Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Tigor Rivista di scienze della comunicazione A.III (2011) n.1 (gennaio-giugno) Sommario Presentazione 4 Federica Foschini Brevi cenni di riflessione sul tema del diritto dell’energia, sulle sue fonti comunitarie e sulle recenti riforme legislative 16 Elisabetta Scala La comunicazione fra Diritti umani e cooperazione sanitaria. Il caso del Tracoma 30 Tommaso Scandroglio La participatio tomista come comunicazione 77 Paolo Sommaggio Non è gentile accontentarsi delle parole. Il dono del senso 86 Romano Martini La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica. Note per una discussione critica 101 Marco Cossutta Sull’interpretazione della disposizione normativa e sui suoi possibili rapporti con l’interpretazione musicale 45 Alberto Scerbo Diritti sociali e pluralismo giuridico in Gurvitch 113 Raffaella F. Marin Mass moda, strumento di comunicazione di massa 54 Paola Chiarella Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali 118 Pierpaolo Martucci Dipendenze e rischio nelle dinamiche dei new media. L’azzardo ai tempi di internet 64 Daniela Teobaldelli Momenti di sostenibilità sociale. Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim 127 Eugenio Ambrosi Lo switch off del digitale televisivo terrestre in Friuli Venezia Giulia: un’applicazione della risk theory Sommario 1 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x 139 Liviana Micheli I giovani e la costituzione. Scuola e fenomeno migratorio 144 Eugenio Ambrosi Comunicazione e informazione: nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa. Un Corso a Trieste 173 Bettina Todisco Ma tu, sei digital literate? Sommario 2 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Presentazione I l presente fascicolo si apre con un contributo di Federica Foschini, la quale analizza, con una prospettiva eminentemente giuridica, la questione energetica al centro di una sempre crescente attenzione sia a livello nazionale, che internazionale, offrendo un quadro dell’attuale assetto normativo. Segue un articolo a firma di Elisabetta Scala, la quale propone una disamina critica degli attuali interventi di cooperazione allo sviluppo, proposti dal Nord del mondo, con particolare riguardo all’ambito sanitario e alle ricadute nel cosiddetto Terzo mondo evidenziando la parzialità di questi interventi. Dopo questi primi contributi, che affrontano tematiche di scottante attualità, viene proposta l’analisi di Tommaso Scandroglio sulla participatio tomista intesa quale momento integrante di un processo comunicativo; a questa seguono i contributi di Alberto Scerbo sul diritto sociale così come appare nella prospettiva pluralistica di Georges Gurvitch, di Paola Chiarella, che affronta anch’essa tale tema avuto riguardo però alla esigibilità ed alla giustizi abilità dei diritti, di Daniela Teobaldelli, la quale offre una riflessione filosofica giuridica sul pensiero di Emile Durkheim prendendo le mosse dalla sua concezione del lavoro, e di Romano Martini, che offre una analisi critica del concetto di democrazia rappresentativo all’interno di un contesto socio-politico informato dall’economia. Segue un contributo di Marco Cossutta in tema di interpretazione giuridica e delle sue similitudini con l’interpretazione musicale. Presentazione Il fascicolo raccoglie altresì il contributi di Paolo Sommaggio, che indaga sul ruolo del dono all’interno della cultura giapponese, di Raffaella F. Marin sulla moda quale strumento di comunicazione e di Pierpaolo Martucci, che analizza il problema della dipendenza psicologica dal gioco d’azzardo avuto riguardo all’uso di sistemi elettronici telematici (la cosiddetta tecnodipendenza), soffermandosi sui crescenti costi sociali del fenomeno. Il recente passaggio dal cosiddetto sistema analogico al digitale televisivo terrestre viene seguito attraverso il ruolo svolto dal CORECOM Friuli Venezia Giulia da Eugenio Ambrosi, il quale propone anche un contributo in tema di impegno del mondo ecclesiastico nell’ambito della comunicazione e dell’informazione a partire dalla diffusione dei testi sacri attraverso i nuovi media. Liviana Micheli propone una rendicontazione di una interessante esperienza comunicativa a partire dall’analisi del testo costituzionale avvenuta in una scuola media superiore di Trieste. Il fascicolo si chiude con un contributo di Bettina Todisco, la quale, partendo dalla lettura di una recente monografia in tema di comunicazione sociale telematica, offre un’analisi critica del mondo dei media digitali e sociali presenti su internet. 3 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Brevi cenni di riflessione sul tema del diritto dell’energia, sulle sue fonti comunitarie e sulle recenti riforme legislative Federica Foschini Abstract Parole chiave Il tema dell’energia è al centro di un crescente interesse, sia internazionale sia nazionale. Tuttavia, è proprio la crescita esponenziale della domanda di energia e il forte interesse pubblico che da sempre le ruota intorno che fa sì che il diritto riesca solamente con difficoltà a seguirne l’evoluzione. Si cercherà qui di fornirne un breve quadro normativo e di analizzare le principali problematiche relative al tema. Diritto dell’energia; Energia elettrica e gas naturale; Fonti rinnovabili; Disciplina normativa; Autorità indipendenti. N alcuni fenomeni, oggi ricompresi nella sfera dell’energia, come ad esempio lo sfruttamento dei corsi d’acqua e del vento per la produzione di energia elettrica con i mulini erano già oggetto di diritto speciale, senza però che si potesse ricondurre il fenomeno ad un comune denominatore in qualche modo legato al concetto di energia. Sempre nell’800 nasce la corrente elettrica, la cui notevole importanza viene ben presto riconosciuta dal legislatore, che la considera come “bene mobile” già nel codice penale del 19301. Il petrolio invece appare molto più tardi (XXI secolo) ma segue un incredibile sviluppo, sorpassando già dopo la seconda guerra mondiale il carbone come fonte energetica di maggior utilizzo. La crescita esponenziale della domanda di energia e il forte interesse pubblico2 che le egli ultimi decenni il tema dell’energia si è imposto con sempre più decisione soprattutto a livello internazionale quale elemento fondamentale per equilibri politici, economici e sociali. All’interno dell’ordinamento italiano, le novità rilevanti del settore negli ultimi dieci anni sono state sia di tipo sostanziale, sia di tipo organizzativo (si pensi alla creazione della AEEG – Autorità dell’energia elettrica e del gas e alla riforma costituzionale n. 3/2001). Occorre notare preliminarmente come il termine “energia”, ancorché univoco nella sua accezione generale, comprenda in realtà fenomeni e situazioni eterogenee, difficilmente riconducibili ad un unico concetto o ad un’unica realtà: si tenga presente infatti che fino a qualche secolo fa l’unica fonte di energia disponibile era quella della combustione della legna (oltre naturalmente a quella muscolare animale o umana) ed è solo dalla seconda metà dell’800 in poi che inizia a farsi strada l’utilizzo del carbone fossile, soprattutto per la produzione del vapore utilizzato nella locomozione meccanica. All’epoca il diritto trattava tali fonti alla stregua di ogni altro bene dotato di un valore economico anche se Brevi cenni di riflessione 1 La prima volta che l’energia elettrica viene definita come “merce” è in una decisione della Corte di Giustizia Europea nel 1964. Si v. Corte di Giustizia della Comunità Europea, sent. 15 luglio 1964, F. Costa c. Enel, in Racc., 1964, p. 1127. 