiosità e l’interesse per la
conoscenza del testo originale, o ad aiutare a vincere,
per l’appunto, le difficoltà di ordine filologico. […] Di
questa funzione pratica della interpretazione non si
disconosce l’utilità; ma non è certo da ritenere che essa
sia la funzione propria dell’interpretazione, né che su
questo piano possa dirsi a pieno spiegato ed esaurito il
fatto interpretativo”, ibidem, p. 21.
29 Ibidem, p. 38.
Sull’interpretazione della disposizione normativa
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l’interprete può prevenire alla piena intelligenza dell’idea che mosse il compositore o il
poeta. L’interprete poi, se vuole – come si dice
comunemente – rievocare o ricreare l’opera
del compositore e del poeta (o di qualsiasi altro artista) deve trovare quell’unica e inedita
parola che esprime il mondo dei propri sentimenti, del quale è entrata a far parte anche
l’opera da interpretare, divenuta anch’essa un
momento della sua esperienza”30. Sicché per il
Pugliatti, il quale più volte nel testo richiamato prende criticamente le distanze dalla prospettiva interpretativa di Alfredo Parente31,
interpretare è “riesprimere l’idea (poetica) già
colta nella sua pienezza. [… N]uovamente esprimere, poiché l’idea poetica (e dunque tutta
l’opera nella sua totale pienezza ideale) fa parte dell’esperienza dell’interprete”32.
Pugliatti è conscio delle questioni sollevate,
fra gli altri dallo stesso Parente, in merito alla
possibile deriva arbitraria di una interpretazione lasciata per intero al gusto riproduttivo
dell’interprete, non più mero esecutore di opera altrui, ma vero e proprio protagonista del
processo di creazione dell’opera artistica. A tale
proposito, pur non sposando compiutamente
una prospettiva ermeneuticheggiante, come appare, in ambito musicale, quella proposta da
Ferdinando Ballo33, ritiene come “l’interprete
in quanto ricreatore [è] , senz’altro, creatore
di una realtà artistica”34, ma questo atto creativo non sfoci necessariamente nell’arbitro nel
momento in cui esso appaia ancorato alla realtà storico-culturale nella quale sorge. Infatti,
per Pugliatti, è ben vero che l’opera dell’interprete “come realtà artistica, è nuova creazione,
è realtà dell’interprete, e non può esser d’altri;
30 Ibidem, p. 59.
31 Si veda in argomento, oltre al testo di Parente già richiamato, la polemica fra lo stesso e Cione sui fascicoli
del 1932 della rivista “La rassegna musicale”.
32 S. Pugliatti, L’interpretazione musicale, cit., p. 139.
33 Pugliatti richiama espressamente il saggio di Ballo,
Interpretazione e trascrizione, apparso nel 1936 sulle
pagine de “La rassegna musicale”; cfr. la richiamata
L’interpretazione musicale a pp. 31 e segg., ove si riporta
un passo dello stesso Ballo, ai sensi del quale “la validità
storica del suo gusto personale è la misura della validità
della sua interpretazione”.
34 Ibidem, p. 46.
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espressione del suo mondo, realizzazione della sua personalità. Nella quale espressione si
sentirà, sì, l’eco della personalità del compositore, ma non quella soltanto; tutte le esperienze di vita, di cultura e d’arte saranno presenti,
ma come voci indistinte, tutte disciolte e insieme plasmate nella forma nella quale il mondo
dell’artista si è realizzato”35.
Se pertanto è l’attività interpretativa ad
offrire una realtà all’opera del compositore,
quest’opera di oggettivizzazione non può essere condotta attraverso l’utilizzo di mere tecniche esecutive o riproduttive che dir si voglia;
infatti “l’interprete deve trovare (propriamente: creare, non scoprire) di ogni nota (e di ogni
sillaba) il giusto suono che le attribuisce quella
espressività unica nella quale la visione artistica dello stesso interprete si concreta. Quel che
si dice: tocco del pianista, cavata del violinista,
non sono astratte attitudini tecniche (o non
sono questo soltanto), ma, nell’atto, la virtù del
giusto dosaggio sonoro, di quello che dà alla cellula del discorso musicale la sua piena capacità
espressiva. E questa virtù deve anche possedere
il declamatore o l’attore teatrale, poiché anche
la parola, per essere espressiva, quando è pronunciata, deve attingere la sua giusta sonorità:
che è quella sola, concreta, e non altra”36.
Non vi sono pertanto “regole e princìpi che
compongano una retorica musicale […] l’interprete che voglia dire qualcosa, che voglia esprimere quel che gli detta dentro (ed altro non potrà esprimere) non potrà mai appoggiarsi alla
regola o al precetto, irreali nella loro astrattezza, ma deve creare nell’atto quella misura, quel
timbro, quella melodia nella quali può vivere la
sua parola come elemento dell’espressione”37.
La posizione del giurista ritrova implicitamente il più che autorevole assenso di Wihelm
Furtwängler, che ritiene essere il compito
dell’interprete d’indole spirituale piuttosto
che tecnica, la quale si acquisisce più con il
cosiddetto trainig che con l’educazione della
propria personalità.
Sicché nel mondo della musica ritroviamo
rispecchiati gli stessi problemi e gli stessi di35 Ibidem.
36 Ibidem, p. 60.
37 Ibidem, p. 65.
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battiti che caratterizzano l’approccio giuridico
all’interpretazione.
Da un lato la richiesta di assoluta fedeltà al
testo, sia questo rappresentato dal pentagramma e dalla disposizione legislativa, che porta
ad esigere dall’interprete una interpretazione
letterale; dall’altro la tensione da parte dell’interprete a partecipare, seppure dal suo punto
operativo subordinato all’autore, alla realizzazione pratica dell’opera artistica, per un verso,
e del procedimento di ordinamento giuridico
della società, per l’altro.
Non appare fuori luogo rammentare che
proprio nell’ambito giuridico, ove la prospettiva della fedeltà al testo ha radici profonde, si
usi contrapporre certezza, derivante da questa
fedeltà, ad arbitrio frutto di una eccessiva libertà interpretativa (abbiamo anche osservato
come il termine arbitrio sia utilizzato anche
nell’ambito della critica musicale, ad esempio
dal Parente qui richiamato).
6 - Utili indicazioni tratte
dall’interpretazione musicale
La contrapposizione a cui siamo giunti potrebbe apparire insanabile, ovvero risolvibile
solo con un’aproblematica scelta di campo se
proprio un testo sull’interpretazione musicale non ci offrisse la possibilità di uscire da tale
scomoda posizione. Il testo è L’interpretazione
musicale di Giorgio Graziosi38.
Nel testo richiamato l’autore, sin dalle
prime battute, pone quello che per lui è il
nucleo del problema dell’interpretazione
musicale e, indirettamente, anche di quella giuridica. Infatti, Graziosi ritiene come
“prima di indagare sul rapporto testo-interpretazione, sarà da vedere l’altro: musicistatesto. In che misura, cioè, la grafia musicale assorbe ed esaurisce le intenzioni di chi
pensa e scrive musica?”39.
Si vede bene come la questione è centrale
proprio avuto riguardo al concetto di fedeltà
che si pone, in certa prospettiva, quale spartiacque fra la certezza e l’arbitrio.
38 Torino, 1952.
39 Ibidem, p. 18.
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Il linguaggio, per usare un termine generale, utilizzato dal compositore e dal legislatore,
è tale da ammettere un’unica ed univoca interpretazione-prodotto, oppure è la stessa struttura del linguaggio che induce l’interprete ad
intervenire attivamente con la propria personalità, artistica o sociale, sulla traccia segnata
dall’autore al fine di offrirne concretezza?
Graziosi non ha dubbi in riguardo; proprio
perché inadeguata a rendere “il senso esecutivo fisicamente preciso e mai variabile”, la grafia musicale “è completa e perfetta; di quella
perfezione e completezza inerente alla nostra
arte che, non essendo mai univoca, definita e
schietta ma multipla e cangiante, s’è scelta una
adeguata scrittura. Tale da fissarne l’essenza e
nel contempo non compromettere la inafferrabile, rotante, potremmo dire, esistenza”40.
Tutto ciò a significare come “l’opera musicale
non è la pagina, ma è nella pagina”41.
Grafia, quindi, quella musicale – che ai
profani erroneamente richiama i segni di un
linguaggio formalizzato – atta ad adeguare la
pagina vuoi alla personalità artistica dell’esecutore, che non è, in questa prospettiva, un
passivo ripetitore, vuoi, aggiungiamo noi, al
gusto predominante nel contesto socio-culturale a cui questa (esecuzione) è destinata.
Il che va a significare che la concatenazione di segni sul pentagramma, che forma nel
suo insieme una composizione, non è, per il
Graziosi qui richiamato, applicabile come, né
riconducibile per sua natura a, un algoritmo42,
ove la tecnica e l’incedere meccanicistico correttamente, all’interno di tale logica, elimina
l’inventiva del soggetto percipiente sino a trasformarlo in un automa. Un’interpretazione
meccanicistica appare impossibile non per
40 Ibidem, pp. 16 e 24.
41 Ibidem, p. 17.
42 L’algoritmo può essere definito come “l’insieme, ordinato in sequenza, di tutte le regole precise, inequivoche, analitiche, generali, astratte, formulate ex ante (cioè
prima che si presentino concretamente questioni da
risolvere e senza riferimento specifico ad esse), la cui
scrupolosa e letterale applicazione, da parte di chiunque, lo pone infallibilmente in grado di conseguire il risultato giusto (o esatto o voluto, come sia più appropriato
dire nei singoli casi)”. R. Borruso - C. Tiberi, L’informatica
per il giurista. Dal bit a Internet, Milano, 2001, p. 249.
Sull’interpretazione della disposizione normativa
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
deficienza della forma rappresentativa o per
l’arbitrio dell’interprete, che coscientemente
fraintende la forma al fine di far truffaldinamente emergere la sua personalità artistica offuscando quella dell’autore, due inconvenienti,
i difetti del linguaggio e la sregolatezza dell’interprete ai quali facilmente si potrebbe porre
rimedio, ma per l’intrinseca natura dell’oggetto del nostro parlare: della musica rispetto alla
quale si può riconoscere come “ogni musica
scritta è infinite musiche”43.
Il sapere musicale non si declina attraverso
procedure proprie al sapere logico-deduttivo;
le sue proposizioni non contengono giudizi
analitici, perché non sorgono dalla meccanica manipolazione dei segni secondo assiomi
aproblematicamente posti, appartengono ad
un altro mondo, magari definito da una estremizzazione del positivismo logico, come privo
di senso, ma che attraverso la personalità artistica dell’esecutore e quindi con la sua tensione all’interpretazione riproduttiva, fa nascere
nell’uditorio emozioni, mettendolo in movimento e facendolo reagire.
In questo senso si può affermare come “nei
riguardi del compositore la grafica è un mezzo
perfetto di comunicazione, in quanto ne esaurisce tutte le intenzioni, se sono di musicista e
non di scienziato”44. Il tutto con buona pace di
quello Strawinski, il quale, forse richiamandosi all’Arrigo Boito del celebre motto fortunate le
arti che non hanno bisogno di interpreti, auspica
l’avvento e l’affermarsi di una esecuzione meccanica della musica per mezzo di apparecchi
elettromagnetici che, eliminata la mediazione dell’interprete, pongano, per così dire, in
diretto contatto l’autore dell’opera ed il fruitore della stessa, offrendogli l’unica esecuzione
assolutamente corretta. Ancora una volta in
opposizione radicale con l’idea di “una musica
che non ha una bellezza, ma infinite bellezze,
tante quante sono le virtualità formali, esecutive (in senso stretto: sonore) implicite nella
grafia e che la grafia permette”45.
Qualora volessimo non accondiscendere
a questo incedere polemico dello Strawinski,
43 G. Graziosi, L’interpretazione musicale, cit., p. 40.
44 Ibidem, p. 28.
45 Ibidem.
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rimane aperto il problema di quella che genericamente viene definita la fedeltà all’autore.
Possiamo ipotizzare, una volta scartata la prospettiva semplicisticamente definibile come
logico-deduttiva, delle procedure di controllo
tali da accertare un rapporto di fedeltà, questa
volta però non di sapore formale, fra l’interprete e l’autore?
Prima di affrontare questa che sarà l’ultima
questione, ritorniamo brevemente al mondo
del diritto, ove i problemi possono venire declinati nel medesimo modo.
7 - Sull’adeguatezza del linguaggio
Infatti, parimenti a quello dell’interpretazione musicale, anche l’oggetto dell’interpretazione giuridica, a maggior ragione se ci riferiamo alla disposizione normativa, è un testo
redatto per tramite di segni rappresentativi il
cosiddetto linguaggio ordinario.
Un linguaggio che il più delle volte viene
definito difettoso. Ovviamente il termine di
paragone, per poter predicare tale qualifica
al linguaggio usato dai giuristi, è anche qui
il linguaggio formalizzato, ove ad ogni segno
corrisponde un unico significato. In questo
senso si apre, sulla scorta della riflessione
di Alf Ross46, l’analisi dei difetti semantici e
sintattici d’un linguaggio che, sia pur utilizzando termini settoriali, rimane pur sempre
aperto ad ambiguità e vaghezze tali da rendere fraintendibile il suo reale (nel senso di corretto) significato, il quale dovrebbe, dato che
ci troviamo nell’ambito della interpretazione
normativa, rettamente indirizzare il comportamento del destinatario.
Sorge pertanto legittima, anche in questo
particolare ambito, la domanda intorno all’adeguatezza o meno di tale linguaggio ad esprimere in modo non dubbio l’indicazione normativa, a maggior ragione avuto riguardo alla
disposizione contenuta nell’articolo 12, primo
comma, delle Disposizioni sulla legge in generale,
la cui prima parte è incentrata sul significato
proprio delle parole (la seconda introduce il riferimento all’intenzione del legislatore).
46 Cfr. Diritto e giustizia, trad. it. Torino, 1965 (ma
Copenaghen, 1953), §§ 24-27.
Sull’interpretazione della disposizione normativa
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
Per incidens va osservato come anche a seguito di quanto sopra fin troppo succintamente
accennato si sviluppino gli studi di legistica o di
redazione del testo normativo, i quali, nei loro
sviluppi più coerenti, sempre in considerazione
ai presupposti in base ai quali sorgono, propongono un itinerario di semplificazione, purificazione e, di fatto, formalizzazione del linguaggio
giuridico, processo improntato sul rapporto di
casualità, in modo tale da tramutare le disposizioni in veri e propri algoritmi da applicarsi
automaticamente (e nel far ciò sviluppano coerentemente premesse teoretiche presenti nella
scienza giuridica moderna sin dai suoi albori)47.
Se, come evidenziato, esiste una forte e ben
radicata tendenza a ritenere che la certezza del
diritto si realizzi nella pedissequa adesione
al dettato legislativo (da cui un’idea di fedeltà
alla legge di sapore prettamente formalistico), non per questo non sussistono in ambito
giuridico prospettive che riconoscono proprio
nelle cosiddette imperfezioni del linguaggio,
sulle quali si sviluppa l’intervento non passivo
dell’interprete, il momento centrale ed ineliminabile dell’esperienza giuridica.
Allo stesso modo della grafia musicale, sulla quale interviene il Giorgio Graziosi qui richiamato, anche all’interno del discorso giuridico riscontriamo elementi non definiti, qui
esemplificabili con il richiamo alle clausole
generali o ai concetti giuridicamente indeterminati rintracciabili nelle disposizioni normative, le quali fissano così principi generali
la cui determinazione nel caso specifico è lasciata all’attività interpretativa posta in essere
dalla giurisprudenza, la quale di volta in volta
adegua il significato di un significante vago o
ambiguo in modo tale da riconnettere la norma tratta dalla disposizione ai valori ed agli
interessi contingentemente presenti nella realtà sociale in cui troverà applicazione.
47 Cfr. G. Taddei Elmi, Corso di informatica giuridica,
Napoli, 2000, pp. 48 e segg., A. Amato Mangiameli,
Diritto e cyberspace. Appunti di informatica giuridica e di filosofia del diritto, Torino, 2000, pp. 132 e segg,, A. E. Perez
Luño, Saggi di informatica giuridica, trad. it. Milano,
1998, pp. 75 e segg. Più in generale sul procedimento di
purificazione del linguaggio insito alle procedure logico-formali si veda la voce di H. Putnam, Formalizzazione,
in Enciclopedia Einaudi.
issn 2035-584x
Tutto ciò non sarebbe possibile ove ci si trovasse ad operare con un linguaggio formalizzato e con la logica che ne presiede lo svolgimento.
Anche in questo caso, quindi, non si riscontra una granitica posizione della norma, che si
ritrova a coincidere perfettamente con il testo
della disposizione, ma alla possibilità di trarre
dalla disposizione una molteplicità di possibili significati, che possono ritrovare la loro giuridicizzazione nell’ambito del giudizio.
Il che implica non la presenza di una predeterminata certezza del diritto – o di una giustizia prefigurata al caso di specie – ma la ricerca
e la realizzazione concreta della certezza nel
caso in giudizio anche attraverso l’attribuzione alla disposizione di un significato che appaia consono alla risoluzione della controversia.
8 - Per un superamento dell’arbitrarietà
La rottura con la tradizione della pedissequa fedeltà al testo, ovvero, per quanto concerne il mondo del diritto, con quella prospettiva
legolatrica48, che ha caratterizzato buona parte
della scienza e della prassi giuridica degli ultimi due secoli49, pare raccogliere fra i suoi portati il forte depotenziamento del valore della
certezza del diritto50.
A ben vedere è soltanto una particolare rappresentazione della certezza del diritto che risulta menomata da questa prospettiva critica:
la certezza di sapore matematico.
Seguendo tale itinerario critico appare, infatti, possibile recuperare un altro genere di
certezza; nel far ciò l’accostarsi ancora una volta al mondo dell’interpretazione riproduttiva
può sicuramente essere d’aiuto.
Rileva Emilio Betti nel § 39-a della sua Teoria
generale della interpretazione, dalla quale abbiamo preso le mosse, come “si può dire che anche
48 Cfr. in argomento lo scritto di P. Moro, Il giurista telematico. Informatica giuridica ed etica della mediazione. In P.
Moro (a cura di), Etica informatica diritto, Milano, 2008
(con contributi di M. Cossutta, P. Heritier, F. Macioce, G.
Marzotto, A. Montanari, F. Puppo, C. Sarra, R. Scudieri).
49 Cfr. il testo di P. Grossi, L’Europa del diritto, Roma-Bari, 2007
e, ancor prima, S. Cotta, La sfida tecnologia, Bologna, 1968.
50 Cfr. in merito le riflessioni di N. Bobbio, Teoria della
norma giuridica, Torino, 1958 e, dello stesso autore, Teoria
dell’ordinamento giuridico, Torino, 1960.
Sull’interpretazione della disposizione normativa
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
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in materia d’interpretazione riproduttiva si sia
verificato il fenomeno della divisione del lavoro
che si è prodotto nelle varie branche dell’attività
umana. La figura d’interprete cui ha messo capo
nella fase più recente la evoluzione differenziatrice delle attività interpretative, ha assunto
una funzione mediatrice, non solo fra autore e
pubblico, ma anche fra autore e immediato esecutore dell’opera”. Sicché, nella visone del Betti,
alla messa in scena di un’opera, ovvero al suo
fondersi armoniosamente con la realtà socioculturale nella quale e per la quale è ri-prodotta,
concorrono più protagonisti: dall’autore della stessa, agli attori o esecutori, al direttore, al
pubblico “ne’ riguardi del quale si presuppone
il gusto atto a vigilare le soluzioni dei problemi
espressivi che l’opera di riproduzione presuppone”, ed infine il critico che ha “funzione di
collaborazione, rivolta a rendere avvertiti gli interpreti e il pubblico”. Egli ci suggerisce come “il
regista e il direttore d’orchestra, attori e esecutori, pubblico e critici, sono insieme chiamati a
còmpiti ermeneutici differenziati che, insieme
integrandosi, dovrebbero servire ad una ideale collaborazione, rivolta ad intendere in una
grande comunione d’intelligenza il senso del
poema drammatico o musicale”51.
All’interno di questa prospettiva il prodotto
dell’attività interpretativa è, di fatto, il frutto
della collaborazione di forze diverse, ognuna
delle quale partecipa all’operazione volta ad
intendere il significato del testo originale, ed
il significato prodotto viene a sua volta sottoposto al controllo (ancora Betti: “non in senso
matematico, ma dialettico ed ermeneutico”52)
dell’intera comunità che ha partecipato, sia
pure in differente maniera, a determinarlo.
In questo contesto è l’armonico fondersi
con un complesso socio-culturale che determina il successo dell’interpretazione, non la
sua matematica aderenza al testo; il fiasco, a cui
si faceva cenno nel paragrafo secondo, non
è tanto determinato dalla deficienza tecnica,
comprensiva questa del fraintendimento del
testo, quanto dall’essere l’interpretazione in
disarmonia con le aspettative socio-culturali
presenti in un determinato contesto e sempre
in evoluzione. Evoluzione a cui deve tenere
dietro l’interpretazione riproduttiva per rimanere in sintonia con l’ambito in cui è proposta;
è la rottura delle aspettative che, in massima
parte, determina il fiasco.
Si vede bene come l’interpretazione fedele
non deve corrispondere soltanto al senso voluto dall’autore del testo, ma anche e soprattutto al
contingente recepimento dello stesso nel contesto socio-culturale in cui viene vivificato (Betti
direbbe “nel senso cioè di una corrispondenza
di sensi” e non di una geometrica identificazione), perché in buona sostanza è questo contesto
che lo ri-produce e che ne certifica la fedeltà.
È il controllo dialettico, posto in essere dai
partecipanti (ancora richiamiamo i soggetti
indicati dal Betti: regista e direttore d’orchestra,
attori e esecutori, pubblico e critici) ad una esperienza artistica che ne certifica o meno la corrispondenza al senso comune e, con questa, ne
proclama o meno il successo.
Lungo questo itinerario può collocarsi anche l’inesauribile ricerca della certezza del
diritto, la quale lungi dall’apparire rigorosa
correttezza logico-formale (in vero irraggiungibile dato il materiale con cui il giurista opera), più modestamente si palesa quale fragile
certezza dialettica53 capace però di istituzio-
51 Così a pp. 644-645 della edizione citata. Non appare fuorviante rammentare come il Luigi Pirandello di
Questa sera di recita a soggetto rileva, per tramite di un suo
personaggio, il Dr. Hinkfuss: “ciò che a teatro si giudica non è mai l’opera dello scrittore, ma questa o quella
creazione scenica che se n’è fatta, l’una diversa dall’altra;
tante, mentre quella è una. […] Se un’opera d’arte sopravvive è solo perché noi possiamo ancora dismuoverla dalla fissità della sua forma; sciogliere quella sua forma in
noi in movimento vitale; e la vita gliela diamo allora noi;
di tempo in tempo diversa, e varia dall’uno all’altro di
noi; tante vite e non una”.
52 Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 645.
53 Cfr. F. Cavalla, Il controllo razionale tra logica, dialettica e retorica, in Atti del XX Congresso Nazionale della
Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica, Padova,
1998, p. 41 (con contributi di M. Taruffo, B. Montanari,
G. Fiandaca, P. Comanducci-R. Guastini, G. Pecorella,
M. Jori, A. Pintore, D. Zolo, A. Margara, V. Albano, L.
Alfieri, P. Borsellino, G. Incorvati, L. Ferrajoli, V. Villa,
M. Fracanzani, M. A. Cattaneo, G. Insolera, P. Pittaro,
G. Melis) e, dello stesso autore, Retorica giudiziale, logica e verità, in F. Cavalla (a cura di), Retorica processo verità.
Principî di filosofia forense, Milano, 2007 (con contributi
di A. G. Conte, S. Fuselli, M. Manzin, P. Moro, C. Sarra, P.
Sommaggio, D. Velo Dalbrenta, F. Zanuso).
Sull’interpretazione della disposizione normativa
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
nalizzarsi nel contesto sociale non per atto
di arbitraria volontà (come taluni ritengono
che debba avvenire una volta abbandonato il
regolo), ma in seguito alla sua aderenza ai luoghi comuni (èndoxa), che verificano la corrispondenza dell’interpretazione-prodotto “al
contesto storico, o culturale, o linguistico in
cui tutti si muovono e che condiziona ogni
argomentare”54.
In conclusione va ribadito come il mondo del diritto è intriso di cosiddetti concetti
(giuridici) indeterminati; basti pensare, per
rimanere in un’area di diritto civile, all’idea di
buona fede presente nel Codice civile in tema
di contratti (articoli 1337 e 1338 – buona fede
nelle trattative, 1366 – buona fede nell’interpretazione, 1375 – buona fede nell’esecuzione),
al concetto di buon costume richiamato dall’articolo 1343 dello stesso Codice in materia di
causa del contratto illecito, al proverbiale buon
padre di famiglia richiamato dall’articolo 1176
sempre del Codice Civile, o ancora all’idea di
ordine pubblico propria al sistema italiano di diritto internazionale privato, di cui all’articolo
16 della L. 218 del 1995.
Nell’ambito del diritto penale appare indicativo il riferimento alla morale pubblica, offesa da “atti osceni”, di cui all’articolo
527, o da “immagini o altri oggetti osceni”,
di cui all’articolo seguente. Ed è altrettanto
indicativo che appaiano osceni, ai sensi della disposizione dell’articolo 528, gli atti e gli
oggetti, “che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore”.
54 Così E. Berti, Nuovi studi sulla struttura logica del discorso filosofico, Padova, 1984, pp. 369-370. La citazione di
Berti ci induce a richiamare gli studi di ermeneutica giuridica condotti da G. Viola e G. Zaccaria; cfr. in proposito
il volume Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, Roma-Bari, 2000. Lo stesso Zaccaria
rileva come “chi applica il diritto, con qualunque metodo proceda, è legato a quello sfondo intersoggettivo,
costituito dal suo rapporto stratificato non soltanto con
le norme e i precedenti, ma anche con le categorie dogmatiche, dottrinali e culturali. […] L’interpretazione giuridica è sempre il frutto dell’attività di un soggetto, che
comprende e opera all’interno di un contesto, muovendo da una precomprensione e inserendosi in una prassi
e in una comunicazione, che coinvolgono la comunità”,
Precomprensione, principi e diritto nel pensiero di Josef Esser.
Un confronto con Ronald Dworkin, in “Ragion Pratica”, VI
(1998), n. 11, p. 149.
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Termini tutti che, se osservati attraverso
lo spettro del rigoroso analista del linguaggio appaiono quanto meno indeterminati,
più propriamente vaghi, dato che gli ipotetici
contorni del significato espresso dal significante sono estremamente imprecisi e costantemente in evoluzione.
Ciò non di meno, proprio se raffrontati
con i luoghi comuni qui richiamati, i concetti
giuridici indeterminati sono determinanti nel
dispiegarsi dell’esperienza giuridica, perché
permettono, per così dire, all’esperienza di armonizzarsi con il contesto sociale nel quale si
colloca sì da evitare che la stessa, se costituita
lungo un asse di precostituita autoreferenzalità, per un verso si anteponga e per l’altro si
contrapponga, ovvero si manifesti estranea,
alla legalità sociale, al sentimento comune. I
concetti giuridici indeterminati rappresentano, quindi, degli elementi necessari al fine di
poter determinare in un contesto sociale un
intervento giuridico, sono proprio questi che
permettono all’esperienza, intesa nel senso
di ricerca, di dispiegarsi.
In loro assenza l’esperienza giuridica si
rappresenterebbe esclusivamente come valutazione formale di un concreto accadimento
secondo astratti criteri, ovvero secondo parametri impermeabili al concreto svolgersi ed
evolversi della vita sociale. È nella ricerca inesauribile di una valutazione del fatto concreto, che non sia avulsa dal sentimento sociale,
ma non sia nemmeno da questo indirizzata
ed inficiata, così da trasformarsi in pedissequa istituzionalizzazione giuridica del opinione del volgo (democrazia), che si sostanzia
e mai si esaurisce la ricerca della certezza del
diritto, esperire che è reso possibile anche
dalla apparente indeterminatezza di alcuni assunti all’interno delle regole sì da permettere
il manifestarsi ed il valutarsi di una regolarità
non formalisticamente intesa.
Non appare fuori luogo riconosce a chiusura
di questo intervento, come, ancora all’interno
della prospettiva processuale del diritto, nel 1954
Luigi Caiani riconosceva “che, dal punto di vista giuridico (come sotto molti aspetti anche da
quello scientifico) il linguaggio è un fenomeno
tipicamente sociale, e quindi che l’uso da parte
Sull’interpretazione della disposizione normativa
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
del legislatore di determinati significati linguistici, che si riferiscano a cose, a concetti, a situazioni, a bisogni, a interessi o a comportamenti,
dipende in ultima analisi dal valore sociale che
essi vengono mano a mano assumendo. Valore
che pertanto non è affatto così oggettivo e immutabile come potrebbe sembrare”.
Questo, infatti, seguendo il pensiero del
giurista padovano, dipende da molteplici
fattori “in cui concorrono vuoi la costitutiva
storicità e dialetticità delle istituzioni e dei
rapporti umani, che pertanto si riflette sullo
stesso significato dei termini che vi si riferiscono, vuoi, in particolare, tutti quegli altri
elementi di carattere sociale ed anche tecnico […] nella quale date parole vengono usate
e introdotte”. Da qui deriva “la modificazione
del loro significato in ragione della evoluzione storica della realtà e dei rapporti sociali
cui essi si riferiscono”. In questo modo, per
l’autore, si coglie “il processo di traduzione e
recezione delle valutazioni sociali metagiuridiche nell’ambito dell’ordinamento positivo,
cioè in forma giuridicamente valida […]. Vale
a dire che è in questo compito fondamentale
della giurisprudenza che si può cogliere, in
un certo senso, lo stesso processo produttivo
del diritto, il quale invero, da questo punto
di vista, potrebbe esser visto come un processo sempre più approssimato e determinato
di traduzione dei giudizi di valore operanti socialmente in giudizi di valore operanti
giuridicamente”55.
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Marco Cossutta, professore associato di Filosofia
del diritto nell’Università degli Studi di Trieste, ove
dirige il corso di master in primo livello in Analisi e
gestione della comunicazione organizzato in collaborazione con il CERMEG.
*Il presente contributo raccoglie il testo
dell’intervento tenuto alla Scuola di dottorato
in Giurisprudenza il 26 novembre 2010 presso
l’Università degli Studi di Padova nell’ambito
dell’incontro promosso dal Direttore della stessa,
il prof. Francesco Cavalla, su “Interpretazione
giuridica e interpretazione musicale”, che ha
visto la partecipazione del M° Claudio Scimone
55 Così ne I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica,
cit., p. 209 e segg.
Sull’interpretazione della disposizione normativa
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Mass moda,
strumento di comunicazione di massa
Raffaella F. Marin
Abstract
La Moda, originariamente vista come accessorio di uno
stile di vita tipicamente femminile, negli ultimi decenni ha assunto una connotazione culturale molto più
ampia e complessa. Infatti, grazie ai corsi di Laurea di
settore, ai Master accademici ed alle scuole di specializzazione che hanno riconosciuto ed istituzionalizzato
il fenomeno, essa è divenuta elemento caratterizzante
nella storia del costume e simbolo fiero ed autorevole
nelle nuove tecnologie della comunicazione di massa.
In questa prospettiva, il Made in Italy si propone non
solo come capitale economico transnazionale, ma come
riflessione sulle origini della Moda che affascina l’uomo
fin dai tempi più antichi. Creare Moda significa esprimere un mondo interiore attraverso il corpo rivestito,
dove modelli culturali, valori e tradizioni si riflettono
in un complesso significato e si esprimono nel mondo,
mediante un dialogo non verbale.
Moda,
concetto di identità e identificazione
ed economico. Oggi la Moda rappresenta uno
dei massimi capitali economici del nostro paese e lo “stile italiano” è la voce più altisonante
in tutti i paesi del mondo. La Moda italiana è
simbolo di creatività, è un grido di successo riconosciuto che non ha pari.
Ma da dove inizia la Moda? Sappiamo che
fin dai tempi più antichi l’uomo ha utilizzato
forme di rivestimento del corpo che oltre ad
avere una logica funzionale di protezione dai
fattori ambientali, intendevano affermare il
proprio status ed esprimere la propria personalità mediante un linguaggio di simboli. Il
rivestimento del corpo costituiva quindi non
solo una necessità, ma una precisa volontà di
affermazione della propria identità. Per comprendere la moda in senso attuale è necessario
riconoscere che il fenomeno nasce da un senso
di “identità propria” che si stacca da una molteplicità di biografie possibili e si realizza come
risultato di appartenenza che è condizionata
dalle esperienze del proprio vissuto. Ogni stilista infatti, per quanto singolare e caratteriz-
L
a Moda1, è ancor oggi un argomento che
genera non poche perplessità nell’ambito delle scienze umane, nonostante autori di
notevole rilevanza, abbiano posto i capisaldi
su validi apparati teorici che intendono rappresentare il fenomeno Moda, intesa come
forma compiuta in un contesto socio-culturale
1 Il termine Moda, inteso come foggia corrente nel vestire, è la diretta traduzione del francese mode, vocabolo
apparso per la prima volta,nel 1482 al posto di manière e
façon, per indicare uno specifico tipo di abbigliamento
(N. Bailleux-B. Remaury, Moda. Usi e costumi del vestire,
Torino, 1996. Si riportano due definizioni del termine,
la moda come “l’usanza più o meno mutevole che, diventando gusto prevalente, si impone nelle abitudini, nei
modi di vivere, nelle forme del vestire”, tratta da Il grande dizionario Garzanti della lingua Italiana, Milano,1993 e
moda come “un principio universale, uno degli elementi della civiltà e del costume sociale, che interessa non
solo il corpo ma anche tutti i mezzi di espressione di cui
l’uomo dispone”, G. Devoto, G. Oli, Il Dizionario della lingua italiana, Firenze, 1995.
parole chiave:
Moda e identità; Moda e appartenenza;
Stereotipie della Moda.
Mass moda, strumento di comunicazione di massa
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zato da una scelta di “stile”2, racconta la propria
crescita e le proprie preferenze, attraverso le
sue creazioni che costituiscono il sunto di una
lunga e ricercata preparazione artistica e culturale..Per quanto ogni percorso possa essere
individuale, è comunque condizionato dal processo di cultura e di socializzazione che pone le
basi per una determinazione di modelli e regole. Naturalmente questo complicato processo
non si svolge in modo lineare e cumulativo, in
quanto ogni individuo si trova spesso a doversi confrontare con nuove situazioni e a doversi
“ristrutturare” ridefinendo la propria identità
in relazione al mondo esterno, sia dal punto di
vista cognitivo, che da quello emozionale.
Charles-Frederic Worth il “tiranno della
moda”, (così definito, per il suo carattere insolente ed irascibile, dall’ Imperatrice Eugenia che
gli commissionava tutti i suoi abiti da ballo) è il
primo grande stilista che firma i propri modelli
rendendoli così, proiezione reale della propria
identità3. Con quasi oltraggiosa innovazione,
nel 1858 accorcia le gonne lasciando esposto
lo stivaletto, liberandosi in questo modo dallo
schematismo del modello per trasmettere attraverso l’abito, il messaggio provocatorio di seduzione e di profonda volontà di liberazione dagli
stereotipi istituzionali, pur mantenendone gli
schemi. Ma è Paul Poiret il vero rivoluzionario
della moda che, appassionato dall’ esperienza
coloniale, enfatizza la teatralità nell’abito ispirandosi all’ Oriente, ai ricchi drappeggi di morbide stoffe e alle danze sensuali delle odalische,
stravolgendo radicalmente il costume tradizio2 Una delle definizioni che dava Segre era “L’assieme dei
tratti formali che caratterizzano un gruppo di opere, costituito su basi tipologiche o storiche”, C. Segre, Stile , in
“Enciclopedia Einaudi”, vol. XIII, Torino, 1981, pag 549, P.
Calefato, Mass Moda Linguaggio e immaginario del corpo
rivestito, Roma, 2007.
3 L’affascinante Eugenia de Montijo, fu imperatrice dei
Francesi dal 1853 al 1870 in virtù del suo matrimonio con
Napoleone III; Eugenia dettò la moda: quando alla fine
degli anni sessanta abbandonò le crinoline su consiglio
del suo leggendario stilista inglese, Charles Frederick
Worth, le donne di tutta Europa seguirono il suo esempio. Worth fu il primo a contrassegnare i propri modelli
apponendovi il suo nome, a dividere la moda in stagioni
ed a fornire i cartamodelli delle sue creazioni sul mercato, evitando così qualsiasi imitazione, J. Laver, Histoire de
la Mode et du Costume, Paris, 1990.
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nale. Toglie coraggiosamente il castigato corsetto agli abiti femminili, liberandosi così dallo
schematismo del modello di identità parigina
per assumere un comportamento trasgressivo,
proiettando il “suo” significato identificativo in
un messaggio contrastante con gli stereotipi
sociali dell’epoca. Da una prospettiva analitica,
la componente “identificazione” si riferisce alle
figure con le quali l’individuo si sente simile e
condivide con esse determinati caratteri, siano
essi di tipo sociale, artistico, etico, religioso, morale o di pensiero. Tra gli anni Sessanta e Settanta, ad esempio, si osserva un desiderio radicale
di mutamento identificativo che si annuncia e
si propone fin da subito attraverso il corpo rivestito. L’Isola di White, in Inghilterra, ospita un
gruppo di giovani provenienti da diversi paesi
europei che appartengono al neo-movimento
“Hippy” e che, in tempi inaspettatamente brevi,
diffonde le proprie ideologie ed i propri codici
basati su una visione di libertà dalle costrizioni
del capitalismo. I capelli lunghi simboleggiano la naturalezza, mentre gli abiti decorati con
motivi floreali, diventano il simbolo esacerbato
del movimento Hippy che oltrepassa i confini
dell’abito, riproducendo il decoro anche sulla
pelle. È una voce fuori dal coro istituzionale,
un urlo sociale e politico che si manifesta prepotentemente attraverso il vestire e che si riconosce in una nuova identità psico-sociale come
Figli dei fiori. Prediligono il contesto naturale che
vuole esprimere la volontà di “scelta”, in dissonanza con un momento storico, travolgendo
ogni stereotipo fino ad allora vigente.
Tra gli anni Ottanta e Novanta prende invece vigore il “multiculturalismo” con l’intento
di interpretare un mondo senza confini, attraverso la produzione del brand multietnico e del
richiamo all’esotico che nasce da un punto di
vista olistico, dove l’altro diverso da me, diventa motivo di ispirazione dove io mi voglio riconoscere e ritrovare. Termini come “stile Etno”
o “Etno-chic” diventano così la parola d’ordine
del pret a porter e degli accessori che, immancabilmente ne completano il look.