2 La necessità di una rete unica, la sempre maggiore domanda e l’interesse pubblico, anche ad evitare diseguaglianze sui prezzi, sono i fattori che hanno giustificato, nel secondo dopoguerra, la nascita di un regime di mo- 4 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) ruota intorno, fino al punto da condurre alla nascita di veri e propri monopoli3 che sono in parte ancora presenti4, fa sì che il diritto riesca solamente con difficoltà a seguirne l’evoluzione nelle emergenti necessità regolative5. nopolio conseguente alla “nazionalizzazione” delle imprese elettriche italiane, come avvenuto per molti altri servizi di rilevanza pubblica come il trasporto aereo o la telecomunicazione, sul presupposto che sarebbe sicuramente poco conveniente economicamente la presenza di una pluralità di reti in concorrenza tra loro. 3 È anche a causa della crisi economica dei due dopo guerra, oltre che per il crescente interesse economico rivestito dalla materia, che si ha una successiva concentrazione della proprietà di alcune importanti aziende di produzione elettrica sotto il controllo diretto o indiretto dello Stato, che porterà nel secondo dopo guerra al progressivo formarsi del monopolio che vedrà assumere allo Stato il ruolo di monopolista unico negli anni ’60, in concomitanza della necessità di realizzare una rete unica. 4 Si pensi inoltre alle cosiddette “tariffe elettriche” presenti dopo la prima guerra mondiale e l’istituzione del Comitato Corporativo Centrale nel 1939. Si pensi anche al T.U. del 1933 inteso a disciplinare le sempre maggiori tensioni sociali presenti tra latifondisti e produttori elettrici. 5 In questa sede non verrà trattata per motivi di sintesi l’altra fondamentale fonte energetica costituita dal gas naturale. Normalmente si trova insieme al petrolio e per consentirne l’uso viene normalmente trasformato in GNL (gas naturale liquefatto). È negli anni ’40 che il gas acquisisce sempre maggiore importanza da un punto di vista economico fino a esser definito “energia nazionale” durante il regime fascista. Sempre in quel periodo viene costituito l‘Ente Nazionale Metano e quest’ultimo, insieme a Agip, Regie Terme di Salsomaggiore e Società Anonima Utilizzazione e Ricerca Gas Idrocarburati costituiscono la “Snam” (Società Nazionale Metanodotti) per la costruzione e l’esercizio dei metanodotti e la distribuzione e vendita del gas. Anche lo sviluppo del gas è vertiginoso e la rete di metanodotti che nel 1948 era circa di circa 257 chilometri raggiunge nel 1952 i 2000 chilometri, per giungere negli anni ’80 agli attuali 15.000 km. Sempre negli anni ’80 verrà poi realizzato il primo gasdotto trans-mediterraneo collegante l’Italia e l’Algeria. La crescente diffusione naturalmente contribuisce all’aumento anche dell’interesse normativo per la materia. Già la “legge mineraria” del 1927 (R.d. 29 luglio 1927 n. 1443) pone i combustibili solidi liquidi e gassosi quali il carbone, il petrolio e il gas naturale fra le sostanze ed energie che necessitano della concessione dello Stato per la loro ricerca e coltivazione. I giacimenti minerari venivano visti come patrimonio indisponibile dello Stato e il monopolio dell’ENI verrà interrotto solo con il processo di liberalizzazione dovuta dalla Legge n. 9 del 1991, con la quale si attua, dopo quasi quarant’anni, Brevi cenni di riflessione issn 2035-584x Nel dopoguerra la produzione di energia elettrica è per lo più destinata alle industrie e disponibile solo per pochissime abitazioni, mancando ancora una rete di distribuzione unica ed essendo la produzione localizzata per l’80% nel nord della penisola. È proprio in questo momento che lo Stato si fa promotore dello sviluppo della produzione termoelettrica, attraverso il piano Marshall, scatenando la querelle su quale dovesse essere il regime giuridico applicabile. L’interesse sempre crescente per questo settore, sia da parte dello Stato sia a livello internazionale si evince anche dalla menzione, all’art. 43 della Costituzione, delle “fonti di energia” tra i casi in cui “a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”6 (cosiddetto “esproprio per pubblica utilità”). D’altronde non si dimentichi come il primo tentativo di coordinamento a livello europeo, ovvero il Trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) nel 1952, abbia ad oggetto, insieme all’acciaio, proprio una fonte energetica come il carbone. Risulta evidente pertanto l’interesse, economico una prima parziale liberalizzazione sull’accesso al sistema di trasporto, soprattutto sulla spinta dei principi comunitari della libera circolazione e in parte anche a causa della cosiddetta crisi del petrolio. L’ENI viene fondato con la L. 10 febbraio 1953 n. 136 cui gli viene attribuita l’esclusiva di ricerca e coltivazione di idrocarburi nella Valle Padana. Pertanto l’ENI in sostanza veniva ad essere l’unico soggetto ad agire nel settore con una sua specifica normativa di riferimento, diversa da quella applicabile agli altri, almeno fino al 1996 con l’entrata in vigore del d.lgs 25 novembre 1996 n. 625. Si tenga presente infine che la Legge mineraria è ancora tutt’oggi in vigore e ha come campo di applicazione, ex art. 1 della stessa la “ricerca e la coltivazione di sostanze minerali e delle energie del sottosuolo, industrialmente utilizzabili, sotto qualsiasi forma o conduzione fisica”. Nata come legge di riordino delle varie legislazioni minerarie già presenti, in realtà non le abrogò tutte, lasciando in vigore alcuni regimi particolari tra cui ad esempio le cave di marmo. 6 Articolo 43 della Costituzione. 5 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) e politico, che le fonti energetiche da sempre attraggono. Sarà poi nel 1957 che, con i noti Trattati di Roma, verrà istituita, oltre che la comunità economica europea (CEE), la Comunità europea dell’energia atomica (Euratom)7. Tuttavia anche se apparentemente il Trattato CEE non disciplinava in maniera esplicita il settore energetico8, sarà, a partire dagli anni Ottanta, proprio la Comunità Europa ad avere un notevole influsso nel settore, emanando direttive aventi come obiettivo la liberalizzazione del mercato, oltre che naturalmente l’armonizzazione delle discipline normative all’interno degli Stati membri. Sarà poi l’Atto Unico Europeo, firmato a Lussemburgo il 17 febbraio 1986 a prevedere un vero e proprio mercato interno dell’energia da attuare rimuovendo le barriere nazionali, anche se poi bisognerà attendere fino al Trattato di Maastricht per vedere attribuita formalmente agli organi della UE una “specifica” competenza in materia di energia all’interno dei compiti istituzionali spettanti alla UE9. Naturalmente è proprio l’intervento della UE10 a mettere in luce la necessità di intervenire sulla presenza, non più accettabile, dei monopoli, dal momento che, una volta accertata l’importanza economica delle energie “sia le imprese, per la produzione di beni 7 Il tema della produzione elettrica mediante scissione dell’atomo (“nucleare”) è oggi al centro di un vivido dibattito politico, sul quale si deve soprassedere in questi brevi cenni di riflessione ma che sarebbe di notevole interesse poter affrontare. 8 Vi è comunque da notare che l’importanza del settore energetico rende evidente che, seppur non menzionate espressamente dal Trattato CEE, le energie investono trasversalmente tutti i settori economici, essendo per così dire prodomiche a tutti gli altri settori. 9 Si veda a tal proposito l’art. G., B. par. 3 TUE. 10 Si tenga presente che l’Italia, per tramite dell’UE, fa parte anche di altre intese e accordi internazionali in materia di energia, come tra gli altri il SEE (Spazio Economico Europeo), la Carta Europea dell’Energia (1991) e il Trattato sulla Carta dell’Energia (1994). La Carta Europea dell’Energia mira sostanzialmente a garantire l’approvvigionamento dell’energia per l’UE mediante accordi bilaterali tra i paesi produttori e i paesi consumatori e ha come principi fondanti che ciascuno Stato abbia sovranità esclusiva in materia di risorse energetiche, che nessuno Stato venga discriminato, la formazione di un mercato libero e competitivo e il minor impatto possibile sull’ambiente. Brevi cenni di riflessione issn 2035-584x e servizi, sia i cittadini nell’uso diretto di essa – in qualunque parte della Comunità – devono quindi poter contare su sufficienti quantitativi di energia, al minor prezzo possibile ed a pari opportunità di accesso”11. Al contrario in Italia nel 1962 si era assistito addirittura alla “nazionalizzazione” della produzione dell’energia elettrica, del suo trasporto e della sua distribuzione con la creazione dell’Ente Nazionale per l’Energia Elettrica (ENEL) come ente pubblico economico, assistendo anche all’esproprio da parte dello Stato per pubblica utilità delle aziende del settore. Come già notato, molto si deve in questo settore alla Comunità Europea, che dopo un lungo periodo approda alla Risoluzione del 9 giugno 1980 con il quale vengono precisati gli obiettivi fissati per gli anni novanta: primo segno di svolta di una sempre crescente volontà da parte anche degli organi comunitari di voler tracciare una politica, e di conseguenza una normativa, sempre più organica e determinata12. La Risoluzione più importante in tal senso è quella del 16 settembre 1986 che, memore dell’aumento dei prezzi del petrolio, pone tra gli obiettivi la riduzione dei rischi di fluttuazione ma soprattutto pone per la primissima volta come obiettivo quello dello sviluppo e diffusione delle energie rinnovabili. In Italia il recepimento delle direttive comunitarie inizia con la legge 24 aprile 199813 11 M. Grippo, F. Manca, Manuale breve di diritto dell’energia, Padova, 2008, p. 45. 12 Le direttive comunitarie nel settore dell’energia sono diventate sempre più frequenti e sempre più vincolanti. Si veda Direttiva 90/377/CEE del Consiglio 29 giugno 1990 in materia di trasparenza dei prezzi del consumatore finale industriale di elettricità e gas al fine di incentivare una più equa determinazione dei prezzi, alla Direttiva 90/547/CEE del Consiglio 29 ottobre 1990 in relazione al transito dell’energia elettrica sulle grandi reti alta tensione al fine di ridurre i costi dell’energia elettrica, assicurare l’approvvigionamento e la compatibilità della produzione dell’energia elettrica con l’ambiente, la Direttiva 91/296/CEE del Consiglio 31 maggio 1991 sul transito di gas naturale sulle grandi reti, Direttiva 94/49/CEE della Commissione dell’11 novembre 1994 sull’aggiornamento degli enti della precedente direttiva. 13 Prima di questa erano già intervenute la L. n. 9 del 9 gennaio 1991, “Norme per l’attuazione del nuovo Piano energetico nazionale: aspetti istituzionali, centrali idroelettriche ed elettrodotti, idrocarburi e geotermia, autoproduzione e disposizioni fiscali” cercando di snellire le 6 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) (“Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità Europea”) in cui nell’articolo 36 (“Norme per il mercato dell’energia elettrica”) veniva conferita al Governo la delega per l’attuazione della Direttiva Elettricità del ’9614. È il decreto Bersani15 che, in base a tale delega, inizia a dare attuazione alla Direttiva in Italia ridefinendo le competenze dell’AEEG e istituendo altri organismi ausiliari, per la precisione S.p.A con funzioni pubbliche16, seguito poi dal decreto Bersani in attuazione delprocedure amministrative per la realizzazione di centrali ed elettrodotti e la L. n. 10 del 9 gennaio 1991 “Norme per l’attuazione del Piano energetico nazionale in materia di uso razionale dell’energia, di risparmio energetico e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia” ponendo come obiettivi “l’uso razionale dell’energia, il contenimento dei consumi di energia nella produzione e nell’utilizzo dei manufatti, l’utilizzazione delle fonti rinnovabili di energia, la riduzione dei consumi specifici di energia nei processi produttivi, una più rapida sostituzione degli impianti, in particolare nei settori a più elevata intensità energetica anche attraverso il coordinamento tra le fasi di ricerca applicata, di sviluppo dimostrativo e di produzione industriale”. Ma soprattutto “la politica di uso razionale dell’energia e di uso razionale delle materie prime energetiche definisce un complesso di azioni organiche dirette alla promozione del risparmio energetico, all’uso appropriato delle fonti di energia, anche convenzionali, al miglioramento dei processi tecnologici che utilizzano o trasformano energia, allo sviluppo delle fonti rinnovabili di energia, alla sostituzione delle materie prime energetiche di importazione” definendo come fonti rinnovabili “il sole, il vento, l’energia idraulica, le risorse geotermiche, le maree, il moto ondoso e la trasformazione dei rifiuti organici o di prodotti vegetali”. 14 Si v. articolo 36 l. 24 aprile 1998. 15 L’obiettivo del decreto Bersani è, in ottemperanza alla direttiva CE, quello di liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica in Italia, allo scopo di migliorarne l’efficienza e la qualità del servizio, assicurare l’approvvigionamento e contenere i prezzi. La norma prevede che la produzione, l’importazione, l’esportazione, l’acquisto e la vendita di energia elettrica sono libere, mentre la trasmissione e il dispacciamento rimangono riservante allo Stato e attribuite in concessione al gestore della rete di trasmissione nazionale. 