Questi brevi richiami storici evidenziano
pertanto, come l’identificazione conduca alla formazione del senso di appartenenza ad una entità collettiva che comunica mediante un unico
Mass moda, strumento di comunicazione di massa
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
linguaggio di simboli. In altre parole, è fondamentale che l’individuo spesso costretto a cambiamenti, sia in grado, pur identificandosi nel
corso della vita con modelli diversi, di mantenere stabile la propria identità: “Io, qui, ora”.
L’identificazione potrebbe in certi casi, anche contrapporsi al proprio senso di identità
con forme violente, dolorose, stridenti agli
stili tradizionali e potrebbe a volte celare una
volontà di distacco e di scioglimento dai propri canoni e dai propri valori, impegnandosi
in una ricerca di nuove ideologie, di crescita
esperienziale, di orizzonti ancora ignoti e non
sempre palesemente accettabili.
Pertanto, se identità e identificazione rappresentano le due facce della stessa medaglia,
sorge spontanea la domanda: dove si colloca
la mediazione per ottenere un risultato ottimale e non contradditorio in un mondo mediatico e comunicativo che percorre in pochi
secondi l’intero pianeta? Il mio corpo rivestito
veicola un insieme di codici che parlano a coloro che mi osservano, trasmettono ciò che io
cerco di spiegare, di imporre, di chiedere con
la mia presenza. E mentre mi esprimo, leggo
i contenuti dei messaggi di coloro che osservo; contenuti espressi, voluti, ricercati, a volte
impliciti, altre volte stonati, altre volte ancora
maldestramente nascosti. Il mio corpo vestito
è oggetto scritto e contemporaneamente letto
nel mondo, mentre sono impegnata a leggere
il mondo attorno a me, perché la Moda è un
linguaggio di corpi che dialogano attraverso
l’abito. Ma cosa succede quando l’identificazione è proiettata verso uno stereotipo che esce
da ogni canone di valori tradizionali e condivisi? E se per caso la ricerca di identità si identifica con uno stile di vita che vive ai margini?
Se il bisogno di metamorfosi porta alla ricerca
di modelli che appartengono a “stili da strada”,
che si rappresentano con un linguaggio di tipo
sotto-culturale ostentando i propri codici con
un messaggio di provocazione? L’esempio più
eclatante nasce nelle strade di Londra negli
anni ottanta e proprio mentre la famiglia reale
ostentava ad Ascot vistosi cappelli piumati e
tailleur di seta italiana, nell’East-End di Londra
i ragazzi si trafiggevano il volto con spille da
balia e pearcing, indossando abiti logori rigo-
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rosamente neri, in contrasto con i capelli coloratissimi raccolti a “cresta”. È l’abbigliamento
Punk che negli anni ottanta si è imposto prepotentemente nella radicata storia monarchica e
conservatrice, contrapponendosi al concetto
di stile istituzionalizzato, volto alla sobrietà, concepito fino ad allora, come termine di
esaltazione dell’ eleganza e della tradizione.
L’intelligente revisione ed elaborazione dello
“stile da strada” della stilista inglese Vivienne
Westwood è riuscita a sfondare i cancelli di
Buckingham Palace, permettendo che la moda
punk ripulita dagli eccessi, entrasse nei salotti della famiglia Windsor e venisse in questo
modo riconosciuta ed istituzionalizzata come
forma creativa ed espressiva di Alta Moda.
Grazie alla Westwood l’abito da strada è riuscito ad oltrepassare la pesante linea di confine,
entrando prepotentemente in un mondo dove
gli statuti ideologici tradizionali e conservatori erano indici caratteristici di una volontà
condivisa, fondata su valori sociali collocati in
una morale di estetica normativa. Già molto
prima del movimento Punk, il filosofo Roland
Barthes aveva descritto questi movimenti rivoluzionari stilistici come “trasformazioni”4
, a sfida dello stile conservativo e canonico,
proponendo quello che potremmo definire un
passaggio, una forma di allargamento del concetto di stile che dà voce ad una molteplicità di
discorsi, che alimentano una memoria storica
radicata nel tessuto culturale.
Stereotipi e cultura della moda
Il tema della Moda e dello stile si inserisce
nel tema molto più ampio degli atteggiamenti ed accomuna gli stereotipi verso l’estetica.
Benché la Moda sia oggi fenomeno transnazionale espressa da stilisti di diverse origini,
permane la convinzione che la Moda sia un
prodotto occidentale, una emanazione dei
nostri modelli culturali che vanno dal Risorgimento alla Rivoluzione Industriale, per
4 “Trasformazioni derivate sia da formule collettive
(dall’origine indefinibile, ora letteraria, ora preletteraria) sia, per gioco metaforico, da forme idiolettali”,
R. Barthes, Le bruissement de la langue. Essais critiques IV;
Paris, 1984. Id., Il brusio della lingua; Saggi critici IV, trad.
B. Bellotto, Torino, 1988, p.133.
Mass moda, strumento di comunicazione di massa
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
perpetuarsi e dare forza allo stato attuale di
stile e modernità nel mondo.
In realtà, nel mercato globale, il rapporto tra
Oriente e Occidente si colloca attualmente in
un quadro di evidente mutamento: l’Asia compete con l’Europa non soltanto per la crescita
del sistema economico, ma anche da un punto
di vista di tradizioni dove la Moda costituisce
un punto di vista privilegiato. La competizione tessile offre molti spunti di riflessione sul
ribaltamento dei ruoli, dove la relazione sartoriale tra i due paesi, si apre a nuove prospettive,
sia nel campo dello stile che in quello dell’industria5. Con l’avanzata economica e culturale
asiatica, la Cina per prima, gioca il suo ingresso nel settore internazionale della Moda, non
solo come popolo di tradizione e “senza moda”,
di produttore o acquirente di noti marchi europei, di “copiatore” della moda occidentale, ma
bensì come riconosciuto creatore di stili. Le
premesse erano chiare già alla fine dell’Ottocento come ben dimostra l’analisi simmeliana
dove la Moda è descritta come forma che permette “l’oggettivazione” la riproducibilità tecnica di massa, definendola “Una forma con gli
stessi diritti delle opposte correnti della vita:
imitazione e innovazione, interiorità ed esteriorità, finalità individuali e finalità sociali”6.
È lecito oggi, definire la moda come sistema
mediatico, come mezzo di comunicazione di
massa che si riproduce e si diffonde secondo
modalità mass-mediatiche7, prime fra tutte il
giornalismo di settore. Il vasto “Pianeta Moda”
coinvolge oggi figure altamente specializzate, impegnate non solo nell’ ideazione e nella
5 S. Segre Reinach , Manuale di comunicazione, sociologia
e cultura della moda; vol. IV: Orientalismi, Roma, 2006,
Segre Reinach analizza la moda all’interno del processo
di globalizzazione e quindi come un’industria transnazionale, che coinvolge moltissimi paesi. La fine della
visione eurocentrica è attribuibile ad un fenomeno
specifico di questi ultimi anni. Il massiccio spostamento dell’industria tessile da Ovest verso Est comporta in
termini economici e culturali una revisione dei canoni
e delle modalità in rapida trasformazione, influenzando
le convinzioni e le pratiche sul produrre abbigliamento,
sul vestire e sul comunicare moda a Est e a Ovest.
6 G. Simmel, Zur psychologie der Mode, “Die Zeit”, 1895, 5,
trad. it. La Moda; Roma,1985, pag 61.
7 P. Calefato, Mass Moda. Linguaggio e immaginario del corpo rivestito; Roma, 2007, pag 9.
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creatività artistica dell’ abito che rappresenta
il momento ultimo, ma vede coinvolta anche
una attenta squadra di addetti al settore comunicazione e marketing, di organizzatori
di eventi, di coordinatori alle pubbliche relazioni, di compratori e venditori, di creatori di
marchio ed immagine, fotografi, giornalisti e
per ultima, ma non ultima come importanza,
l’industria produttrice.
Il nome dello stilista non è solo un marchio
di fabbrica, ma rappresenta il dialogo tra indumento ed un linguaggio di vasto significato.
La Griffe sancisce non solo valore di mercato,
ma identifica un valore simbolico che definisce l’intero stile del corpo rivestito. Dire per
esempio “Veste Chanel” è un indice inconfondibile che riassume un intero discorso. Il marchio o la “firma” sono icone, immagini “recall”
nel mondo della comunicazione (soprattutto
nella forma pubblicitaria), che rappresentano
elementi di linguaggio capaci di narrarsi attraverso il simbolo, di raccontare una intera storia, di inventare mondi, di scegliere di apparire riassunti in una firma. La forza evocatrice e
simbolica del marchio viene quasi vista come
fiore all’occhiello con cui fregiare la nostra appartenenza, la nostra identità, quasi una forma
feticistica ad interpretazione freudiana, che
consiste nell’attribuire ad un oggetto un valore enorme, magico, totemico, di smisurato potere; quasi una fagocitosi, un inghiottimento
che si estende anche a gesti, all’ ostentazione
del dettaglio, alla ricerca della rassomiglianza
fisica con l’immagine dello stereotipo.
Le riviste di settore e non di meno il fenomeno mediatico, dettano un rigoroso codice
d’immagine che in maniera quasi epidemica,
si esprime non soltanto attraverso l’abito, ma
anche nei movimenti stereotipati, nella ricerca esasperata della somiglianza attraverso
il taglio dei capelli validato dal colore di “tendenza”, fino all’invasiva e non poco costosa
chirurgia plastica; la compulsione maniacale
di appartenenza ad uno stile, o nel volersi riconoscere come sosia di un’immagine ideale,
stereotipizza e condiziona l’espressività del
linguaggio con frasi fatte e ridondanti, imprime una gestualità comune, nonché la rivalutazione dei modelli etici ed estetici e non ulti-
Mass moda, strumento di comunicazione di massa
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
mi i valori morali. La firma non solo riveste il
corpo in maniera iperbolica, ma sembra volere
inghiottire totalmente l’individuo che concepisce la Moda come rapporto di somiglianza e
paradossalmente di distinta individualità.
In conclusione la Moda del corpo rivestito sembra esprimere un solenne significato,
ma la coerenza e l’abilità nel sapere utilizzare
la Moda come strumento funzionale, che trascende da ogni forma di stereotipo, è riconoscerne la significatività, ma attribuendo il giusto valore di ciò che è significato.
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Bibliografia
R. Barthes, Le bruissement de la langue. Essais
critiques IV; Paris, 1984: Id. Il brusio della lingua;
Saggi critici IV, trad. B. Bellotto Torino, 1988
P. Calefato, Mass Moda. Linguaggio e immaginario del corpo rivestito; Roma, 2007
J. Laver, Histoire de la Mode et du Costume, Paris, 1990
S. Segre Reinach , Manuale di comunicazione,
sociologia e cultura della moda; Roma, 2006
G. Simmel, :”Zur psychologie der Mode”, «Die
Zeit», 1895, 5, trad. it. La Moda; Roma,1985
Raffaella Fiormaria Marin, psicologa, è professore
a contratto presso la facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Trieste; come libera professionista
è impegnata presso il Centro di Ricerca “Fondazione
I.D.E. A.” della Clinica Psichiatrica di Trieste; collabora inoltre, con l’associazione “A.MA.RE il rene”
nell’assistenza psicologica dei pazienti nefropatici
ed ai loro famigliari.
Mass moda, strumento di comunicazione di massa
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
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Dipendenze e rischio
nelle dinamiche dei New Media
Pierpaolo Martucci
Abstract
Dopo la nascita del linguaggio e la scoperta della
stampa, la terza grande rivoluzione della comunicazione nella storia dell’umanità è segnata dall’avvento
dei cosiddetti New Media, in primo luogo Internet,
frutto dell’incontro delle più moderne tecnologie. Tali
strumenti sono caratterizzati dal coesistere della diffusività di massa con la capacità di fornire a ciascun
utente un accesso interattivo e personalizzato. Fra le
innumerevoli conseguenze di questo sviluppo epocale,
si è riscontrato l’emergere di forme specifiche di tecnodipendenza, soprattutto nei confronti dell’uso della
Rete (Internet Addiction Disorder).
In tale contesto le condotte problematiche di gioco risultano fortemente incentivate dal facile accesso a innumerevoli giochi, lotterie e scommesse on line (new
gambling) e dalla loro pressante sovraesposizione me-
1. Introduzione. Le dipendenze da Internet
L
a natura essenzialmente sociale dell’essere
umano è sempre stata strettamente legata
alla comunicazione, intesa come processo di
trasmissione di significati tra individui, alla
base dei gruppi che creano l’organizzazione
sociale dell’esistenza e quindi fondamentale per la loro sopravvivenza1 Nella storia
dell’umanità l’evoluzione della comunicazione si è sviluppata attraverso fasi successive:
dopo l’età dei segni e dei segnali, propria dei
primi ominidi, dopo l’età della parola e del
1 La stessa etimologia della parola pone in evidenza la
stretta connessione con gli aspetti basilari della vita
associata: “comunicazione” deriva dal latino “communis”, sostantivo dato da cum (con) e dal tema munia
(doveri, vincoli) e significa “relazione, rapporto, condivisione di un contratto”.
diatica. Se i costi economici e sociali delle varie forme
(legali e illegali) di azzardo incidono in misura crescente sulla popolazione italiana, appare particolarmente
preoccupante la forza attrattiva del gambling rispetto
alle fasce vulnerabili dei giovanissimi. Le opportune
strategie di prevenzione e contenimento del fenomeno
debbono peraltro confrontarsi con l’ambiguità dello
Stato e, più in generale, con un costume culturale che
promuove la sorte (e quindi il caso) come elemento determinante nella corsa al successo.
Parole chiave
New Media; Internet; dipendenza;
gambling; gioco d’azzardo;
giocatore patologico.
linguaggio, conquista dell’homo sapiens, la
prima grande rivoluzione fu segnata dal passaggio all’età della scrittura, le cui potenzialità vennero enormemente amplificate con
l’introduzione della stampa. È relativamente
recente –riferibile alla prima metà del XIX
secolo, con la nascita dei giornali quotidianila diffusione dei mezzi di comunicazione di
massa, caratterizzati da un’elevata tecnicità:
dopo la stampa, la radio e la televisione.
Nel terzo grande mutamento, tuttora in
corso con l’avvento dell’elettronica nella tecnica della strumentazione, si è giunti ad una
comunicazione che ha perso i suoi tratti prettamente verbali per divenire tecnotronica. Essa
si caratterizza per la crescente interazione tra
elaboratori e telecomunicazioni e la conseguente nascita di nuovi servizi, vale a dire delle NTC (Nuove Tecnologie di Comunicazione),
Dipendenze e rischio nelle dinamiche dei New Media
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dove le diverse tecnologie elettriche ed elettroniche (i satelliti per le telecomunicazioni, i
computer, i telefoni cellulari) si integrano tra
loro2. Si è fatta strada la multimedialità, dove
per multimediale intendiamo un medium
che su un unico supporto utilizzi diversi linguaggi e che sia interattivo. Nel linguaggio
corrente con questo termine si descrivono sia
gli strumenti che consentono la fruizione e la
produzione di messaggi con testi, suoni, immagini e dotati di ipertesti, sia gli strumenti
di connessione con le reti (Internet).
A proposito delle differenze fra mass media
tradizionali (radiotelevisione, stampa) e i cosiddetti new media (Internet in primo luogo),
occorre dire che mentre i primi, tramite un
supporto tecnologico, consentono ad un emittente centrale di distribuire messaggi a destinatari anonimi, stabilendo sia il tempo che il
contenuto del messaggio veicolato, nel caso
dei secondi il ricevente può essere predefinito
e non riveste un ruolo passivo ma è in grado
di interagire con l’emittente3. Coesistono così
due aspetti in precedenza antinomici: la diffusività di massa su molti milioni di utenti e
la capacità di fornire a ciascun navigatore un
accesso interattivo e personalizzato.
Fra le innumerevoli conseguenze di questo
sviluppo epocale, si è riscontrato l’emergere
di forme specifiche di dipendenza nei confronti dell’uso della Rete, un fenomeno definito Internet Addiction Disorder4, a proposito
del quale, peraltro, nella comunità scientifica
non vi è accordo su di una definizione univoca e neppure su un quadro condiviso di criteri
diagnostici, prognostici e terapeutici. Si tratta di una patologia non ancora introdotta nel
Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali - DSM IV (quasi certamente lo sarà
nel DSM V), attinente perlopiù ai Disturbi del
Controllo degli Impulsi e che per taluni andrebbe collocata tra i “Disturbi del Controllo
2 Cfr. D. McQuail D., Sociologia dei media, Bologna, 2001,
p. 43.
3 D. McQuail, Le comunicazioni di massa, Bologna, 1989,
p. 18.
4 K. Young, Internet Addiction: The Emergence of a New
Disorder, Paper presented at the American Psychological
Association annual conference, Toronto, 1996.
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degli impulsi non classificati altrove”, come
il gioco d’azzardo patologico. Si ritiene Internet–dipendente colui il quale fa uso della
Rete non per motivi professionali, di ricerca
o svago nel tempo libero, ma perché costretto
da “un irrefrenabile impulso di utilizzo” della
stessa per il maggior tempo possibile5.
Per quanto concerne l’Italia, nel 1997 è stata
introdotta l’espressione “Internet related Psychopathology”, che ricomprende differenti quadri di addiction, quali quelle:
- da gioco d’azzardo patologico on line;
- da cyber-relazioni. Si tratta della Cyber Relationship Addiction, caratterizzata da una irrefrenabile spinta ad instaurare relazioni affettivo/
amicali sui luoghi virtuali, nella convinzione
di poter conoscere molte più persone on line (e
in modo più profondo) che nella realtà fisica.
In questo contesto si manifestano le condotte
di cyber-anonimous e cyber-travestitismo, in cui i
protagonisti abusano delle possibilità offerte
dall’anonimato in Rete, assumendo innumerevoli identità fittizie, anche in rapporto all’età
ed al sesso;
- da cyber-sesso; le pratiche di cyber sex sono
incentivate dal carattere immediato e anonimo delle comunicazioni, dalla disponibilità
alla trasgressione e disinibizione favorite dai
servizi offerti da Internet (chat, posta elettronica, video-conferenze);
- da giochi di ruolo on line (MUDA o Muds
Addiction). È una forma di dipendenza dovuta
all’abuso di giuochi di ruolo in Rete e da ultimo anche alla condivisione sul Web di realtà
virtuali e parallele quali Second Life;
- da eccesso di informazioni o Information
Overload Addiction, che si manifesta con la ricerca esasperata, continua ed inutile di informazioni attraverso Internet.
Queste diverse forme di dipendenza – a proposito delle quali viene anche usato il termine
“tecno-dipendenze” - presentano tratti comuni
e si ritiene che usualmente si possano distinguere due fasi, nel percorso che conduce a svi5 T. Cantelmi, C. Del Miglio, M. Talli, A. D’ Andrea,
Internet Related Psychopathology: primi dati sperimentali,
aspetti clinici e note critiche in http://www.gipsicopatol.
it/italiano/rivista/2000/vol6_1/cantelmi.htm – sito
consultato il 12 mggio 2011
Dipendenze e rischio nelle dinamiche dei New Media
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luppare una vera e propria patologia. La “fase
tossicofilica” è contraddistinta dall’aumento
dai tempi di collegamento alla Rete, con conseguente perdita di ore di sonno, da controllo
ripetuto di e-mail e siti preferiti, elevata frequentazione di chat e newsgroup, idee e fantasie
ricorrenti su Internet anche se si è scollegati,
accompagnati da malessere generale.
Nella “fase tossicomanica” si manifestano
collegamenti assai prolungati, al punto da
compromettere la vita socio-affettiva, relazionale, lavorativa o di studio del soggetto.
L’utilizzo smisurato degli strumenti telematici “determina un’alienazione dalla realtà,
conduce al sentirsi outgroup dalla realtà sociale tradizionale e ingroup soltanto nella società virtuale (la c.d. «e-life»)”6. In definitiva, il
“tossicomane da Rete” pensa di non aver bisogno degli altri, poiché è certo di poter contattare tutti in tutto il mondo.
Tali forme di dipendenze presentano analogie con quelle da sostanze: la realtà virtuale
offre una fonte di gratificazione immediatamente e continuamente accessibile ad individui che nella realtà fisica presentano problemi di isolamento, solitudine, difficoltà nelle
relazioni interpersonali.
Si ritiene che i soggetti maggiormente a rischio siano adolescenti e giovani adulti (fascia
di età compresa fra i 15 e i 40 anni), preparati dal
punto di vista informatico, isolati per ragioni
lavorative o geografiche, con preesistenti problemi familiari, psicologici e psichiatrici. Tra di
essi ricorrono personalità caratterizzate da tratti
ossessivo-compulsivi e solitudine sociale.
Tra le varie forme di addiction quella che qui
interessa approfondire per le sue peculiari implicazioni sociali è relativa al gioco d’azzardo.
2. La dipendenza
da gioco d’azzardo patologico
La figura del giocatore patologico (pathological gambler) non costituisce certamente una
novità e, prima ancora che nella clinica, è stata
descritta nella letteratura, che ne ha dipinto
i tratti – per così dire – quasi demoniaci: val6 F. Marcellino, Il Cybersex, in P. Cendon (a cura di), Il diritto delle relazioni affettive, Padova., 2005, vol.III, p. 2548
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gano per tutte le magistrali pagine di Fiodor
Dostoevskij nel Giocatore, ma anche quelle di
Edgar Allan Poe in William Wilson e di Arthur
Schnitzler in Gioco all’alba.
Naturalmente, anche per evitare generalizzazioni moralistiche, è opportuno precisare
subito che vi è una grande differenza fra il caso
di chi tenta saltuariamente la sorte e quello
dell’individuo che non riesce a sottrarsi al desiderio di giocare d’azzardo. Come osservano
Colombo e Merzagora:
se più dell’ 80% della popolazione dei paesi occidentali ha la probabilità di giocare almeno una
volta nel corso della vita, appena il 2-3% di costoro diventerà un giocatore patologico (…) Tutto
ciò, evidentemente, non è riservato solo ai giochi
illegali (…) Questo significa altresì che le notevolmente aumentate possibilità di gioco legale producono un altrettanto significativo incremento
delle probabilità che un soggetto a rischio per
gioco patologico possa ritrovarsi «favorito» nella
pratica del gioco in generale7.
È anche doveroso precisare che non tutti
i giochi possono definirsi d’azzardo ma solo
quelli in cui il ruolo del caso è assolutamente
determinante rispetto all’abilità del giocatore
e nei quali la ripetizione del comportamento
non consente di apprendere indicazioni utili
per vincere. Ai fini penalistici, perché si configuri la fattispecie di reato, l’art. 721 c.p. (Elementi essenziali del giuoco d’azzardo) richiede
inoltre la presenza dello scopo di lucro. Tuttavia non è sempre agevole tracciare un confine
netto, come, ad esempio, per il caso del poker,
senza dubbio un gioco d’abilità ma nel quale
la fortuna ha comunque un suo peso, come del
resto avviene in altri giochi di carte. 8
Le forme di gioco patologico sono state da
più di cento anni oggetto di studio da parte di
psichiatri, psicologi e psicoanalisti.
Attualmente il Manuale Diagnostico e
Statistico dei Disturbi Mentali (DSM IV-TR)
inserisce il Gioco d’Azzardo Patologico fra
7 C.A. Colombo, I. Merzagora Betsos, Il gioco d’azzardo:
profili psichiatrici, sociologici, criminologici, in P. Cendon (a
cura di), Il diritto delle relazioni affettive, cit., p. 1613.
8 In effetti la giurisprudenza della Cassazione tende a non
attribuire al poker la natura di gioco d’azzardo, proprio in
quanto si tratterebbe di gioco di merito più che di alea.
Dipendenze e rischio nelle dinamiche dei New Media
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
i Disturbi del Controllo degli Impulsi Non
Classificati Altrove (quando non sia meglio
attribuibile ad un Episodio Maniacale).
Viene definito come “Persistente e ricorrente comportamento di gioco d’azzardo maladattivo”, quello indicato dalla compresenza
di cinque (o più) di determinati tratti. 9 In sintesi, si deve manifestare una sorta di “capitolazione al gioco con l’illusione, per di più, di
averne il controllo”10.
Le analogie con la dipendenze da sostanze
sono evidentemente molteplici, anche dal punto di vista dei criteri diagnostici. In particolare
la dipendenza dal gioco viene assimilata a quella da cocaina e crack per la necessità di assunzione ripetuta in tempi brevi: Il giocatore patologico non è attratto dal possibile guadagno,
ma dal piacere che ricava dall’emozione del gioco stesso, dal brivido del rischio nell’alternanza
tra vincite e perdite (c.d. sensation seeking), in
un meccanismo che stimola la produzione di
dopamine a livello cerebrale. Il denaro non è il
fine, ma il mezzo per continuare il gioco stesso.
Come per l’accostamento a molti stupefacenti,
il fenomeno del gioco d’azzardo segue un percorso progressivo che parte da un approccio
inoffensivo (gioco occasionale) per giungere
9 Il soggetto è eccessivamente assorbito dal gioco d’azzardo (ad es. è troppo assorbito nel rivivere esperienze
passate di gioco, nel soppesare o programmare la successiva avventura, o nel pensare ai modi per procurarsi
denaro con cui giocare);ha bisogno di giocare d’azzardo
con quantità crescenti di denaro per raggiungere l’eccitazione desiderata;ha più volte tentato invano di controllare, ridurre o interrompere il gioco;è irrequieto o
irritabile quando tenta di ridurre o interrompere il gioco d’azzardo;gioca d’azzardo per sfuggire problemi o per
alleviare un umore disforico (ad es. sentimenti di colpa,
impotenza, ansia, depressione);dopo aver perso, spesso
torna un altro giorno per giocare ancora (rincorrendo
le proprie perdite);mente ai membri della famiglia, al
terapeuta, o ad altri per occultare l’entità del proprio
coinvolgimento nel gioco d’azzardo;ha messo a repentaglio o ha perso una relazione significativa, il lavoro,
oppure opportunità scolastiche o di carriera per il gioco
d’azzardo;ha commesso azioni illegali come falsificazione, frode, furto o appropriazione indebita per finanziare
il gioco d’azzardo; fa affidamento su altri per reperire il
denaro per alleviare una situazione finanziaria disperata causata dal gioco di azzardo.
10 C.A. Colombo, I. Merzagora Betsos, Il gioco d’azzardo:
profili psichiatrici, sociologici, criminologici, cit.,p..1613.
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ad un atteggiamento abusante (gioco abituale,
poi gioco problematico) che può arrivare (gioco
patologico) a compromettere profondamente
la qualità dell’esistenza della persona.
In analogia a quanto avviene per altre forme di dipendenza da situazioni o da sostanze,
anche per il gioco d’azzardo patologico esistono strutture di personalità e stili di vita a
rischio, per i quali il pericolo di avviare dinamiche patologiche è amplificato dall’incontro
con stimolazioni ed occasioni favorenti. Questo ci conduce ad affrontare il punto centrale
di queste riflessioni ed a riprendere il discorso
sul ruolo attribuibile ad Internet.
3. La diffusione attuale
dei giochi d’azzardo e l’avvento
del new gambling
Gli ultimi decenni, in Italia come altrove,
si sono contraddistinti negativamente per il
grande incremento dei fattori di rischio legati
alla diffusione e promozione capillare di svariate forme di gioco d’azzardo (off e on line), che
si sono aggiunte alle già numerose possibilità
preesistenti. Soltanto le forme tradizionali (off
line) comprendono le scommesse sui risultati
sportivi (quali Totocalcio, Totogol, Totosei) ed i
giochi di lotteria, i preferiti dagli italiani: Lotto,
Enalotto, Superenalotto e Lotterie nazionali.
Apro qui una breve parentesi per sottolineare lo stretto legame che in tutto il mondo
si è venuto a creare fra diffusione degli eventi
sportivi, aumento esponenziale della loro rappresentazione mediatica (in primo luogo televisiva) ed incremento delle forme di azzardo.
Pronosticare il risultato di uno specifico evento e scommettere sul suo esito è la struttura di
base di tutte le scommesse, da quelle ippiche
a quelle calcistiche ed è una pratica che senza
dubbio è divenuta sempre più importante e
frequente a seguito della crescente popolarità
degli sport nel loro complesso. Le occasioni
per puntare danaro sono divenute tantissime,
anche perché è sempre più elevata la quantità
di avvenimenti sportivi organizzati. Si calcola
che oggi in Italia quasi il 60% della popolazione gioca regolarmente – seppure in modo moderato – con una spesa globale in costante au-
Dipendenze e rischio nelle dinamiche dei New Media
121
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
mento. Secondo dati forniti dal Codacons, che
ha avviato studi al fine di tutelare i giocatori
d’azzardo e per il quale la spesa media annua
pro capite per i vari tipi di lotterie sarebbe di
ben 890 euro, nel 2009 il comparto del gioco
pubblico ha registrato incassi pari a 53,4 miliardi di euro. I giocatori sarebbero circa 28
milioni, quelli abituali sfiorerebbero i 7 milioni e di questi circa 750.000 presenterebbero
patologie legate al gioco e circa 80.000 vere e
proprie forme gravi di dipendenza.
Per l’Eurispes addirittura il 3% del PIL in
Italia verrebbe bruciato in scommesse e giochi d’azzardo e se si dovessero considerare
entrambi i mercati, quello legale e quello
sommerso, ci si troverebbe di fronte ad un
giro d’affari di 80 miliardi di euro l’anno, che
corrispondono a circa il 5,1% del Pil nominale
atteso per il 201011.
Si tratta di una questione sociale di grandi dimensioni che è peraltro direttamente
legata all’ambivalenza dello Stato, che vieta il
gioco d’azzardo in quanto immorale ma nel
contempo se ne fa monopolista e massimo
promotore, in ragione dei forti introiti fiscali che ne ricava, oltretutto traendoli in buona
parte dalle fasce più disagiate. Il gioco legale
infatti è stato definito “una tassa sulla povertà”, per l’impatto che ha sugli strati più poveri
della popolazione, come è dimostrato pure
dalle rilevazioni ufficiali12.
Su questa già massiccia offerta legale tradizionale, negli ultimi anni si sono inserite ulteriori, molteplici modalità di azzardo,
accessibili soprattutto on line, ma anche off
line, tanto da indurre a parlare di nuovi giochi d’azzardo (new gambling).
Frutto di una vera e propria rivoluzione tecnologica, essi propongono un nuovo modo di
giocare: solitario, decontestualizzato (a ogni
ora e in ogni luogo), globalizzato, con regole
semplici e universalmente valide, pertanto a
bassa soglia di accesso. Destinatari di questa
offerta di consumo sono fasce sociali che un
11 Eurispes, Il gioco in Italia: da fenomeno di costume a colosso industriale, dicembre 2009.
12 M. Fiasco, Aspetti sociologici, economici e rischio di criminalità, in M. Croce, R. Zerbetto (a cura di), Il gioco e l’azzardo, Milano, 2001, p. 331.
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tempo si tenevano generalmente lontane dai
luoghi tradizionali dell’azzardo: adolescenti,
pensionati, interi nuclei familiari con i loro
bambini popolano le sale da gioco, attrezzate da slot machine e video poker o stazionano nelle affollate sale del bingo. In un certo
senso si può parlare di “democratizzazione”
dell’azzardo, rispetto a certi antichi modelli
vagamente decadenti e aristocratici, ma il timore è che tutto ciò possa suscitare nuove e
pericolose forme di dipendenza.
Ci riferiamo in particolare alle lotterie
“istantanee” (le tante modalità della formula
“gratta e vinci”), a quelle telematiche, ai casinò
on line, alle scommesse sportive in rete, al videopoker ed alle slot machines collocate in innumerevoli locali pubblici. In particolare, uno
dei fattori cui in Italia è possibile ricondurre
la crescita di circa 20 miliardi di euro riscontrata dal settore dei giochi tra il 2003 e il 2006
(da 15,49 miliardi a 35,24 miliardi!), accompagnata da quella di 3 miliardi di euro di entrate
erariali (da 3,5 a 6,7 miliardi) è stata l’introduzione, nel 2003, di norme che hanno disciplinato il fruttuoso mercato delle c.d. NewSlot.
Gli apparecchi elettronici per i videogiochi
sono progressivamente diventati la tipologia
principale per raccolta di denaro, arrivando
nel 2008 a rappresentare il 45,6% delle entrate
complessive del settore.
Tutte queste “offerte di gioco” presentano
dei tratti comuni, che le differenziano da quelle tradizionali, rendendole potenzialmente
molto più pericolose per i soggetti a rischio
(soprattutto per i minorenni), e precisamente:
- il carattere di disponibilità immediata e
capillare sul territorio (si pensi ai video poker,
alle sale “bingo”), a prescindere da limitazioni
derivanti da orari e distanze geografiche;
- la grande semplicità di accesso e di partecipazione ai meccanismi dei giochi;
- l’assenza di aspetti relazionali di mediazione interpersonale, con la proposta di partite veloci, in cui si assiste al trionfo della ripetizione e alla perdita del controllo temporale
e monetario con il rischio di alienare il soggetto dalla realtà.;
- il carattere automatico e spesso anticipato
dell’esborso finanziario;
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
- la forte attrazione psicologica determinata dal grande spazio pubblicitario riservato su
tutti i media, con una sponsorizzazione che le
altre fonti potenziali di dipendenza non hanno
mai avuto. In questo senso, le strategie di comunicazione rivestono un peso determinante.
In particolare per quanto riguarda le formule on line, la disponibilità di un computer e di
una connessione a Internet garantisce a chiunque l’accesso a centinaia di casinò virtuali i quali, 24 ore su 24, simulano la seduttiva e realistica esperienza dei casinò tradizionali che può
essere condivisa ogni anno da milioni di nuovi utenti, molti dei quali nella realtà fisica non
avrebbero mai la possibilità di entrare in una
casa da gioco. I siti dei cybercasinò sono costruiti
con interfacce amichevoli e accattivanti e generalmente offrono dei cospicui bonus di ingresso (centinaia di euro) per incoraggiare i neofiti.
Questi canali d’accesso rendono particolarmente esposte all’invischiamento le fasce degli adolescenti e dei giovani adulti, prevalentemente
maschi, che già risultavano statisticamente più
soggetti a tale rischio. A proposito del sesso dei
giocatori, sembra che proprio la fascinazione
delle proposte telematiche colpisca in misura
crescente le donne, forse in conseguenza del
maggior tempo trascorso in casa e al computer
e del facile accesso alle carte di credito.
Nel 2008 si è affermata anche la versione on
line di molti giochi tradizionali (la più apprezzata è quella relativa alle varie forme di “Gratta
e Vinci”) aprendo nuove fette di mercato e sono
stati introdotti i giochi di abilità che hanno subito registrato una raccolta considerevole. Gli
esperti del settore hanno individuato nel 2009
l’anno di svolta dei giochi “a distanza” con la
definitiva affermazione del poker e, più in generale, dei giochi di abilità, con la conferma
del loro grande successo, insieme a quello delle
scommesse (sportive e ippiche). Basti pensare
che nei primi nove mesi del 2009 la raccolta
complessiva dei giochi on line è stata di 2,6
miliardi di euro, con un incremento superiore
all’80% rispetto a quella ottenuta nel 2008.
Le cifre riportate sono riferite al solo circuito dei giochi legali, autorizzati dall’ Aams
(Amministrazione Autonoma dei Monopoli di
Stato), in particolare poker, scommesse, Lotto
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e SuperEnalotto, lotterie istantanee e bingo.
Tuttavia, esistono in Rete migliaia di siti i quali, pur non autorizzati, offrono la possibilità di
accedere anche alle modalità di azzardo vietate
in Italia (casinò e slot machine). Questo avviene
soprattutto per quei siti i cui server sono ospitati in Stati esteri, come l’Olanda, l’Austria, l’Inghilterra o anche Gibilterra e paesi off-shore.
L’Eurispes stima che le offerte di gioco illegale su Internet raggiungano un volume d’affari di circa 5 miliardi di euro.
4. La diffusione dei giochi on line e le
caratteristiche degli utenti.
I rischi per i più giovani
In generale i dati disponibili sulla diffusione delle condotte di gioco on line sono ancora
piuttosto scarsi ma quelli noti appaiono senza
dubbio preoccupanti.
In base ad una indagine condotta nel 2009
dall’Eurispes su di un campione di oltre 1.000
cittadini italiani, il 13,7% dei giocatori nutre
una vera e propria passione per i giochi on line.
Sono gli uomini (15,4%), rispetto alle donne
(11,8%) ad aver maggiormente sperimentato il
gioco on line. I giocatori hanno nel 17,9% dei
casi un’età compresa tra i 35 e i 44 anni, seguiti dai giovani tra i 18 e i 24 anni (16%). Solo
il 12,6% dei 45-64enni e il 12,3% degli ultra
65enni, invece, ha provato l’ebbrezza di sfidare
la sorte per via telematica. 13.
Sempre in base all’indagine Eurispes, i giocatori
utilizzano Internet per dedicarsi al poker (64,3%)
e fare scommesse (50,4%), molti invece giocano al
casinò (30,2%), mentre le lotterie tradizionali raccolgono percentuali contenute (15,5%) indicando
che per queste tipologie di giochi continua a prevalere l’abitudine alla fruizione “fisica”. Per quanto
riguarda il sesso le donne, in misura maggiore rispetto agli uomini, preferiscono la modalità telematica per partecipare a tornei di poker (69,8% vs
60,5%). Esse, inoltre, sfidano più frequentemente
la sorte nei casinò virtuali di quanto facciano i giocatori del sesso opposto (41,5% vs 22,4%), mentre
le scommesse vengono effettuate da donne e uomini in misura equivalente.
13 Eurispes, Il gioco in Italia: da fenomeno di costume a colosso industriale, cit.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
Secondo informazioni raccolte dall’ Agicos
(un’organizzazione di tutela dei consumatori), nel corso dell’intero 2009 sui tavoli verdi
virtuali sarebbero stati giocati dagli italiani
oltre 2,3 miliardi di euro, dato che conferma
il poker come il gioco in denaro in assoluto
più praticato nella Rete.
La maggior parte dei giocatori on line pratica tale forma di intrattenimento occasionalmente (69%), mentre il 24,8% ha con esso un
rapporto più assiduo. Minore appare, invece,
la percentuale di quanti dichiarano di nutrire una vera e propria passione per l’on line, al
punto da giocarci sempre (4,7%).