16 Si pensi al GRTN (Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale dell’Elettricità), che nel 2006 ha cambiato il proprio nome in GSE-Gestore servizi elettrici, a cui è affidata l’organizzazione e la gestione economica del mercato elettrico secondo criteri di neutralità, trasparenza e obiettività, al fine di promuovere la concorrenza tra produttori, al GME (Gestore del Mercato Elettrico) e all’ AU (Acquirente Unico). Brevi cenni di riflessione issn 2035-584x la Direttiva Gas. Emerge sempre più la necessità di contemperare le necessità della produzione di energie con l’ugualmente importante valore della tutela dell’ambiente, soprattutto in relazione alla riduzione dei gas nocivi produttivi di anidride carbonica e responsabili del surriscaldamento dell’atmosfera terrestre (“effetto serra”). È in questa direzione che si muove anche la Comunità Europea, si pensi ai Libri Verdi della Commissione del 29 novembre 2000 e dell’8 marzo 2006, in cui in entrambi viene incoraggiato il cambiamento delle abitudini da parte dei consumatori tramite gli incentivi fiscali per cercare di contenere l’aumento della domanda e promuovere lo sviluppo delle energie nuove e rinnovabili. Il cambiamento di prospettiva è lungo e lento e involve anche una diversa visione17 dello Stato da “fornitore” a “garante” di un servizio, necessario e fondamentale per tutti i cittadini: non è più il fornitore, addirittura come monopolista, di un bene ma è colui che deve assicurare, nel senso di regolare e garantire, che il mercato si svolga in maniera libera e concorrenziale e che le energie siano accessibili a tutti a un prezzo accessibile e a prescindere dall’ubicazione territoriale. Sulla stessa linea si pone anche l’istituzione di autorità indipendenti18 dal potere esecutivo, con il quale tuttavia condividono alcuni poteri, soprattutto quello di controllo e il potere sanzionatorio, contrapposte sia ai poteri dello Stato che agli interessi dei privati operanti nei settori “sensibili” degli interessi collettivi diffusi19. Tra queste un ruolo fonda17 Si pensi all’ENEA che, sfuggito alla privatizzazione che ha investito ENI ed ENEL, con la L. n. 10 del 9 gennaio 1991 viene profondamente trasformato cambiando in maniera drastica le sue competenze: dalla ricerca nucleare a Ente per le Nuove tecnologie l’Energia e l’Ambiente, ovvero dalla ricerca dell’energia nucleare alla promozione dell’energie rinnovabili e alla tutela dell’ambiente mediante il cosiddetto sviluppo “sostenibile”. 18 Per quanto riguarda le autorità indipendenti si v. F. Cuocolo, Istituzioni di diritto pubblico, Milano, 2003. 19 Per citarne alcune CONSOB (Commissione nazionale per la società e la borsa), la Commissione di garanzia sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, il Garante per la radiodiffusione e l’editoria, e l’Antitrust (Autorità garante della concorrenza e del mercato). Sarà proprio quest’ultima a giocare un ruolo fondamentale per l’attuazione del processo di privatizzazione dell’ENI e dell’ENEL. 7 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) mentale sarà giocato proprio dall’Antitrust per l’attuazione del processo di privatizzazione dell’ENI e dell’ENEL, ma ancora più dall’AEEG - Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas -20, anche se il Governo, non in ultimo con la legge “Marzano” sul riordino del settore energetico, cercherà in più riprese di limitare l’indipendenza dell’AEEG, riducendo la sua funzione a quella di “tecnico - consulente” gerarchicamente sottoposto al potere esecutivo. La legge Marzano “Riordino del settore energetico” aveva delegato al Governo il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia, sia per quanto riguarda la ripartizione delle competenze Stato/Regioni ed Enti locali (poi attuata con la riforma del titolo V della Costituzione) sia sul rapporto Governo/ AEEG. Il disegno di legge n. 691 del 2006 ha previsto poi la delega in generale al Governo di adottare uno o più decreti finalizzati a una revisione generale della materia, in attuazione delle direttive comunitarie. Tra gli obiettivi il risparmio energetico, la tutela dell’ambiente, la promozione delle fonti energetiche rinnovabili e anche un impegno per aumentare l’informazione presso i cittadini incentivando la riduzione dei consumi domestici. fonti del diritto dell’energia Non si può non muovere dalle disposizione contenute nella Costituzione, in cui l’originario articolo 43 è stata la norma fondante della nazionalizzazione e del monopolio sta20 L’AEEG ha come obiettivo quello di “garantire la promozione della concorrenza e dell’efficienza nel settore dei servizi di pubblica utilità, (…) nonché adeguati livelli di qualità nei servizi medesimi in condizioni di economicità e di redditività, assicurando la fruibilità e la diffusione in modo omogeneo sull’intero territorio nazionale, definendo un sistema tariffario certo, trasparente e basato su criteri predefiniti, promuovendo la tutela degli interessi di utenti e consumatori, tenuto conto della normativa comunitaria in materia e degli indirizzi di politica generale formulati dal Governo”. Inoltre “il sistema tariffario deve altresì armonizzare gli obiettivi economici-finanziari dei soggetti esercenti il servizio con gli obiettivi di carattere generale di carattere sociale, di tutela ambientale e di uso efficiente delle risorse” (Articolo 1 co. 1 L. n. 481 del 24 novembre 1995 istitutiva dell’AEEG). Brevi cenni di riflessione issn 2035-584x tale, prima dell’ormai noto processo di liberalizzazione. La legge di riforma costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001è intervenuta anche sull’articolo 117 che, così come riformato, attribuisce potestà legislativa concorrente alle Regioni in materia di “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”21ovvero 21 Articolo 117 Costituzione: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea; b) immigrazione; c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose; d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi; e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; perequazione delle risorse finanziarie; f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo; g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali; h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale; i) cittadinanza, stato civile e anagrafi; l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa; m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; n) norme generali sull’istruzione; o) previdenza sociale; p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane; q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale; r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale; opere dell’ingegno; s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di 8 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) in tali materie allo Stato rimane il compito di dettare i principi generali e di indirizzo22 mentre alle Regioni viene demandato la normativa di dettaglio23, anche se questo naturalmente può comportare con sé differenze credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato. Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza. La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite. Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive. La legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni. Nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato”. Articolo che a sua volta trova fondamento nell’articolo 144 Costituzione che recita: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i princìpi fissati dalla Costituzione (…)”. 22 Allo Stato sono riservate le materie di interesse nazionale e comunemente la dottrina ritiene che tra queste vi rientrino la sicurezza nazionale, la concorrenza, l’interconnessione delle reti e la gestione unificata dei problemi dell’ambiente. 23 Apparentemente sembra che la riforma costituzionale non abroghi la precedente disciplina, tuttavia non può non considerarsi che con la riforma costituzionale le Regioni siano ora investite del potere di legiferare nelle materie di loro competenza in via originaria. Sicuramente questo fa nascere problemi di eventuali contrasti con il D.lgs n. 112/98, che può mantenere efficacia solo laddove non sia in contrasto con le norme di rango costituzionale. Brevi cenni di riflessione issn 2035-584x di disciplina tra una Regione e un’altra, generando differenze di trattamento solo territorialmente giustificabili e dunque non sempre del tutto comprensibili24, che mal si conciliano, agli occhi di chi scrive, con un settore così strategicamente rilevante, che necessita di un governo unitario, come già evidenziato anche dalla Corte Costituzionale25. Trattando delle fonti del diritto dell’energia una notevole importanza è costituita dalla legislazione comunitaria. Si ha già avuto modo di notare come il processo di privatizzazione sia stato incentivato proprio dalle direttive comunitarie incentrate sui principi di libera circolazione e concorrenza e sulla creazione di un mercato unico, anche nel campo delle “energie”. Infatti anche se non vi sono né nel Trattato istituivo della CEE né nel Trattato di Maastricht norme espresse a riguardo, non si dimentichi che uno dei motivi che spinse nel 1951 la costituzione di un libero mercato fu proprio l’energia oltre che l’acciaio. Inoltre il settore dell’energia riveste un’importanza notevole per l’economia in generale, investendo trasversalmente tutto il settore della produzione e dei servizi. Ci si rende conto subito pertanto come pur non espressamente menzionato esso dovesse essere considerato sostanzialmente implicito, rivelandosi la sua importanza sia nell’essere fine sia nell’essere mezzo. Un ruolo fondamentale per la legislazione comunitaria viene svolto dalla Commissione con i suoi “Libri Verdi”. Un primo Libro Verde, emesso nel 2000, aveva fornito le linee per l’emanazione poi della Seconda Direttiva Elettricità e della Seconda Direttiva Gas. Un altro Libro Verde, quello dell’8 marzo 2006, elencava alcuni principi fondamentali come la competitività all’interno del mercato, la 24 Il settore era poi stato oggetto anche di un Progetto di Riforma Costituzionale, nel 2005, che prevedeva, tra le altre cose, il ritorno alla competenza esclusiva dello Stato della produzione strategica, del trasporto e la distribuzione nazionali dell’energia (alla legislazione concorrente sarebbero rimasti la produzione, il trasporto e la distribuzione dell’energia di rilevanza non nazionale). Tuttavia il referendum popolare ha respinto il Progetto di Riforma. 25 Si v. tra le altre le sentenze della Corte Costituzionale n. 493 del 1991, n. 307 del 2003, n. 6 del 2004, e n. 7 del 2004. 9 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) diversificazione del mix energetico, la solidarietà e l’innovazione tecnologica. Viene anche elaborato un piano di azione diretto a ridurre del 20% entro il 2020 il consumo energetico per far fronte al riscaldamento globale anche attraverso l’adozione di misure incentivanti l’uso di energie rinnovabili. I regolamenti comunitari trovano applicazione, ex articolo 11 della Costituzione26, nel nostro ordinamento e ogni giudice, in caso di contrasto tra le disposizioni, ha l’obbligo di applicare il diritto comunitario, disapplicando quello interno27. Ma vi è di più: la Corte di Cassazione è giunta a riconoscere carattere preminente anche alle direttive qualora esse abbiano un grado di precisione tale da poter essere applicate28. Questo ci serve per capire come la Direttiva Gas29 e la Direttiva Elettrica30, sostituite poi con la Seconda Direttiva Gas31 e la Seconda Direttiva Elettrica32, siano di fondamentale importanza, e contemporaneamente, da limite per la legislazione interna. Mentre le prime due avevano come contenuto solo norme di contenuto generale per la creazione di un mercato interno comune, rimandando agli Stati membri la determinazione dei modi e dei tempi di applicazione dei suddetti principi, concedendo loro oltretutto molta flessibilità nell’attuazione degli obiettivi, concedendo spesso deroghe se non addirittura alcuni “esoneri”, le Seconde Direttive rivestono una natura normativa senza dubbio molto più di dettaglio. Tra l’emanazione della prima tranches di Direttive e la seconda, vi sono stati comunque numerosi altri interventi, sia a livello di Decisioni, sia a livello di Direttive, tutte in26 Si v. F. Pocar, Diritto dell’Unione Europea, Milano, 2010. 27 Sent. Corte di Giustizia UE del 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal e sentenza Granital della Corte Costituzionale dell’8 giugno 1984 n. 170 con la quale la Corte si è allineata a quanto già sostenuto dalla Corte di Giustizia. 28 Si v. F. Pocar, Diritto dell’Unione Europea, Milano, 2010. 29 98/30/CE del 22 giugno 1998. 30 96/92/CE del 19 dicembre 1996. 31 Direttiva 2003/55/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2003. 32 Direttiva 2003/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2003. Brevi cenni di riflessione issn 2035-584x dirizzate alla promozione delle fonti rinnovabili e dello sviluppo sostenibile. Per prima va ricordata la Decisione n. 646/2000/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 28 febbraio 2000, la quale aveva stanziato un’ingente somma per la promozione delle fonti energetiche rinnovabili, stabilendo requisiti e procedure per attrarre gli investimenti sia pubblici che privati verso le fonti rinnovabili grazie a un sistema notoriamente premiale quale quello degli “incentivi”. A questa è seguita poi la Direttiva 2001/77/ CE per la promozione dell’energia elettrica prodotta dalle fonti rinnovabili, in ottemperanza agli impegni assunti con il Protocollo di Kyoto, che com’è noto, è un trattato internazionale, firmato a Kyoto l’11 dicembre del 1997, in occasione della COP3, da più di 160 Paesi e riguardante il riscaldamento globale, in cui i Paesi aderenti si impegnavano a ridurre le loro emissioni33. Successivamente, anche gli altri interventi comunitari, hanno sempre mirato a promuovere in generale le fonti rinnovabili e i principi dello sviluppo sostenibile, mediante un sistema premiale, mettendo a disposizione ingenti cifre che fossero in grado di costituire incentivi alla scelta delle fonti alternative, anche mediante i cosiddetti sgravi fiscali. Si pensi alla Decisione n. 1230/2003/CE del Parlamento e del Consiglio del 9 aprile 2002 che ha adottato il programma “Energia Intelligente per l’Europa”, che ha stanziato 200 milioni di Euro per il periodo 2002-2003 per favorire le iniziative locali, regionali e nazionali34. C’è 33 Il problema fondamentale che ha riguardato il Protocollo di Kyoto è stato che molti dei Paesi aderenti non lo hanno poi ratificato, venendo così meno agli impegni internazionalmente assunti. 