L’8,9% degli intervistati dai ricercatori Eurispes rivela di aver chiesto soldi in prestito
per giocare, a fronte di un 91,1% che afferma
di non averlo mai fatto. Per quanto concerne le
motivazioni, la maggioranza (51,9%) dei partecipanti ai giochi on line preferisce questa modalità di fruizione in ragione della semplicità
di accesso al canale di gioco. A tale valore si aggiunge il 9,3% di quanti scelgono di giocare on
line in quanto si possono fare puntate da qualsiasi personal computer che sia connesso alla
Rete. Meno consistente appare la percentuale
di coloro che preferiscono il gioco “virtuale”
perché ritengono sia più facile concentrarsi
davanti a un computer (12,4%) piuttosto che
in una sala giochi o in un centro scommesse.
Inoltre, secondo il parere del 6,2% del campione che preferisce questa forma di intrattenimento, il computer permette di essere al
riparo da sguardi indiscreti. Un aspetto molto
significativo riguarda il ruolo della televisione
e di Internet, che sono indicate come i principali canali di diffusione delle notizie sulle molteplici offerte di lotterie, scommesse e giochi.
Dati più precisi sono disponibili per una
realtà nazionale a noi vicina, quella Svizzera,
dove la Commissione federale delle case da
gioco, nel rapporto finale pubblicato nell’aprile
2009, ha tentato di monitorare il numero delle
persone con diversi tipi di comportamento da
gioco presenti nel 200714. Su di un campione
di 14.393 svizzeri interpellati, si evince che
14 Commissione federale delle case da gioco, Gioco d’azzardo: comportamento e problematica in Svizzera, Rapporto
finale, Ginevra, aprile 2009.
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il 3,4 % praticava il gioco d’azzardo on line,
l’8,3% sfruttava altri giochi offerti in Internet
(senza poste in danaro) e lo 0,4% giochi illegali. L’estrapolazione di queste cifre consente
di ipotizzare che oltre 250.000 persone della
popolazione svizzera sperimentavano il gambling on line, quasi 600.000 partecipavano
ad altri giochi offerti in Rete e fra le 30.000 e
35.000 persone praticavano giochi illegali.
Questo enorme giro d’affari che ha ormai
assunto una dimensione sovra nazionale si
intreccia da tempo con i canali della finanza illegale. Nei cybercasinò, le cui società di
gestione riescono ad eludere i vincoli delle
normative nazionali, si è inserita la criminalità organizzata, che utilizza per il riciclaggio
i pagamenti delle vincite che sono effettuati
attraverso società off shore.
Indagini condotte in differenti contesti
nazionali hanno ribadito la pericolosità che il
new gambling può rivestire all’interno del mondo adolescenziale. In particolare, sono state
indicate quattro variabili principali che sembrano aver contribuito all’aumento del gioco
d’azzardo tra le fasce giovanili della popolazione: la crescente liberalizzazione e la maggiore
tolleranza sviluppatesi in questi ultimi anni,
verso l’azzardo, percepito come innocuo e addirittura incoraggiato a livello pubblicitario; la
ritardata consapevolezza del problema; la scarsa attenzione nei confronti di programmi per
la formazione di una coscienza collettiva sui
problemi legati al gioco; la familiarità e prossimità tecnologica delle nuove generazioni con
il Web, per quanto riguarda i giochi on line.
È evidente che nel caso di soggetti adolescenti e giovanissimi si sovrappongono e interagiscono le dinamiche attrattive del gioco d’azzardo e quelle dei new media, che nel loro insieme
si rivelano particolarmente pericolose nel contesto di fasce di età caratterizzate dalla presenza
di molteplici fattori di vulnerabilità e fragilità,
individuali e sociali. Infatti è proprio nell’adolescenza (che oltretutto tende oggi ad allungarsi
anche di molto, la cosiddetta “adolescenza protratta” dei 25/30enni) che i comportamenti a
rischio svolgono una funzione centrale rispetto
all’accettazione nel gruppo dei pari, al sentirsi
più grande e libero dal controllo degli adulti, in
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grado di fronteggiare l›ansia e la frustrazione e
di definire una propria identità.
Nella letteratura scientifica numerosi studi concordano nell’evidenziare la comorbilità
di varie turbe comportamentali con condotte
di gioco patologico conclamate o potenziali.
Negli adolescenti con problemi di gioco d’azzardo emerge un’elevata frequenza di disagi di
carattere familiare, scolastico, legale e relazionale, spesso associati all’uso di alcool e droga,
alle assenze a scuola, a preesistenti problemi
di gioco in famiglia e alle attività illegali, finalizzate a finanziare il gioco stesso. In queste situazioni non è raro che gli stessi genitori presentino aspetti di gioco patologico15.
Secondo alcune fonti, in Italia almeno 7 adolescenti su 10 giocano e scommettono: va detto che
a tale stima si giunge considerando i diffusissimi
“gratta e vinci” cartacei ed anche la partecipazione a modalità – come il poker on line giocato su
facebook - che prevedono puntate e vincite meramente virtuali e simboliche, quindi non reali. In
questi ultimi casi tuttavia, si tratta comunque di
un approccio non privo di rischi psicologici per
la familiarizzazione culturale ed un possibile
passaggio a forme monetarie effettive.
La pratica dell’azzardo sarebbe più diffusa
tra gli adolescenti del Sud Italia, in primo luogo della Campania, circostanza che sembra
avvalorare la lettura del gambling come forma
di fuga da realtà problematiche ed illusoria
scorciatoia per risolvere frustrazioni e realizzare rapidi guadagni.
È utile richiamare nuovamente i risultati
dell’indagine realizzata nel 2009 dall’Eurispes
su un campione di 1.007 cittadini, stratificato
per quote proporzionali della popolazione italiana secondo le seguenti variabili: sesso, classi
d’età, area territoriale (Nord-Ovest, Nord-Est,
Centro, Sud e Isole) ed ampiezza demografica del comune di residenza (piccolo, medio e
grande). Secondo tale ricerca il 39% degli Italiani ha investito per la prima volta dei soldi
per giocare tra i 18 e i 25 anni, mentre il 38,4%
lo ha fatto tra i 13 e i 17 anni. Se si rapporta la
percentuale degli italiani che sostengono di
aver giocato per la prima volta in un’età compresa tra 13 e 17 anni (38,4%) al numero totale
degli adolescenti (13-17 anni) nel 2008, è possibile ipotizzare che nel nostro Paese i teen-players siano ben oltre il milione.
In effetti, sembra che quanto prima gli individui iniziano a giocare tanto più facilmente
essi maturano una relazione problematica con
il gioco: alcune ricerche hanno evidenziato che
il 48% dei giovani giocatori d’azzardo problematici si sarebbe accostato alle varie forme di
gambling circa dieci anni prima di manifestare
aspetti patologici16.
15 cfr. R.Tulelli, Gioco d’azzardo e minori: le nuove forme della dipendenza, http://universominori.myblog.it/gioco-dazzardo-e-minori - sito consultato il 12 maggio 2011.
16 Ibidem.
17 In realtà il nostro ordinamento ha riconosciuto i rischi derivanti da un prematuro e non consapevole avvi-
6. Conclusioni
Il coinvolgimento dei più giovani nelle varie forme d’azzardo e particolarmente in quelle accessibili sul Web costituisce un aspetto
particolarmente delicato e preoccupante del
più generale problema della diffusione del gioco e delle tecno-dipendenze nella società globale. Rispetto ad esso si evidenzia la necessità
inderogabile di impostare adeguate strategie
di prevenzione e di educazione. Nella prevenzione, accanto all’individuazione precoce dei
contesti e dei soggetti a rischio, rientra sicuramente una più rigorosa disciplina normativa
delle offerte di lotterie e giochi, per rendere effettiva l’inibizione dell’accesso ai minorenni.
In effetti, per poter operare nel mercato
italiano con la licenza della AAMS (Amministrazione Autonoma Monopoli di Stato) i siti
web di giochi e scommesse debbono soddisfare ad alcuni requisiti fondamentali, primi
fra i quali la promozione al gioco responsabile e sicuro, nonché il divieto ai minori di
scommettere ed il divieto assoluto di proporre giochi di casinò, poker e slot machine. Tuttavia le precauzioni adottate si rivelano spesso
insufficienti, senza dimenticare la costante
disponibilità di siti esteri o comunque illegali che trascurano queste garanzie. Appare
egualmente difficile assicurare l’interdizione ai minori nelle innumerevoli modalità off
line, specialmente in quelle automatizzate17.
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È dunque evidente il ruolo centrale che viene ad assumere l’educazione dei più giovani
ad un corretto approccio alle nuove tecnologie
ed alle possibilità potenzialmente pericolose
che esse offrono, un compito che spetta in primo luogo alla famiglia ed alla scuola, oltre che
alla società nel suo complesso. Non si possono
tuttavia ignorare certi aspetti culturali fortemente contraddittori che, nel caso specifico
dei giochi d’azzardo, rendono questo compito
particolarmente problematico.
Bisogna ribadire che la crescente liberalizzazione e disponibilità, la maggiore tolleranza
e addirittura l’incoraggiamento pubblicitario
verso ogni sorta di lotterie e scommesse hanno
senza dubbio contribuito a diffonderle anche
presso gli adolescenti e a far percepire queste
attività come prevalentemente innocue. Un
esempio emblematico di queste ambiguità
si rinviene nelle dichiarazioni del presidente
dell’Eurispes, Gian Maria Fara, il quale – commentando i dati della ricerca in precedenza richiamata – ha affermato che quella dei giochi è
«la terza industria del Paese» e che «la Aams ha
ancora molto da fare per contrastare il sommerso e che dal settore giochi si possono produrre
ancora molte entrate per lo Stato». In sostanza,
emerge con chiarezza l’idea di un fenomeno da
incoraggiare nelle sue forme legali, in quanto si
dimostra una delle più preziose fonti di introiti
per la Pubblica Amministrazione.
cinamento dei giovani ai giochi d’azzardo, introducendo
con l’articolo 22 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, che
modifica l’articolo 110 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (T.U.L.P.S), il divieto, per i minori di 18
anni dell’utilizzo di congegni e apparecchi automatici,
semiautomatici ed elettronici da intrattenimento o da
gioco di abilità che si attivano con l’introduzione di moneta metallica. Tale divieto, il più delle volte eluso, non
include tuttavia i giochi d’azzardo quali giochi a pronostico, lotterie, riffe e scommesse che attualmente vedono la partecipazione di un pubblico sempre più vasto.
Ricordiamo inoltre che con una circolare del 23 marzo
2010 l’AAMS ha informato i gestori e i rivenditori dei
prodotti «gratta e vinci» del divieto di vendita dei medium ai minori di 18 anni e della nuova normativa che
prevede chiaramente di inserire sui biglietti del gratta
e vinci sia nelle versioni online che in quelle offline la
scritta 18+. Tuttavia sono molteplici ed evidenti le difficoltà applicative che si prospettano, specialmente per le
vendite on line e nei distributori automatici diffusi in
tutto il Paese.
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Sono già state richiamate le dinamiche e le
motivazioni che rendono l’intreccio fra new
media e gioco d’azzardo particolarmente invischiante e pericoloso per una fascia fisiologicamente a rischio come quella degli adolescenti
e dei post-adolescenti (e non solo per loro).
Questi fenomeni vanno anche collegati con la
precocizzazione dei comportamenti che è una
caratteristica dell’accelerazione straordinaria
che viviamo e riguarda molti ambiti, come ad
esempio quello della sessualità, nonché con l’affermarsi di meccanismi di apprendimento cosiddetto “digitale”, in cui emerge il primato del
“sapere visuale” veicolato dai mezzi elettronici
rispetto alle forme tradizionali basate sull’intermediazione dell’autorità di figure adulte18.
Tuttavia, nella proliferazione di giochi e
scommesse cui assistiamo c’è forse qualcosa
di più e di diverso, che riguarda direttamente
i modelli esistenziali che la società ostentatamente propone, alimentando la convinzione
che attraverso strumenti semplici, privi di
impegno, totalmente scollegati da ogni merito, sia possibile cambiare la vita ed è emblematico il nome della più recente lotteria
istantanea: Win for Life. Nel venir meno di
ogni metasignificato valoriale rimane il caso
a dettare il senso (o la mancanza di senso) dei
percorsi individuali e collettivi, a somiglianza della lotteria narrata da Jorge Luis Borges:
«poiché Babilonia, essa stessa, non è altro che
un infinito gioco d’azzardo»19.
Pierpaolo Martucci, criminologo, Ricercatore,
Docente di Antropologia Criminale e Criminologia
nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Trieste
[email protected]
18 Sul tema si veda L.Leone, Apprendimento digitale e comportamenti violenti, in “Rassegna Italiana di
Criminologia”, 2008, 3, pp. 525-545.
19 J.L. Borges, La lotteria a Babilonia, in Finzioni, Milano,
1974, p..53.
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Lo switch off del digitale televisivo terrestre
in Friuli Venezia Giulia:
un’applicazione della risk theory
Eugenio Ambrosi
Abstract
Entro il 2012 l’intera Italia sarà passata al digitale televisivo terrestre, il Friuli Venezia Giulia è digitale dal
dicembre 2010.
Il sistema televisivo preesistente era detto analogico in
virtù di un segnale trasmesso attraverso onde elettromagnetiche; la televisione digitale terrestre impiega, invece,
segnali simili a quelli di Internet e della telefonia mobile. “Nulla sarà più come prima” è stato lo slogan che ci
ha inseguiti per tutto il periodo di transizione al nuovo
sistema di fruizione, per il cittadino, della televisione.
Tra i tanti soggetti, pubblici e privati, istituzionali ed
economici che sono stati coinvolti in questo passaggio,
ve ne è stato uno, il Comitato regionale per le comunicazioni – CORECOM FVG, che ha fortemente voluto rita-
gliarsi uno spazio da protagonista nella progettazione e
realizzazione dell’intervento regionale.
Si è trattato di un’esperienza unica in Italia, che è parso interessante riportare all’attenzione degli esperti di comunicazione in virtù del ruolo svolto dal CORECOM FVG, che ha
seguito nel suo intervento lo schema operativo della “teoria
del rischio”: dall’analisi alla gestione alla comunicazione.
A
Paesi con il progetto Extra-Large/XL, che ci ha
permesso, partendo dall’esperienza EURO, di
portare all’approvazione della Commissione
europea un progetto di analisi, gestione e comunicazione del rischio–allargamento 2004
come vissuto sul confine italo/sloveno nella
prospettiva di fungere da laboratorio per l’allargamento 2007 sul confine greco-bulgaro e per
quello in fieri sul confine italo/sloveno/croato.
L’ampliamento dell’esperienza ha permesso di dare forma e sostanza all’idea originaria: si è così sviluppata l’analisi del rischio/
risk theory tecnico e socio-economico per il
FVG come pure delle aspettative dell’opinione
pubblica regionale alle porte dello switch off,
contribuendo alla definizione del quadro di
riferimento per una legge regionale di gestione del rischio/risk management con l’assistenza
ad alcune categorie maggiormente a rischio
(operatori televisivi e cittadini) ed intervenendo poi con una manovra a cascata di comuni-
ncora una volta, nell’ambito dell’attività
dell’Amministrazione regionale, la teoria
del rischio/risk theory è stata applicata ad un
evento che appariva, a priori, capace di spezzare l’equilibrio in un settore delicato della vita
quotidiana dei cittadini della regione Friuli Venezia Giulia; questa volta si sono utilizzate tali
tecniche per gestire al meglio la transizione
dall’analogico al digitale televisivo terrestre,
concretamente conclusa nel dicembre 2010.
È nella medesima chiave interpretativa con
cui abbiamo vissuto l’avvento dell’euro nel
2001, con un progetto articolato di informazione istituzionale e comunicazione pubblica che
non solo ha destato l’apprezzamento dell’opinione pubblica locale ma è stato portato ad
esempio dagli organismi comunitari e inserito, quale best practice italiana, in una specifica
pubblicazione del Comitato delle Regioni.
Un paio d’anni dopo abbiamo vissuto l’ingresso nella UE di Slovenia, Ungheria ed altri
Un'applicazione della risk theory
Parole chiave
Teoria del rischio; Risk theory;
Risk communication; Risk management;
Digitale televisivo; Switch off;
CORECOM FVG.
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cazione del rischio/risk communication verso
stakeholder privilegiati (giornalisti, antennisti,
amministratori locali) ma anche, direttamente, verso categorie target: opinione pubblica,
studenti, anziani.
Per fare ciò ed arrivare puntuale all’appuntamento, il CORECOM FVG ha iniziato a muoversi
già nella primavera 2009, attraverso un progetto di
ampio respiro, denominato “DI.TE. CORECOM”,
volto proprio ad agevolare la transizione al digitale
terrestre nella regione Friuli Venezia Giulia.
Il sistema televisivo preesistente era detto analogico in virtù di un segnale trasmesso
attraverso onde elettromagnetiche. La televisione digitale terrestre impiega invece segnali
simili a quelli di Internet e della telefonia mobile. Una rete (digitale o analogica) è costituita da un insieme di trasmettitori, ognuno dei
quali utilizza una frequenza dello spettro disponibile: nel caso della televisione analogica,
ciascuna rete è in grado di trasportare un solo
programma (o canale); nel caso della televisione digitale, una rete trasporta bit e quindi, potenzialmente, più canali contemporaneamente. Una emittente locale che oggi è in grado di
trasmettere un solo programma, in virtù del
digitale terrestre può quindi trasmettere contenuti diversi su quattro o più canali distinti.
Lo switch off comporta lo spegnimento irreversibile del segnale analogico, il che rende
obbligatoria l’adozione di un decoder (o di un
televisore con decoder incorporato) per chiunque intenda continuare a usufruire di un apparecchio televisivo. È facile comprendere, di
conseguenza, l’impatto del cambiamento, sia
in termini tecnologici e sia economici, non
solo per le emittenti locali (che avrebbero dovuto adeguare impianti e software) ma anche
per le circa 480.000 famiglie della regione che
sono state interessate dal fenomeno.
Sulla base di queste premesse, e dei risultati della ricerca messi a disposizione a fine
dicembre 2009, nel marzo successivo al CORECOM FVG, che si era mosso per tempo nella
sua funzione di organo di vigilanza e garanzia
dei cittadini e degli operatori del sistema ed i
media, si è affiancato un apposito Gruppo di
lavoro costituito presso l’Ufficio stampa della
Presidenza della Giunta regionale.
Un'applicazione della risk theory
issn 2035-584x
Risk theory
In previsione dello switch off per il passaggio della programmazione televisiva dal sistema analogico a quello digitale terrestre,
originariamente previsto per ottobre 2010, il
CORECOM nel corso del 2009, per anticipare
l’analisi delle problematiche tecniche sottese
a tale evento, aveva dunque avviato il progetto
“DI.TE. CORECOM” allo scopo di agevolare la
transizione al digitale terrestre nella regione.
Gli interventi previsti si rivolgevano a due macrosettori:
- il primo si rivolgeva ad un’area “tecnica”,
comprendente le emittenti televisive locali, gli
impianti di diffusione e ripetizione del segnale, i tecnici antennisti/installatori ed i rivenditori di apparecchiature televisive;
- il secondo rivolto ai cittadini che avrebbero dovuto adeguare le proprie apparecchiature alla ricezione del segnale digitale, con una
particolare attenzione a quelle categorie che
avrebbero potuto incontrare maggiori difficoltà, quali gli anziani.
Lo studio “La qualità della TV locale: le aspettative dei telespettatori e degli operatori televisivi locali sui cambiamenti derivati dall’introduzione del digitale terrestre in Friuli Venezia
Giulia” ha permesso di fotografare il livello di
preparazione delle emittenti allo switch off, i loro
progetti di televisione digitale, nonché di raccogliere alcune criticità segnalate dagli operatori.
In particolare, erano stati intervistati individualmente i responsabili delle sette emittenti televisive con sede legale in Friuli Venezia Giulia (Telequattro Srl, Canale 6 TVM Srl,
Telefriuli Spa, Radio Tele Pordenone Srl, Video
Pordenone Srl, GSG Telemare Srl, Associazione Tele Alto But), che avevano poi compilato
un articolato questionario, dopodiché una riunione presso la sede del CORECOM servì per
discutere dei primi risultati con i referenti di
tutte le emittenti televisive locali.
Furono quindi intervistati i responsabili
delle principali associazioni di categoria degli
operatori televisivi (FRT, Aeranti-Corallo, REA
e CNT); si riuscì così ad elaborare e sintetizzare
i dati complessivamente acquisiti ed a proporre una serie di interventi e provvedimenti da
128
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
sottoporre alla Regione a sostegno degli operatori televisivi locali in vista del passaggio al
digitale terrestre.
È grazie a tale studio che è stato così possibile
individuare quelli che sarebbero stati i principali problemi da affrontarsi a livello locale per
garantire la comunità regionale dal “rischio digitale terrestre” per agevolare tale transizione
attraverso la predisposizione degli interventi
tecnici necessari e la contestuale, intensa attività di informazione/comunicazione, l’una e
l’altra necessarie per affiancare e rafforzare l’efficacia delle attività decise a livello nazionale
dal Dipartimento per le Comunicazioni - Ministero dello Sviluppo Economico e dall’AGCOM
- Autorità per le Garanzie nella Comunicazione,
mettendo a disposizione la propria conoscenza
delle realtà e delle problematiche locali.
Lo studio del CORECOM FVG
“La qualità della TV locale”
Lo studio “La qualità della TV locale: le aspettative dei telespettatori e degli operatori televisivi locali sui cambiamenti derivati dall’introduzione del digitale terrestre in Friuli Venezia
Giulia“, realizzato nella seconda metà del 2009
per agevolare la delicata fase di transizione al
digitale terrestre, ha fatto emergere che:
- complessivamente il comparto regionale occupa circa 140 persone (indotto escluso),
sebbene i dipendenti siano meno della metà;
- il valore della produzione medio per emittente era di 0,68 M€; solo tre emittenti su sette
superavano 1M€; le restanti si attestano sotto i
250.000€ annui;
- la raccolta pubblicitaria complessiva era
di circa 3,4 M€, ma solo due emittenti su sette superavano 1M€; tre emittenti non dichiaravano introiti pubblicitari. Altre inserzioni
pubblicitarie, quantitativamente ed economicamente non determinate, venivano raccolte
e gestite sul territorio regionale da emittenti
venete. Il valore complessivo della pubblicità
televisiva disponibile in Friuli Venezia Giulia
oscillava quindi fra i 4,2e i 5 M€ ed appariva
poco probabile un qualche allargamento del
bacino pubblicitario con l’avvento del DTT (Digital Terrestrial Television);
Un'applicazione della risk theory
issn 2035-584x
- da tutti gli operatori regionali il passaggio al digitale terrestre veniva giudicato come
una “opportunità irrinunciabile”, seppure non
priva di insidie. Esisteva un diffuso auspicio
affinché le istituzioni regionali sostenessero
economicamente questa delicata fase di transizione, in carenza di un sostegno pubblico il
rischio di cessazione delle attività, per le emittenti più deboli, era reale;
- dopo lo switch off, Telequattro dichiarava
che avrebbe avuto una copertura pari al 100%
del territorio regionale e così Telefriuli, peraltro alle prese con un complesso processo
di adeguamento impiantistico; Canale 6 TVM
pensava di servire le province di Trieste, Udine
e Gorizia e, parzialmente, quella di Pordenone;
Video Pordenone e Radio Tele Pordenone intendevano coprire le province di Udine e Pordenone. Tele Alto Bût intendeva raggiungere
13.000 utenti nella Valle del Bût e nel comune
di Tolmezzo. Telemare, che all’epoca copriva
con il segnale analogico il comune di Gorizia e
le aree limitrofe e parte delle province di Udine e Trieste, si dichiarava non in grado di fare
previsioni per il post switch off;
- le risorse necessarie al completamento della fase di adeguamento impiantistico variavano
- a seconda delle emittenti - da un minimo di
200.000 € a un massimo di circa 1M€ ciascuna,
per una stima complessiva superiore ai 3 M€;
- l’utenza regionale delle emittenti locali
(potenzialmente attratta dai nuovi contenuti e
dalla interattività della tecnologia) poteva aumentare di circa il 4-5%.
Benefici e criticità
A parere dei gestori e degli operatori televisivi, i benefici del digitale terrestre si potevano
così sintetizzare:
- possibilità di ampliare l’offerta dei contenuti, anche interattivi;
- possibilità di trasmettere programmi a pagamento;
- possibilità di affittare canali a produttori
di contenuti o ad altri soggetti terzi;
- possibilità di attivare nuove forme di business.
Sul fronte degli utenti, i potenziali vantaggi
potevano essere così riassunti:
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
- maggior numero di canali disponibili;
- maggiore offerta di contenuti;
- migliore qualità dell’immagine e del segnale audio;
- possibilità di fruire di servizi interattivi
e informativi (T-government, T-banking, T-learning, ecc.);
- accesso a servizi istituzionali e di pubblica utilità.
Il DTT, tecnologia relativamente giovane,
necessita di una progressiva messa a punto.
I problemi manifestatisi in alcune delle aree
dove lo switch off era già avvenuto hanno permesso di individuare le criticità con le quali
anche il Friuli Venezia Giulia avrebbe dovuto/
potuto confrontarsi:
- limitata disponibilità di frequenze: delle
54 frequenze disponibili, una volta assegnata
una parte consistente alle emittenti nazionali,
le restanti sarebbero state suddivise tra gli operatori locali. Non parevano sussistere problemi
di carenza, sebbene la presenza delle emittenti
venete e di quelle slovene e croate avrebbe potuto saturare la disponibilità delle frequenze;
- pre-sintonizzazione automatica (LCN - Logical Channel Numbers): il posizionamento
dei canali sul telecomando rappresentava uno
dei problemi maggiormente percepiti dalle
emittenti locali. È evidente che, per un operatore locale, sintonizzarsi nelle vicinanze degli operatori nazionali (o comunque in corrispondenza di numerazioni basse) non è come
posizionarsi su numerazioni elevate, di fatto
anonime e difficilmente raggiungibili. La questione dell’ LCN potrebbe incidere in maniera
non marginale sull’appetibilità delle emittenti
da parte degli inserzionisti pubblicitari, con
importanti ripercussioni commerciali. Lo stato di confusione pareva destinato a crescere ulteriormente a causa di quei modelli di decoder
e televisori integrati che non mantengono la
sintonizzazione dell’utente, poiché durante la
notte, automaticamente, operano il cosiddetto
refresh (o riposizionamento dei canali in base a
criteri stabiliti dal produttore dei decoder);
- adeguamento degli impianti e delle tecnologie: emerse chiaramente che la vetustà
di molte strutture che ospitavano i ripetitori
o sostenevano le antenne avrebbe costretto
Un'applicazione della risk theory
issn 2035-584x
gli operatori a notevoli investimenti. Anche
l’aggiornamento delle apparecchiature, dei
software e dei ponti di trasmissione avrebbe
avuto un impatto economico rilevante, specie
sugli operatori minori;
- orografia e conflitti SFN: SFN è l’acronimo
di single frequency network e prevede che tutti i trasmettitori di una rete usino la medesima
frequenza. Criticità marcate erano già emerse
in tutte quelle aree dove l’orografia del territorio ha reso valli e zone montane difficilmente
raggiungibili dal segnale digitale, oppure dove
i segnali SFN confliggono e mandano in tilt i
decoder degli utenti. Criticità dovute all’orografia del territorio e alla vetustà degli impianti erano verosimilmente prevedibili anche in
alcune valli e fasce montane;
- adeguamento delle antenne di ricezione:
le antenne usate dagli utenti per la ricezione
del segnale analogico avrebbero dovuto funzionare anche dopo la transizione al digitale
terrestre, tuttavia problemi di vario tipo potevano presentarsi in presenza di impianti vecchi o carenti di manutenzione. All’atto dello
switch off avrebbero potuto inoltre verificarsi
variazioni nelle frequenze utilizzate per la trasmissione dei programmi.
Con il senno di poi, è stata la criticità più
sottovalutata e più foriera di disservizi tecnici
e malumori tra gli utenti finali.
Proposte di intervento a sostegno
degli operatori televisivi locali
da parte della Regione FVG
Dall’indagine emergeva che, nonostante le
scarse competenze settoriali, si attribuiva alla
Regione un buon margine di intervento in vista dello switch off. Cinque le azioni individuate:
a) Un’azione politica di lobbying
La Regione poteva attuare interventi di
carattere politico sul Governo e sull’Autorità
competente in materia di LCN e di assegnazione delle frequenze. Pareva auspicabile che
la Regione partecipasse ai vari tavoli tecnici
per evitare scelte penalizzanti per gli operatori locali. Veniva altresì ritenuto essenziale
che la Regione si attivasse presso il Ministero
e l’AGCOM per l’istituzione di un tavolo con
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
Slovenia, Austria e Croazia per evitare sovrapposizioni e interferenze allo switch over;
b) un’azione di carattere normativo
A sostegno delle emittenti locali con sede
legale in regione, come già in altre Regioni
(Lazio, Campania, Piemonte) e nel rispetto del
regime de minimis, era auspicato:
- un provvedimento (da attuare in Finanziaria) a copertura parziale dei futuri investimenti, in particolare un contributo a ciascuna emittente di 200.000€ a fondo perduto,
per agevolare l’adeguamento organizzativo,
degli impianti e dei software; nonché, eventualmente, un prestito pluriennale da restituire a tasso 0;
- in alternativa, un’azione correttiva della
Legge regionale 4 marzo 2005, n. 4, “Interventi per il sostegno e lo sviluppo competitivo delle piccole e medie imprese del Friuli Venezia
Giulia”;
c) un’azione di sostegno alla comunicazione istituzionale
Per l’implementazione e la sperimentazione di piattaforme di T-government, per la comunicazione relativa al digitale terrestre e alle
attività degli Organi istituzionali della Regione e degli Enti locali si proponeva di stanziare
1M€ per acquistare spazi di comunicazione
istituzionale sui media locali per informare
l’utenza sulle opportunità e l’uso della nuova
tecnologia e sostenere un comparto da tempo
in profonda crisi;
d) un’azione a sostegno della formazione
degli operatori televisivi e degli utenti
Si proponeva di destinare un importo di
350.000€, a valere sul Fondo Sociale Europeo,
per sistemi, campagne e corsi di formazione,
riqualificazione e informazione per gli utenti
e gli operatori televisivi, atteso che analisi accademiche e le stesse associazioni di categoria
segnalavano come il digitale terrestre avrebbe
indotto lo sviluppo di nuove professionalità e
competenze nel settore.
e) un’azione a sostegno dell’attività di comunicazione del CORECOM FVG
Per realizzare campagne, studi e progetti
di comunicazione, informazione e formazione in vista dello switch over (anche a sostegno
delle fasce più deboli di utenza), si proponeUn'applicazione della risk theory
issn 2035-584x
va di destinare al CORECOM FVG un fondo di
250.000€ pro 2010.
Risk management
Come detto, la Regione si è trovata, ad inizio
gennaio 2010, coinvolta attorno a diversi tavoli
di lavoro operanti a diverso livello territoriale,
sedi ove era possibile individuare i problemi,
confrontarsi con gli stakeholder, definire le soluzioni tecniche ed amministrative.
Un “Gruppo di lavoro interregionale sul
tema del passaggio al digitale terrestre” si è
così riunito per la prima volta il 15 gennaio a
Milano, auspice il vice ministro Romani, che
ne aveva affidato il coordinamento alla Regione Lombardia, e vedeva non solo il coinvolgimento delle Regioni del nord interessate dal
passaggio al digitale terrestre nel 2010, Friuli,
Veneto, Piemonte orientale, Liguria, Emilia
Romagna ma intendeva anche fare il punto
sui problemi riscontrati dai territori nei quali
era stato già effettuato il passaggio, Piemonte
occidentale e le Provincie di Trento e Bolzano
in particolare.
In sintesi, i principali temi emersi in quel
consesso in occasione degli incontri svoltisi
sino ad autunno inoltrato, sono stati:
- Tempistica dello switch off/switch over
- Quanti MUX ( acronimo di Multiplex ) avrà
la Rai, quanti Mediaset, come saranno divisi?
- Cosa è previsto per le lingue minoritarie
del Friuli Venezia Giulia (sloveno e friulano)?
- Quale è il ruolo della Rai nei Tavoli tecnici?
E quale delle Regioni?
- Le iniziative di supporto alle fasce deboli
- La comunicazione nazionale e regionale
- Localizzazione e interventi di manutenzione su impianti che non dipendono dai gestori televisivi principali
- Sovrapposizione di segnali sui territori di
confine tra regioni e gli altri stati
- Rapporti con gli antennisti, loro formazione, definizione di albi ed eventuali tariffari
- coinvolgimento della grande distribuzione
- Ruolo delle associazioni dei consumatori
- Eventuali finanziamenti alle emittenti locali
- Accelerazione sulle assegnazioni delle frequenze da parte dell’AGCOM
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
- Modalità di finanziamento
- Definizione delle date Switch over e Switch off
- LCN
Temi, questi, che sarebbero poi stati ripresi
ad un altro tavolo, questa volta a respiro nazionale, promosso a Roma dal CNID – Comitato Nazionale Italia Digitale, composto dai
rappresentanti delle Autorità per le Garanzie
delle Comunicazioni, delle Regioni, delle associazioni di TV locali e delle emittenti nazionali, dei produttori e distributori, dei consumatori e presieduto dal vice ministro allo
Sviluppo Economico con delega alle Comunicazioni, il cui primo incontro con il coinvolgimento della Regione Friuli Venezia Giulia ha
avuto luogo di lì a poco, il 21 gennaio, presenti
il Ministero e l’ AGCOM.
In quella sede fu deciso che lo switch off digitale terrestre nel bacino Nord da 23 milioni di
abitanti sarebbe partito dal 15 settembre (con
Lombardia e Piemonte orientale) e si sarebbe
concluso il 20 dicembre (con la Liguria). Al FVG
sarebbe toccato ad ottobre. Al momento sembrava che i tavoli tecnici congiunti tra Agcom
e il Ministero per lo Sviluppo Economico
(MSE-Com) per l’assegnazione condivisa delle
risorse radioelettriche disponibili sarebbero
stati fissati entro febbraio, per procedere poi,
dopo la pubblicazione della delibera Agcom
recante i piani di assegnazione, al rilascio dei
provvedimenti di attribuzione dei diritti d’uso
delle nuove frequenze digitali entro marzo.
Certo è che a favore di uno start-up DTT tranquillo non giocavano le decine di ricorsi al TAR
già promossi dalle emittenti contro i provvedimenti dell’Ispettorato territoriale per la
Lombardia del MSE-Com: al momento. il rischio che il masterplan che la Direzione Generale del MSE-Com doveva predisporre in vista
della migrazione s’intoppasse a causa dell’accoglimento anche solo di un ricorso giudiziario non pareva affatto remoto.
In quella sede era stata posta con decisione
la questione degli impianti ex art. 30 D. Lgs.
177/2005 (Testo unico della radio-televisione),
cioè degli impianti delle Comunità montane e
degli Enti locali atti a servire aree disagiate dal
punto di vista radioelettrico, dove generalmente gli operatori non hanno particolare interesse
Un'applicazione della risk theory
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a giungere, stante la scarsa rilevanza demografica e la limitata appetibilità commerciale.
Mentre ovviamente rimaneva confermato
l’obbligo di disattivare alla data dello switch
off gli impianti analogici o digitali attivati ex
art. 30 D. Lgs. 177/2005, era ormai assodata la
conferma della possibilità per Comuni e Comunità montane di inoltrare agli Ispettorati
territoriali competenti “apposite istanze per
la riattivazione dei microdiffusori su base non
interferenziale col nuovo quadro elettrico definito dopo lo switch off”. Per quanto attiene,
invece, alle domande ex novo degli enti locali,
il MSE-Com non pareva avere preclusioni per
l’immediato rilascio dei titoli all’esercizio, a
switch off avvenuto, ovviamente valutata l’assenza di pregiudizi interferenziali per i terzi
e, soprattutto, la reale esigenza di copertura,
in pratica se tali diffusori compensativi non
avrebbero operato in stato di ridonanza.
È a questo Tavolo che il 13 settembre sarebbe
stata decisa la revisione dei tempi dello switch
over delle Regioni nord-orientali, che posticipava al 25 ottobre 2010 l’inizio delle operazioni
di passaggio inizialmente previsto per il 15 settembre. per cui Friuli Venezia Giulia, Veneto
ed Emilia-Romagna sarebbero approdati direttamente allo switch over evitando il periodo di
transizione dello switch off. Il tutto, per il Friuli
Venezia Giulia, tra il 3 ed il 14 dicembre, a seconda delle fasce territoriali: costiere, urbane,
collinari, montane. Il posticipo aveva l’obiettivo di garantire le condizioni necessarie per
il passaggio alla nuova tecnologia in un’area
tanto vasta e complessa. In quell’occasione lo
switch off nella Regione Liguria è stato posticipato al primo semestre del 2011, anche al fine
di valutare la compatibilità radioelettrica con
l’area tecnica toscana
A livello nazionale la governance della transizione al digitale terrestre è stata particolarmente complessa, e lo è tuttora, tenuto conto
dei rilevanti interessi strategici, economici,
politico-sindacali in gioco, più volte “denunciati” in particolare dalle organizzazioni rappresentative delle emittenti locali, con accuse che spaziano dagli interessi privati in atto
d’ufficio alla scarsa trasparenza. Tale complessità è stata discussa anche in diversi incontri
132
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
promossi dall’Agcom e dal Coordinamento
nazionale dei CORECOM, spesso in collaborazione con RAI WAY.
Proprio quest’ultima si impegnò a luglio ad
installare il MUX 1 sugli impianti “ufficiali”,
ovvero quelli rientranti negli elenchi pubblicati nelle Gazzette Ufficiali. Non era previsto
che gli impianti delle Comunità montane potessero essere attrezzati con impianti Rai, non
escludendo, però, la possibilità di giungere ad
una specifica convenzione, una forma di comodato che era già stata sperimentata in alcune
aree del Lazio. Restando peraltro da definire se
seguire questa strada con i singoli Comuni/Comunità montane interessati o con la Regione.
Il MUX 1 avrebbe coperto il 99% della popolazione, il che significa che sarebbe rimasto
fuori un 1%, circa 12.000 abitanti, non tanti in
termini demografici ma verosimilmente distribuiti nell’area montana della regione, tradizionalmente più penalizzata.
Riguardo ai MUX della Rai, sarebbero stati 5,
i MUX 3 e 4 con 4 canali ciascuno, il 4 in particolare dedicato all’Alta Definizione, mentre il 5
sarebbe stato riservato ai Servizi di mobilità. Lo
stesso numero di MUX era riservato a Mediaset.