34 A queste sono seguite molte altre direttive, disciplinanti vari settori dalla sicurezza dell’approvvigionamento alla reti di trasporto. Si v. Direttiva 94/22/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 30 maggio 1994 in G.U.C.E. n. L 164 del 30 giugno 1994, pp. 3-8; Direttiva 98/93/CE del Consiglio del 14 dicembre 1998 in G.U.C.E. n. L 358 del 31 dicembre 1998, pp. 100-104; Direttiva 98/75/CE della Commissione del 1 ottobre 1998 in G.U.C.E. n. L 276 del 13 ottobre 1998, pp. 9-10; Direttiva 2003/54/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 giugno 2003 in G.U.C.E. n. L 176 del 15 luglio 2003, pp. 37-56; Direttiva 2003/55/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 10 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) da notare anche che il settore delle energie rinnovabili inizia, con le direttive di “seconda generazione”35 ovvero con la Seconda Direttiva Gas per la precisione, a riguardare anche il capo del biogas e gas da biomasse (ovvero dei gas prodotti da fonti rinnovabili). Nel 2004, dopo undici mesi di lavoro legislativo, è stato anche approvato dal Parlamento Europeo il pacchetto clima-energia, denominato “Pacchetto 20-20-20”, indicante gli obiettivi fissati dall’UE da realizzare entro il 2020, ovvero ridurre del 20% le emissioni di gas a effetto serra, portare al 20% il risparmio energetico e aumentare del 20% il consumo di fonti rinnovabili. Come si vede anche in quest’ultimo vengono in risalto i temi del risparmio energetico e delle fonti rinnovabili36. La direzione verso cui la legislazione comunitaria si è mossa in questi anni è la nascita di un vero e proprio diritto alla prestazione energetica, ovvero gli Stati membri, oltre a poter imporre alle imprese che operano nel settore veri e propri obblighi di servizio pubblico, devono garantire che tutti i clienti civili, nonché le imprese, possano usufruire del servizio universale nel loro rispettivo territorio. Viene dunque affermato una sorta di “diritto alla fornitura dell’energia elettrica” di una determinata qualità e a prezzi accessibili, comparabili e trasparenti37. Per far questo un giugno 2003 in G.U.C.E. n. L 176 del 15 luglio 2003, pp. 5778; Direttiva 2004/67/CE del Consiglio del 26 aprile 2004 in G.U.C.E. n. L 127 del 29 aprile 2004, pp. 92-96; Direttiva 2004/8/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’11 febbraio 2004 in G.U.C.E. n. L 052 del 21 febbraio 2004, pp. 50-60; Direttiva 2004/17/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 31 marzo 2004 in G.U.C.E. n. L 134 del 30 aprile 2004, pp. 1-42; Direttiva 2005/89/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 gennaio 2006 in G.U.C.E. n. L 033 del 4 febbraio 2006, pp. 0022-0026 e la Decisione n. 1364/2006/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 6 settembre 2006. 35 M. Grippo, F. Manca, Manuale breve di diritto dell’energia, Padova, 2008, p. 102. 36 La direttiva, inoltre, detta norme relative a progetti comuni tra Stati membri, alle garanzie di origine, alle procedure amministrative, all’informazione e alla formazione, nonché alle connessioni alla rete elettrica relative all’energia da fonti rinnovabili. 37 Questo è quanto viene previsto dal co. 3 dell’art. 3 della Seconda Direttiva Elettriva che recita: “Gli Stati membri provvedono affinché tutti i clienti civili e, se Brevi cenni di riflessione issn 2035-584x altro dei principi fondamentali che sono stati affermati, oltre alla necessaria diversità dei gestori dei sistemi di distribuzione e di trasmissione e di trasporto e distribuzione, al fine di evitare prassi discriminatorie, è quello della completa apertura del mercato a tutti i clienti, sia per quanto riguarda l’elettricità che per quanto riguarda il gas38. L’energie sono state classificate, dopo lunga querelle, tra le “merci” e non tra i “servizi” nel Trattato CEE dalla Corte di Giustizia Europea39 che ha posto fine alla discussione collocando l’energie nella disciplina gli Stati membri lo ritengono necessario, le piccole imprese (vale a dire aventi meno di 50 dipendenti e un fatturato annuo o un totale di bilancio non superiore a 10 milioni di euro) usufruiscano nel rispettivo territorio del servizio universale, cioè del diritto alla fornitura di energia elettrica di una qualità specifica a prezzi ragionevoli, facilmente e chiaramente comparabili e trasparenti. Per garantire la fornitura del servizio universale, gli Stati membri possono designare un fornitore di ultima istanza. Gli Stati membri impongono alle società di distribuzione l’obbligo di collegare i clienti alla rete alle condizioni e tariffe stabilite secondo la procedura di cui all’articolo 23, paragrafo 2. Le disposizioni della presente direttiva non ostano a che gli Stati membri rafforzino la posizione di mercato dei clienti civili e della piccola e media utenza promuovendo la possibilità di associazione su base volontaria ai fini della rappresentanza di tale categoria di utenti. Le disposizioni di cui al primo comma vengono attuate in maniera trasparente e non discriminatoria e non ostacolano l’apertura del mercato prevista dall’articolo 21 […]”. 38 Articolo 21 Seconda Direttiva Elettrica: “Gli Stati membri prendono le misure necessarie a consentire che: a) tutti i produttori e le imprese fornitrici di energia elettrica stabiliti nel loro territorio riforniscano mediante una linea diretta i propri impianti, le società controllate e i clienti idonei; b) qualsiasi cliente idoneo nel loro territorio sia rifornito mediante una linea diretta da un produttore e da imprese fornitrici […]”. Mentre la Seconda Direttiva Gas riprende lo stesso principio all’articolo 24: “Gli Stati membri prendono le misure necessarie a consentire che: a) le imprese di gas naturale stabilite nel loro territorio riforniscano mediante una linea diretta i clienti idonei; b) qualsiasi cliente idoneo nel loro territorio sia rifornito mediante una linea diretta dalle imprese di gas naturale […]”. 39 In ogni caso l’influenza per così dire della Comunità Europea in questi anni è stata fondamentale, anche grazie all’opera della Corte di Giustizia Europea. In primis non bisogna dimenticare la sentenza che dichiarò illegittimo in Italia il monopolio di Stato dell’energia elettrica. V. sent. Corte di Giustizia Europea del 15 luglio 1964: Costa c. Enel, causa 6/64, in Foro it., 1964, IV, pp. 137 e ss. 11 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) del titolo I del Trattato CE e non nel titolo III capo 2 della parte seconda e questo nonostante invece la fornitura continuativa di energia elettrica sia stata qualificata dalla stessa Corte di Giustizia del 199440 come un servizio, rientrante dunque nell’articolo 60 del Trattato CEE41. Probabilmente la scelta è stata mossa anche da valutazioni di opportunità dal momento che per le merci è prevista la creazione di un mercato unico privo di frontiere mentre il settore dei servizi è sottoposto a un regime di concorrenza meno rigoroso, dove non viene imposta la creazione di un mercato unico ma semplicemente vengono vietate restrizioni a livello nazionale alla libera erogazione dei servizi da parte degli Stati membri. In ogni caso a ben vedere anche se al gas e all’energia elettrica può esser riconosciuta la natura giuridica di “bene mobile”, ciò non toglie che queste due merci siano poi suscettibili di essere oggetto a loro volta di un servizio, un servizio che oltretutto ben rientra nella categoria di servizio d’interesse economico generale ex art. 60 Trattato CE. Inoltre si ricordi che la Costituzione europea ha attribuito all’energia una propria autonoma rilevanza, annoverandola fra le materie di competenza concorrente (art. I-14) e dedicandovi una sezione specifica (la n. 10) nell’ambito della parte III, titolo III, capo III. In tal modo la materia dell’energia sarebbe oggetto di competenza concorrente tra l’Unione e gli Stati membri42. A prima vista sembrerebbe che gli Stati membri e l’Unione si trovino in una posizione sostanzialmente paritaria per quanto riguarda l’elaborazione delle politiche nel campo dell’energia, in realtà è più corretto interpretare la ripartizione nel senso che gli Stati membri possono esercitare la loro competenza nella misura in cui questo non sia già stato fatto dall’Unione Europea43. 40 Sent. Corte di Giustizia del 27 aprile 1994: Comune di Almelo e altri c. Energiebedrijf Ijsselmij NV, causa C-393/92 in Rassegna, 1994, pp. 786 e ss. 41 Art. 60 Trattato CEE. 42 Per quanto riguarda la Costituzione Europea, firmata a Roma il 29 ottobre 2004 si v. tra gli altri F. Bassanini, P. Tiberi, La Costituzione europea, Bologna, 2005. 43 Costituzione Europea, sez. 5, Ambiente, Art. III-233: “La politica dell’Unione in materia ambientale contribuisce a perseguire i seguenti obiettivi: a) salvaguardia‚ Brevi cenni di riflessione issn 2035-584x tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente; b) protezione della salute umana; c) utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali; d) promozione, sul piano internazionale, di misure destinate a risolvere i problemi dell’ambiente a livello regionale o mondiale. La politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela‚ tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell’Unione. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva‚ sul principio della correzione‚ in via prioritaria alla fonte‚ dei danni causati all’ambiente e sul principio “chi inquina paga”. In tale contesto‚ le misure di armonizzazione rispondenti ad esigenze di protezione dell’ambiente comportano‚ nei casi opportuni‚ una clausola di salvaguardia che autorizza gli Stati membri a prendere‚ per motivi ambientali di natura non economica‚ disposizioni provvisorie soggette ad una procedura di controllo dell’Unione. Nel predisporre la politica in materia ambientale l’Unione tiene conto: a) dei dati scientifici e tecnici disponibili; b) delle condizioni dell’ambiente nelle varie regioni dell’Unione; c) dei vantaggi e degli oneri che possono derivare dall’azione o dall’assenza di azione; d) dello sviluppo socioeconomico dell’Unione nel suo insieme e dello sviluppo equilibrato delle singole regioni. Nel quadro delle rispettive competenze‚ l’Unione e gli Stati membri cooperano con i paesi terzi e le organizzazioni internazionali competenti. Le modalità della cooperazione dell’Unione possono formare oggetto di accordi tra questa e i terzi interessati. Il primo comma non pregiudica la competenza degli Stati membri a negoziare nelle sedi internazionali e a concludere accordi internazionali”. Costituzione Europea, sez. 5, Ambiente, Art. III-234: “La legge o legge quadro europea stabilisce le azioni che devono essere intraprese per realizzare gli obiettivi dell’articolo III-233. Essa è adottata previa consultazione del Comitato delle regioni e del Comitato economico e sociale. In deroga al paragrafo 1 e fatto salvo l’articolo III-172‚ il Consiglio adotta all’unanimità leggi o leggi quadro europee che prevedono: a) disposizioni aventi principalmente natura fiscale; b) misure aventi incidenza: i) sull’assetto territoriale; ii) sulla gestione quantitativa delle risorse idriche o aventi rapporto diretto o indiretto con la disponibilità delle stesse; iii) sulla destinazione dei suoli, ad eccezione della gestione dei residui; c) misure aventi una sensibile incidenza sulla scelta di uno Stato membro tra diverse fonti di energia e sulla struttura generale dell’approvvigionamento energetico del medesimo. Il Consiglio su proposta della Commissione, può adottare all’unanimità una decisione europea per rendere applicabile la procedura legislativa ordinaria alle materie di cui al primo comma. In ogni caso il Consiglio delibera previa consultazione del Parlamento europeo, del Comitato delle regioni e del Comitato economico e sociale. La legge europea stabilisce programmi generali d’azione che fissano gli obiettivi prioritari da raggiungere. È adottata previa consultazione del Comitato delle regioni e del Comitato economico e sociale. Le misure necessarie all’attuazio- 12 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) A livello nazionale il tema dell’energia è trattato principalmente da norme speciali o da regolamenti. Sicuramente bisogna mettere in luce che l’articolo 8 del Decreto Bersani aveva previsto che, a decorrere dal 1 gennaio 2003, nessun soggetto potesse produrre più del 50% del totale dell’energia prodotta ed importata in Italia, prevedendo poi, nell’articolo seguente, l’obbligo, per le imprese distributrici, di connettere alle loro reti tutti i soggetti che ne avessero fatto richiesta. L’articolo 11 aveva previsto inoltre l’obbligo per i produttori e gli importatori di energia elettrica da fonti non rinnovabili di immettere nel mercato una percentuale di energia prodotta da fonti rinnovabili. Inoltre, in vista del progetto di apertura del mercato, l’articolo 14, abbassava gradualmente le soglie per determinare la qualifica di “cliente idoneo”, fino alla previsione della stessa, a partire dal 1 luglio 2007, per tutti i clienti. Sulla stessa scia di apertura e liberalizzazione si muove il decreto Letta44, anche se l’attenzione veniva concentrata maggiormente nel settore del gas. La legge Marzano45 prosegue il compito delle precedenti leggi, auspicandosi tuttavia un compito assai arduo come quello del riordino dell’intero settore e all’indomani della riforma del titolo V della Costituzione ha come scopo anche il definitivo riparto delle competenze tra Stato e Regioni46, continuanne di tali programmi sono adottate conformemente alle condizioni previste al paragrafo 1 o 2, a seconda dei casi. Fatte salve talune misure adottate dall’Unione‚ gli Stati membri provvedono al finanziamento e all’esecuzione della politica in materia ambientale. Fatto salvo il principio “chi inquina paga”‚ qualora una misura basata sul paragrafo 1 implichi costi ritenuti sproporzionati per le pubbliche autorità di uno Stato membro‚ tale misura prevede in forma appropriata: a) deroghe temporanee e/o b) un sostegno finanziario del Fondo di coesione. Le misure di protezione adottate in virtù del presente articolo non impediscono ai singoli Stati membri di mantenere e di prendere misure per una protezione ancora maggiore. Tali misure devono essere compatibili con la Costituzione. Esse sono notificate alla Commissione”. 