In merito ai problemi di interferenza di
segnale con i Paesi confinanti (Slovenia e Croazia), non avrebbero dovuto esserci problemi
di interferenze in base al piano di ripartizione
delle frequenze deciso in ambito europeo con
gli Accordi di Ginevra ed al contestuale riordino delle stesse (area per area), che sta avvenendo in Italia man mano che si procede con
la digitalizzazione.
Ad ogni buon conto, in merito all’utilizzo
del satellite per coprire le aree non raggiunte
dal digitale terrestre, attraverso questo mezzo non sarebbe stato possibile trasmettere i
programmi delle redazioni regionali (se non
a rotazione) né quelli dedicati alle minoranze
linguistiche.
Per ricevere il segnale dal satellite bisogna
infatti munirsi di un apposito decoder (l’unico
attualmente esistente è prodotto da TivùSat)
e di una parabola, ad un costo complessivo di
circa 100 Euro, anche se già esistono in commercio “decoder integrati” in grado di ricevere
sia il segnale terrestre che quello satellitare.
Un'applicazione della risk theory
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Per ricevere i programmi Rai è inoltre necessaria una tessera, gratuita ed attivabile se si è in
regola con il pagamento del canone Rai.
Un altro ambito di lavoro nazionale era ed è
rappresentato da DGTVi, l’Associazione italiana per lo sviluppo della tv digitale terrestre costituita da Rai, Mediaset, Telecom Italia Media,
DFree, FRT e Aeranti-Corallo.
L’Associazione ha l’obiettivo di promuovere
l’avvio e il pieno sviluppo della televisione digitale terrestre in Italia; promuove iniziative
finalizzate ad assicurare all’utente finale la più
completa informazione sulle opportunità offerte dalla nuova tecnologia trasmissiva e dalle
nuove modalità di fruizione dell’offerta; favorisce l’interoperabilità delle reti e delle applicazioni interattive. Attraverso la consultazione
con il Ministero dello Sviluppo EconomicoComunicazioni, l’Autorità per le garanzie nelle
Comunicazioni e ogni altro organismo competente DGTVi ha cooperato anche all’attuazione
della transizione dal sistema analogico a quello
digitale, nei tempi previsti dalle leggi vigenti e
in linea con la normativa europea, nel Nord Est.
DGTVi pubblica mensilmente la newsletter
“DIGITA”, distribuita gratuitamente a mezzo email e contenente informazioni, notizie e dati
sulla TV digitale terrestre in Italia e in Europa.
Su scala locale, la Regione ha dato vita ad
uno specifico “Gruppo di lavoro interdirezionale”, creato dalla Presidenza della Giunta regionale ed affidato, per la conduzione, al direttore dell’Ufficio stampa.
Questo Gruppo di Lavoro, costituito con
decreto del Presidente della Giunta regionale,
si è insediato il successivo 11 marzo ed ha visto la partecipazione di funzionari dell’Ufficio
stampa, delle Direzioni centrali mobilità e infrastrutture di trasporto, Pianificazione territoriale, Welfare, Protezione civile nonché del
CORECOM FVG, in virtù della sua funzione di
garanzia verso il sistema dei media regionali e
dei cittadini. Finalità dichiarate:
- identificare i reali bisogni del cittadino,
in termini di informazione e di servizi alla
persona;
- raggiungere tutti gli strati di popolazione
della realtà territoriale, sia a livello geografico
che demografico;
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
- vigilare sui bisogni e sulle necessità delle
fasce più deboli della popolazione
Questo Gruppo di lavoro si è dato un insieme di compiti così riassumibili, puntualmente perseguiti nel corso dell’anno:
- individuazione delle zone d’ombra dove
presumibilmente il segnale digitale sarebbe
rimasto coperto e modalità per garantire al
maggior numero possibile di utenti la visione
del segnale, incluso quello di RAI TRE regionale, atteso che portare TV SAT nelle aree di montagna dove il segnale del digitale non sarebbe
arrivato non avrebbe risolto il problema, poiché tale servizio non sarebbe riuscito a garantire la visione dei programmi RAI regionali,
telegiornali in primis;
- coinvolgimento della Protezione Civile: da
subito i volontari della Protezione civile sono
stati individuati come possibili soggetti da utilizzare, specie nei territori disagiati, a favore
della popolazione civile per un’azione di informazione e supporto tecnico;
- piano di comunicazione: a rinforzo della
comunicazione ministeriale la Regione avrebbe curato la predisposizione di una website
dedicata sul proprio sito istituzionale con link
a quello del CORECOM; la predisposizione di
una brochure informativa da recapitare a domicilio di tutte le famiglie alla vigilia dello switch
off di dicembre; una serie di conferenze stampa
nei momenti topici della transizione al digitale;
- rapporti con gli stakeholders tecnici: gli operatori televisivi locali e la RAI/Rai Way FVG;
- rapporti con i rivenditori dei decoder, che
avrebbero dovuto fare da tramite con il Ministero nell’erogazione dei contributi ministeriale. Per quanto riguarda i decoder, si poteva
scegliere tra quelli interattivi (set top box) e
quelli che si limitano a convertire il segnale
digitale (zapper), laddove i primi, se da un lato
erano più costosi (dai 70 Euro in su rispetto ai
30 Euro di un zapper) dall’altro erano dotati di
un software più elaborato;
- rapporti con gli antennisti, per definire un
Codice etico per la trasparenza dei servizi e dei
relativi costi, un tariffario calmierato, le liste
di coloro che vi avrebbero aderito. Da subito
era evidente che i problemi principali avrebbero potuto riguardare le antenne di ricezioUn'applicazione della risk theory
issn 2035-584x
ne, in particolare quelle più obsolete o quelle
degli impianti condominiali dotati di filtri e
canalizzati. Il problema della qualità del segnale diventa infatti più stringente in ambito
digitale rispetto all’analogico: trattandosi sostanzialmente di una “trasmissione-dati”, una
cattiva qualità comporta l’oscuramento totale
del canale, con il risultato che un segnale già
debole o disturbato in ambito analogico non
sarà più visibile con il digitale;
- problematiche delle Comunità Montane:
in particolare, soluzione del problema legato
alla proprietà degli impianti, atteso che talune Comunità risultavano possedere i tralicci
ma non erano proprietarie dei trasmettitori e
quindi non potevano agire in prima persona.
Le Comunità montane e lo switch off/
switch over
Proprio i problemi delle Comunità montane si sono rivelate, nel corso dell’anno, quelli
più complessi e gravosi da risolvere.
Riunione dopo riunione si è andato infatti
definendo un quadro che, a luglio, da un puntuale raffronto tra gli elenchi degli impianti regolarmente autorizzati di proprietà dei
comuni e delle Comunità montane fornito
dall’Ispettorato regionale delle comunicazioni, quello degli impianti di proprietà di Rai
Way e dagli elenchi inviati dalle Comunità
montane faceva emergere un quadro estremamente complesso e di difficile lettura. Tale
situazione rendeva impossibile una puntuale
individuazione degli interventi necessari ad
ogni singolo impianto, al punto che si convenne di procedere ad una valutazione complessiva per singola comunità, che fornì questo quadro d’insieme:
1. Comunità del Friuli occidentale: secondo
Rai Way in questa area non avrebbero dovuto
esserci particolari problemi, tranne per i ponti
di Erto e Casso. In tal senso risultava opportuno un intervento economico per l’adeguamento di tali ponti (S. Osvaldo e S. Floriano), dal costo complessivo di circa 15-20 mila euro.
2. Comunità della Carnia: qui l’intervento
sembrava riguardare gli impianti di Cabia e
Piedim, i cui costi erano al momento indefini134
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
ti, e parevano poterci essere difficoltà di tipo
burocratico in merito alle procedure autorizzative. Vi era inoltre incertezza sullo status di
alcuni impianti di proprietà del Comune di
Forni Avoltri (Val Degano su traliccio e Collinetta, su palo, forse superfluo con il DTT).
3. Comunità del Gemonese: in questa area
era concentrato il maggior numero di impianti (18), apparentemente tutti regolarmente
autorizzati alla trasmissione in analogico; e
proprio l’alto numero di impianti su cui si doveva intervenire poneva un problema di natura economica.
4. Comunità delle Valli del Natisone: la Comunità non era proprietaria di impianti, pertanto non vi era necessità di alcun intervento.
Proprio grazie a questi continui e pressanti
contatti ed approfondimenti, a luglio nell’ambito del Gruppo di lavoro si registrò la necessità di un provvedimento normativo d’urgenza
da chiedere al Consiglio regionale per il tramite della Giunta e dell’assessore competente.
Fu così contattato il Servizio Infrastrutture
della Direzione centrale Infrastrutture, mobilità, pianificazione territoriale e lavori pubblici, insieme al quale si contribuì ad inserire un
Capo Terzo in un d.d.l.r che alla fine assunse
il titolo di “Norme urgenti in materia di personale e di organizzazione nonché in materia
di passaggio al digitale terrestre” inserendovi
nell’articolato un articolo in grado di garantire
la possibilità di utilizzare l’autocertificazione
non solo per gli adeguamenti ma anche per le
nuove attivazioni impiantistiche.
In breve, il 29 luglio il Consiglio regionale
ha così approvato la legge che al Capo Terzo,
art. 10, ora recita:
Norme urgenti
in materia di passaggio
al digitale terrestre
Art. 10 (Norme urgenti in materia di passaggio
al digitale terrestre)
1. Al fine di agevolare e consentire nel territorio regionale il passaggio della radiodiffusione televisiva terrestre dal sistema analogico a
quello digitale, le autorizzazioni amministrative per l’installazione di nuovi impianti per la
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radiodiffusione televisiva in tecnica digitale,
nonché per le modifiche agli impianti esistenti che necessitano di essere adeguati, sono disciplinate dalle disposizioni che seguono.
2. I nuovi impianti previsti dai piani nazionali di assegnazione delle frequenze per la
radiodiffusione televisiva in tecnica digitale,
e fermo restando quanto previsto dagli indirizzi dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni in merito a possibili localizzazioni
fuori dagli stessi piani nazionali, sono soggetti ad autorizzazione unica, rilasciata da parte
del Comune interessato ai soggetti abilitati,
a conclusione di un procedimento unificato,
nel rispetto dei principi di semplificazione e
con le modalità e nei termini di cui alle vigenti norme previste per l’istituto della conferenza di servizi.
3. L’autorizzazione di cui al comma 2 è rilasciata anche in deroga alle previsioni degli
strumenti urbanistici comunali vigenti, fatte salve le vigenti norme in materia di tutela
della salute, del territorio, dell’ambiente, del
paesaggio e dei beni culturali, nel rispetto dei
principi di non discriminazione, proporzionalità e obiettività, e sulla base del parere favorevole di ARPA che accerti il rispetto dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e
degli obiettivi di qualità relativi alle emissioni
elettromagnetiche di cui alla legge 22 febbraio
2001, n. 36 (Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed
elettromagnetici) e successive modifiche.
4. Per gli impianti esistenti che necessitano
di essere adeguati per il passaggio alla tecnica
digitale, qualora le modifiche non comportino in alcun punto del territorio un aumento
dei livelli di campo elettromagnetico, il titolare dell’impianto invia una comunicazione
ad ARPA e al Comune interessato, contenente
una autocertificazione corredata di una relazione tecnica con i dati radioelettrici aggiornati sottoscritta da un tecnico qualificato. La
comunicazione è soggetta in ogni tempo a
successiva verifica da parte del Comune con il
supporto di ARPA.
5. Qualora le modifiche agli impianti esistenti di cui al comma 4 comportino un aumento dei livelli di campo elettromagnetico,
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o comunque comportino modifiche ai volumi
edilizi e alla sagoma dell’impianto, si applica il
procedimento di cui ai commi 2 e 3.
Risolto così positivamente il problema della semplificazione delle procedure autorizzatorie a capo dell’ARPA, rimaneva insoluta la
risposta ai problemi tecnico-finanziari evidenziati dalle Comunità montane.
Di concerto con il Gruppo di lavoro è stata
così definito un ulteriore intervento legislativo, che mettesse l’Amministrazione in grado
di intervenire anche finanziariamente a sostegno delle Comunità montane.
Contemporaneamente, alla luce delle problematiche segnalate dalle Comunità in merito alla necessità di adeguare alla nuova tecnologia gli impianti di ripetizione, anche al
fine di consentire anche alle popolazioni dei
Comuni montani di continuare a ricevere i
programmi televisivi, altrimenti irricevibili,
le stesse Comunità hanno provveduto a stilare l’elenco dettagliato dei fondi già destinati
dalle Comunità ad altri interventi non ancora
impegnati perché non più rientranti nei loro
interessi prioritari.
L’Ufficio stampa e il Servizio coordinamento delle politiche per la montagna, di concerto con la Ragioneria centrale ed il CORECOM,
hanno così individuato un meccanismo per
la ri-assegnazione di tali finanziamenti residui al fine dell’adeguamento degli impianti
di ripetizione del segnale radiotelevisivo dei
Comuni e delle Comunità montane (ex art. 30
co.1 del D.lgs 177/05) in vista del passaggio alla
televisione digitale terrestre.
La legge regionale 18/2010 “Norme urgenti in materia di servizio pubblico televisivo”,
approvata il 29 ottobre, ha così autorizzato
l’Amministrazione regionale a erogare un contributo alla RAI al fine di consentire la realizzazione di interventi atti a garantire la copertura
del segnale del servizio pubblico televisivo in
determinate aree del territorio regionale che
attualmente rimangono prive di segnale nel
passaggio dal sistema di trasmissione analogico a quello digitale terrestre. Intervento
preferibilmente rivolto alle zone montane e,
comunque, nell’ambito di una equilibrata ripartizione territoriale, con modalità’ di erogaUn'applicazione della risk theory
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zione del contributo determinate dalla Giunta
regionale, sentito il CORECOM, per una spesa
complessiva di 700.000 euro per l’anno 2010
L’Ufficio stampa si è mosso con grande velocità ed in breve tempo ha portato all’approvazione della Giunta la relativa delibera per
garantire il puntuale utilizzo di tali fondi, individuando lo strumento giuridico nella concessione alla RAI - Radiotelevisione italiana
S.p.A., previa apposita istanza, del contributo
disponibile. La RAI avrebbe dovuto individuare ed indicare le localizzazioni, le tipologie di
intervento ed i costi presunti degli interventi su impianti e/o strutture di proprietà delle
Comunità Montane e/o di singoli Comuni, seguendo un ordine di priorità definito in accordo con le amministrazioni locali proprietarie.
E così è stato, quantomeno nella fase delicata post switch over.
Tutte queste attività, dalla frequentazione di
tavoli di lavoro, fiere digitali e seminari conoscitivi, all’analisi e ricerca dei problemi, alla partecipazione ai tavoli di lavoro, facevano emergere
chiaramente che uno dei snodi fondamentali
dell’intera vicenda sarebbe stato l’impatto che
lo switch over avrebbe avuto sugli utenti.
Da qui l’esigenza di articolare per tempo
una sorta di piano di comunicazione che, in sinergia con quanto a livello nazionale si andava
preparando, mettesse in condizione l’Amministrazione di essere protagonista attiva di questa specifica attività. E qui il corecom è stato in
prima linea per l’intera transizione al digitale.
Era abbastanza evidente che il contatto con
la popolazione locale avrebbe potuto essere
semplificato se le Amministrazioni comunali avessero accettato di essere coinvolte in un
articolato programma di informazione che
il CORECOM si era dichiarato disponibile a
svolgere sulla base di un paio di incontri sperimentali avviati a primavera.
Così il CORECOM, nell’ambito di quanto
previsto dall’art. 3 dei Protocolli d’intesa sottoscritti con ANCI e UP l’anno precedente, a metà
maggio 2010 ha concordato ad Udine iniziative
comuni da sviluppare nel corso dell’anno, della
cui utilità aveva avuto conferma nel corso di un
incontro “pilota” appena organizzato in Friuli.
In particolare in quella sede si è condivisa l’op136
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
portunità di collaborazione delle autonomie
locali alle attività promosse dal Gruppo di lavoro interdirezionale e dal CORECOM per affrontare la transizione al digitale terrestre, in particolare il coinvolgimento nella realizzazione di
una campagna di sensibilizzazione e supporto
alle fasce più deboli della popolazione ed ai territori più svantaggiati che avrebbero potuto insorgere in sede di switch off d’autunno.
Ne era venuto fuori, pur nella sua informale
definizione, un vero e proprio Piano di comunicazione.
risk communication
Nell’ambito del Gruppo di lavoro interdisciplinare, proprio la definizione di tale Piano fu
l’azione che sin dall’inizio procedette con maggiore speditezza.
Innanzitutto, fu condivisa l’esigenza di chiarire che nell’ideazione della campagna promozionale per il passaggio al digitale terrestre
doveva essere chiaro che l’avvento del DTT era
un’azione di carattere privatistico e che l’intervento dello Stato e della Regione avveniva unicamente a causa degli impatti e delle ricadute
sociali che esso avrebbe avuto sulla popolazione del territorio regionale.
Il contributo informativo dello Stato, anche
per il tramite di CNID e DGTVi, può essere così
riassunto:
- campagna informativa sulle emittenti televisive pubblica e private, televisive e radiofoniche:
- campagna informativa sui media a stampa;
- produzione di brochure informative;
- progetto scolastico sul Digitale Terrestre
coinvolgente RAI WAY, Eurosatellite, il Ministero della Pubblica Istruzione Direzione Generale Ordinamenti Scolastici.
Accanto dunque a questa massiccia campagna “generalista” nazionale, il piano di comunicazione, che nei documenti risulta come
campagna promozionale, prevedeva un’organica promozione del digitale terrestre declinata attraverso i più importanti canali mediatici
regionali, ovvero:
- Affissioni: manifesti 6x3 (da utilizzare
solo se necessari), locandine, leaflet in precisi
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punti di distribuzione anche presso i venditori di decoder);
- Pagine Bianche;
- Quotidiani: annunci formato piedi di pagina e pagine intere (grande impatto);
- Settimanali: annunci su Il Friuli, Vita Cattolica, Il Sole 24 ore Nord Est, Mercatino, Bancarella;
- Radio: campagna articolata su circuito Media 90 e Vivaradio e tutti il circuito di radio locali a target di età più elevata. Spot da 30’’;
- Depliant: opuscolo informativo da veicolare alla cittadinanza puntualmente arrivato agli
utenti alla fine di novembre in allegato alle Pagine Bianche;
COSTO TOTALE PRESUNTO: € 200.000 più
€ 50.000 per la distribuzione in allegato alle
Pagine Bianche
- Pagina web sulla home page regionale:
http://www.regione.fvg.it/rafvg/utility/
areaArgomento.act?dir=/rafvg/cms/RAFVG/
GEN/DIGITALE_TERRESTRE/
COSTO TOTALE: la progettazione e l’implementazione sarebbero state eseguite con risorse interne, pertanto senza costi aggiuntivi .
A queste attività istituzionali, il CORECOM
ha contribuito con una serie di iniziative autonomamente gestite, per quanto sempre in coordinamento con l’Ufficio stampa della Regione:
- trasmissioni dell’Accesso: il CORECOM
ha autonomamente realizzato una serie di
cinque trasmissioni nell’ambito dei programmi dell’accesso con la sede regionale RAI FVG,
alle quali ha di volta in volta fatto partecipare i
principali stakeholder del digitale televisivo;
- partecipazione a programmi televisivi,
quando richiesto, proposti dalle emittenti
pubblica e private del FVG ma anche in due occasioni da Telecapodistria;
- collaborazione con i quotidiani e periodici
regionali impagnati a “parlare” ai cittadini del
digitale terrestre;
- incontri con la Protezione Civile per la formazione-informazione dei loro volontari
- incontri informativi con le Associazioni
degli antennisti
- incontri con i Comuni (ai quali hanno partecipato almeno un migliaio di persone):
- 18 marzo 2010 Tricesimo
- 24 giugno 2010 Pradamano
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- 7 ottobre 2010 Fogliano Redipuglia
- 19 ottobre 2010 Savogna d’Isonzo
- 3 novembre 2010 Maniago
- 8 novembre 2010 Claut-Cimolais-Erto e Casso
- 10 novembre 2010 Romans d’Isonzo
- 12 novembre 2010 Montereale Valcellina
- 16 novembre 2010 Frisanco
- 17 novembre 2010 Doberdò
- 18 novembre 2010 Capriva del Friuli
- 19 novembre 2010 Pavia di Udine
- 22 novembre 2010 Mossa-S.Lorenzo Ison
tino-Moraro
- 24 novembre 2010 Dolegna del Collio
- 25 novembre 2010 Andreis-Barcis
- 26 novembre 2010 Cordenons
- 1 dicembre 2010 San Pietro al Natisone e Staranzano
- 9 dicembre 2010 Resia
- conferenze stampa: il 6 agosto ed il 23
novembre
- convegno “Digitale terrestre: istruzioni per
l’uso”, tenutosi martedì 30 novembre a Trieste ed
organizzato in collaborazione con la Regione, la
Sede RAI FVG e RAI WAY. Il convegno ha suggellato l’impegno profuso dal CORECOM FVG in oltre
un anno di attività, alla presenza di un pubblico
che ha dimostrato di apprezzare lo sforzo profuso
dalle strutture regionali per essere vicine ai cittadini in un non facile momento di cambiamento
di usi e costumi televisivi più che consolidati.
Un impegno che non ha avuto al momento analoghi esempi tra i CORECOM italiani e
che è auspicabile proprio gli altri CORECOM
italiani prendano ad esempio per incentivare
l’attenzione degli operatori televisivi e degli
utenti del territorio sulle opportunità offerte
dalla televisione digitale terrestre, attraverso
incontri, convegni, progetti, eventi. Lo switch
off è una vera e propria rivoluzione tecnologica, di portata non trascurabile. Esso può rivelarsi una fabbrica e un contenitore di idee e
di business alla pari di Internet e questo deve
essere quanto prima compreso e metabolizzato da tutti gli operatori coinvolti. Può inoltre
rappresentare un’occasione importante per
strutturare nuove reti di conoscenza e sviluppare nuove professionalità e prospettive occupazionali.
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Conclusioni
Sono trascorsi ormai sei mesi dallo switch over
in Friuli Venezia Giulia: le proteste degli utenti
arrabbiati, specie con la RAI, per la mancata visione dei programmi sono praticamente sparite. Ma
non sono spariti i disservizi, più probabilmente
la gente se ne è fatta una ragione: la Televisione
non sarà più come prima, proprio come recitava
lo spot promozionale di DIG.TV un anno fa.
Nel frattempo la Regione sta trattando ancora con RAI WAY su come risolvere i problemi
delle zone disagiate, gli antennisti non hanno
ancora esaurito le liste di attesa ed altre Regioni si preparano al loro switch over. Ma questa è
già un'altra storia, per nostra fortuna!
Eugenio Ambrosi è docente di Comunicazione pubblica al Master in analisi e gestione della comunicazione, Università di Trieste, facoltà di Scienze della Formazione - direttore Servizio CORECOM FVG
Bibliografia
U. Beck, La società globale del rischio, Trieste, 2001
M. De Vincentiis, Comunicare l’emergenza,
Roma, 2010
P. Feltrin, C. Moretto (a cura di), L’evoluzione
dell’informazione televisiva locale, Venezia, 2010
M. Lombardi, Rischio ambientale e comunicazione, Milano, 1997
M. Lombardi , Comunicare nell’emergenza,
Milano, 2005
T. D. Valentini, Analisi e comunicazione del rischio tecnologico Napoli, 1992
Sitografia
http://www.corecomfvg.it/opencms/opencms/corecom/progetti_speciali/digitale_
terrestre.html
http://decoder.comunicazioni.it/
http://www.dgtvi.it/index.php
http://www.digitaleterrestre.it/scuola/
http://www.regione.fvg.it/rafvg/utility/
areaArgomento.act?dir=/rafvg/cms/RAFVG/
GEN/DIGITALE_TERRESTRE/
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I giovani e la Costituzione.
Scuola e fenomeno migratorio
Liviana Micheli
Abstract
parole chiave
Lo scritto prende lo spunto dalla partecipazione di un
gruppo di docenti dell’ITC “ Da Vinci-Carli-de Sandrinelli “ di Trieste ad un Concorso a livello nazionale
sul tema della Costituzione per analizzare il rapporto
che gli studenti hanno con i valori fondamentali della Carta costituzionale e in particolare con il recente
fenomeno dell’immigrazione.
costituzione; media; immigrazione;
Migranti; scuola; accoglienza;
interculturale; esperienza personale.
1. Partecipazione al concorso della
“Fondazione per la Scuola,
Compagnia San Paolo”
“I media parlano di Costituzione”,
Edizione 2009
D
al 2010 l’Educazione Civica intesa come
analisi della Carta Costituzionale e dei
principi fondamentali in essa contenuti è
entrata di diritto nella scuola pubblica come
materia curricolare, una delle pochissime
iniziative del Ministro Gelmini da salutare
con favore. Parlando con i docenti di diritto
è emersa una opinione comune: “distanza e
senso d’estraneità” sembrano caratterizzare
l’atteggiamento degli studenti nei confronti
della nostra Carta Costituzionale considerata
qualcosa da ricordare solamente per l’eventuale verifica in classe e da dimenticare subito dopo, con principi non sempre riconosciuti come tali e vissuti come molto teorici e non
realizzati o realizzabili.
Sulla base di questa considerazione alcuni
docenti hanno accolto con favore la proposta
di partecipare nel 2009 al concorso indetto
dalla “Fondazione per la Scuola – Compagnia
I giovani e la Costituzione
San Paolo” con il progetto “I media parlano di
Costituzione “ che è stato fra i 50 progetti vincitori a livello nazionale e che ha avuto anche il
sostegno della Provincia di Trieste.
L’obiettivo, molto ambizioso, era quello di
avvicinare i nostri studenti a questo fondamentale strumento utilizzando un approccio
diverso, cercando di farli diventare, contemporaneamente, protagonisti e ricercatori tramite
uno strumento a loro molto più familiare dei
libri: “I media”.
La modalità di lavoro scelta è stata quella laboratoriale, che non prevede la cosiddetta - e
ormai obsoleta - “lezione frontale“, sostituita
da interventi di esperti che hanno fornito input e utili provocazioni. Ancora più ambizioso
si è dimostrato l’obiettivo di far riflettere gli
studenti sui principi fondamentali della Carta
costituzionale considerandoli come propri e
riconoscendoli come tali.
2. Feed back
Come feed back del lavoro svolto i docenti
hanno osservato quanto segue: nell’affrontare la ricerca tramite la consultazione di siti
Internet, quotidiani, video, trasmissioni te139
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
levisive o radiofoniche gli studenti hanno
dimostrato abilità, competenza e autonomia
realizzando come documenti finali video, power point, brevi dizionari di consultazione inseriti nel CD rom che raccoglie i lavori e che è
consultabile nel sito dell’istituto http://www.
davincits.it/default.php.
Molto più difficile è stato affrontare i vari
temi cercando di sviluppare una coscienza civica o, nella nell’idea più ottimista, di potenziare
una coscienza già esistente. La consapevolezza,
che la quasi totalità ha maturato, è di avere un
futuro fatto di precarietà, dove i diritti, soprattutto nel mondo del lavoro, sono un optional
di cui loro stessi spesso non sono consapevoli. Sono a tutti gli effetti la generazione 1000
euro, con un’età che va dai 16 ai 20 anni ,una
generazione educata dalla televisione, che si
riconosce nei modelli presentati dal “ Grande
Fratello” e da trasmissioni come “Amici”,, che
crede nei casting e nell’immagine, che non ha
sviluppato una capacità critica ma ha fatto suo
il messaggio dominante.
Nel analizzare principi quali pari opportunità, diritto al lavoro, pari dignità, solidarietà
, accoglienza l’atteggiamento diffuso è stato
di sfiducia, di distanza, di non riconoscimento della loro realizzazione. Va anche detto che
questo atteggiamento è meno diffuso fra gli
studenti più giovani e fra gli studenti stranieri
che dimostrano maggiore fiducia nel futuro,
maggiore disponibilità ad impegnarsi e disponibilità ad acquisire maggiori competenze
spendibili nel mondo del lavoro e anche maggiore riconoscimento dello Stato.
Tratto comune di questo campione di studenti, rilevato da quasi tutti i docenti e anche
dagli esperti esterni coinvolti, è il non riconoscimento della Istituzione come categoria, l’assenza di contestazione e il vivere la vita come
un “ gratta e vinci “, basata sul momento, sulla
fortuna e sulla casualità.
3. scuola come spazio interculturale
Uno dei laboratori attivati nell’ambito del
progetto è stato il Laboratorio Immigrazione,
al quale è stata data particolare attenzione in
considerazione della composizione fortemenI giovani e la Costituzione
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te multietnica dell’Istituto nel quale sono rappresentate 30 etnie e una percentuale di studenti stranieri superiore al 25%.
Considerando la scuola italiana uno spazio
interculturale che cerca di creare gruppi solidali e aperti, il Laboratorio Immigrazione ha
permesso, da un lato, di riflettere sul lavoro
costante che viene portato avanti dall’Istituto
nell’ambito interculturale e di integrazione e,
dall’altro, sulla forza e capacità di influenza degli stereotipi e dei luoghi comuni, dei modelli
che giornalmente, a ondate alterne condizionate dal momento elettorale o meno, vengono
proposti dai media, dalla televisione, da Internet, dai giornali, dai blog.
Sono emersi atteggiamenti, opinioni, contraddizioni che rappresentano uno specchio
della realtà italiana odierna e dell’atteggiamento schizofrenico degli italiani nei confronti dei molti cittadini extracomunitari
che vivono e lavorano nel nostro paese. Non
solo, sono emerse, con una certa difficoltà,
anche le contraddizioni, i disagi iniziali degli studenti stranieri nei confronti dei loro
compagni e del paese in cui, molto spesso,
non hanno scelto di vivere.
4. compagni immigrati, migranti, stranieri
La difficoltà iniziale, ma non secondaria, è stata nella definizione di questi studenti, definiti:
- “non italofoni”, considerando la lingua
madre ma non la competenza linguistica acquisita;
- “migranti”, considerando la situazione
di viaggio e di movimento che caratterizza il
loro percorso;
- “stranieri”, nel senso della cittadinanza,
ma improprio perché molti hanno una seconda cittadinanza italiana e sono nati in Italia.
Molti studenti stranieri sono giovani immigrati di seconda generazione che come afferma Tahar Ben Jelloun rappresentano “una
generazione destinata a incassare i colpi , questi giovani non sono immigrati nella società,
lo sono nella vita. Essi sono lì senza averlo voluto, senza aver nulla deciso e devono adattarsi
alla situazione in cui i genitori sono logorati
dal lavoro e dall’esilio, così devono strappare i
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
giorni ad un avvenire indefinito, obbligati ad
inventarselo invece di viverlo”.
La ricerca di una definizione univoca
(impossibile ) è emersa come una esigenza
molto forte espressa dagli studenti italiani,
quasi a voler incasellare, inquadrare entro
termini definiti un fenomeno che è in continuo movimento, per prenderne in qualche
modo le distanze.
5. quando gli albanesi eravamo noi
Il tema è stato introdotto da Melita Richter
che partendo dal libro di Gian Antonio Stella
“Quando gli albanesi eravamo noi“ ha presentato alcuni stereotipi riferiti agli italiani che
sono stati disconosciuti dalla maggior parte
degli studenti come privi di fondamento sottolineando, in modo lapidario, che l’emigrazione italiana è stata “ un’altra cosa”, ma, in
che senso, nessuno ha saputo definirlo, senza
utilizzare dichiarazioni banali e scontate. La
discussione è stata molto accesa ed ha fatto
emergere una sorta di real politik da parte degli
studenti stranieri, consapevoli di trovarsi in
una determinata situazione ma anche pronti
a giocare le loro carte nel mercato del lavoro,
nel senso di essere maggiormente motivati e
di avere un bagaglio linguistico superiore (la
percentuale è fatta da studenti provenienti da
paesi balcanici che parlano serbo, comprendono lo sloveno, qualche volta il russo, oltre
all’italiano inglese, francese o tedesco). Per
mettere, ulteriormente, gli studenti di fronte
alle loro contraddizioni è stato analizzato un
test, somministrato da un istituto di Udine,
relativo al rapporto con compagni “stranieri
:con alcuni distinguo relativi al tema della religione praticata, tema meno sentito, anche
gli studenti di Trieste hanno dato risposte
analoghe; più del 50% conferma di avere amici stranieri, di frequentarli regolarmente, di
riconoscere agli stranieri gli stessi diritti degli italiani, ma, ugualmente, più del 50% ha
manifestato apertamente le paure relative al
lavoro(“ci rubano il lavoro”), stereotipi relativi alle etnie (i rumeni rubano, gli albanesi
sono pericolosi) , ma rifiutando di essere definiti razzisti.
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6. la vita come una corsa ad ostacoli
Diverso è stato l’atteggiamento nell’esame
della normativa, molto ampia, in materia di
immigrazione e dei vari decreti relativi al regolamento dei flussi migratori . Molti studenti, pur vivendo giornalmente con i loro compagni stranieri, non conoscono l’iter burocratico
e normativo che uno straniero deve rispettare
sul territorio nazionale .Questa analisi ha fatto in qualche modo riflettere sulla dicotomia
fra l’esigenza di favorire l’integrazione, l’accoglienza e le continue, sempre nuove, richieste di carattere normativo e burocratico che
rendono, qualche volta, la vita degli stranieri,
che vivono sul territorio italiano, una corsa ad
ostacoli.
7. due esperienze personali.:
albione e jonida
Due testimonianze personali di due studentesse, una kossovara, una albanese, sulla
loro esperienza in Italia
- albione : nuove radici
«Mi chiamo Albione e nelle prossime righe cercherò di raccontare una parte della
mia vita, cioè il periodo dal mio arrivo a Trieste fino ad oggi. Sono nata in un villaggio del
Kosovo, Belanic, dove ho vissuto con la mia
famiglia fino all’età di 11 anni, ma senza mio
padre che viveva all’estero.
Nell’estate del 2005, l’11 luglio, mi sono imbarcata su una nave, destinazione Trieste, con
la mia famiglia, mia madre, mio padre i miei
due fratelli e mia sorella. Avevo 10,11 anni.
È stato uno di quei giorni che non si dimenticano mai, il mio cuore sentiva nel medesimo momento tristezza e felicità, tristezza perché lasciavo
persone care che avrei rivisto una volta all’anno,
lasciavo i miei amici, la mia terra, dove sono nata,
dove ho provato per la prima volta felicità e paura,
dove ho capito l’importanza della vita. Per dirla in
modo semplice, lasciavo le mie prime radici per
andare in un paese che avevo visto solo in televisione. Ma ero anche felice perché, finalmente,
sarei stata vicina a mio padre non solo una volta
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
all’anno ma ogni giorno. Il 12 luglio, alle 12 e 30
ho visto le coste di Trieste, è stato un momento
sconvolgente, un momento nel quale ho realizzato che era la realtà, che da quel giorno avevo “un
vaso nuovo” o delle “nuove radici”.
Arrivata a Trieste non sapevo neanche dire
ciao e, in verità, non mi interessava neanche
impararlo, non mi piaceva niente.
Ricordo il primo giorno di scuola, in prima
media, mi ha accompagnato mio padre, fino in
classe, ero entrata per ultima e guardavo i miei
nuovi compagni come se fossi su un altro pianeta. Nella mia classe c’erano altri compagni che
non erano italiani, ma loro almeno sapevano
parlare. Stavo da sola, non mi avvicinavo a nessuno. Ricordo il primo intervallo a scuola, ero
seduta in classe, persa nei miei pensieri, non
volevo conoscere nessuno, quando alcuni compagni di classe si sono avvicinati per presentarsi
e conoscerci. Mi ha fatto molto piacere questo
gesto, perché pensavo, di essermi creata, da sola,
un piccolo muro fra me e gli altri e, invece, è successo il contrario. Ho trascorso tre anni fantastici, sia i compagni che i professori mi hanno
sempre aiutato, mai nessuno mi ha discriminato perché vengo da un altro paese. I compagni
mi hanno sempre accettata, i professori non mi
hanno fatto mai sentire diversa dagli altri e, questa, è la cosa che ho apprezzato di più.
Arrivata alle superiori, tre anni fa, ho una
visone della vita molto diversa, nel senso che
non vivo in una bolla” ma mi avvicino agli altri e permetto agli altri di avvicinarsi. Ho fatto
molte amicizie, alcune con la A maiuscola. Anche alle superiori, al Sandrinelli, ho avuto fortuna e non ho avuto situazioni di discriminazione, né da parte dei compagni, né da parte di
professori. Adesso sono felice di essere venuta
a Trieste, ho imparato molto e vedo le cose da
più punti di vista. Probabilmente crescendo sarei cambiata comunque ma, pensandoci bene,
credo che il cambiamento radicale che ho avuto mi abbia dato una marcia in più.
Se potessi ricominciare sceglierei lo stesso percorso di vita.
Per concludere, mi sento di dire un mio
pensiero ai molti stranieri che vengono in Italia e che si lamentano delle condizioni di vita
ma che rimangono.
I giovani e la Costituzione
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Io sono, ormai, da sei anni in Italia e non
mi permetterei mai di lamentarmi, principalmente perché mio padre in Italia ha trovato un
lavoro, migliorando, così, la mia vita e quella
dei miei familiari in Kosovo.
Sono felice di essere in Italia, ma spero, finita la scuola, di poter tornare nel mio Kosovo.»
- Jonida: Trieste come New York
«Era la prima volta che viaggiavo, avevo 9
anni ed ero contenta di venire in Italia. Quando arrivammo era una sera d’aprile, c’erano
tantissime luci e dei palazzi enormi per me,
era come nei film, sembrava New York. I giorni passarono e per me si trasformò in una tragedia, non avevo amici, non conoscevo nessun
mio coetaneo, non conoscevo la lingua e non
ero abituata a passare così tanto tempo chiusa
in casa. Da li mi sono attaccata alla televisione
che prima non guardavo proprio. Mi ha aiutato ad imparare la lingua e a trascorrere il tempo intanto che aspettavo l’inizio della scuola.
E finalmente settembre! Ero molto spaventata perché entravo a far parte di una classe
dove tutti erano già amici da anni e, in più, io
non riuscivo a parlare nonostante capissi bene
quello che mi dicevano.
Fortunatamente sono stati tutti molto carini e gentili con me, sono contenta di aver ritrovato alcuni di quei bambini alle scuole medie e
anche alle superiori.
Da quel momento in poi il mio percorso in
Italia è sempre stato in discesa, ho conosciuto persone che provenivano da ogni parte del
mondo, ho conosciuto insegnanti che per me
sono stati un ispirazione e che mi hanno indirizzata verso nuovi punti di vista.
Qui in Italia sono entrata in contatto con
moltissime altre realtà, che non credo avrei
mai conosciuto in Albania, sono felice che la
mia vita si sia svolta verso questo senso.
Si sente parlare ogni giorno sempre più di
razzismo, di immigrati, alla televisione mostrano un Italia così tanto intollerante verso
lo straniero da far paura ma io, nella realtà,
questa cosa non l’ho riscontrata. Ho sempre
avuto esperienze positive. Anche quei vari
personaggi che si ritenevano fascisti, che io
142
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
ho conosciuto, in fondo non prendevano posizione di superiorità contro lo straniero ma
volevano che l’identità italiana fosse, diciamo,
salvaguardata da una fantomatica occupazione delle altre culture.
Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa sulla
mia esperienza in Italia e la prima cosa che mi
è venuta in mente è stata che non avrei fatto
fatica a buttar giù due parole, in fondo avrei
solamente dovuto parlare della mia vita! Perché l’Italia ormai per me questo è, non solo un
esperienza, ma la mia vita!»
8. Jonida, Albione e Ivan,
Esefa e tutti gli altri
Leggendo queste due testimonianze, molto
sincere e immediate, due cose fanno riflettere:
la paura iniziale, il senso di inadeguatezza, le
difficoltà linguistiche, che hanno contraddistinto le due esperienze, sono stati superati
grazie all’accoglienza da parte dei compagni
italiani e al lavoro dei docenti, nelle scuole
elementari, medie e superiori che hanno frequentato e stanno frequentando.
Si avverte anche un senso di gratitudine e
di rispetto verso il paese in cui si trovano a vivere (non per scelta personale) e, nonostante
i messaggi dei media, gli stereotipi verso gli
albanesi e kossovari, nessuna delle due parla
di razzismo, al contrario le esperienze sono
state positive.
Se il loro sentire è questo forse possiamo
dire che “uguaglianza, pari dignità, accoglienza, solidarietà”, i valori della nostra Costituzione, fanno parte, ormai, del patrimonio dei
nostri studenti, senza che ne siano consapevoli razionalmente.
I giovani e la Costituzione
issn 2035-584x
Liviana Micheli, docente di inglese all’ITC Da
Vinci-Carli-De Sandrinelli “ di Trieste. Da anni
si occupa di intercultura e di fenomeni migratori. È referente dell’Intercultura dell’Istituto partecipando a ricerche promosse dalla Provincia di
Trieste sui percorsi dei migranti e dal Ministero
della Gioventù. Ha coordinato i laboratori inseriti nel CD Rom “I media parlano di Costituzione”
che raccoglie i lavori del progetto scelto dalla
“Fondazione per la Scuola – Compagnia San
Paolo” curando personalmente il laboratorio
Immigrazione e il laboratorio Pari Opportunità.
Segue tematiche relative alla Civic Education
ed ha partecipato alle ultime Accademie organizzate dalla “Fondazione per la Scuola –
Compagnia San Paolo” a Ventotene e all’Isola di
San Servolo a Venezia.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
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Comunicazione e informazione:
nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa.
Un Corso a Trieste
Eugenio Ambrosi
Abstract
La religione oltre ad essere conosciuta deve anche farsi
conoscere presso nuovi fedeli e, per farlo, deve anche avere il coraggio di uscire dai suoi contesti tradizionali.
Grazie dapprima all’oralità e poi alla scrittura i testi sacri sono giunti fino ai giorni nostri, dando origine alla
comunicazione religiosa. Poi con i secoli, e con le invenzioni che hanno caratterizzato il sistema dei mezzi di
comunicazione, anche la Chiesa cattolica ne ha ovviamente fatto uso: l’editoria (non a caso la Bibbia fu il primo libro stampato da Gutenberg), quotidiani e periodici
la radio, il cinema, la televisione, internet.
La comunicazione religiosa
“
T
rieste. Corso di comunicazione.
Ha preso avvio presso il Centro Culturale
Veritas di Trieste il corso di Comunicazione e
informazione: nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa, a cura di Eugenio Ambrosi,
docente al Corso di laurea di comunicazione
dell’Università di Trieste. Il corso è rivolto a
quanti, a vario titolo impegnati nel mondo religioso, ecclesiale ed associativo, sono coinvolti in attività di comunicazione e informazione. I direttori delle principali testate saranno
presenti e come loro hanno dato disponibilità
a confrontarsi con i partecipanti i responsabili
dei principali uffici stampa attivi a Trieste.”
Dal sito www.gesuiti.it, ottobre 2010
Potenza della rete: un piccolo corso di comunicazione organizzato presso il Centro culturale
Veritas di Trieste è diventato una notizia che nella sua dimensione locale ha assunto un carattere
globale, leggibile dall’altra parte del mondo, in
Nuova Zelanda da qualsiasi conoscitore della nostra lingua. Senza dimenticare che con la funzioNuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
Presso il Centro Veritas di Trieste nell’a.a. 2010/11 si è tenuto il corso sperimentale “Comunicazione e informazione: nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa” di
cui le note che seguono sono traccia libera ma puntuale.
Parole chiave
informazione religiosa;
comunicazione religiosa; chiesa italiana;
Diocesi di Trieste; Centro Veritas.
ne-traduttore chiunque potrebbe avvicinarsi al
contenuto della notizia, per quanto maccheronico (ovvero: pidgin English) possa essere il risultato.
Ma procediamo con ordine.
Con la trasformazione dei mass media, l’avvento di internet e dei social network è cambiata
anche la comunicazione religiosa: è diventata in
qualche modo più banale. Gli elementi costanti
del modo di pensare un fatto religioso sui giornali e televisioni sono la sua spettacolarità o
grandiosità; la sua capacità di stupire, di divertire, di sbalordire; i contrasti: quelli veri o presunti, che si crede di percepire specialmente in
quel mondo, sempre un po’ “misterioso” agli occhi degli osservatori esterni, che è la Chiesa, soprattutto nel suo vertice: papa, curia, cardinali.1
Il meccanismo d’interesse non cambia anche se
tutti questi elementi vengono presentati uniti o
separati. I mass media non sono particolarmente
interessati ai temi religiosi. Quando i mass media si trovano a parlare delle religioni nuove o
poco conosciute come Scientology, i Testimoni
1 I. Siggillino, I media e l’ Islam, Bologna, 2001, p. 17.
144
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
di Geova e delle fedi o pseudo-religioni di origini orientali, essi hanno un atteggiamento di curiosità, vogliono esaltare le cose bizarre e tutto
ciò abbelliscono con una quantità di scetticismo.
Con l’eccezione di pochi casi, come per esempio
il buddhismo, verso i quali i mass media nutrono delle simpatie perchè ritengono questa fede
estremamente tollerante e aperta. Al contrario,
l’Islam viene legato quasi sempre ai pregiudizi e
viene visto come una religione non pacifica.
Con gli anni e l’influenza delle nuove ICT la
comunicazione ha cambiato volto: in quest’epoca della globalizzazione siamo tutti fruitori ed
operatori di comunicazioni sociali. Pensiamo
ad internet, alla televisione, alla telefonia, ma
non solo: pensiamo a come il microfono sull'altare ha spostato l'attenzione dal contesto liturgico in cui parlava il sacerdote, lontano dai fedeli, alle sue parole, percepite ora con chiarezza,
abbassando la soglia dell'attenzione visiva e sovraccaricando il canale sensoriale uditivo2.
La comunicazione non è una novità per
l’umanità nè per la Chiesa, che fin dai suoi inizi aveva comunicato il suo messaggio, la Buona novella cioè il Cristo risorto, usando i mezzi
che erano disponibili. La comunicazione è importante per la Chiesa:
- la comunicazione offre alla Chiesa il supporto per la comprensione della cultura contemporanea e della situazione della Chiesa
all’interno di questa cultura. Si può ritenere
che lo sviluppo continuo delle modalità comunicative influisce profondamente sulla trasformazione della cultura stessa;
- tramite la comunicazione si aiuta a diffondere e moltiplicare la diffusione dei messaggi
delle varie religioni;
- la Chiesa, come istituzione, ha una presenza sociale che si manifesta anche attraverso i
media: i rappresentanti della Chiesa, i suoi
messaggi, i credenti sono sempre presenti nei
media, nelle notizie diffuse di cui a volte sono
anche l’oggetto principale;
- i media hanno un ruolo fondamentale nella socializzazione delle nuove generazioni e
sono diventati in qualche maniera dei maestri,
degli educatori perchè divengono un punto di
2 Cfr. A. Spadaro S.I., Liturgia e Tecnologia, La Civiltà
Cattolica, n. 3860/2011, pagg. 107 e segg.
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
issn 2035-584x
riferimento per la presa di coscienza e l’apertura degli adolescenti alla società; anche se a
volte mettono invece in discussione l’autorità
morale dei genitori, dei docenti, dei valori che
questi cercano di trasmettere ai giovani.
Anche la Chiesa cattolica, sin dai suoi primi
passi, ha saputo come divulgare i messaggi e
la Parola, adattandosi di volta in volta ai nuovi
linguaggi ed ai nuovi mezzi di comunicazione.
L’idea del Corso è nata nell’ambito del Corso
di comunicazione pubblica al Master di analisi
e gestione della comunicazione dell’Università di Trieste, ha preso corpo nella supervisione ad una Tesi di laurea3 ed ha tratto definitivo
conforto dalle ricorrenti vicissitudini che a livello globale (le radici cristiane dell’Europa, la
pedofilia nella Chiesa, il crocifisso nei luoghi
pubblici) e locale (le polemiche nella Chiesa
triestina e le ricadute negli articoli di cronaca)
hanno evidenziato la delicatezza e la strategicità del rapporto Chiesa – comunicazione.
La comunicazione religiosa
e l’arte sacra
Certo, anche l’arte può venir vista come
strumento di linguaggio. Essa provoca sempre
una qualche sensazione, anche mistica, in colui che ne ammira il prodotto. L’arte è rivelazione dell’uomo all’uomo, nel bene e nel male,
l’artista beneficia di uno spirito profetico, di
uno sguardo penetrante, l’artista vede ciò che
gli altri possono soltanto sentire o intravvedere ma non possono vedere. La creazione compete unicamente a Dio ma si può riconoscere
che l’arte viene da un atto “creativo” dell’uomo,
che lo rende un po’ simile a Dio perchè egli
crea dei mondi nuovi, nei quali la realtà naturale e culturale viene interpretata, trasformata
e trasferita in un significato nuovo4 .
3 cfr. al riguardo Lea Mahronic, La comunicazione della Chiesa cattolica a Trieste, Tesi di laurea, Facoltà di
Scienze della Formazione - Corso di Scienze della
Comunicazione - Laurea Specialistica in Pubblicità e
comunicazione d’ impresa, a.a. 2009/10, alla quale si
rimanda in particolare per l’ampia analisi dell’uso da
parte della Chiesa italiana e triestina degli specifici strumenti e canali di comunicazione.
4 cfr. Via verità e vita. Comunicare la fede, numero 6, novembre-dicembre 2008, Roma, p. 50.
145
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
Religione ed arte procedono sempre di pari
passo, è anche attraverso l’arte che la religione
cerca di trasmettere dei messaggi ai propri fedeli. Gli artisti sono così dei comunicatori della
bellezza e della libertà, l’arte fa incontrare l’uomo
con il suo creatore. L’arte può influire profondamente sulla costruzione o sulla distruzione di
una comunità, consolida la persona singola e realizza una comunione condivisa tra le persone.
Anche di questi linguaggi e strumenti si è parlato al Corso, ma solo introducendoli per sommi
capi, l’artista come comunicatore, perchè quando egli realizza un’opera d’arte chiama in vita la
sua opera e per suo tramite svela anche la propria personalità e la propria crescita spirituale.
L’artista, con il suo lavoro, parla e comunica con
gli altri, le opere d’arte parlano dei propri autori,
introducono alla conoscenza del loro intimo e
profondo e rivelano anche l’originale contributo
che essi offrono alla storia della cultura.
Ma l’arte è anche una espressione di bellezza ed è proprio qui che anche il brutto entra nel campo estetico, così come il male entra
nel campo etico: il male e il brutto sono idee
negative, connotano la privazione del bene e
del bello. L’arte cristiana è un fatto espressivo
di un bello sublime, di un bello che deve misurarsi con il brutto: nell’arte cristiana è più importante la verità che la bellezza.
Bisogna quindi distinguere un’arte cristiana sacra o di culto dall’arte religiosa o di devozione. L’arte cristiana esprime ciò che le sacre
Scritture e i testi liturgici annunciano con parole e lo rende presente per l’azione sacramentale della Chiesa.
L’arte di devozione esprime la fede personale dell’ artista.
L’ arte sacra nasce dalla fede della Chiesa,
espressa e celebrata nell’azione liturgica, e vive
per essa, mentre l’arte religiosa nasce dalla fede
di un singolo credente e ne immortala, in qualche modo, la sua personale testimonianza.
Naturalmente, tutta l’arte sacra è anche religiosa, mentre non vale il contrario.
La comunicazione religiosa e la musica
“Chi canta prega due volte”: affermava così
Sant’Agostino la centralità del canto per il criNuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
issn 2035-584x
stianesimo e quindi della musica in ambito
sacro e in relazione al dialogo tra la persona o
una comunità di persone e Dio. Ed anche Papa
Giovanni Paolo II ammoniva i giovani che cantando facevano opera di apostolato.
Il canto sacro diventa un dialogo con Dio,
una testimonianza di fede cristiana; non a
caso la centralità del canto e della musica impone nella strutturazione fisica delle chiese
uno spazio dedicato alla preghera cantata ed in
musica, dai cori delle chiese romaniche e gotiche alle cantorie barocche per i grandi organi,
nell’architettura di ieri come in quella di oggi.
Non a caso il giovane Davide placava gli
umori di re Saul con la lira ed ancora oggi canto e musica sacra hanno uno spazio di elezione
nel luogo di culto, dove il presentarsi a Dio avviene sempre innalzando “canti di gioia”.
La musica sacra è dunque importante per
la Chiesa cattolica: l’arte musicale serve per
contribuire a creare la giusta, raccolta atmosfera nel rendere onore a Dio in chiesa nel corso
dei riti sacri. Certo, l’artista sente il bisogno di
esprimere liberamente il senso del sacro con la
grammatica stilistica della sua epoca e del luogo
in cui vive, ma i fedeli devono essere in grado
di riconoscere l’autenticità e l’originalità del suo
messaggio, lasciandosi coinvolgere e trasportare dalle bellezze che l’orecchio sa cogliere.
Il Concilio Vaticano II aveva cercato di riformare anche i canti liturgici, cercando di superare la
tradizione tonale grazie alle opportunità offerte
dai nuovi linguaggi, ma non è mai riuscito a completare questo suo intento e i tempi da allora sono
cambiati parecchio. Certo, dopo il Concilio vi era
stata la tentazione di colmare l’assenza di repertorio facendo il verso alla musica leggera del tempo,
la cosiddetta “Messa beat”, che ha comportato un
certo cambiamento ma anche, talora, un certo declino del livello artistico della liturgia, con l’utilizzo di stilemi spesso inadeguati, con l’apertura ad
una “contaminazione” non sempre lineare.
Ed allora che la musica in chiesa venga eseguita nel modo migliore possibile, secondo i
modelli d’interpretazione propri del tempo:
che sia gregoriana, polifonica, espressionistica oppure elettronica non importa, è la qualità
che fa la differenza e non le regole interne al
linguaggio che viene usato.
146
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
Qualità, qualità, qualità, ovunque si trovi: il
resto è silenzio, anche quando sembra musica.5
La comunicazione religiosa
e l’architettura
Né ci si può dimenticare del ruolo dell’architettura come canale di comunicazione della
spiritualità religiosa, anche se spesso si guarda
alla Chiesa ed alle sue strutture come se queste
non avessero a che fare con la vita degli uomini.
Un esempio per tutti, quanto avvenne con
il passaggio dallo stile romanico a quello gotico nell’Ile de France in seguito all’insorgere e
all’affermarsi della cultura teologica scolastica
al tempo delle famose cattedrali.
Il periodo romanico, nel quale vigeva la cultura monastica, rispettava il mistero e univa la
teologia alla vita: le sue chiese, se viste dall’esterno, non fanno capire cosa vi sia dentro, dalle
piccole finestre penetra poca luce, dentro ci si
trova in un ambiente raccolto e poco illuminato. Il periodo gotico, invece, ha ampie finestre e
dall’esterno si può intravvedere la struttura interna della chiesa: è il trionfo della cultura scolastica, che vuole illuminare tutto e catalogare
con precisione ogni cosa, che nelle nervature
dei pilastri che si slanciano verso l’alto fa emergere lo sforzo intellettuale che l’uomo dell’epoca compie per inserire in categorie razionali i
misteri e la teologia cristiana.
Il credente che ancor oggi si affaccia all’interno di un’antica basilica si trova davanti ad
un cammino che dal battistero porta all’abside: il primo simboleggia lo stadio esistenziale di chi si avvicina per la prima volta al cristianesimo, tant’è che chi attendeva di essere
battezzato sostava nell’area accanto alla porta
d’ingresso; il secondo, luogo dov’è posto l’altare e si celebra l’Eucarestia, rappresenta il luogo
della visione, il luogo in cui la luce di Dio giunge agli uomini per illuminarli e non a caso la
maggioranza delle chiese antiche sono rivolte
con l’abside a est, luogo dove sorge il sole.
Lo splendido mosaico, benedetto a Pasqua
2011 nella chiesa di S. Teresa del Bambin Gesù
a Trieste, realizzato dal gesuita p. Marko Rup5 cfr F. Gaffucci, P. Poponessi, Il marketing dei luoghi e delle emozioni, Milano, 2008.
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
issn 2035-584x
nik, autorità mondiale del mosaico religioso,
nel nuovo battistero arricchito da un altrettanto affascinante fonte battesimale, va proprio in questa direzione: il credente ritrova
se stesso davanti a Dio, che si rivela nel suo
cuore e nella sua mente, ed è lì che l’uomo può
imparare a scoprirlo, dove il significato dei
simboli facilita la comunicazione tra l’uomo e
Dio, la partecipazione dell’uomo alla comunità ecclesiale, da dove la comunicazione della
Parola esce all’esterno della comunità ecclesiale di riferimento.
In questo contesto anche la struttura della
chiesa ha un valore sacro, perché racchiude in
sé un universo simbolico che intende, tra l’altro, comunicare.
Certo, oggi la situazione è diversa, la cultura moderna ha in buona misura perso di vista
il concetto di sacro, ha perso spesso di vista la
realtà di Dio ed interpreta con nuove chiavi di
lettura il mistero ed il senso della vita umana:
ma il sacro per se stesso, staccato da qualsiasi
relazione con i credenti, non ha senso. Il sacro
ha il suo senso quando è posto in relazione con
la persona, quando interagisce con il credente:
quando comunica ed è comunicato.
La comunicazione religiosa
e il media system
Durante il XIX e il XX secolo il contesto sociale e culturale nel quale operano e realizzano le varie Chiese è profondamente mutato
ed è indubbio che a loro volta le Chiese sono
state influenzate profondamente dallo sviluppo straordinario dei mass media. Col tempo, l’attenzione della Chiesa verso i media si
è fatta sempre più intensa, quasi un’idea fissa. Il mondo giovanile è sempre più attratto e
sempre più a suo agio con i nuovi media, recentissime indagini fanno emergere che il 76
% dei giovani dialogano all’interno di un social network, Facebook in primis. I valori che
attraversano il mondo giovanile, a cominciare dall’amicizia e da una nuova rete di relazioni, sono imbevuti e resi possibili dalle nuove
tecnologie. Oggi i media sono diventati uno
degli elementi principali che formano la cultura e temporaneamente diffondono atteg147
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
giamenti e modelli relativistici e chiusi alla
trascendenza. Le varie Chiese hanno comunicato nel tempo i propri messaggi usando i
mezzi che a quel tempo erano a loro disposizione. La grandezza della chiesa è sempre stata quella di saper leggere “i segni dei tempi”…
e il nostro tempo è certamente quello della
comunicazione. 6 Nell’ultimo secolo, infatti,
sono cambiati molto i mezzi di comunicazione ed è aumentata la consapevolezza dell’importanza della comunicazione e del ruolo che
ha nei cambiamenti ai quali si sta assistendo.
Le riflessioni per l’approfondimento dei
temi come quelle per la preghiera possono
venire proposte sia a viva voce che per mezzo
del libro stampato oppure quello elettronico,
tramite le riviste digitali, CD o DVD, Facebook, blog oppure siti web. I new media hanno
instaurato un nuovo modo di pensare, di relazionarsi, di operare e di leggere la realtà. Le religioni comunicano con un intreccio articolato
composto sia dalle nuove che vecchie tecnologie o meglio dire tecnologie tradizionali come
le lettere e nuove come il telefono cellulare.
Questo insieme di comunicazioni tradizionali
e non costituisce i presupposti per un vero e
proprio mondo comunicativo.
Una lettura tecnologica della comunicazione ed una sua rivisitazione al servizio della “fisicità” della comunicazione religiosa potrebbe
restituire ai media d’area una nuova centralità,
che fornirebbe loro una funzione “tipo cassetta
degli attrezzi” che potrebbero venire usati consapevolmente, mescolati a seconda dei bisogni
e in grado di essere utilizzati per la diffusione
dei contenuti informativi anche presso quelle
fasce della popolazione del Terzo Mondo di fatto escluse. Con questo tipo di strutturazione
dei media si potrebbe consentire un “ritorno a
Babele”, un luogo mitico dell’originaria armonia tra la tecnologia e le varie comunità.
La Chiesa ritiene necessario leggere e comunicare la parola di Dio, mossa dalle domande dei credenti di oggi, ritiene necessario
parlare la loro lingua, entrare e confrontarsi
per quanto necessario con la nuova cultura
che determina così pesantemente lo sviluppo
6 G. Mazza, G. Perego, Paolo una strategia di annuncio,
Milano, 2009, p.148.
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
issn 2035-584x
degli atteggiamenti sociali e culturali del nostro tempo. Anche comunicando la parola di
Dio la Chiesa intende aiutare ad interpretare
il cambiamento che sta avvenendo e ad accogliere i messaggi che possono perfino determinare pesanti cambiamenti soggettivi nella
vita dei singoli.
La parola di Dio non è un tema facile da affrontare, perchè si rischia di cadere nella retorica. La tecnologia può contribuire a creare la
miscela giusta per far sì che il messaggio della
Chiesa possa oggi raggiungere i credenti residenti in tutte le parti del mondo. Un giusto utilizzo delle nuove tecnologie potrebbe formare
idee e società migliori di quelle che attualmente dominano il nostro mondo.
In tutto il mondo i media si fanno vieppiù
pervasivi, entrano in tutti i settori e in tutti
i paesi, superando lingue, culture e religioni
diverse, a una velocità largamente superiore
a quella necessaria per produrne dei fruitori
consapevoli7.
Internet è oggi lo strumento più capillare
per raggiungere il maggior numero di persone nel villaggio globale mondiale, togliendo
senso alle preeesistenti divisioni nazionali.
Quando si naviga in Internet ci si può facilmente imbattere in milioni di “voci” legate
alla religione e al sacro. I temi religiosi conquistano ampio spazio nel Web anche attraverso
reti tematiche che esprimono interazioni bidirezionali o multidirezionali. In entrambi i casi
la Rete svolge il proprio compito, cioè connette
e permette gli scambi reciproci tra le persone
in maniera interattiva con un coinvolgimento costante. In questo caso la comunicazione
può essere di due tipi: sincrona e asincrona.
La comunicazione è sincrona quando avviene
simultaneamente, ad esempio per l’insegnamento/catechesi a distanza, per incontri di
gruppo o per momenti di preghiera tra persone dislocate in diverse parti del pianta e che
magari professano fedi differenti. 8 Al contrario, la comunicazione è asincrona quando avviene in momenti diversi, cioè tramite la posta
7 I. Siggillino, I media e l’ Islam, Bologna, 2001, p. 74.
8 Per un’interessante sintesi sulle modalità di navigazione in internet dei pellegrini cfr. A. Silvestri, La luce e
la rete, Comunicare la fede nel Web, Torino, 2010, p. 20-21.
148
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
elettronica, le mailing list, i newsgroup e i forum.
Quasi tutte le chiese, le pseudo-religioni, i
gruppi o i singoli credenti e i movimenti religiosi hanno i propri siti o almeno una piccola e
semplice presenza. L’uso di Internet per scopi
religiosi è ogni giorno in continua crescita, soprattutto tra i giovani.
Vi sono religioni sorte grazie al web, le
online-religion, che vi offrono opportunità di
partecipazione, formano gruppi di preghiera e
gruppi di discussione su temi religiosi.
Nel Web la gente può soddisfare la propria ricerca, trovare risposte alle domande,
il senso per il proprio vivere, degli ideali da
perseguire. Internet consente la diffusione di
qualunque idea o credo praticamente a costo
zero, perchè non ha limiti come nemmeno –
salvo il caso cinese- censure ideologiche, ma
esso è anche il luogo dove domina il soggettivismo e dove si può anche criticare o sostenere qualsiasi discorso religioso, senza l’obbligo
apparente di validare il proprio pensiero con
delle motivazioni fondate.
Nel 2008 è stato scoperto dall’universo religioso anche il fenomeno Facebook: le varie
religioni ne hanno subito approffitato per
comunicare con i propri fedeli, al punto che
anche il Vaticano, dopo YouTube e Facebook,
ha aperto un suo canale anche su Twitter, il secondo social network in ordine di importanza,
almeno in Italia, dopo Facebook. Ci sono canali
in più lingue: l’italiano, l’inglese, lo spagnolo, il
francese e il portoghese. Questi canali vengono usati dalla Radio Vaticana e da altri media
cattolici per la diffusione ufficiale di notizie
della Santa Sede anche sul web 2.0, attraverso i
famosi “tweets”, cioè i messaggi di 140 caratteri, che però possono contenere link ad altri siti
ufficiali del Vaticano.
La Chiesa vuole essere presente ovunque e
dappertutto usando sempre di più anche i social network disponibili. Nel 2009 è stato dato
vita ad un nuovo proggetto: “Pope2You”, un
portale disponibile in cinque lingue per mettere in comunicazione il Papa con tutti i giovani
del mondo. Attraverso questo portale si può anche accedere a Facebook ed inviare delle cartoline virtuali contenenti le parole del Papa, i suoi
messaggi augurali e anche gli altri contenuti.
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
issn 2035-584x
Il Web ha abituato i giovani ad una comunicazione interattiva, proprio per questo restare fuori dalla rete significherebbe rompere
i ponti con le nuove generazioni; proprio per
questo alcuni insegnanti hanno persino aperto un loro blog educativo, dedicato agli alunni,
per fare informazione, e poi ci sono degli altri
ancora che animano i social network con una
presenza costante e affidabile. Anche gli insegnanti di religione hanno un loro piccolo social
network dove possono scambiarsi i materiali,
le idee e i suggerimenti. È questo un modo per
potersi ritrovare alla fine della giornata e poter
condividere le gioie e i problemi, con le persone che vivono la stessa esperienza tutti i giorni
e con le quali possono capirsi nel profondo.
Un’imporante distinzione si deve fare anche tra la multimedialità e la crossmedialità.
La multimedialità prevede l’accostamento di
contenuti mediali a posteriori e ciò può avvenire quando, ad esempio, un giornalista scrive
un articolo per la carta stampata e poi un altro
giornalista vi aggiunge la foto oppure il filmato per la versione internet. La crossmedialità
è una versione 2.0 della multimedialità: un
soggetto è in grado di pensare e realizzare dei
prodotti che sono adeguati a più media o a più
canali comunicativi.
L’uso del podcast (Personal Option Digital
Casting) nell’era crossmediale è senz’altro
una forma di comunicazione diretta, orizzontale e veloce. Il podcast, formato da brevi
trasmissioni audio di commento o lettura di
brani, costituisce uno degli esempi più evidenti di quello che è stato chiamato in linguaggio 2.0 User Generated Content (contenuti generati dagli utenti). Il podcast ha avuto
i suoi inizi con i primi iPod, perchè esso ha
fornito la possibilità di portare sempre con
sè le trasmissioni o i file audio, da ascoltare in
macchina, in autobus, in treno. Uno dei primi podcast del mondo cattolico è stato quello
antelitteram del Card. Arinze, che già nel 2007
aveva realizzato il suo blog con la possibilità
di ascoltare e scaricare le omelie che aveva tenuto la domenica. Negli ultimi anni i podcast
cattolici sono cresciuti di numero e di qualità,
tanto che oggi sul più popolare programma di
iscrizione ai podcast, iTunes, si trovano quelli
149
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
di sacerdoti, di movimenti giovanili, persino
la Radio Vaticana ha il suo podcast. Nell’ultimo tempo il podcast è diventato uno strumento e un linguaggio familiare a livello di parrocchie, movimenti e associazioni ma anche
tra i singoli credenti che vogliono far sentire
la propria voce. I ragazzi e i gruppi giovanili
possono essere gli autori di podcast, leggendo
e raccontando le loro esperienze formative, il
loro punto di vista su quello che avviene nel
mondo. Proprio per la sua economicità, non
costa nulla, e per la sua praticità, è facile da
usare, il podcast può essere usato in parrocchia o in diocesi al posto o a integrazione della
classica radio. Il podcast permette di mettere
online le notizie di eventi sia parrocchiali che
diocesani, può sostituire, almeno per quanto
riguarda l’utenza giovanile, il vecchio giornalino/depliant di carta che veniva distribuito
in chiesa la domenica mattina.
I giovani possono portarsi nel loro lettore Mp3 le omelie del Vescovo come le letture
della settimana: così accade ad esempio sul
podcast del sito della Diocesi di Milano come
anche su quello delle Edizioni Paoline. Come
strumento prevalentemente audio, viene usato per creare audiolibri letti dagli stessi ragazzi, per creare radio-giornali di classe e come
un ottimo strumento per cimentarsi con le
lingue. Il podcast è uno strumento semplice ed
affidabile e per questo motivo avvicina l’insegnante agli alunni e gli alunni tra di loro. Per
poter realizzare un podcast ci deve essere un
vero lavoro d’equipe: ci deve essere qualcuno
che si occuperà di preparare i dialoghi, qualcuno che poi li leggerà ed infine qualcuno
che lo inserisca online. Così facendo i ragazzi
entrano nel processo di apprendimento guidati dal loro insegnante. Esso costituisce una
nuova forma di comunicazione, che trova nei
giovani dei possibili autori e anche fruitori. La
Chiesa e la Scuola stanno andando volentieri
incontro a questi nuovi linguaggi e modalità
di trasmissione dei dati.
Oggi acquisire la mentalità di rete diventa
una sfida del futuro, una grande scommessa,
un’esercitazione di una efficente ed efficace
comunità religiosa, reale sulla terra e virtuale online.
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
issn 2035-584x
Informazione e comunicazione religiosa
Cristo e la buona novella, gli evangelisti, San
Paolo, sant’Agostino: sin dai primordi, la Chiesa
cattolica si è trovata impegnata in un’opera di
evangelizzazione, catechesi e formazione che
negli strumenti della comunicazione ha trovato un sostegno prezioso per diffondere i propri
valori e principi, promuovere il dialogo ecumenico e interreligioso, edificare una società rispettosa della dignità della persona umana.
Nel Corso del Veritas ci si è piuttosto orientati ad interagire con la cronaca più che a confrontarsi con la storia, facendo emergere subito da
un rapido esame della cronaca il perché dell’importanza della comunicazione per la Chiesa del
Terzo Millennio: perché è diventata un supporto insostituibile per la comprensione della cultura contemporanea, un aiuto indispensabile
nella missione di evangelizzazione propria della Chiesa, la cui presenza sociale si manifesta
alla comunità sempre più attraverso i media.
Studiare la comunicazione nei suoi meccanismi verso l’interno e l’esterno è oggi
una sfida reale per la Chiesa, a livello globale
come locale, la cui opera di educazione delle
nuove generazioni si deve necessariamente confrontare con la nuova cultura generata proprio dai media. Per fare ciò chi lavora
per la Chiesa nei media deve approfondire il
legame tra fede e professione e riscoprire la
responsabilità del cristiano come parte della
società globalizzata.
Deve anche confrontarsi con i luoghi comuni che caratterizzano questo rapporto:
- quelli relativi al porsi dei media nei confronti della Chiesa, che per molti pecca di riservatezza, manca di esperienza e di conoscenza delle regole professionali del media system,
ed è fonte, insieme alla sua religione, di dissidi
e polemiche che dividono l’opinione pubblica;
- quelli relativi all’atteggiamento dei media
nei confronti della Chiesa, tipo la considerazione che la stampa ha difficoltà a cogliere
la dimensione spirituale del fatto religioso,
è ostile alla religione, la sua indipendenza è
solo apparente.
Attraversata da queste contraddizioni, la
comunicazione religiosa ha diversi scopi: co150
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
municare il Vangelo, informare i fedeli, rafforzare l’identità e l’appartenenza religiosa,
avvicinarsi alle nuove generazioni, aprire il
dialogo tra le persone.
Per fare tutto ciò, per dare vita ad un’informazione religiosa che documenta le attività
delle diverse comunità di fede presenti in Italia, ci vogliono professionalità attente e preparate, conoscitrici della realtà ecclesiale: la
tipica figura italiana del settore è il vaticanista, qualificato professionista il cui settore di
competenza si esaurisce nell’ambito dell’attenzione al mondo cattolico sotto la particolare luce dell’ufficialità della Curia romana o
della Chiesa cattolica italiana, figura che ha
cominciato ad affermarsi ai tempi del Concilio e della “invenzione” della Sala stampa vaticana da parte di Paolo VI.
È indubbio che la Chiesa cattolica nel nostro
paese fa notizia, il più delle volte snaturandosi,
parlando di politica, economia, morale per interessare i media; anche se la sua missione è di
parlare di Dio, di comunicare per evangelizzare spesso lo fa anche per ottenere ascolto nella
società e nei media, magari per sostenere un
disegno di legge in discussione al Parlamento
o per promuovere la raccolta di sottoscrizioni
per l’8 per mille fiscale.
Nello sviluppo delle undici lezioni del Corso, partendo dalla credibilità come relazione
sociale, come risorsa, mezzo per ottenere risultati; come perseguimento degli scopi, mezzo per ottenere scopi ma anche scopo essa stessa; come integrazione, fattore di integrazione/
divisione sociale; come latenza, condizione latente ed intrinseca di ogni relazione, si è giunti a parlare della dimensione etica della comunicazione e del suo valore tanto in politica che
in ambito economico-finanziario che in quello
culturale-educativo, sia che si operi per la promozione umana che per la realizzazione della
giustizia che per la ricerca della verità.
Si sono tratteggiate così le linee guida per
l’intervento comunicativo a livello locale, diocesano come parrocchiale: e quindi si è ripercorso il processo fondativo della comunicazione: si è partiti dall’analisi dello status quo per
focalizzare i destinatari dell’intervento, per individuare gli obiettivi, i possibili contenuti e
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
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le modalità di comunicazione e gli strumenti;
si è quindi definito il disegno organizzativo, le
modalità di pubblicità e formazione chiudendo il cerchio con le necessarie attività di monitoraggio, verifica e valutazione.
Entrando anche nel dettaglio dei singoli argomenti: ad esempio, a chi pensiamo quando
parliamo di destinatari per la comunicazione
interna alla Chiesa? A che serve? Di chi si deve
tener conto? Quali strumenti sono disponibili? Quali le metodologie? E vi è un disegno organizzativo e strategico complessivo?
Tra le tante annotazioni emerse, fondamentale quella relativa alla condivisione dell’importanza della funzione dell’ascolto, momento
qualificante quand’anche spesso trascurato di
qualsiasi processo comunicativo.
Ascoltare significa attivare processi che consentano di comprendere i bisogni, i problemi
e più in generale le varie esigenze di comunicazione della comunità di riferimento. Vi è
l’ascolto di uno e quello di tanti, le modalità di
realizzazione sono quindi diverse e numerose,
l’ascolto permette di “indagare”:
- la qualità della circolazione delle informazioni
- le tipologie di contenuti, la loro ideale circolazione/fruizione
- le modalità e gli strumenti di comunicazione da formalizzare
- gli spazi e le modalità di comunicazione
informale
- la struttura organizzativa a supporto della
circolazione informativa
- le competenze del personale coinvolto
(competenze specifiche e competenze diffuse).
Si sono passati in rassegna strumenti e
modalità comunicative avvalendosi anche del
contributo dei principali operatori del settore:
i direttori del quotidiano locale, della principale tv privata, della sede RAI FVG; i responsabili
degli uffici stampa del Comune di Trieste, della
Regione e della diocesi triestina; i direttore del
settimanale diocesano, di Radio Nuova Trieste
e della newsletter della Caritas; il presidente
del CORECOM FVG; il responsabile diocesano
per le comunicazioni sociali e la vicepresidente dell’Ordine regionale dei giornalisti: ne è
emerso un quadro con luci ed ombre, proietta151
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
to con la testa verso il futuro tecnologico della
comunicazione ma con i piedi spesso impantanati nell’argilla di un presente complesso,
difficile, di modesto profilo.
Quali che siano gli strumenti utilizzati: di
trasmissione (info unidirezionali, stampa, radio, cinema, tv), di elaborazione (per la gestione di dati informativi), di memorizzazione
(banche dati, cataloghi, guide), di generazione
(facilitano processi comunicativi, telefono,
teleconferenza, reti telematiche), emerge la
necessità di una strategia, la definizione di un
adeguato supporto organizzativo agli obiettivi
di comunicazione interna ed esterna definiti.
In particolare per guidare l’istituzione e farla funzionare bene; per farne conoscere l’identità, i valori, gli obiettivi, i servizi, l’organizzazione, le procedure; per cambiarne il modo di
essere, l’organizzazione; intervenendo nell’insieme delle occasioni in cui i membri hanno la
possibilità di esprimere il proprio parere.
Si è giunti così a prendere coscienza della
nuova sfida che pone la comunicazione organizzativa, quell’insieme dei processi strategici
ed operativi, di creazione, di scambio e condivisione di messaggi informativi e valoriali
all’interno delle reti di relazione che costituiscono l’essenza dell’organizzazione, coinvolgendo i membri interni della comunità, i
collaboratori interno-esterni ed i potenziali
soggetti esterni coinvolti/interessati.
In questo senso la comunicazione organizzativa rappresenta la comunicazione interna
concepita in modo integrato con quella esterna, rispetto agli ambiti ed agli strumenti di comunicazione istituzionale tout court.
La comunicazione diventa quindi una leva
essenziale per lo sviluppo ed il funzionamento dell’organizzazione, persegue la trasparenza per fare conoscere ciò che realmente
la comunità ecclesiale è (l’identità, non l’immagine) ed offre l’opportunità di progettare
non riferendosi ai pubblici target ma ai propri
obiettivi comunitari.
La comunicazione organizzativa comprende così:
- le iniziative di comunicazione attivate
nelle diverse linee e funzioni della comunità,
gestite da soggetti competenti e rivolte verso
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
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l’interno e l’esterno
- le iniziative di comunicazione in senso
stretto realizzate per gestire e diffondere le attività e gli strumenti di comunicazione
- le iniziative insite nell’attività gestionale
e nelle iniziative manageriali della organizzazione della comunità.
È in questo contesto che si è andato a ragionare sul bollettino parrocchiale, visto come
stimolo, in quanto ogni notizia non deve essere letta in maniera passiva ma anche come
arricchimento, in quanto ciò che si scrive deve
farci riflettere; condivisione, nella comunità e
nella famiglia, per comunicare con le famiglie
e per formare, creare spazi di riflessione, porre
e porsi degli interrogativi.
Così come si è ragionato sul settimanale
diocesano, che dovrebbe essere voce del popolo, fonte di spunti e stimoli per il dialogo, promotore di una rete di relazioni e strumento di
informazione e di formazione, sfruttando al
meglio la dimensione settimanale della riflessione e quella dell’apprendimento.
Web e newsletter e social forum sono stati altri momenti di forte interesse ed interazione,
le nuove tecnologie a livello diocesano permettono anche l’allargamento del livello del
confronto su quel piano “glocale” che contraddistingue la comunicazione del nostro tempo.
Ragionando sull’insieme di prodotti editoriali locali e nazionali, tradizionali e tecnologici, sono emersi alcuni auspici sul ruolo dei
media cattolici, che non dovrebbero appiattirsi
sull’agenda laica della società, non dovrebbero
essere autolesionisti e non dovrebbero mancare di dare una risposta alle difficoltà che sono
sotto gli occhi di tutti.
I media cattolici dovrebbero quindi essere
attenti alle novità ed alla formazione continua,
dovrebbero riuscire a fare conoscere l’identità
dell’istituzione Chiesa trasmettendo punti
di vista istituzionali; a fornire dati e contesto
su questioni di rilevanza pubblica, offrendo
elementi per la comprensione, discussione, il
dialogo sociale.
Insomma, operare per dare senso alla presenza della Chiesa, facendo emergere che
la Chiesa come organizzazione fa del bene
all’umanità e come realtà spirituale e umana
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
agisce onestamente e si sforza di mantenere la
continuità con la dottrina di Cristo.
E facendo superare quella visione distorta per
cui la Chiesa come istituzione non è o non è stata ciò che dice di essere; come struttura evidenzia aspetti incompatibili con la società moderna
e democratica, con il progresso e la tolleranza;
come istituzione religiosa accoglie membri che
hanno comportamenti poco evangelici.
I media cattolici dovrebbero essere anche
attenti al linguaggio che adoperano: non sempre si può ricorrere all’escamotage ideato dai
responsabili del sito dei Gesuiti italiani, che vi
hanno inserito un vero e proprio “glossario”
dei termini nei quali il navigatore potrebbe
imbattersi: da “Ad maiorem Dei gloriam” letteralmente «Alla maggior gloria di Dio», motto
della Compagnia di Gesù, a “Compagnia militante”, i gesuiti viventi, e “Compagnia trionfante”, i gesuiti defunti; da “Mese ignaziano”,
periodo di quattro settimane in cui si fanno gli
Esercizi Spirituali di S. Ignazio ad “Operarius”,
il gesuita professo disposto a qualsiasi attività
apostolica; da “Spesiere”, il novizio incaricato
di uscire per le compere a “Voti solenni”, i voti
emessi alla fine della formazione.
Gesù, la parola, in principio era il Lógos e
all’inizio c’è la dimensione orale, perché Cristo parlava e solo qualche decennio più tardi la
buona novella venne fissata in scrittura.
Oggi, però, proprio Benedetto XVI ha ritenuto necessario, nell’autunno 2008, convocare un Sinodo dei vescovi dedicata alla “Parola
di Dio”, dal quale è nato un “direttorio sull’
omelia”, affinchè i predicatori possano trovarvi un aiuto utile, elencando alcune indicazioni pratiche: individuazione di un tema
principale, raccomandazione di non superare
gli otto minuti, tempo medio di concentrazione degli uditori, evitando così la fuga, sintesi
e semplicità. Come nel Vangelo di Luca, ove
troviamo l’ omelia probabilmente più breve
della storia: nella sinagoga di Nazaret, dopo
che ebbe letto un brano di Isaia («Lo Spirito
del Signore è sopra di me...») e chiuso il rotolo, disse: “Oggi si è compiuta questa Scrittura
che voi avete ascoltato”. Punto9.
9 cfr. G.G.Vecchi, Predicatori Non più di 8 minuti per raccontare la fede, in “Corriere della Serra”, 5 dicembre 2010.
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
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Lo scorso autunno una stagiaire della Facoltà
di Scienze della Formazione ha sviluppato presso
il CORECOM FVG un’analisi della leggibilità del
testo, applicandola ad alcuni numeri di luglio del
settimanale diocesano di Trieste “Vita Nuova”10.
Per leggibilità si intende ovviamente la condizione per cui un testo è comprensibile e facile da leggere e si calcola tramite delle formule
che, fondandosi su determinati criteri, forniscono risultati rapportabili ad una scala di valori di riferimento.
Nell’occasione è stato utilizzato l’Indice
Gulpease, una delle cinque formule realizzate
nel 1988 nell’ambito delle ricerche del Gruppo
Universitario Linguistico Pedagogico (GULP),
presso il Seminario di Scienze dell’Educazione
dell’Università di Roma.
Ne è emerso che il 71% degli articoli presi
in considerazione sono risultati “quasi incomprensibili” per persone in possesso della sola
licenza elementare, mentre per chi ha la licenza media e il diploma superiore nessun articolo è risultato “quasi incomprensibile”, anche se
per chi possedeva la licenza media nessun articolo è risultato “molto facile” mentre per chi
aveva il diploma superiore solo un articolo sui
64 analizzati è risultato “molto facile”.
Una breve verifica effettuata a settembre su
ulteriori 33 articoli ha portato sostanzialmente alla conferma del trend, dati rispetto ai quali
la direzione di testata si è poi dichiarata interessata ad un intervento redazionale in grado
di facilitarne la lettura.
In particolare, l’87% degli articoli presi in
considerazione sono risultati “quasi incomprensibili” per persone in possesso della sola licenza elementare, mentre per coloro che hanno
acquisito la licenza media e il diploma superiore nessun articolo è risultato “quasi incomprensibile”, anche se per chi possedeva la licenza
media nessun articolo è risultato “molto facile”
mentre per chi aveva il diploma superiore tutti
gli articoli sono risultati di lettura “facile”.
In pratica, pur tenendo conto della limitata durata temporale della ricerca e quindi del
10 per verificare il contesto in cui il lavoro della dott.ssa
Giulia Agnola, che si ringrazia, è stato effettuato, cfr. la
Relazione 2010 sull’attività svolta dal CORECOM FVG
sul sito www.corecomfvg.it
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
campione analizzato, per capire interamente i
contenuti del settimanale non parrebbe sufficiente l’aver frequentato la scuola dell’obbligo,
ci vorrebbero le superiori.
Peraltro, la ricerca di un linguaggio adeguato non è cosa d’oggi: La Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti italiani che si vanta di essere
la più antica rivista italiana, già in un numero
del 1855 scriveva: ”A gente di piccola levatura
un trattato conciso, serrato, stringente genera
noia, e non lascia traccia di sé pel suo corere
inosservato o non inteso. Per questa generazione di persone, che con una sola voce diciamo volgo, richiedesi qualche cosa di sensibile,
di dilettoso, di commovente che entri pei sensi
e per la fantasia e così giunga all’intelletto siccome meglio è possibile”11.
Di tutti questi aspetti vi è ampia traccia nei
documenti della Chiesa cattolica sulle comunicazioni sociali.
I documenti della Chiesa cattolica
sulle comunicazioni sociali
I principi costitutivi del Magistero della
Chiesa relativi al mondo delle comunicazioni,
sono stati riassunti in cinque punti12 :
- il progresso nelle comunicazioni è una
manifestazione della partecipazione degli uomini al potere creativo di Dio e rende più facili
la comunione tra le persone
- il mondo delle comunicazioni ha leggi e
metodi propri ed autonomi
- la comunicazione intra-trinitaria è la sorgente e il modello per la comunicazione umana, che è rivolta alla comunione
- la Chiesa ha il diritto di possedere mass
media, necessari per l’evangelizzazione contemporanea che, proprio attraverso i media
richiede fedeltà al Vangelo e formazione professionale nelle tecniche e nel linguaggio delle
comunicazioni moderne
11 cfr G. Costa, Editoria, media e religione, Città del
Vaticano, 2009, pag. 83-84.
12 l’autore riprende questa sintesi al termine di un’ampia
disamina dei principali documenti contemporanei della
Chiesa sulle comunicazioni sociali, cfr. M. Fazio, Inter
mirifica, in J.M. La Porte, Introduzione alla Comunicazione
Istituzionale della Chiesa, Roma, 2009, pag. 35.
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
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- la Chiesa esprime il suo rammarico per la
degenerazione nell’uso dei mass media, che ha
dato luogo a pornografia, edonismo, relativismo, falsità, sensazionalismo.
La comunicazione della Chiesa si è evoluta
insieme alla comprensione del suo rapporto
con i media: se in passato il principale problema erano l’adattamento del contenuto ai principi morali e la concezione dei media come
meri strumenti al servizio del Vangelo, oggi è
prevalsa una visione più profonda della realtà
del media system, che forma la vita delle persone e delle comunità ed utilizza i media come
agenti di e per l’evangelizzazione. Ne consegue che la comunicazione deve essere integrata nelle attività della Chiesa e nei programmi
pastorali; l’approccio pragmatico dei suoi referenti ha portato a reinventare la visione delle
relazioni della Chiesa con i media.
Come ha affermato Giovanni Paolo II, il più
grande interprete di questo rinnovamento pastorale, nella Redemptoris Missio: “Il primo
areopago del tempo moderno è il mondo delle
comunicazioni, che sta unificando l’umanità
rendendola un villaggio globale ... l’impegno
nei mass media non ha solo lo scopo di moltiplicare l’annuncio ... non basta usarli per diffondere il messaggio cristiano ed il magistero
della Chiesa, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa nuova cultura creata dalla
comunicazione moderna”.
Il quadro di riferimento normativo è dunque particolarmente ampio ed articolato.
I documenti ecclesiali sono riconducibili a
quattro gruppi:
- documenti fondamentali sui mezzi di comunicazione, con dichiarazioni di principio
- documenti connessi agli aspetti etici dei
mass media
- il gruppo più numeroso, ovviamente, è
quello dei documenti relativi ad aspetti specifici dei mass media diversi dall’etica
- documenti che si occupano di aspetti vari
della vita ecclesiale e, necessarimente, propongono elementi di comunicazione.
Un aspetto di cui tener conto è la fonte della norma, essendo ovviamente un documento
prodotto direttamente dal Concilio di ben altra caratura rispetto, ad esempio, all’annuale
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
discorso del Pontefice per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, ed è in questa
prospettiva che si ricostruisce e parzialmente
riassume il quadro di riferimento normativo,
peraltro non esaustivo:
Concilio ecumenico vaticano ii
1963, Inter Mirifica (decreto del Concilio Vaticano II sugli strumenti della comunicazione
sociale): è diventato nel tempo il punto di riferimento per i documenti della Chiesa in materia di media e comunicazioni sociali; articolato in due capitoli, uno dedicato all’uso dei
media e l’altro ai media come mezzi di comunicazione sociale al servizio dell’apostolato; il
Decreto ha previsto la costituzione degli Uffici nazionali per la stampa, il cinema, la radio
e la televisione per aiutare i fedeli a formarsi
una retta coscienza sul loro uso;
Documenti della santa sede:
1957, Papa Pio XII, Lettera enciclica Miranda
prorsus (su cinema, radio e televisione): dimostra
il grande interesse di papa Pio Xii per i mass media, che considerava come “doni di Dio”, validi
strumenti “per servire la verità ed il bene”, per la
diffusione del Vangelo ed esempio di partecipazione degli uomini al lavoro creativo di Dio;
1971, Pontificia Commissione per le comunicazioni sociali, Communio et Progressio (Istruzione pastorale sugli strumenti della comunicazione sociale): ha sviluppato il tema delle
principali finalità dei mass media per la Chiesa
ovvero la comunione ed il progresso umano,
evidenziando il carattere educativo dei media,
il loro valore culturale e di svago;
1985, Penitenzieria Apostolica, Indulgenza
plenaria via etere;
1986, Congregazione per l’educazione cattolica, Orientamenti per la formazione dei futuri
sacerdoti circa gli strumenti della comunicazione
sociale: visti i ritardi nello sviluppo di programmi sulle comunciazioni sociali nella formazione dei sacerdoti, il documento individua tre livelli di prepaparazione mediatica: un livello di
base per un corretto uso personale dei media;
un livello pastorale per preparare i sacerdoti a
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
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formare altri all’uso dei media; un livello specialistico per chi avrebbe operato nel settore;
1989, Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, Pornografia e violenza nei mezzi di
comunicazione sociale (Una risposta pastorale):
individua cause ed effetti della diffusione della pornografia e della violenza offrendo anche
possibili soluzioni;
1989, Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, Criteri di collaborazione ecumenica
e interreligiosa nel campo delle comunicazioni sociali: propone linee guida per la collaborazione
interreligiosa;
1992, Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, Aetatis novae (Istruzione pastorale
sulle comunicazioni sociali): il documento affronta il tema delle conseguenze pastorali che
la rivoluzione della comunicazione può determinare, atteso che la rivoluzione mediatica influisce anche sulla percezione che si può avere della Chiesa e può causare modifiche nelle
sue strutture e nel funzionamento di queste.
L’istruzione pastorale ha anche proposto uno
schema di piano pastorale per le comunicazioni sociali, una sorta di piano di comunicazione
ante litteram, con tanto di indicazioni per reperire risorse finanziarie per la pastorale;
1992, Congregazione per la dottrina della
fede, Istruzione circa alcuni aspetti dell’uso degli
strumenti di Comunicazione Sociale nella promozione della dottrina della fede: ripropone in
forma organica la legislazione della Chiesa,
individua le responsabilità pastorali dei vescovi e, in campo editoriale, quelle dei superiori
religiosi, delle organizzazioni cattoliche e dei
singoli fedeli;
1995/6, Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, 100 anni di cinema: si tratta di
uno strumento volto ad incoraggiare i cattolici
a fruire in maniera critica e non essere spetatori passivi dei film;
1997, Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, Etica nella pubblicità: il documento presenta i vantaggi della pubblicità e ne
denuncia i danni causati da questa; propone
strutture e regole per un esercizio responsabile della pubblicità, l’attuazione di codici deontologici volontari, l’intervento dell’autorità per
evitare abusi e risarcire i danni provocati;
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
1999, Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti;
1999, Pontificio consiglio per la cultura, Per
una pastorale della Cultura;
2000, Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, Etica nelle comunicazioni sociali:
i mezzi di comunicazione sociale non fanno
nulla da soli, sono strumenti utilizzati nel
modo in cui le persone decidono di farlo. Non
c’è bisogno di una nuova etica per i diversi
mass media, bisogna invece applicare i “principi stabiliti” anche alle nuove circostanze;
2002, Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, Etica in internet: anche per la
valutazione etica di internet la persona e la
comunità rimangono elementi centrali, sottolinea il documento, che è ben conscio di come
le nuove tecnologie informatiche trasmettano
ed inculchino nuovi valori culturali che possono stritolare le culture tradizionali. Non a caso
ricorda i problemi etici che internet può aprire: riservatezza e sicurezza dei dati, proprietà
intellettuale, pornografia, incitamento all’odio
ed al razzismo, gossip e diffamazione;
2004, Congregazione per i Vescovi, Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi Apostolorum successores;
2005, Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Il
Rapido Sviluppo: è considerata in qualche modo il
documento di sintesi del rapporto del papa con
i media, per il quale “anche il mondo dei media
abbisogna della redenzione di Cristo”. Per il Papa
i media creano nuovi orizzonti culturali e valori
che coinvolgono i giovani e l’intera comunità e
la catechesi non può prescindere dal fatto di rivolgersi a soggetti che risentono dei linguaggi e
della cultura contemporanei; inoltre, l’accesso ai
media da parte della Chiesa dovrebbe essere incoraggiato attraverso una “partecipazione corresponsabile alla loro gestione”;
2009, Istruzione circa alcuni aspetti dell’uso
degli strumenti di comunicazione sociale nella promozione della dottrina della fede.
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fronti dei mass media: 12 messaggi di Paolo
VI, 27 di Giovanni Paolo II e 6 a tutt’oggi di Benedetto XVI.
Se il primo è intervenuto in maniera ricorrente sulla supremazia dell’ordine morale, della responsabilità dei cristiani nel sistema mediatico e del diritto della Chiesa di possedere
propri mass media, il secondo ha insistito molto sugli sviluppi tecnologici delle comunicazioni, parlando già nel 1990 di computer e nel 2001
di internet; il terzo ha proposto le sue riflessioni
sui media come rete che facilita la comunione,
la cooperazione e la ricerca della verità.
Documenti della cei
sulle comunicazioni sociali:
1973, Norme per la trasmissione televisiva della Messa
1982, Le sale cinematografiche parrocchiali
1985, Nota a vent’anni dal Decreto conciliare
“Inter Mirifica”. Il dovere pastorale della Comunicazione Sociale
1999, La sala della comunità: un servizio pastorale e culturale
1999, CELombardia, Una sfida educativa. La
Comunicazione nella prospettiva dell’anno 2000
2001: Orientamenti pastorali Comunicare il
Vangelo in un mondo che cambia
2004, Direttorio sulle comunicazioni sociali
nella missione della Chiesa
Le comunicazioni sociali
in altri documenti:
1975, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi
1981, Esortazione apostolica Familiaris consortio
1990, Lettera enciclica Redemptoris missio
1995, Esortazione apostolica Ecclesia in Africa
2003, Esortazione apostolica Ecclesia in Europa
Messaggi del Papa per la
“Giornata delle comunicazioni sociali”,
dal 1967 ad oggi
L’organizzazione della Chiesa cattolica
italiana nel campo della comunicazione
e dell’informazione
Forniscono, nel tempo, una panoramica
completa dell’approccio che il Papa ha nei con-
Per definizione, la Chiesa è maestra della
comunicazione verbale. Essa conosce la pa-
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
rola come simbolo di Dio (Gv 1,1) ed accetta il
linguaggio come il mezzo con il quale Dio si
rivela (Gv 1,14). Il Grande Giubileo del 2000 è
stato vissuto da molti quasi simultaneamente
grazie al villaggio globale mass-mediatico molto più di quanto non abbia potuto il Concilio
ecumenico Vaticano II.
Come aveva profetizzato Giovanni XXIII, la
Chiesa del post-Concilio non è più un museo
da custodire ma un giardino da coltivare, essa
non può essere raccontata soltanto dentro “le
mura”, oggi esistono anche altri strumenti per
divulgare la parola di Dio.
La situazione era cambiata profondamente con Papa Giovanni XXIII. Egli volle dedicare una delle sue prime udienze ai giornalisti
che il Concilio aveva attirato a Roma, in buona
parte sino ad allora poco attenti alle questioni
religiose. I temi che venivano discussi come
pure la vivacità di alcuni confronti su questioni concrete e pratiche per la vita della Chiesa e
dei credenti avevano suscitato un enorme interesse tra i lettori.
Nel 1966 era stata aperta la Sala stampa vaticana. In essa venivano svolte le conferenze
stampa, offrendo in questo modo le informazioni dirette ai fedeli. La Sala stampa aveva
attirato moltissimi giornalisti da tutte le parti
del mondo. L’informazione vaticana rientrava
nell’ambito del giornalismo d’inchiesta fondato sul confronto, la verifica delle fonti e l’interrogazione esplicita. Proprio in questo modo
era nato il “vaticanismo” come specializzazione professionale e poi affermatasi fino ai nostri giorni.
I cosidetti “vaticanisti” sono giornalisti che
hanno il compito primario di seguire il Papa
nei suoi viaggi, di aggiornare i lettori sugli
equilibri della Curia, di seguire le dinamiche
teologiche e politiche delle Conferenze episcopali, di prevedere la nomina pontificia e
di dare voce alle personalità cattoliche che dimostrano di saper fare un uso intelligente dei
media; un ulteriore compito dei “vaticanisti”
italiani è quello di informare i fedeli sulle attività del presidente della CEI, sugli impegni del
Segretario di Stato vaticano, sui Sinodi e sugli
appuntamenti particolari della Chiesa cattolica quale opinion maker italiano.
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
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Il tentativo postconciliare della Chiesa cattolica è stato quello di entrare in dialogo e confronto con le altre realtà religiose, negli anni
’80 e ’90 Papa Giovanni Paolo II aveva portato
avanti la riflessione sul ruolo e sull’uso conseguente della comunicazione, approfondendo
il rapporto dei media nei confronti di categorie deboli, quali i popoli in guerra, gli anziani,
i bambini, le famiglie.
In Italia l’informazione cattolica è migliorata molto negli ultimi anni, sia in qualità che
in quantità. Naturalmente, a ciò hanno contribuito anche certi fattori, quali ad esempio
il vuoto creato dalla caduta delle ideologie,
il ruolo che la Chiesa esercita sempre di più
nell’ambito civile dopo il crollo della Dc, la vitalità della comunità cristiana, la diffusione
del fenomeno del volontario animato dalla
Chiesa cattolica, l’affacciarsi con maggiore visibilità delle altre religioni, ecc...
Tutto ciò ha contribuito a far crescere l’attenzione dei mass media sulla religione cattolica e sulla presenza cattolica nella nostra
società, giunta probabilmente al culmine
nell’anno giubilare. L’Anno Santo a Roma,
il Giubileo, è stato spettacolarizzato dai vari
mezzi di informazione ed ha costituito l’occasione, per il Papa, di usare i media come nessun altro dei suoi predecessori. Dopo pagine e
pagine, e tante ore dedicate a questo grandissimo evento, stava sopravvenendo una certa
stanchezza da sovraesposizione agli eventi
più affascinanti del Giubileo ed è stata allora
la Giornata Mondiale della Gioventù a creare
l’opportunità di un cambio di marcia, proponendo ai media l’occasione di scoprire una
realtà umana e religiosa concreta, i ragazzi
giunti a Roma ed accolti nella loro moltitudine con grande stupore. Il responsabile principale di questa mediaticità è stato senz’altro il
papa, in tutta la storia dell’umanità mai nessun uomo era stato probabilmente ascoltato e
visto come papa Giovanni Paolo II.
Il sistema dell’informazione è cambiato
perchè il processo riguardante l’informazione
religiosa è andato passo a passo con la trasformazione dei mass media, sempre più pronti a
cogliere lo sviluppo di certi fatti e sempre meno
interessati a cercare le ragioni e i motivi lonta157
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
ni e complessi. Quando un fatto religioso viene
presentato sui giornali oppure alla televisione,
gli elementi che spiccano di più sono la sua
spettacolarità o grandiosità, la capacità di stupire, di sbalordire o di divertire, l’importanza
dei protagonisti: il Papa, la Curia e i cardinali.
Dalla fondazione in poi la Chiesa cattolica
ha comunicato e comunica la verità del Cristo.
Lo fa attraverso la liturgia, la catechesi, la scuola, l’arte, la famiglia e il personale dinamismo e
la testimonianza di ciascun cristiano nella sua
dimensione sociale e lavorativa.
La Chiesa, istituzione inserita nella società,
ha di volta in volta adattata la propria comunicazione all’ambiente in cui vive ed ha dovuto
adattare pure il linguaggio del suo messaggio
alle mentalità e ai mezzi correnti. La Chiesa e
la sua storia sono stati sempre collegati alle
varie fasi dello sviluppo della comunicazione
orale, scritta, stampata, elettronica e digitale.
Essa ha sempre cercato di integrare i mass media nelle sue attività comunicative, sia come
soggetto attivo della comunicazione, ad esempio attraverso la proprietà dei mezzi d’informazione cattolica, sia come oggetto stesso di
comunicazione, pensiamo alla copertura mediatica della Chiesa. Nonostante le difficoltà la
Chiesa ha cercato di comprendere e di guardare nel mondo dei media.
L’interesse e l’attenzione che la Chiesa cattolica ha rivolto alle comunicazioni sono evoluti
negli anni con lo sviluppo dei media e la formazione della cultura mediatica, che ha avuto
i suoi inizi nella prima metà del Novecento.
Il Magistero della Chiesa ha dovuto riflettere
su come rispondere alle nuove sfide poste dal
mondo della comunicazione e dall’importanza
crescente che i mass media avevano acquisito.
Quando il Magistero si è accorto della grande influenza che questi avevano avuto sulla
cultura, esso ha subito spostato l’attenzione
e l’interesse su questo argomento. Non a caso
esistono più documenti sulla comunicazione
verso la fine del Novecento piuttosto che agli
inizi dello stesso secolo: dal Papa Pio XI in poi
tutti i Papi avevano proposto moltissimi messaggi sui mass media, soprattutto papa Giovanni Paolo II. Siccome il messaggio della Chiesa
tratta di tutte le questioni della vita quotidiaNuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
issn 2035-584x
na e dell’intera società, è logico che si trovino
moltissimi riferimenti ai problemi della comunicazione nei documenti relativi ad altri
aspetti della vita ecclesiale quale la liturgia, la
catechesi, l’ecumenismo.
Il Magistero di Giovanni Paolo II aveva dimostrato che i mass media devono essere usati
per l’evangelizzazione del mondo e che devono
essere il primo ambito in cui il Vangelo deve
essere annunciato. Cristianizzare la società
d’oggi significa anche cristianizzare i media,
che sono divenuti un elemento essenziale che
da un lato forma la cultura mentre dall’altro
lato diffonde i modelli e gli atteggiamenti relativistici e chiusi alla trascendenza.
La comunicazione e l’informazione
della Chiesa italiana
La Conferenza Episcopale Italiana - CEI è
l’unione permanente dei Vescovi delle Chiese italiane, è legalmente rappresentata dal
proprio Presidente ed ha la sede a Roma. Per
promuovere la vita della Chiesa, sostenerne la
missione evangelizzatrice e svilupparne il servizio per il bene dell’Italia i vescovi esercitano
congiuntamente funzioni pastorali e, a norma
del diritto, assumono deliberazioni legislative.13 La personalità giuridica della Conferenza
è civilmente riconosciuta in Italia in forza delle vigenti norme concordatarie.
Per quanto riguarda la propria organizzazione nel campo della comunicazione e informazione la Chiesa cattolica italiana si è data
una solida organizzazione: l’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali, alcune case
editrici, l’agenzia di informazione SIR – Servizio Informazione Religiosa, il quotidiano
“Avvenire”, il mensile “Famiglia Cristiana”,
un sito ufficiale ( www.chiesacattolica.it );
si avvale, inoltre, della Radio Vaticana e del
Centro televisivo Vaticano (CTV), organizza
periodicamente convegni nazionali ed ogni
anno celebra la festa del patrono dei giornalisti San Francesco da Sales (23 gennaio) e
partecipa alla giornata mondiale delle comu13 cfr. http://www.chiesacattolica.it/cci_new_v3/allegati/8163/statuto_CEI.pdf. Al riguardo, cfr anche la
disamina sviluppata da A. Spadaro S.I., op.cit., pp.112-116.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
nicazioni sociali (16 maggio, giunta alla 45.a
edizione nel 2011).
L’Ufficio Nazionale
per le comunicazioni sociali
L’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali (UCS) della CEI è costituito presso la Segreteria della Conferenza e si occupa
dell’espressione dell’azione pastorale della
Chiesa italiana in questo settore attraverso gli
strumenti a disposizione: la stampa, il cinema,
la radio, la tv, internet. L’Ufficio coordina e collega tutti gli organismi e servizi ecclesiali che
lavorano nel settore, cercando di approfondire
e svolgere ricerche sui temi relativi all’ontologia ed all’etica della comunicazione sociale.
L’attività può essere ricondotta a due filoni
principali: quella dei servizi e dei rapporti che
si svolgono all’interno del mondo ecclesiale e
quella che si occupa dei rapporti che si svolgono all’esterno del mondo ecclesiale.
La comunicazione interna riguarda la gestione e la cura delle dinamiche di comunicazione
e di informazione tra la Segreteria Generale
della CEI e gli Uffici, i Servizi e gli Organismi
collegati (Caritas Italiana, Fondazione Migrantes, Fondazione Missio) e tra gli stessi Uffici ed
i Servizi pastorali. Tra i compiti principali:
- produzione di una Rassegna stampa quotidiana cartacea che deve venire distribuita
al Presidente della CEI, al Segretario Generale della CEI, ai Sottosegretari, ai direttori e ai
vice direttori degli Uffici CEI, ai responsabili
e ai vice responsabili dei Servizi CEI e tramite
l’intranet a Vescovi ed agli Uffici diocesani per
le comunicazioni sociali, alle diocesi e ai vaticanisti accreditati permanentemente presso
l’Ufficio stampa della CEI e sul sito internet;
- produzione settimanale della InfoCEI, foglio di informazione sugli eventi, sulle celebrazioni, sulle tavole rotonde, sui convegni e
sui seminari che richiedono la presenza, la partecipazione e/o l’intervento del Presidente e/o
del Segretario Generale della CEI, dei direttori
e dei responsabili degli Uffici e dei Servizi pastorali e degli Organismi collegati. Le notizie
dell’InfoCei sono poi inserite a cura dell’UCS
nell’area news del sito www.chiesacattolica.it;
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
issn 2035-584x
- funzione di coordinamento delle attività
degli Uffici regionali e diocesani per le comunicazioni sociali attraverso incontri periodici di
studio e di programmazione, convegni nazionali, giornate di studio e momenti di riflessione;
fornisce anche il supporto organizzativo per gli
incontri e le iniziative della Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali.
La comunicazione esterna si occupa dei rapporti con la stampa “laica” e dei rapporti con i
giornalisti dei vari media televisivi e radiofonici e della carta stampata. Tra i suoi compiti:
- l’Ufficio Stampa si occupa dei rapporti con
i mass media e i vaticanisti accreditati permanentemente presso la CEI, di redigere comunicati stampa, di organizzare le conferenze
stampa, le interviste al Presidente della CEI, al
Segretario Generale della CEI e ai direttori e/o
responsabili degli Uffici e dei Servizi pastorali
con gli operatori dell’informazione. L’Ufficio
stampa si occupa anche del monitoraggio delle
Agenzie di Stampa.
Al direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali fa capo il compito di occuparsi della teletrasmissione della Santa Messa,
ovviamente coadiuvato da esperti: un aiutante di studio ed un regista per predisporre gli
aspetti organizzativi, logistici e tecnici. La Santa Messa va in onda ogni domenica mattina su
RaiUno dal 1954 e, dal 2007, può essere seguita
anche dai non udenti attraverso la pagina 777
di TelevideoRai e resta un servizio importante
per gli ammalati e quanti non possono partecipare alla celebrazione eucaristica domenicale.
Al riguardo va ricordato che per la natura e le
esigenze dell’atto sacramentale non è possibile sostituire con gli strumenti della comunicazione sociale la partecipazione mediata e
virtuale a quella diretta e reale, anche se questa rappresenta una forma valida di aiuto nella preghiera in quanto offre “la possibilità di
unirsi ad una Celebrazione eucaristica nel momento in cui essa si svolge in un luogo sacro”14;
- la Sezione Cinema e Spettacolo dell’UCS si
ripropone di sviluppare dei punti d’incontro significativi tra la cultura “laica” e la fede cattoli14 Cfr. http://www.chiesacattolica.it/cci_new_v3/s2magazine/index1.jsp. Al riguardo, cfr. anche la diamina sfruttata da A. Spadaro S.I., op. cit, pp 112-116
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
ca e quello della cultura cinematografica in tutte le sue manifestazioni: dalle opere filmiche
agli studi sul cinema e l’audiovisivo alle pubblicazioni periodiche specializzate, alle pubblicazioni in volume. A tal fine lavora principalmente lungo due direttrici: da un lato essa ha
progettato e sviluppato il coordinamento delle
associazioni cattoliche, spesso provvedendo a
raccoglierle attorno a dei progetti ben definiti
quali gli eventi, le manifestazioni culturali, le
rassegne stampa ed i convegni, in moda da fare
emergere i problemi cruciali sui quali è possibile sviluppare un confronto, approfondito,
tra la fede e i media audiovisivi; dall’altro essa
tenta di valorizzare le sale della comunità, che
ormai da tempo vivono una fase di crescita sia
sociale che culturale ma anche tecnologica. Accanto a questa Sezione opera anche la Commissione Nazionale Valutazione Film, a sua volta
dipendente dalla Presidenza della CEI.
Le case editrici
Le case editrici e le librerie cattoliche sono
riunite dal 1944 nell’Unione editori e librai
cattolici italiani (UELCI). Attualmente ne fanno parte sessanta case editrici, diciotto singole
librerie e sei catene per un totale di circa 300
librerie sul territorio nazionale.
Un terzo delle case editrici è impegnato nel
settore scolastico. I campi d’interesse di questi
editori vanno dalla saggistica filosofica e teologica alla spiritualità, dalla tematica biblica a
quella più genericamente religiosa, dalla letteratura per ragazzi all’attualità. Non solo libri,
ovviamente, la produzione comprende anche
periodici, audiovisivi e sussidi didattici.
Attualmente si pubblicano oltre 3.500 nuovi libri all’anno, un buon giro d’affari complessivo realizzato dall’editoria cattolica (un fatturato di 386 miliardi nel 1998). In quest’ultimo
settore esiste il problema dell’impatto delle
nuove tecnologie, determinante a diversi livelli, particolarmente per semplificare, accelerare
e rendere più efficaci i vari processi, dalla fase
di scrittura a quella di stampa, risparmiare sui
costi, realizzare nuovi strumenti, prodotti e
servizi, ampliando i canali distributivi e commerciali e creando una nuova politica dell’inNuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
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formazione libraria. Il pubblico al quale si rivolgono le case editrici cattoliche è variegato:
dalle persone di chiesa (laici e religiosi impegnati) ai militanti di movimenti sociali e gruppi alternativi, dal mondo della cultura a quello
della scuola, dal contesto missionario a quello
dell’impegno sociale, dal laico al politico.
Le principali case editrici che si occupano
dei temi religiosi sono:
- “Libreria Editrice Vaticana” (LEV), questa
casa editrice è nata il 27 aprile 1587 grazie al
papa Sisto V, che fu anche il fondatore della Tipografia Vaticana da cui la libreria fu scorporata nel 1926. Pubblica opere legate al mondo
ecclesiastico e cattolico come anche gli atti ed i
documenti ufficiali della Chiesa cattolica;
- “Editrice missionaria italiana” (EMI): è’
una casa editrice missionaria di proprietà di
quindici istituti italiani che svolgono attività
anche all’estero. Propone temi svariati, dal racconto della missione fatto dai suoi protagonisti allo sforzo di dar voce alle giovani chiese;
dai temi della giustizia e della pace a quelli
dell’intercultura, dal rapporto tra paesi e popoli ai nuovi stili di vita. Senza dimenticare la
dimensione biblica, la spiritualità missionaria, gli aspetti teologici della missione, si occupa anche dei temi del dialogo interreligioso,
dell’ecumenismo, dell’incontro con il diverso;
dei temi ambientali; di solidarietà tra i popoli
e cooperazione internazionale;
- “Edizioni San Paolo – Paoline”, si ispirano
all’Apostolo delle Genti, il primo grande propagandista del messaggio di Cristo, che trasmise
sulla terra a viva voce e scrivendo ed inviando le
“lettere”. Le Edizioni San Paolo e le Paoline sono
impegnate per lo più nell’apostolato librario proprio perchè vogliono incarnare l’ideale paolino;
- “Àncora”, il suo logo è un’ancora blu su
cui sono aggrappate delle persone, a significare curiosità per la vita e passione per i libri.
Pubblica testi di spiritualità cristiana destinati
non solo ai religiosi desiderosi di approfondire la propria fede ma anche ai laici;
- “Vita e Pensiero”, nata nel 1918, è la casa
editrice dell’Università Cattolica di Milano, ne
è proprietario l’Istituto Giuseppe Toniolo. In
catalogo oltre 800 titoli, articolati in tre sezioni: la prima destinata al pubblico delle librerie
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
e tratta della saggistica non specialistica, in
particolare nell’ambito delle scienze umane e
degli studi religiosi; la sezione “Università” costituisce il nucleo universitario del catalogo ed
è suddivisa per aree disciplinari; la terza sezione, “Strumenti”, propone materiali didattici e
monografie di giovani studiosi;
- “Cittadella Editrice”, emanazione della Pro
Civitate Christiana, associazione di laici fondata ad Assisi nel 1939, si ripropone di far riflettere l’uomo di oggi sui problemi fondamentali
della vita e della storia, per far comprendere
il significato e l’impegno che derivano da una
scelta per Cristo e per l’uomo;
- “Don Bosco-Elledici”, casa editrice fondata a Torino nel novembre 1944, si sviluppò al
punto da necessitare di una propria rete commerciale in Italia: oggi esistono quattordici librerie, presenti in tredici città, che offrono oltre 130.000 titoli. Questa catena è fra le prime
nel mercato religioso e la quinta in assoluto
nel mercato italiano. Propone un nuovo modello di libreria religiosa, che si apre al mondo
laico offrendo servizi diversificati, dalla prenotazione dei testi alla consegna a domicilio,
dall’oggettistica religiosa all’accesso alla banca
dati Alice dei libri in commercio con un assortimento più ampio di quello tradizionale.
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alle esigenze di una società che sta evolvendo
sempre di più.
La CEI ha il compito principale di promuovere la diffusione del giornale nelle diocesi
raccogliendo i fondi necessari per riuscire a
mantenerlo in vita. Ed ha ovviamente il diritto di indicare la politica editoriale del giornale, considerandolo come uno strumento
di comunicazione sociale “aperta”, attento ai
segni dei tempi. L’intenzione dei fondatori
di questo quotidiano era quella di non farlo
sembrare un quotidiano ufficiale della Chiesa, perchè un quotidiano simile esisteva già:
l’“Osservatore Romano”.
Anche “Avvenire” offre ai propri lettori un
insieme di servizi diversificati, in particolare
inserti giornalieri, settimanali e mensili.
Dal 1998 si può leggere il quotidiano anche
su Internet ed in occasione del quarantesimo
compleanno, nel 2008, è stato rinnovato il sito.
Poichè la CEI è giuridicamente una fondazione, il quotidiano beneficia dei finanziamenti pubblici all’editoria (L. 250/1990): nel
2007 il quotidiano ha ricevuto 6.174.758,70
Euro.
Secondo Accertamenti Diffusione Stampa
(ADS)15 i dati di vendita 2007 sono i seguenti:
copie vendute: 104.163/copie diffuse:
105.874/copie stampate: 137.807.
Il quotidiano “Avvenire”
Il settimanale “Famiglia Cristiana”
Negli anni Sessanta esistevano in Italia diversi quotidiani cattolici regionali o locali. I
principali erano “L’Italia”, pubblicata a Milano,
e “L’Avvenire d’Italia”, pubblicato a Bologna.
Nel 1967 la CEI si pronunciò a favore della fusione delle due storiche testate e predispose le
linee d’indirizzo del nuovo giornale, che nasce
a Milano il 4 dicembre 1968.
Esso è dunque il quotidiano della CEI, un
quotidiano quindi di ispirazione cattolica, un
giornale fatto da cristiani che vuole essere anche interessante per tutti coloro che non sono
credenti. L’idea primigenia di questo quotidiano era stata del papa Paolo VI, che aveva pensato ad uno strumento culturale comune per
i cattolici d’Italia. Il quotidiano “Avvenire”, fin
dalla sua nascita, ha continuato a concretizzare questa specificità, pur nell’adeguamento
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
“Famiglia Cristiana” è un settimanale, in
edicola da ormai ottanta anni, di ispirazione
cattolica e con una media di tre milioni di lettori a settimana.
Le prime mille copie del nuovo settimanale
“Famiglia Cristiana” furono stampate ad Alba,
nella notte di Natale del 1931, per volontà di
Don Giacomo Alberione. Ai suoi esordi non
esisteva alcuna promozione, soprattutto perchè non c’erano i mezzi neccessari: la prima
propaganda veniva così fatta con le copie del
primo numero in mano, venduto per 20 cen15 L’ADS (Accertamenti Diffusione Stampa, Istituto di
certificazione) è un’associazione che si occupa di certificare i dati di diffusione e di tiratura della stampa quotidiana e periodica che viene pubblicata in Italia;analoga
funzione viene svolta da Audiradio per l’ascolto radiofonico e da Auditel per quello televisivo.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
tesimi. Il settimanale conteneva dodici pagine in bianco e nero, salite ben presto a sedici,
un’immagine natalizia in copertina e il sottotitolo “Per le donne e per le figlie”.
Questo settimanale raccoglieva di fatto la
grossa eredità di quasi cinquecento testate settimanali, quindicinali e mensili che la San Paolo stampava allora per conto di altrettante parrocchie. Nel 1932 la prima copertina a colori e
la testata qualificata come un settimanale religioso morale con lo scopo preciso di diventare
sempre di più uno strumento d’informazione
al servizio di tutte le famiglie. Grazie alla rete
delle rivendite parrocchiali questo settimanale si affermò in breve tempo su tutto il territorio nazionale e, a partire dal 1937, la tiratura
cominciò ad aumentare. Nel 1944, nonostante
le difficoltà del periodo bellico, ne venivano
vendute 100.000 copie. Da allora in poi la diffusione divenne inarrestabile.
Anche la redazione cresceva rapidamente
e si dotava sempre più di mezzi e tecnologie
d’avanguardia per confezionare un prodotto
sempre più ricco di servizi, di rubriche e di
informazioni. Proprio in questo modo era divenuto il più venduto settimanale italiano, il
terzo nella classifica europea. Nel 1981, l’anno
del cinquantenario, la “parrocchia” di “Famiglia Cristiana” contava quasi 6 milioni di lettori e una tiratura di un milione e duecentomila
copie. In questo periodo il mensile si rafforza
come rivista di servizio della famiglia e news
magazine. La diffusione si è consolidata con
delle iniziative editoriali (come la nuova Bibbia per la famiglia, i romanzi e i saggi e nel
tempo i cd musicali ed i dvd). Dal 2001 il settimanale propone alcuni supplementi dedicati alla casa e all’automobile e viene pubblicato
anche sul web.
Una delle rubriche più note è senz’altro
“Colloqui col Padre”, attraverso la quale i lettori inviano le lettere al direttore del settimanale. Le lettere riguardano temi vari: attualità, il
costume, le opinioni dei lettori sugli articoli,
questioni che riguardano la fede ed il ruolo
che essa ha nella vita, ecc… Il settimanale da
sempre ha avuto un dialogo diretto e sincero
con i propri lettori e ancora oggi riesce a rappresentare lo spazio virtuale di una comunità
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
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che condivide gli stessi valori umani, familiari e cristiani.
Il sito ufficiale
della Chiesa cattolica italiana
e i siti delle altre chiese italiane
Il rapporto tra Chiesa e Internet oggi vive
una nuova fase: il messaggio evangelico, dopo
duemila anni di storia in cui si è sempre incarnato nelle società del tempo, entra in uno spazio
di condivisione, partecipazione e convergenza
grazie al Web 2.0 e alle sue opportunità di interazione on line attraverso i social network.16
La comunicazione tramite Internet necessita di un servizio di qualità confacente e congruo rispetto alla propria identità. La Chiesa
cattolica italiana ha cercato di cogliere ed usare bene questi due elementi. Il 22 novembre
2001, papa Giovanni Paolo II è stato il primo
pontefice nella storia ad inviare dal suo computer portatile un messaggio ai vescovi della
regione asiatica, un vero e proprio giro del
mondo on line.
La Chiesa si è ormai convinta che Internet è
cultura e che esso stesso produca cultura. I vescovi argomentano che la rete sta diventando
lo spazio principale dove avviene la formazione umana, morale e conoscitiva dei giovani. La
Chiesa ha bisogno di Internet perché è proprio
su esso che si sta costruendo il modello antropologico dell’uomo di domani. Un sito Internet cattolico può essere letto da tutti e per questo motivo deve occuparsi del mondo e non
estraniarsi dal mondo. E deve assolutamente
evitare il gergo liturgico, il “liturgichese”, spesso inavvertitamente utilizzato per imporre la
propria verità.
La Chiesa cattolica italiana ha dunque un
proprio sito web e un po’ alla volta tutte le
diocesi italiane, da Torino a Bari, da Palermo
a Trieste stanno sviluppando il proprio sito su
Internet, strutturando talora un vero e proprio
portale su di regionale.
Il sito della Chiesa cattolica italiana ( www.
chiesacattolica.it ) è attivo già da 14 anni ed è
una sorta di annuario web della Chiesa, in gra16 cfr. http://www.chiesacattolica.it/pls/cci_new/consultazione.mostra_pagina
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
do di fornire le informazioni, i documenti, le
segnalazioni di eventi ma soprattutto di indirizzare il navigatore attraverso un’articolata
rete di link e con l’aiuto di mappe geografiche
di agile utilizzo nei “luoghi” (e nei relativi siti,
qualora esistano) più consoni ai suoi interessi: dalle Chiese degli altri Paesi alle singole
diocesi o parrocchie italiane, che sono anche
facilmente raggiungibili attraverso un database degli svariati media cattolici: i quotidiani,
le agenzie, le radio e le televisioni, i molteplici
uffici e organismi in cui si articola la CEI quali
il Progetto culturale, il Migrantes, il Sovvenire,
ecc... Il motore di ricerca è stato aggiornato nel
2008 e si può incrociare con la sezione “archivio” per il reperimento dei documenti ufficiali
ed anche di alcuni video diffusi dai vescovi e
con i “percorsi tematici” per effettuare ricerche a oggetto.
La tipologia del sito non è adatta a un suo
utilizzo interattivo e infatti, a eccezione di
un’area “forum”, non paiono previste modalità
di partecipazione per gli utenti.
La Chiesa cattolica e i social network
Il 24 gennaio 2010 la Santa Sede ha aperto
il canale di comunicazione multilingue YouTube ( www.you tube.com/vatican ), la più
grande comunità mondiale di condivisione
in rete di filmati, per fornire videonews quotidiane sulle varie attività del Papa e le attualità
vaticane. Molti altri arcivescovi d’Italia fanno
buon uso dei new media: così il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, usa la
piattaforma YouTube per le sue catechesi quaresimali, mentre l’arcivescovo di Napoli Crescenzio Sepe dialoga con i fedeli su Facebook,
la più diffusa rete di social network.
La Chiesa cattolica ha saputo rispondere
prontamente agli sviluppi di Internet nell’era
delle tecnologie web 2.0 e delle comunità
virtuali quali Facebook, MySpace, Twitter
e Second Life, tutte piattaforme in cui la dimensione relazionale e partecipativa ha preso il sopravvento rispetto alle modalità più
statiche della “navigazione” in rete del recente passato. Si tratta di trasformazioni che
hanno aperto anche delle nuove sfide etiche
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
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e dei nuovi interrogativi rispetto a quelli
evidenziati nel 2002 dal Pontificio consiglio
delle comunicazioni sociali nei documenti
La Chiesa e Internet ed Etica in Internet. Accanto alle opportunità offerte esiste il serio
rischio che il web stia creando un circuito di
solitudini di tastiera, di gente che s’illude che
per comunicare davvero basti usare il mouse,
come dimostrano i sempre più frequenti casi
di dipendenza e di nevrosi da Internet. 17. in
occasione del “Messaggio per la XLIII Giornata
mondiale delle comunicazioni sociali” (2009),
papa Benedetto XVI ha definito le nuove tecnologie digitali come un dono per l’umanità
se utilizzate in modo opportuno, insistendo
quindi sulle potenzialità della rete. Lo ha fatto parlando del “desiderio di connessione” e
dell’”istinto di comunicazione” della cosiddetta “generazione digitale” come di “manifestazioni moderne della fondamentale e
costante propensione degli esseri umani ad
andare oltre se stessi per entrare in rapporto
con gli altri”, invitando la Chiesa a rispondere
adeguatamente a tali istanze. E la Chiesa non
sta a guardare.
Tutt’altro: nell’aprile 2010 con il convegno
nazionale “Testimoni digitali” la CEI ha fatto
il punto su informazione e comunicazione
nell’era digitale. Il convegno ha visto la partecipazione di oltre 1200 esperti provenienti da
tutta Italia: operatori del mondo della comunicazione, insegnanti, educatori, sacerdoti,
vescovi e religiosi. Se “Parabole mediatiche”18,
che si era tenuto nel 2002, aveva dato modo
di prendere coscienza dello scenario in cui
la Chiesa italiana rinnovava il suo impegno
nel mondo della comunicazione alla luce degli orientamenti pastorali per il decennio, il
17 D. Viganò., prefazione di V. Grienti, Chiesa e web 2.0.
Pericoli e opportunità in rete, Torino, 2009, p. 9.
18 Il convegno “Parabole mediatiche” si è tenuto a
Roma nel novembre 2002, anch’esso promosso dalla
Commissione Episcopale per la cultura e le comunicaziono sociali della Cei ed organizzato dal Servizio
Nazionale per il Proggetto Culturale e dall’Ufficio
Nazionale per le Comunicazioni Sociali. Il convegno,
primo su scala nazionale, servì per sviluppare le indicazioni degli Orientamenti pastorali per il primo decennio del nuovo secolo cioè come comunicare il Vangelo
in un mondo che cambia.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
convegno “Testimoni digitali” ha permesso
di verificare come oggi il contesto culturale
e mediatico sia cambiato, vi sono elementi
nuovi che incidono sugli stili di vita di ciascun individuo, gli strumenti a disposizione
della persona e degli operatori delle comunicazioni sociali si sono moltiplicati, ma accanto ai social network si affianca comunque
lo sviluppo di media “tradizionali” quali la
stampa e gli audiovisivi.
La Radio Vaticana e le altre emittenti radio
della Chiesa cattolica italiana
Nel 1980 papa Giovanni Paolo II sottolineava come attraverso la radio si edifica ogni
giorno la Chiesa, uno strumento di rilevante
importanza per l’evangelizzazione, la comunione ecclesiale, la comprensione e solidarietà
tra i popoli. Il papa Giovanni Paolo II pensava
alla Radio Vaticana ma è evidente che tali parole possono essere estese ad ogni radio cattolica
operante in Italia (e nel mondo).
La Radio Vaticana fu inaugurata il 12 febbraio 1931 da papa Pio XI con il radio messaggio “Qui arcano Dei”. Inizialmente la realizzazione della struttura radiofonica vaticana
era stata affidata a Guglielmo Marconi e poi ai
Gesuiti, che ancora oggi ne curano la gestione. Uno dei primi programmi svolti era in
lingua latina, “Scientiarum Nuncius Radiophonicus”, ed era una rassegna dell’attività
della Pontificia Accademia delle Scienze.
Nel 1933 venne inaugurata la Stazione Radio
a onde medie mentre nel 1939, dopo la morte
del papa Pio XI, la Radio seguì il conclave e poi
la cerimonia di insediamento del nuovo pontefice Pio XII. Durante la Seconda guerra mondiale la Radio si rivelò (nonostante il tentativo
di ridurla in silenzio da parte del ministro tedesco della propaganda, Joseph Goebbels) un
importante strumento d’informazione. Dopo
la fine del conflitto e l’inizio della guerra fredda vennero inaugurati i programmi che venivano trasmessi anche in altre lingue.
Nel 1957 il papa Pio XII inaugurò il Centro
Trasmittente di Santa Maria di Galeria, che è
ancora oggi in funzione ed è di proprietà della Santa Sede. Si potenziarono le trasmissioni
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
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rivolte verso l’Africa, l’Asia e l’America Latina.
Dopo l’elezione di papa Giovanni XXIII la Radio dedicò le proprie trasmissioni ai lavori del
Concilio Vaticano II in trenta lingue. Nel 1964
la Radio Vaticana seguì Paolo VI in Terra Santa,
primo viaggio di un Papa all’estero.
Nel 1970 la Radio Vaticana mandò in onda
alcuni brani di Fabrizio De Andrè e di altri cantautori, all’epoca vietati e banditi dai programmi RAI: il primo brano di musica leggera in assoluto trasmesso era stato, nel 1966, “Ragazzo
triste” di Patty Pravo.
Durante gli anni Novanta iniziarono le trasmissioni satellitari e quelle via Internet.
Molte emittenti di vario genere e dimensione ritrasmettono i programmi della Radio
Vaticana, per la quale lavorano quattrocento
persone di varie nazionalità, che trasmettono
trasmissioni autonome in trentotto lingue
diverse. Nel luglio 2009 è stata introdotta anche la pubblicità, per la storia il primo inserzionista è stato l’Enel.
La Radio Vaticana offre ai suoi ascoltatori le proprie trasmissioni anche in versione
pod-cast, che permette di ascoltare la radio e di
costruire il proprio palinsesto personalizzato
selezionando le trasmissioni a propria scelta.
In Italia, oltre alla Radio Vaticana, esistono numerose emittenti radio cattoliche; tra
le tante:
- “InBlu” è un network di oltre 200 emittenti diocesane o di ispirazione cattolica. Questa
iniziativa è nata il 26 gennaio 1998 ed è stata
promossa dalla Fondazione Comunicazione e
Cultura collegata alla CEI. Il network InBlu aiuta
le piccole emittenti del network a integrare i notiziari nazionali con approfondimenti e punti
di vista locali. La redazione fa parte dello stesso
gruppo editoriale dell’emittente televisiva satellitare SAT2000 e del quotidiano “Avvenire”.
Nel corso della giornata ad ogni ora, dalle 7.00
alle 20.00, vengono trasmessi i radiogiornali
realizzati con il contributo dell’agenzia giornalistica News Press. Nel programma “Pomeriggio inBlu” la radio effettua anche dei collegamenti con le radio del circuito, attuando uno
scambio reciproco di contributi e servizi.
- “Radio Maria” in Italia è proprietà dell’Associazione Radio Maria, trasmette dal 1987, at164
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
tualmente in tutta Europa via satellite digitale
Eutelsat e Hotbird e in tutto il mondo anche via
internet. Si stima che vi siano quasi 1.650.000
ascoltatori al giorno. I costi di gestione vengono coperti principalmente dalle offerte degli
ascoltatori, talora anche dai contributi pubblici, fruisce ora dei proventi del 5permille
sulla dichiarazione dei redditi ma non ha introiti pubblicitari. Il denaro che riceve, oltre a
finanziare l’apparato tecnico, viene utilizzato
per creare nuove emittenti nel mondo. Radio
Maria si affida all’opera di moltissimi tecnici
volontari che operano sia in sede sia in tutta
Italia. La finalità principale di questa emittente è la “nuova evangelizzazione”, far crescere i
cristiani nella fede e nel cammino di santità.
La programmazione comprende trasmissioni
che trattano principalmente argomenti di teologia, catechesi, le attualità ecclesiali, le letture
della Bibbia, i corsi di spiritualità, di liturgia, di
mariologia, di storia della Chiesa, le biografie
dei santi come anche i chiarimenti sulla dottrina del Magistero. Giornalmente vengono
dedicate otto ore alla preghiera, da sedi e con
modalità diverse e nel palinsesto sono inserite
anche alcune trasmissioni di servizio, che riguardano le discipline umane però affrontate
nella prospettiva della fede.
Il Centro Televisivo Vaticano
e le altre emittenti cattoliche
Da circa 10 anni il numero di radio e tv cattoliche e la loro audience sono in costante crescita, specie tra i giovani.
Prima della nascita del Centro Televisivo
Vaticano (CTV) tutti gli eventi importanti che
riguardavano la Chiesa cattolica venivano trasmessi dalla RAI: gli eventi del Concilio, i conclavi, i viaggi di Paolo VI, i Messaggi di Natale e di
Pasqua. Siccome esisteva un pubblico interessato anche ad eventi di minor risonanza, fu valutata in Vaticano l’opportunità di dotarsi di una
capacità autonoma di ripresa televisiva, al fine
di documentare e rendere disponibili le immagini delle attività papali o degli eventi vaticani
più interessanti. Il dinamismo del pontificato
di Giovanni Paolo II ha accelerato le decisioni
in questa direzione. Oltre ad essere un’emitNuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
issn 2035-584x
tente ufficiale del Vaticano, il Centro Televisivo
Vaticano serve tutte le televisioni ed istituzioni
televisive, tra i suoi clienti annovera le grandi
agenzie televisive e le televisioni nazionali e private di ogni parte del mondo, alle quali fornisce
le immagini necessarie per poter dare la più ampia diffusione alle informazioni sulla realtà della Chiesa Cattolica e dell’attività del Papa.
Nello Statuto del Centro Televisivo Vaticano si legge: “Particolare impegno è richiesto
al CTV nella collaborazione con le Conferenze
Episcopali e con le emittenti cattoliche”: uno
dei suoi compiti principali è proprio quello di
servire le altre televisioni cattoliche, per cui il
servizio del CTV alle televisioni cattoliche è andato sviluppandosi con gli anni e si è creata in
questo modo una piccola rete di rapporti regolari fra l’emittente vaticana e un certo numero
di televisioni cattoliche sparse in tutte le parti
del mondo. Inoltre il CTV offre agli inviati che
si trovano in Vaticano l’assistenza e facilities
come la troupe, l’assistenza per il video e per
l’audio, i lanci satellitari, il montaggio.
- L’emittente televisiva ufficiale della Chiesa
cattolica italiana è TV2000, nata nel 1998, di proprietà della CEI. Fino al 2009 il nome era Sat e faceva riferimento al fatto che trasmetteva soltanto via satellite. La sede principale dell’emittente
è a Roma, una redazione è a Milano. Trasmette
24 ore su 24 ed è visibile gratuitamente con diverse tecnologie, incluso il digitale terrestre e
lo streaming nel sito web ufficiale. Anche le altre emittenti televisive locali cattoliche utilizzano e trasmettono i programmi di TV2000 sia
in analogico che in digitale terrestre. In questo
caso, durante la ri-trasmissione di programmi
della Tv2000 scorre sempre il logo della tv locale accanto a quello della TV2000.
Il palinsesto è vario: le news, il meteo, i talk
show, l’intrattenimento, i programmi culturali, lo sport, la musica, i film, le fiction, ecc…
La pubblicità è scarsa, quasi nulla, però
l’emittente trasmette molte comunicazioni
sociali che publicizzano associazioni di volontariato e senza fini di lucro; gli spazi pubblicitari vengono gestiti dalla Sipra. Tra le emittenti che ri-trasmettono il palinsesto TV2000:
- “Telepace”, via satellite, è stata la prima ad
aprire la strada della evangelizzazione elettro165
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
nica. Questa emittente privata veneta venne
inaugurata nel 1979. Dal 1985 Telepace ha ricevuto la concessione della Santa Sede a seguire
il pontefice delle sue trasferte e in collaborazione con il CTV ha cominciato a diffondere le
dirette dell’Angelus e le udienze ai fedeli del
mercoledì mattina. Nel 1990 aveva aperto la
sua sede a Roma ed aveva iniziato a seguire anche le altre realtà locali italiane come Agrigento, il Trentino e la Liguria. Telepace trasmette
via satellite dal 1993 in tutta Europa tramite
Hot Bird programmi autoprodotti.
- “PaterTV” è il centro di produzione audiovisivo di tv cattolica e viene trasmessa tramite il web. Opera in Italia per la produzione e
la diffusione di servizi, programmi tv cattolici, strumenti multimediali ed inoltre offre e
permette il libero accesso e visione ad alcuni
video sul Papa, alle preghiere e ai numerosi
messaggi del pontefice. È nato dall’appello del
pontefice alla “nuova evangelizzazione” basata
sui media e i nuovi mezzi di comunicazione ed
è parte di un progetto internazionale di cooperazione tra emittenti televisive cattoliche con
la comune missione di diffondere i valori cristiani e cattolici a tutti.
- “Family Life TV” è un’emittente attiva dal
2004, con sede a Milano. I programmi di Family
Life Tv coprono argomenti quali l’attualità e la
tecnologia, l’economia, il territorio e l’utilità, la
musica e il tempo libero, il sociale e lo spettacolo lasciando ampi spazi per il commerciale.
Una best practice comunicativa:
la campagna per l’Otto per mille
Con la firma del nuovo Concordato, avvenuta il 18 febbraio 1984, fu stabilito che il
sostegno dello Stato alla Chiesa avvenga nel
quadro della devoluzione di una frazione del
gettito totale IRPEF, chiamato anche l’otto per
mille, da parte dello Stato alla Chiesa cattolica
e alle altre confessioni da usare per scopi religiosi o caritativi. Per donare l’otto per mille
i contribuenti devono esprimersi nelle opzioni sulla dichiarazione dei redditi.
Lo Stato italiano ha firmato nel tempo intese analoghe a quella con la Chiesa cattolica: nel
1986 con le Assemblee di Dio, nel 1993 con gli
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
issn 2035-584x
Avventisti e con l’Unione delle Chiese Metodiste e Valesi, nel 1995 con i Luterani, nel 1996
con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
- UCEI. Sono sei le confessioni religiose destinatarie dell’otto per mille: i Battisti hanno firmato un’intesa con lo stato nel 1993 ma rifiutano di ricevere tale obolo.
La legge prevede che l’otto per mille dell’IRPEF
viene versato dallo Stato alla CEI sulla base delle dichiarazioni annuali del reddito e secondo
l’espressa volontà dei cittadini contribuenti, per
esigenze di culto, sostentamento del clero e interventi caritativi in Italia e nel Terzo Mondo19.
Le quote così devolute alle comunità religiose vengono utilizzate per:
- interventi assistenziali e umanitari, ad
esempio dalla Chiesa cattolica e da quella
Valdese;
- interventi sociali e culturali quali quelli
della Chiesa cattolica, dell’UCEI, della Chiesa
Valdese;
- interventi caritativi, finalità religiose ed esigenze di culto perseguiti dalla Chiesa cattolica;
- il sostentamento del clero, dalla Chiesa
cattolica e dalla Chiesa luterana;
- la tutela degli interessi religiosi degli Ebrei
in Italia, la tutela delle minoranze contro l’antisemitismo e il razzismo soltanto da parte
dell’UCEI.
Per le Chiese, quella cattolica nello specifico, nel corso degli anni si è trattato di un grande impegno di informazione, comunicazione,
marketing, che nel tempo ha dovuto sempre
più confrontarsi con un’allargata platea di concorrenti. L’importanza di tale impegno è confermata dalle cifre dell’evoluzione del gettito
garantito dall’otto per mille alla Chiesa cattolica dal 1990 al 2007:
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
398 mln di euro
446 mln di euro
529 mln di euro
573 mln di euro
569 mln di euro
590 mln di euro
653 mln di euro
680 mln di euro
756 mln di euro
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
839 mln di euro
904 mln di euro
897 mln di euro
961 mln di euro
1016 mln di euro
937 mln di euro
984 mln di euro
930 mln di euro
991 mln di euro
19 Blasi S., Gannon M., Viaggio nell’8xmille alla Chiesa
Cattolica, 2009, p. 32.
166
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
Un grande impegno che si sviluppa a tutto
campo, dai vertici della CEI all’ultima delle parrocchie, coinvolgendo media, agenzie pubblicitarie, testimonial, parroci e laici.
La comunicazione ecclesiale trova nei media
un campo d’espressione privilegiato. La Chiesa cattolica italiana comunica con i suoi fedeli,
laici inclusi, attraverso tutti i canali mediatici
per poter raggiungere così il maggior numero
di persone e informarle sugli avvenimenti ecclesiali, dimostrando come sempre un grande
sforzo per riuscire a tenere il passo dei tempi.
Nella primavera del 2010 la cronaca ha
messo a dura prova questa capacità di comunicare e informare: lo scandalo della pedofilia
ha “sbattuto” la Chiesa e le sue gerarchie più
elevate in prima pagina da Roma a Glasgow,
da Monaco a Vienna, da Sidney a Malta a New
York. In Austria e Germania le ripercussioni
negative per la Chiesa sono state immediate,
in Italia si attendono con preoccupazione gli
esiti della “campagna 2011”.
La comunicazione nella diocesi di Trieste
Ufficio pastorale per le comunicazioni sociali
Fa capo al Vicario episcopale per la Pastorale
ed ha un responsabile laico.
Coordina le varie attività nel settore,
dall’Ufficio stampa al sito, dal settimanale
Vita Nuova al Novi Glas sloveno in collaborazione con la diocesi di Gorizia, dalla Radio
Nuova Trieste al Bollettino diocesano alla
nuova Agenda Pastorale.
Coordina altresì la presenza settimanale su
Radio Rai 1 FVG (Incontri dello spirito, sabato
ore 18.15 e la celebrazione eucaristica della domenica mattina, in lingua italiana e slovena),
sugli schermi di Telequattro (Fede perché no?,
giovedì ore 19.00 e repliche nel fine settimana)
e di Telecapodistria (Vangelo della domenica,
sabato ore 19.30).
L’Ufficio stampa
Ne è responsabile il Vicario del Vescovo, che
si avvale di un’addetta stampa; ha il doppio
compito di tenere i contatti con gli uffici dioNuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
issn 2035-584x
cesani –comunicazione interna- e con i media
locali e non –comunicazione esterna. Produce
i comunicati stampa, notizie sugli appuntamenti ai quali il vescovo è presente, collabora,
alla redazione di documenti del vescovo, “filtra” anche le richieste di interviste che vengono fatte dai media al vescovo ed ai chierici.
L’Ufficio ha anche il compito di monitorare
i giornali, per controllare come le notizie relative alla chiesa vengono pubblicate.
Se necessario, ravvisando notizie errate o
imprecise relative alla diocesi triestina, contatta la redazione oppure direttamente l’articolista, chiedendo le correzioni del caso comunque segnalandone l’opportunità.
Consci del fatto che la terminologia liturgica è diversa da quella dei laici e più in generale
dell’opinione pubblica, si sforza di avvicinare i
giornalisti a tale linguaggio .
Se necessario, funge anche da ghost writer
del vescovo, nel caso questi non riesca a stare dietro a tutti gli impegni, preparandogli le
bozze dei discorsi sulla base degli spunti forniti dal vescovo stesso.
Si occupa pure degli aggiornamenti del
sito della diocesi (www.diocesi.trieste.it), un
mezzo di comunicazione che deve funzionare sempre e deve essere aggiornato continuamente: l'ultima volta nel maggio 2011.
Il sito della diocesi di Trieste
Il sito della diocesi di Trieste, creato nel
2000, è stato uno dei siti pionieri della Chiesa
italiana. Il supporto del sito, creato dai tecnici
della CEI, è fornito dalla Conferenza episcopale italiana, gratuitamente come per tutte le
diocesi italiane. Dalla sua nascita il sito diocesano è gestito, come detto, dall’addetta all’Ufficio stampa.
Il sito fornisce le notizie degli avvenimenti più recenti riguardanti la diocesi e mette
a disposizione una varia documentazione:
le omelie del vescovo, le preghiere, le letture della domenica, i documenti prodotti dal
vescovo, dei quali poi il sito dà notizia nella
home page. La notizia nella home page non
viene messa per estesa, soltanto un estratto, sotto al quale un apposito link rimanda
167
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
il lettore alla parte del sito dove la notizia
viene riportata in modo integrale. Sul sito si
possono trovare anche i link esterni, talora
a mezzo di password che possiede soltanto
l’amministratore, per accedere ai siti cattolici italiani, al quotidiano “Avvenire”, ai siti
minori e pure al SIR, l’agenzia informativa
che gestisce le notizie della Chiesa. L’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali
pubblica giornalmente sul sito della CEI una
rassegna stampa di cui i navigatori possono
vedere soltanto i titoli mentre gli addetti ai
lavori ed i religiosi dotati di user name e password possono accedervi integralmente.
Il sito adempie anche a funzioni informative istituzionali, quali gli orari delle messe,
i riferimenti dei responsabili episcopali per i
vari incarichi, indirizzi, numeri di telefono e
informazioni sulle attività che riguardano la
diocesi e le sue strutture.
Il bollettino della diocesi
Il bollettino della diocesi di Trieste viene
redatto dall’Ufficio stampa e al momento non
si trova online. Il bollettino, le cui pubblicazioni sono riprese di recente ma permangono alquanto saltuarie –nella primavera 2011 è
stato distribuito il numero di 12 mesi primacontiene un calendario con gli appuntamenti
diocesani, documenti di varia natura quali i
rendiconti sull’Otto per Mille e le Comunicazioni della Cancelleria.
Nei bollettini vengono pubblicate le omelie, anche quelle in lingua slovena, in tal caso
subito seguite dalla traduzione in italiano.
Il bollettino si presenta in formato agile,
60 pagine, come detto è curato dall’Ufficio
stampa della diocesi ed è ora strutturato in
due parti: la prima contiene i testi riguardanti la vita della diocesi mentre la seconda
parte contiene principalmente omelie.
Le copie dei bollettini sono gratuite, se
ne stampano 350 che poi vengono spedite
per abbonamento postale ai vescovi italiani, alle parrocchie di Trieste, ai diaconi triestini, agli ordini religiosi, alle associazioni
ed agli enti ecclesiali ed a chi che ne fa richiesta.
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
issn 2035-584x
L’Agenda pastorale 2010/2011
Nasce dall’esigenza di rendere disponibile
uno strumento di conoscenza e condivisione
della struttura dei gruppi d’impegno e delle
aggregazioni laicali presenti nella Diocesi in
vista del Sinodo diocesano del 2012. La necessità di renderlo disponibile in tempi brevi ha
comportato, per ammissione dei responsabili, la pubblicazione di “una bozza incompleta”, in attesa di contributi non pervenuti
in tempo utile, che comunque, nonostante i
mugugni di chi non vi si è ritrovato, si configura come uno strumento di cui gli addetti
ai lavori sentivano la mancanza: l’appuntamento con la seconda edizione, riveduta ed
aggiornata, è per settembre 2011.
Il settimanale “Vita Nuova”
Il settimanale cattolico di Trieste “Vita Nuova” ha la propria sede amministrativa e redazione presso l’ex Seminario, ne è direttore responsabile un laico.
“Vita Nuova” è nato il 10 aprile 1920, ha dunque appena compiuto novantuno anni.
Il settimanale è nato e si è sviluppato sino a
pochi anni fa fondandosi sul puro volontariato dei suoi direttori, redattori e di tutto il personale amministrativo. Il settimanale ha rinnovato nel tempo il proprio impegno a farsi
interprete della comunità dei credenti e della
intera comunità triestina in uno spirito di dialogo e di disponibilità completi. Con il tempo,
necessariamente, il settimanale si è in parte
professionalizzato, riuscendo così a garantire
la necessaria continuità alla linea editoriale
decisa dalla diocesi.
Il compito di “Vita Nuova” dovrebbe essere quello di dare una visione più completa e complessa della città di Trieste da una
prospettiva cattolica. In primis alle parrocchie ed ai parroci, in prima linea e sempre
in ascolto dei bisogni delle persone, che
ben conoscono quali sono i problemi della
comunità in cui vivono. Il settimanale cerca anche di essere mezzo di comunicazione
vicino ai cittadini, cogliendo notizie che gli
altri giornalisti non riescono ad intercetta168
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
re. I cittadini hanno bisogno di queste microstorie per non sentirsi soli e “Vita Nuova”
cerca di giungere al cuore delle persone, per
informarle su alcuni temi di attualità ed allo
stesso tempo coinvolgerle, anche ascoltandone le voci e interloquendo con loro attraverso le lettere che giungono alla redazione,
un buon modo per far crescere il senso di appartenenza che peraltro negli ultimi tempi
è stato al centro di una prova di forza tra la
redazione e la nuova curia, culminata con un
profondo cambio redazionale.
“Vita Nuova” ogni settimana si propone
in edicola al prezzo di 1 € (l’abbonamento ne
costa 40) con una fogliazione ultimamente ridotta anche alla metà delle 32 tradizionali, d’altronde il conto economico di un settimanale
di una piccola diocesi è complesso e sofferto
e le scarse 1000 copie complessivamente diffuse, ben al disotto del livello di guardia, non
permettono certo il pareggio economico, in
queste ultime settimane perseguito con l'obbligo alle parrocchie di acquistarne un certo
numero di copie da vendere ovvero regalare
nel fine settimana.
Né ha aiutato la polemica, insolitamente
violenta in una città come Trieste, che ha coinvolto il rapporto tra il nuovo Vescovo e la redazione, buona parte della quale dopo un lungo
braccio di ferro, finito impietosamente in cronaca locale, ha abbandonato il settimanale.
È stato nominato dal Vescovo un nuovo
direttore, che viene da lontano e cerca faticosamente di vivere da vicino una città a lui sostanzialmente estranea, la direttrice precedente è approdata al quotidiano locale, dove forse
proprio le “guerriglia” intorno a Vita Nuova ha
fatto mauturare la necessità di avere in redazione un proprio esperto di cose ecclesiali, un
vaticanista triestino.
Il settimanale nella nuova versione propone l’editoriale del direttore in prima pagina
ed all’interno si articola in alcune sezioni fisse: attualità, Chiesta di San Giusto, Economia
e società, Mondo, Cultura e spettacoli, Approfondimenti: rispetto ad un recente passato, è
fortemente aumentata la presenza di contributi provenienti dall’esterno, Veneto in particolare ma non solo.
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
issn 2035-584x
“Radio Nuova Trieste”
“Radio Nuova Trieste” (RNT), la radio della Diocesi di Trieste, è nata nell’aprile 1985 da
un’idea dell’allora vescovo Mons. Lorenzo Bellomi, che a quei tempi presiedeva la Commissione episcopale triveneta della famiglia e “Giustizia e Pace” ed aveva ritenuto opportuno dotare
anche la sua diocesi di una emittente radio.
Oggi l’attività dell’emittente dipende dall’Associazione Radio Nuova Trieste, che è stata costituita dieci anni fa con uno statuto apposito
ed atto notarile, allo scopo preciso di rendere
ancora più agevoli i rapporti con gli enti pubblici con i quali si rapporta la testata giornalistica RNT, così giuridicamente costituita.
All’inizio la programmazione proponeva
solo musica moderna, cosa forse poco opportuna per una radio cattolica, 24 ore su 24 ore di
musica curata dai due tecnici dell’emittente.
La radio ha dovuto affrontare e superare
nel tempo alcuni problemi. Il primo problema era la cattiva ricezione in alcuni rioni della città del segnale radio, causata dalla sovrapposizione con il segnale di una stazione RAI.
Il problema si trascinò nel tempo e fu risolto
solo molti anni dopo, spostando la radio nel
Seminario di via Besenghi.
Nei primi anni vi fu un gran movimento di
gente in redazione, furono prodotti molti programmi grazie alla collaborazione di giornalisti ed uomini di cultura, altri venivano ritrasmessi in collegamento con la Radio Vaticana.
Nel 1994 emerse il problema della gestione
economica: si impose allora una scelta tra una
radio a richiamo musicale-commerciale come
tante altre, con qualche riferimento religioso, ed autonoma sul piano amministrativo ed
una emittente attenta sì alle esigenze di bilancio ma impegnata nel raccogliere i contributi
giornalistici e culturali locali su base di volontariato, avendo una linea editoriale attenta alla
diffusione del messaggio evangelico inserita
in un contesto culturale comprensibile anche
da chi non frequenta la chiesa.
RNT decise di sperimentare la seconda opzione, iniziando a trasmettere programmi di
servizio: ovviamente, ne derivò un disequilibrio economico, per riuscire a colmarlo veniva
169
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
chiesto agli ascoltatori un contributo economico ad integrazione di quello della Diocesi.
Negli anni ‘90 RNT si configurava non già
come una radio devozionale, che trasmette
le celebrazioni religiose con meditazioni, ma
come una radio impostata su rubriche parlate o
musicali, con sigla iniziale e finale. Le trasmissioni vengono condotte dai singoli redattori,
competenti in qualche materia e in possesso
di due requisiti: la simpatia e la disponibilità.
In quegli anni ci fu anche l’aggiornamento
delle attrezzature con il nuovo centralino telefonico, il fax e il computer e poi, alla vigilia del
Natale 2004, l’apparato trasmettitore ad alta
frequenza fu trasportato nella nuova sede del
Seminario di via Besenghi.
Da allora la Radio ha consolidato la sua presenza ed il suo ruolo, proponendo programmi
molto vari: da quelli d’informazione generalista, i RadioGiornali redatti dalla redazione
vaticana e da quella del circuito InBlu, a quelli
d’informazione locale, dai programmi d’informazione cattolica a quelli sportivi a programmi di natura varia.
La Caritas di Trieste
La Caritas Italiana è l’organismo pastorale
della CEI per la promozione della carità.
Questo organismo pastorale è nato nel 1971,
per volere di papa Paolo VI nello spirito del rinnovamento avviato dal Concilio Vaticano II.
Svolge una funzione pedagogica, per far crescere nelle persone, nelle famiglie e nelle comunità il senso cristiano di solidarietà. Ogni anno
la Caritas Italiana propone un programma articolato di corsi, convegni, seminari di studio
e approfondimento per poter perseguire il suo
impegno di formazione e di informazione. In
Italia esistono 220 Caritas diocesane, che sono
impegnate sul territorio nell’animazione della
comunità ecclesiale e civile e nella promozione di strumenti pastorali e servizi quali: Centri
d’Ascolto, Osservatori delle Povertà e delle Risorse, Caritas parrocchiali, Centri di Accoglienza, ecc… Al proprio finanziamento provvedono
con una parte del gettito fiscale derivato dall’Otto per mille, le manifestazioni, i contributi di
benefattori e le raccolte di fondi straordinarie.
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
issn 2035-584x
La Caritas della diocesi di Trieste è molto
bene organizzata, propone un sito (www.caritastrieste.it) molto bene strutturato, in grado
di fornire a tutti gli interessati le notizie necessarie; e diffonde una Newsletter che, incidentalmente, nel 2008 è stata la prima del suo
genere in tutta Italia, che si presenta anch’essa
in maniera gradevole e professionale, con uno
stile di scrittura breve e conciso, che aiuta i lettori nella comprensione degli articoli.
La comunicazione parrocchiale:
il caso della parrocchia
di Santa Teresa del Bambin Gesù
In tutte le chiese di Trieste ogni domenica i
fedeli hanno la possibilità di trovare una serie
di informazioni sulla vita della comunità parrocchiale e diocesana.
Così, all’albo trovano notizie sulla vita di tutti i giorni, sui servizi offerti, le pubblicazioni
di matrimonio, le convocazioni di riunioni dei
vari momenti di aggregazione religiosa; ai piedi dell’albo, solitamente, su apposite superfici
trovano il settimanale diocesano, foglietti illustrativi proposti dai vari movimenti, dossier
forniti dalla diocesi, il foglietto che aiuta il fedele a seguire la celebrazione della Santa Messa,
con le letture della giornata, le preghiere comuni, alcune riflessioni a tema, qualche notizia su
fatti, santi e quant’altro della settimana.
Nella chiesa di Santa Teresa del Bambino
Gesù, sita in via Manzoni 12 a Trieste, i parrocchiani trovano anche un bollettino settimanale.
Il bollettino ha il formato di una pagina A4, piegata a metà in modo da ottenere quattro facciate.
Il bollettino ha ogni settimana un colore diverso
mentre i caratteri sono sempre di color nero. La
prima pagina contiene sempre “La parola”, nel
quale viene pubblicato il Vangelo della domenica. Subito sotto possono comparire annunci sulla
vita della comunità. La seconda pagina contiene
una rubrica intitolata “Preghiamo”, che propone
una piccola riflessione riguardo ai comandamenti, all’amore, alla pace e ai temi evangelici della
domenica. La terza pagina contiene due sezioni: la prima propone il calendario degli incontri
comunitari con brevi commenti, spiegazioni ed
indicazioni; la seconda parte propone le iniziati170
Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
ve di solidarietà parrocchiane. La quarta pagina
riporta le date delle Sante Messe con gli orari ed
i defunti che vi vengono ricordati nonché i santi
della settimana. In occasioni particolari, il bollettino contiene una pagina aggiuntiva.
Il bollettino settimanale, anche in virtù della sua puntuale presenza e della sua semplice
struttura, è uno strumento utile di informazione e dialogo tra la parrocchia ed i parrocchiani.
Ogni tre mesi la parrocchia pubblica anche
una rivista patinata, a colori, L’Eco di Santa Teresa, iscritta al registro dei periodici e diretta
da una giornalista, affiancata nel lavoro redazionale dal parroco, che ne è vicedirettore, e da
alcuni volontari, religiosi e laici. Articoli e fotografie sono tutti frutto di volontariato, così
come anche la distribuzione della pubblicazione: le copie vengono messe a disposizione in
chiesa, dove chi vuole ne prende un pò di copie
per distribuirle nelle cassette postali della propria abitazione e di quelle vicine.
“Tele Chiara”
“Tele Chiara” è in effetti una emittente pluriregionale, nata nel 1990 a Padova per volere
dell’Episcopato triveneto, che trasmette in Veneto e Friuli Venezia Giulia un palinsesto ideato per informare, formare ed intrattenere il
pubblico televisivo del Nordest Italia.
L’emittente opera nella convinzione che
il policentrismo tipico di questa zona d’Italia
possa essere fattore di forza ed aggregazione
per promuoverne lo sviluppo socio-culturale,
in modo coerente con i valori cristiani della sua
tradizione storica. “Tele Chiara” vuole valorizzare e promuovere le diverse realtà territoriali,
nella convinzione che questo approccio sia la
chiave per conquistare localmente una parte
del pubblico, intrattenerlo ed informarlo.
Questa emittente è così diventata punto di
riferimento per i cattolici delle Tre Venezie, raccogliendo apprezzamenti e suscitando interesse
presso tutto il pubblico televisivo. “Tele Chiara” è
da sempre pronta a rispondere ai cambiamenti
del mercato ed alle sfide della tecnologia, atteggiamento indispensabile per rispondere sempre
meglio alle richieste di informazione, di servizi, di
intrattenimento.
Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
issn 2035-584x
La collaborazione tra “Tele Chiara” e Sat2000,
la televisione satellitare promossa dalla CEI, è
strategica per il conseguimento di questo obiettivo, con i suoi programmi di informazione
nazionale, con gli eventi in diretta e le rubriche
specialistiche quotidianamente proposte.
“Tele Chiara” ha un palinsesto estremamente vario, in cui ai programmi strettamente giornalistici si alternano altri di informazione sulle quindici diocesi del Nordest, quindi anche
Trieste, di storie di santuari, case di spiritualità,
chiese, conventi, centri religiosi delle Tre Venezie, noti o meno noti; di storie di viaggio per il
Nord Est raccontandone storia, tradizioni, gastronomia. Oltre, ovviamente, ai programmi
sportivi, musicali e di intrattenimento.
“Tele Chiara” non vuole essere una trasmittente esclusivamente cattolica e forse per questo motivo essa è molto seguita nel Nordest
dell’Italia. Con i suoi palinsesti differenziati è
adatta alle persone di tutte le età; cerca di informare in tempo reale sugli avvenimenti di
attualità ed è sempre pronta a confrontarsi con
l’innovazione tecnologica.
Oggi l’emittente ha anche un proprio sito
web, nel quale è possibile trovare tutto: dai
contatti ai programmi Tv, dal palinsesto in
programmazione alle persone che vi lavorano.
Conclusioni
La Chiesa nella sua opera di evangelizzazione ha sempre investito le proprie risorse da una
parte sull’uomo e dall’altra negli strumenti.
In questo contributo si è cercato di analizzare il come ed il perché di questa seconda area
di intervento, coerentemente al percorso sviluppato in occasione del Corso al Centro Veritas: ma forse la sfida vera nel complesso villaggio globale in cui portare il proprio annuncio e
la propria testimonianza, come emerso ancora
una volta nel Corso del Veritas, la Chiesa deve
affrontarla e vincerla sul primo versante, quello dell’uomo: dell’uomo religioso, del laico, del
professionista della comunicazione, dei cattolici praticanti e di quelli che lo sono un pò
meno; e, ultimo ma non ultimo, di chi non crede, anch’esso destinatario della nuova evangelizzazione promossa dal Pontefice.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
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Eugenio Ambrosi è docente di Comunicazione pubblica al Master in analisi e gestione della comunicazione, Università di Trieste, facoltà di Scienze della
Formazione - direttore Servizio CORECOM FVG
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http://www.gesuiti.it
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http://www.telechiara.it
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Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
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Ma tu, sei digital literate?
Bettina Todisco
Abstract
Parole chiave
Cosa sono i nuovi media sociali che tanta parte hanno
nel mondo del Web 2.0? E che cosa significa essere digital literate in questo ecosistema sempre più dinamico?
Monica Murero ci introduce ai più recenti fenomeni della Rete nel suo testo Digital literacy. Introduzione ai
social media, edito da Libreriauniversitaria.it nel 2010,
che in questo articolo vado a presentare, per utilizzare
con consapevolezza e senso critico i media digitali e sociali, conoscendone opportunità ma anche rischi per la
privacy e la sicurezza dei dati personali.
Digital literacy; Web 2.0;
User-Generated Content (UGC); Blog;
Microblog; Wiki; Vlog; Social network;
Geo-tag; Viral marketing; Web 3.0;
Web semantico.
I
variabili, dalle condizioni economiche al livello
di istruzione, dalle differenze di età o di sesso
alla provenienza geografica, e ancora, in taluni
casi, alla qualità delle infrastrutture utilizzate.
Mi limito invece ai digital illiterate, passando
ad illustrare cos’è la digital literacy che dà il titolo al lavoro della professoressa Monica Murero “Digital literacy. Introduzione ai social media”1
che in questo articolo presento.
Per digital literacy, o alfabetizzazione digitale, si intende la capacità di utilizzo dei nuovi
media e la conseguente partecipazione attiva a
una società, oggi, sempre più digitalizzata. Ma
digital literacy non è solo questo. Come suggerisce l’autrice, esperta internazionale di nuovi
media e Internet, sociologa e massmediologa,
«la digital literacy è la capacità di utilizzare
con consapevolezza, disinvoltura e senso “critico” i media digitali e sociali, conoscendone
linguaggi, culture, opportunità, i rischi per la
privacy e sicurezza dei dati personali». 2 Dove,
radicali mutamenti tecnologici dell’ultimo
decennio hanno modificato in modo pervasivo, e mai accaduto in precedenza, il modo in
cui comunichiamo, gli spazi socio-culturali, le
realtà politiche, economiche e psicologiche,
nonché il linguaggio, dove le parole di Internet sono state mutuate e assimilate entrando
nel parlare quotidiano. Ma il vero problema
che dobbiamo porci è l’utilizzo che di queste
tecnologie digitali noi facciamo. Apparteniamo forse a quei pochi che con supponenza le
snobbano o, ancor peggio, a quella larga fetta
di persone che ne fanno un utilizzo assolutamente inconsapevole? Sono questi ultimi i
cosiddetti digital illiterate, ovvero gli attuali
illetterati digitali in un mondo in repentina
trasformazione.
Tralascio di proposito in questa trattazione
coloro che non hanno accesso alle tecnologie
dell’informazione, parte di quel digital divide
che è il divario esistente tra chi ha accesso effettivo a tali tecnologie e chi invece ne è escluso, in modo parziale o totale. Dove, va detto, i
motivi dell’esclusione comprendono diverse
Ma tu, sei digital literate?
1 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media,
Padova, 2010.
2 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media,
cit., p. 8.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
a titolo puramente esplicativo, se digital ha
una traduzione dall’inglese immediata e facilmente intuibile, literacy sin dall’origine si riferisce all’alfabetizzazione del soggetto rispetto
alla forma testuale scritta.
L’espressione digital literacy si è affermata
negli ultimi trenta anni in concomitanza con
la diffusione delle nuove tecnologie e dell’uso
sempre più assiduo dei computer. Il primo
a utilizzarne il termine è Paul Gilster nel
1997, definendo il concetto sostanzialmente
un atto cognitivo. Non una semplice acquisizione di abilità tecniche, quanto piuttosto
la costruzione di abilità cognitive e culturali
tali da permettere l’utilizzo critico delle fonti
reperite e la necessaria selezione delle informazioni fornite dalla Rete.
Il testo della Murero nasce proprio dalla
«consapevolezza che vi è una scarsa o assente
digital literacy tra i frequentatori della rete e
dei nuovi social media come Facebook, Twitter
e YouTube; un problema tutt’altro che risolto,
che porrà nuove incognite e sfide soprattutto
per le fasce più deboli degli utilizzatori delle
nuove tecnologie come i minori e gli anziani,
ma anche tra chi possiede un livello culturale
elevato rispetto alla media della popolazione,
come ad esempio gli studenti universitari»3.
Utilizzare i social media consapevolmente è pertanto l’obiettivo che l’autrice si pone
con il suo lavoro e, per fornire al lettore gli
adeguati strumenti per raggiungerlo, si
sofferma sul contesto attuale e delinea con
chiarezza che cosa sono i nuovi media sociali, a partire proprio dalle origini del termine
Web 2.0. Ripercorriamoli assieme.
1. Web 2.0
«Il termine web 2.0 venne coniato da
O’Reilly a una conferenza nel 2004, durante
un brainstorming sugli esiti dello “scoppio
della bolla tecnologica” in borsa nel 2001.
Quell’episodio segnò un crocevia nella storia
del web»4.
«Per Tim O’Reilly, uno dei guru del Web
2.0, è difficile dare una definizione del nuo3 Ibidem.
4 Ibidem, p. 17.
Ma tu, sei digital literate?
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vo Web. Quello che è certo è che al centro del
nuovo modo di concepire il Web, e il software, vi è l’idea della Rete come piattaforma di
servizi, unita a un forte coinvolgimento sociale degli utenti, quali essi stessi creatori
di valore. Un concentrato di servizi on line,
database, software sociale e decentramento
dell’informazione. Dove il termine imperante è la rete sociale (in inglese, social network),
per intendere un qualsiasi gruppo di persone
connesse tra loro da diversi legami sociali,
dalla conoscenza casuale, ai rapporti di lavoro, ai vincoli familiari»5.
È in sintesi la nuova generazione del Web,
una nuova forma di interazione sociale abilitata dalla tecnologia, che facilita la condivisione delle informazioni e la collaborazione
fra utenti. Nella quale la locuzione utilizzata
prende a prestito «il linguaggio delle release
di software, che numerano le versioni man
mano che vengono migliorate»6 per indicare genericamente il Web di seconda generazione, un’evoluzione di Internet rispetto alla
sua precedente versione.
Nella nuova versione si diffonde lo UserGenerated Content (UGC)7 tra un numero
sempre più crescente di utilizzatori, interessati a produrre, condividere, rielaborare e
«consumare» on line contenuti multimediali.
Come spiega Murero, la crescita dell’UGC «si
sovrappone rapidamente al semplice consumo mediale tradizionale, tanto da poter parlare di prosumerism»8, un termine nato, nell’ambito della cultura di marketing, dalla fusione
di produttore (producer) e consumatore (consumer). E utilizzato oggi nelle teorie della comunicazione «per identificare l’accresciuto ruolo
della “vecchia” audience: non più solo come
5 B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, in A. Tafuri (a cura di), in/Tigor 1 Annuario 20082009 del corso di master di primo livello in Analisi e gestione della comunicazione, Trieste, 2010, pp. 154-183, http://www.
openstarts.units.it/dspace/bitstream/10077/3878/1/
TODISCO.pdf http://www.openstarts.units.it/dspace/
handle/10077/3870.
6 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media,
cit., p. 18.
7 Traduzione dall’inglese: “contenuto generato dall’utente”.
8 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media,
cit., p. 20.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
semplice consumatore passivo di contenuti –
prodotti e servizi – ma anche vero e proprio
emittente, o produttore di nuovi significati»9.
Sottolinea ancora l’autrice, a titolo esemplificativo, come uno dei fenomeni più interessanti nell’ambito della generazione di nuovi
contenuti sia rappresentato proprio dai cable10
pubblicati da WikiLeaks11 a novembre 2010 e
che, nella forma originale, non rendevano affatto facile il reperimento delle informazioni
in essi contenuti. Finché in pochi giorni gli
utenti di Internet, generando nuove possibilità di lettura dello stesso database, hanno reso
più semplice la ricerca di quelle informazioni
che, veicolate attraverso i social media, hanno
generato un passaparola virale via Internet. E
hanno riempito successivamente le pagine dei
giornali di tutto il mondo.
Ma nel panorama del Web 2.0 fin qui illustrato che cosa sono dunque i social media?
2. Social media
Il termine social media indica, in maniera
generica, tecnologie e pratiche on line che le
persone adottano per condividere contenuti
testuali, immagini, video e audio.
Ci ricorda Murero come i social media
«hanno accompagnato la vita sociale della
storia dell’umanità da sempre. Il sistema postale diffuso prima dell’anno zero o il telegrafo del Settecento dimostrano che nel tempo
ciò che varia non è tanto il bisogno di essere
connessi […] quanto i media che sono stati
utilizzati per realizzare questo scopo, via via
più efficienti, sempre meno costosi e in grado
9 Ibidem.
10 I cable sono dei brevi testi diplomatici, scritti dalle
ambasciate degli Stati Uniti alla Segreteria di Stato, che
circolano attraverso il segretissimo SIPRNet (Secret
Internet Protocol Router Network). […] I cable riservati
delle ambasciate riguardano presidenti, personaggi politici ai massimi livelli, questioni strategiche e descrivono le personalità, gli orientamenti politico-militari, le
delicate questioni di politica estera americana e i conflitti in corso in un linguaggio variopinto e “non diplomatico”. Cfr. M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai
social media, cit., p. 5.
11 WikiLeaks è il sito di Julian Assange, l’uomo che ha
scosso la tranquillità di molti potenti.
Ma tu, sei digital literate?
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di raggiungere un crescente numero di persone superando le tradizionali barriere spaziofisico-temporali»12.
Nell’ecosistema dei social media l’autrice
passa in rassegna, in maniera sintetica eppur
esaustiva, una selezione di essi. Dai media
per la social productivity13, come ad esempio
Google Docs14 che permette ai possessori di
account gmail di creare file, caricarli e modificarli in tempo reale insieme a un gruppo di
lavoro, ai media per pubblicare blog15, microblog e wiki16 che valorizzano prevalentemente
le forme testuali.
Oggi il sito di microblogging per eccellenza
è «Twitter, che fornisce una pagina personale aggiornabile con messaggi di testo di lunghezza massima di 140 caratteri. Gli eventuali aggiornamenti sono mostrati nella pagina
personale dell’utente e comunicati agli utenti
registratisi per riceverli. Una formula semplice e intuitiva […] che con i suoi messaggi brevi
ha attratto numerosi utenti, interessati a sperimentare un nuovo sistema di comunicazione, conciso e diretto, in Rete»17.
E in ambito wiki, che dire di Wikipedia, «la
prima enciclopedia multilingue, on line e gratuita, costruita in modo collaborativo dagli
stessi utenti»18? Cos’è nel dettaglio un wiki ce lo
12 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media,
cit., p. 22.
13 Traduzione dall’inglese: “produttività sociale”.
14 Nella versione italiana di Google, noto motore di ricerca, l’equivalente di Google Docs è Google Documenti.
Un servizio che consente di creare documenti, fogli di
lavoro e presentazioni on line e di condividerli in tempo reale con altri utenti, ai quali permettere l’eventuale
modifica.
15 Un blog è un sito web, generalmente gestito da una
persona o da un ente, in cui l’autore pubblica una sorta
di diario on line. Il termine nasce dalla contrazione di
web-log, diario di bordo su Internet. Cfr. B. Todisco, Le
nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica,
cit., p. 162.
16 Un wiki è un sito web aggiornato dai suoi utilizzatori e i
cui contenuti sono sviluppati in collaborazione da coloro che
vi hanno accesso. Cfr. B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio
della comunicazione pubblica, cit., p. 165.
17 B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p. 163.
18 B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p. 165.
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ricorda l’autrice: «uno strumento aperto, un set
di documenti accessibili a tutti che intende riunire la saggezza e le conoscenze ed expertize di
una comunità. […] una tecnologia che permette
di dare vita a pagine web collettive, dove cioè il
contenuto è creato socialmente, o a più mani,
e i contenuti sono verificati attraverso la “peer
revision” – cioè il controllo tra pari».
Non mancano fra i social media gli strumenti
che consentono di pubblicare facilmente contenuti audiovisivi in Rete, come i vlog (parola formata da video web e log), perché – si sa – un video
efficace ha un forte potere di comunicazione.
«Come i blog, i vlog raccontano in via audio-visiva storie personali ignorate da altri media, mostrano animali domestici divertenti, insegnano,
catturano casualmente un evento eccezionale
favorendo il citizen journalism o sostengono una
campagna sociale con una mobilitazione che
parte dal basso, spesso spontanea»19.
Ed ancora il video sharing20 e il photo sharing21, solo per citare alcune delle opportunità
offerte oggi dalla Rete. «YouTube, il noto sito
di video sharing è una delle comunità più ampie del Web 2.0»22. E «Flickr, per le fotografie, è
quello che YouTube è per i filmati. Permette di
caricare le proprie fotografie per presentarle a
amici, conoscenti o perfetti sconosciuti»23.
Per giungere nell’elencazione ai social network che, come Facebook, LinkedIn e MySpace, costituiscono solo una parte – come visto
– dei più ampio ecosistema dei social media.
Vediamo di capirne un po’ di più, a partire dalla definizione di social network, o rete sociale,
e aggiungiamo in tal modo un ulteriore tassello verso la digital literacy.
3. Social network
Dalla diffusione dei computer, ogni decennio ha visto una nuova tecnologia cambiare ra19 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media,
cit., pp. 34-35.
20 Traduzione dall’inglese: “condivisione di video”.
21 Traduzione dall’inglese: “condivisione di foto”.
22 B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p. 160.
23 B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p. 161.
Ma tu, sei digital literate?
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dicalmente lo scenario precedente e la società
intera. Oggi sono i contenuti e i network sociali a farla da padroni. Ce lo ricorda Murero definendo il social network «una struttura sociale, una rete creata da “nodi” ovvero individui,
organizzazioni o gruppi sociali». Dove ogni
nodo è connesso agli altri nodi da «relazioni
di interdipendenza di diverso tipo, che vanno
dalle relazioni familiari e affettive all’amicizia,
dai legami professionali alla condivisione di
un interesse comune»24.
«La rete sociale di relazioni che si crea sui
social network permette di far emergere i
contenuti più interessanti e di diffonderli a
una velocità impensabile con i tradizionali
mezzi di comunicazione. Quando un contenuto, di qualunque tipo esso sia, video, musica o testo, approda su questi siti si diffonde in
maniera virale, e veloce, su siti concorrenti,
siti personali o blog. E una volta diffuso il contenuto non è praticamente cancellabile, perché scaricato e nuovamente diffuso da altri
internauti, senza possibilità di controllo»25.
Nell’ambito dei social network è Facebook il leader di mercato. Fondato nel 2004
da Mark Zuckerberg, è utilizzato oggi attivamente da quasi 250 milioni di persone e
annovera 600 milioni di utenti che in esso
possiedono un profilo, come ci aggiorna sui
numeri l’autrice, numeri che non mancano
di crescere progressivamente nel tempo. Il
nome del sito fa riferimento agli annuari
(facebook) con le foto di ogni singolo membro che alcuni college americani pubblicano
all’inizio di ogni anno accademico. Ci ricorda
Murero come Facebook si basa sul principio
di «diventare amico» di qualcuno, perché
invitati via mail o perché «accettati» come
amici a fronte di una nostra richiesta. «Gli
“amici” dei contatti personali e persino “tutti” possono vedere liberamente o in parte le
informazioni del nostro account, a seconda
di come è stato personalizzato»26.
24 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media,
cit., p. 45.
25 B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p. 162.
26 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media,
cit., p. 46.
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Se Facebook oggi è il social network più diffuso, fino a non molto tempo fa lo era MySpace,
oggi specializzatosi più nel settore musicale e
artistico. «Molti scrittori dilettanti», ricorda
l’autrice, «postano i loro scritti proprio qui,
nella speranza di essere scoperti e di divenire
famosi attraverso il “passaparola” virale della
rete dei social network. Proprio come un virus,
anche un romanzo o una canzone possono diffondersi in rete grazie al gradimento, alle conversazioni, ai blog e alla condivisione di migliaia di persone, così come è già successo»27.
Ma pur avendo la comunicazione e l’intrattenimento un ruolo enorme nei social media, e
in tal senso si pensi ad esempio all’on line game
all’interno dei social network, l’autrice pone
l’accento sul fatto che nell’era dell’informazione
«le organizzazioni si aspettano che i loro collaboratori abbiano un profilo professionale curato e che siano digital literate». E pur essendo Facebook «sempre più utilizzato per la ricerca di
personale – le imprese vogliono conoscere bene
i loro futuri collaboratori, attraverso quello che
postano, commentano, i loro “amici”», cosa che
andrebbe tenuta da tutti nel giusto conto – va
sottolineato che oggi il «social network più
diffuso tra i professionisti è LinkedIn»28. Un
circuito professionale che permette «agli utenti registrati di mantenere una lista di persone
conosciute, e ritenute affidabili in ambito lavorativo, definite “connessioni”. L’utilizzo del programma è molteplice e va dall’ottenere di essere
presentati a qualcuno che si desidera conoscere,
attraverso un contatto mutuo e affidabile, al trovare offerte di lavoro e opportunità di business,
con il supporto della propria lista di contatti o
del proprio network. La diffusione di LinkedIn
è capillare negli Stati Uniti d’America, in crescita in Europa e nel resto del mondo»29.
Un mondo, quello dei social network, nel
quale diventa molto importante fare attenzione
a quello che si dice e a chi lo si dice, soprattutto
se ciò avviene in maniera del tutto inconsape27 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media,
cit., p. 49.
28 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media,
cit., p. 50.
29 B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p. 166.
Ma tu, sei digital literate?
issn 2035-584x
vole delle possibili conseguenze. Essenziale ritorna allora il tema dell’acquisizione personale
della digital literacy, ovvero dell’utilizzo consapevole delle risorse offerte oggi dalla Rete.
In questo ambito va segnalato ora anche un
ulteriore trend innovativo che, grazie agli «aggregatori sociali», ha dato luogo a quella che è
chiamata la convergenza dei social media.
4. Convergenza dei social media
«La convergenza dei social media, cioè la
compresenza delle applicazioni più popolari
all’interno dei social media più utilizzati si è
rafforzata»30 negli ultimi anni e ha dato luogo
a una sempre maggiore diffusione dei cosiddetti «aggregatori sociali». Evidenzia Murero
come «un aggregatore sociale molto popolare
e recente (2007), FriendFeed, consente appunto di aggregare i contributi postati dai propri
contatti via Twitter, LinkedIn, Blogger, Flickr e
altri in un’unica webpage»31.
Un fenomeno importante e innovativo
nell’ambito dei social media che favorisce
«una efficiente gestione dei rapporti e delle comunicazioni prodotte dai “nodi” nei
diversi social media»32. Scopo infatti di ogni
aggregatore sociale è proprio la creazione di
un flusso unico di informazioni che riunisca
le molteplici attività di uno stesso utente in
Rete in un’unica pagina web, facilitandogli in
tal modo la consultazione e la gestione.
Ricorda poi l’autrice che, se la convergenza
è uno degli attuali trend nel mondo dei digital
e social media, altre nuove tendenze fino a ieri
di sviluppo, sono oggi già realtà. Si tratta della
web TV, intesa come integrazione tra web e televisione, del pieno sviluppo della tecnologia
touch, si pensi agli schermi sensibili al tatto
adottati dagli attuali smartphone33, e del cloud
30 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media,
cit., p. 57.
31 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media,
cit., p. 43.
32 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media,
cit., p. 57.
33 Uno smartphone, o telefonino intelligente, è un dispositivo portatile che abbina funzionalità di telefono cellulare a funzioni di gestione dei dati personali.
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computing, ovvero la nuvola di dati, un insieme di tecnologie informatiche che consentono l’utilizzo di risorse hardware o software
distribuite in remoto.
Un mondo, quello del Web 2.0 e dei suoi social media, in continua espansione e nel quale,
dopo questa carrellata, è giunto il momento di
chiederci quali sono le pratiche da adottare per
un suo utilizzo consapevole.
5. Social media:
pratiche per un uso consapevole
Per cogliere tutte le opportunità dei social
media oggi a disposizione e fin qui accennati
è imprescindibile migliorare la consapevolezza sul rischio legato al loro utilizzo e «adottare
strategie correttive pratiche per riconoscere
ed evitare comportamenti pericolosi»34, così
da migliorare la propria privacy e sicurezza.
Murero correda la sua trattazione di istruzioni pratiche, le sole che possono avvicinare
gli internauti all’obiettivo di utilizzare con
consapevolezza i social media ed essere pertanto dei «letterati digitali».
Le buone pratiche menzionate vanno dalla
cautela con la quale effettuare registrazioni on
line, fornendo informazioni non obbligatorie
e che si configurano quali dati sensibili, al consiglio di leggere sempre i termini d’uso prima
di registrarsi a un servizio on line o a un social
media. In molti casi, tra i termini accettati, è
presente la cessione dei propri dati a società
terze per utilizzi di marketing. La cosa è assolutamente fattibile, ma sempre se esercitata
dal singolo nella sua piena consapevolezza.
Buona norma consiste inoltre nel valutare
periodicamente la propria lista di contatti sui
social network e, al caso, nel procedere alla
cancellazione di alcuni di essi. Rileva, infatti,
l’autrice che «i social media sono gestiti da società con fini di lucro» e che «le informazioni,
foto e tutti i dati che avete inserito possono
essere potenzialmente “venduti” a terze parti. Che cosa vale la pena tenere e cosa no?»35. È
dunque questa la domanda che dobbiamo por34 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media,
cit., p. 54.
35 Ibidem.
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ci, pensando magari alla fotografia scattata da
alcuni amici a una cena e nella quale siamo stati taggati36 su Facebook. Potrebbe crearci qualche imbarazzo? Forse anche l’amico che ci ha
taggati non è poi così digital literate da sapere
cosa sta facendo? Può darsi.
Siamo inoltre a conoscenza del fatto che
acconsentire ai servizi di geo-localizzazione,
o geo-tagging, offerti da molti social media,
equivale a rendere nota la propria ubicazione? Il geo-tagging consiste, infatti, nel fotografare un ambiente, una persona, un ricordo
o qualsiasi altra cosa, e inserirli in una mappa, grazie ai dispositivi dotati di GPS37 interno che sfruttano la posizione della longitudine e latitudine per individuare il luogo in cui
una fotografia è scattata. Con estrema facilità
l’immagine può essere caricata su una mappa
(ad esempio, Google Earth38) e con altrettanta
semplicità chiunque può risalire al punto in
cui la foto è stata taggata.
Essere consapevoli di tutto ciò permette di
operare scelte oculate, come ad esempio quella di scegliere i livelli di visibilità delle proprie
informazioni sui social network, grazie agli opportuni settaggi personali della privacy. Fondamentale è, infatti, a livello individuale la protezione dei propri dati personali che può avvenire,
da un lato, migliorando le personali conoscenze
informatiche e, dall’altro, acuendo la capacità di
utilizzo critico delle nuove tecnologie.
Viene da chiederci infine perché le società
commerciali siano particolarmente interessate ai social media. E la domanda è piuttosto
36 “Taggare”, dall’inglese tagging, consiste nell’assegnare un’etichetta o tag, o parola chiave, a un’informazione (un’immagine, una mappa geografica, un post, un
videoclip, …). Il tag descrive l’oggetto e rende possibile
la sua classificazione e la ricerca di informazioni. È generalmente scelto in base a criteri informali dall’autore
dell’oggetto dell’indicizzazione.
37 Acronimo di Global Positioning System, è un sistema
di posizionamento su base satellitare, a copertura globale e continua, gestito dal Dipartimento della Difesa
statunitense.
38 Google Earth è un’applicazione grafica tridimensionale che permette di visualizzare fotografie aeree e satellitari della Terra con un dettaglio molto elevato. Nelle
principali città del pianeta il programma (distribuito
gratuitamente da Google) è in grado di mostrare immagini con una risoluzione inferiore al metro quadrato.
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Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno)
retorica, perché ogni giorno i social network
coinvolgono milioni di persone che pubblicano circa un miliardo di oggetti e tra esse,
ricorda l’autrice «vi sono anche i prodotti, i
servizi, i dipendenti e le marche delle imprese. Queste ultime hanno un grande interesse
ad essere presenti nei luoghi in cui avvengono
le interazioni in stile web 2.0, dove possono
venire adulate, criticate o “taggate”. Ciò allo
scopo di controllare professionalmente la propria immagine, ma anche per cogliere delle
opportunità»39. Un cliente insoddisfatto può
parlare male di un prodotto a una decina di
persone, ma «con la diffusione dei social media
un cliente scontento ne influenzerà almeno
6.000 – secondo Bezos»40, il capo di amazon.
com, la società di vendita on line di prodotti editoriali. È il viral marketing, il passaparola
informatico, che può favorire il successo o l’insuccesso di un’azienda, un prodotto, una campagna. E il digital literate ne è perfettamente
a conoscenza, oltre ad essere informato e interessato sui trend futuri del mondo Web 2.0
che vado a delineare.
6. Verso la digital literacy 3.0
Utilizzare Internet e i social media è oggi una
pratica comune a molti e secondo Clara Shih
(2009), ci rammenta l’autrice, «ora che tutti i
computer, gli apparecchi mobili, le pagine e i
contenuti web sono potenzialmente connessi, […], ci troviamo di fronte ad una nuova fase
web, la prossima rivoluzione digitale»41. Una
rivoluzione che, coniata con l’appellativo intuibile di Web 3.0, «consisterà nel catturare automaticamente attraverso programmi appositi
le informazioni che ci riguardano e il sistema
delle nostre connessioni con gli altri. In altre
parole, la rappresentazione di questo concetto,
ovvero il Grafico Sociale Online di Shih, non è
nient’altro che una mappa completa di tutte le
persone che sono su internet e di come sono
interconnesse. Le interconnessioni si costrui39 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media,
cit., p. 64.
40 Ibidem.
41 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media,
cit., p. 71.
Ma tu, sei digital literate?
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scono attraverso i siti per il social networking
in primis e attraverso i social media in generale.
Il grafico sociale online è per le persone un po’
quello che il World Wide Web è per le pagine
web interconnesse attraverso gli hyperlink»42.
Ma la prossima rivoluzione è anche un
contesto nel quale «si delinea un processo
che mette al centro il valore della conoscenza
e della collaborazione tra persone e che fa del
Web uno strumento di servizio, totalmente
integrato con la realtà e le attività dei suoi internauti. Facilitato dall’affermarsi più spinto
del wireless43 e dell’intelligenza artificiale che
dovrebbero portare sempre più verso l’ubiquità del Web al servizio delle relazioni umane, per moltiplicarle e potenziarle. Secondo
quanto emerge dal dibattito in corso, le tappe
dell’evoluzione del Web vedono la fase attuale, quella 2.0 fin qui esemplificata, caratterizzata da una partecipazione attiva degli utenti
alla costruzione dei contenuti, alla loro classificazione e distribuzione. Alla quale dovrebbe
far seguito, nell’evoluzione attesa, la fase del
Web 3.044, noto anche come Web semantico45, caratterizzata dal potenziamento delle
tecnologie per renderle capaci di contribuire
alla costruzione e alla condivisione della conoscenza, mettendo in connessione i contenuti presenti sul Web attraverso ricerche e
analisi automatiche basate sul significato. Si
parla quindi di ontologie, di agenti intelli42 Ibidem. In informatica, un collegamento ipertestuale (in inglese hyperlink, abbreviato in link) è il rinvio da
un’unità informativa a un’altra. È ciò che caratterizza la
non linearità dell’informazione, propria di un ipertesto.
43 Il termine wireless (in inglese, senza fili) indica i sistemi di comunicazione tra dispositivi elettronici che non
fanno uso di cavi. Cfr. B. Todisco, Le nuove tecnologie al
servizio della comunicazione pubblica, cit., p. 179.
44 Ora Lassila, James Handler, Embracing Web 3.0, in mindswap.org, giugno 2007, <http://www.mindswap.org/
papers/2007/90-93.pdf>; Sito consultato il 29/04/2011.
Cfr. B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p. 179.
45 Il termine Web semantico, coniato dal suo ideatore Tim Berners-Lee, sta a significare la trasformazione
del WWW in un ambiente dove i documenti pubblicati
sono associati a informazioni e dati (metadati) che ne
specifichino il contesto semantico in un formato adatto
all’interrogazione, all’interpretazione e, più in generale,
all’elaborazione automatica. Cfr. B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p. 179.
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genti e motori di ricerca semantici, basati su
un’analisi del significato del testo e degli ambiti tematici cui il testo fa riferimento»46.
Un mondo dal fascino assicurato, nel confronto del quale, conclude Murero, è cruciale
essere consapevoli «dei modi in cui internet
sta cambiando e ha cambiato le nostre connessioni con il mondo reale». E nell’essere
consapevoli, percorrendo la strada che conduce alla digital literacy, «non dimentichiamo
di riflettere su ciò che è appropriato fare nel
ciberspazio e ciò che è importante fare nella
vita reale»47, Murero docet.
Bettina Todisco è responsabile della comunicazione in un’azienda ICT. Laureata in Matematica
presso l’Università di Trieste, specializzata in informatica, lavora prima come analista programmatore nella progettazione di applicazioni software
per la pubblica amministrazione, poi come progettista di piani formativi, in ambito informatico,
oltre che docente dei corsi inerenti gli strumenti di
produttività individuale, le reti e il mondo web,
rivolti al personale degli enti pubblici. Giornalista
pubblicista si interessa di web writing e comunicazione. Ha conseguito nell’anno accademico 20082009, presso l’Università di Trieste, il master di I
livello in Analisi e gestione della comunicazione,
indirizzo Comunicazione pubblica e d’impresa
issn 2035-584x
Bibliografia
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generazione, Cernusco sul Naviglio (MI), 2008.
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C. Shih, The Facebook era, Boston, Mass, 2009.
B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della
comunicazione pubblica, in A. Tafuri (a cura di),
in/Tigor 1 Annuario 2008-2009 del corso di master di
primo livello in Analisi e gestione della comunicazione, Trieste, 2010, pp. 154-183, http://www.openstarts.units.it/dspace/bitstream/10077/3878/1/
TODISCO.pdf http://www.openstarts.units.it/
dspace/handle/10077/3870.
Siti web consultati
http://oreilly.com/
Il sito ufficiale di Tim O’Reilly.
www.apogeonline.com
La casa editrice Apogeo, redattrice di un’interessante webzine.
www.html.it
Un sito specializzato sulle tecnologie del Web.
www.oneweb20.it
Un blog sul Web 2.0, un nuovo modo di intendere e sviluppare la Rete.
www.web2summit.com
Il Web Summit 2.0, la conferenza annuale
sul Web 2.0.
www.webnews.it
Un sito di informazione su tecnologia e
Internet.
46 B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p.179.
47 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media,
cit., p. 72.
Ma tu, sei digital literate?
www.wikipedia.org
Il sito dell’enciclopedia creata dagli utenti
di Internet.
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