44 L. n. 164 del 23 maggio 2000. 45 L. n. 239 del 23 agosto 2004 rubricata “Riordino del settore energetico, nonché delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia”. 46 Per quanto riguarda la riforma costituzionale del Titolo V si v. S. Bartole, R. Bin, G. Falcon, R. Tosi, Diritto regionale. Dopo le riforme, Bologna, 2003. Brevi cenni di riflessione issn 2035-584x do il processo di liberalizzazione e in generale il riordino dell’intero settore, con particolare riguardo ai rapporti tra il Governo e l’AEEG e il fine di assicurare su tutto il territorio nazionale i livelli essenziali delle prestazioni concernenti l’energia in condizioni di omogeneità sia con riguardo alle modalità di fruizione che con riferimento ai criteri di formazione delle tariffe e dei prezzi. La delega al Governo47 viene data soprattutto nell’ottica di un riordino dell’intero settore che sfoci, finalmente, in una disciplina unitaria con la formazione di un “codice dell’energia”, in ottemperanza ai principi comunitari della tutela dell’ambiente, dell’efficienza energetica e di un piano nazionale di educazione ed informazione sul risparmio e sull’uso efficiente dell’energia. La necessità di una semplificazione della normativa in questo settore è evidente e da realizzarsi possibilmente attraverso la realizzazione di un testo unico della materia che ad oggi è confusa e di difficile interpretazione, soprattutto a causa delle pluralità delle fonti di normazione presenti: in questa prospettiva la recente legge n. 11 del 2005, che prevede il coinvolgimento delle Regioni e degli Enti locali con organi collegiali di natura mista, prevedendo anche meccanismi di snellimento delle procedure decisionali48. In questi giorni, il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto legislativo, ancora in corso di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, di attuazione della Direttiva 2009/28/CE relativa alla promozione dell’uso dell’energia elettrica da fonti rinnovabili (direttiva che andava a sostituire le precedenti direttiva 2001/77/CE e 2003/30/CE). Il decreto legislativo ha suscitato molto clamore, soprattutto nelle associa47 L’ampiezza di tale delega ha dato vita ad un ampio dibattito dottrinale circa la presunta incostituzionalità di una delega a così ampio respiro, che si è spinto fino alla presentazione di una questione pregiudiziale di costituzionalità dell’articolo 121 della norma in quanto lesivo dell’articolo 76 della Costituzione, poi respinta. 48 In ogni caso già l’articolo 120 della Costituzione e la legge n. 131 del 2003 (legge “La Loggia”), prevedevano la possibilità di intervento del Governo in caso di inadempienze o ritardi di Regioni ed Enti locali nel caso in cui questo pregiudichi l’osservanza degli obblighi comunitari e l’unità dell’ordinamento giuridico ed economico dello Stato. 13 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) zioni ambientaliste, a causa del “tetto-limite” stabilito per gli impianti fotovoltaici. Il decreto infatti non prevederebbe più incentivi per gli impianti fotovoltaici oltre gli 8.000 megawatt totali di potenza, oltre a prevedere un taglio rilevante anche per l’eolico. Questo naturalmente rischia di bloccare lo sviluppo dell’energie rinnovabili, ponendosi in aperto contrasto con la previsione del raggiungimento dell’obiettivo del 20 per cento della produzione energetica da fonti rinnovabili entro il 2020. Il decreto del ministro Romani rientra nella politica adottata in questi anni dal Governo, di rivalutazione dell’energia nucleare come fonte di produzione principe dell’energia. Parallelamente infatti ai tagli degli incentivi sulle energie rinnovabili si unisce la volontà da parte del Governo di dotare il territorio di centrali nucleari, questione che verrà sottoposta, per la seconda volta, a referendum popolare49. Non è questa la sede per trattare questioni politiche, tuttavia non si può non riconoscere la rilevanza di un tema di così scottante attualità, soprattutto per il ricordo ancora caldo di quanto appena accaduto in Giappone dove un terremoto di intensità devastante, seguito poi da uno tsunami, ha messo a dura prova la centrale di Fukushima. Anche se il peggio è stato evitato dal lavoro dei tecnici le fuoriuscite dovute alle fessure negli impianti di contenimento in cemento provocate dal terremoto e le conseguenti scorie radioattive rimarranno nel territorio giapponese per molto tempo, essendo necessari migliaia di anni per poter definitivamente arginare questo devastante impatto ambientale. Ma vi è un altro aspetto da sottolineare. La politica comunitaria si ispira, nel tema dell’energia, 49 In Italia il tema del “nucleare” è già stato oggetto di un referendum popolare. L’8 novembre 1987 gli Italiani furono chiamati a esprimere il loro voto su cinque referendum, di cui tre riguardavano l’energia nucleare. I votanti furono il 65,1% della popolazione. Con il primo quesito veniva chiesta l’abolizione dell’intervento statale nel caso in cui un Comune non avesse concesso un sito per l’apertura di una centrale nucleare nel suo territorio (80,6% di sì), il secondo chiedeva l’abrogazione dei contributi statali per gli enti locali per la presenza nel loro territorio di centrali nucleari (79,7 di sì), mentre il terzo chiedeva infine l’abrogazione della possibilità per l’Enel di partecipare all’estero per la costruzione di centrali nucleari (71,9% di sì). Brevi cenni di riflessione issn 2035-584x ai principi di tutela dell’ambiente e della libera circolazione delle merci (in cui vi rientrano le energie). Rimane quindi da capire se la direzione in cui si sta muovendo il Governo rispetti le direttive comunitarie. Non è questa la sede per poter approfondire con l’accuratezza che il problema meriterebbe, tuttavia occorre far qualche breve rilievo e porre in essere qualche riflessione. La creazione di centrali nucleari porta come conseguenza immanente il fatto che vi sia un processo di nuova avocazione della materia dell’energia nelle mani dello Stato, sia dal punto di vista della produzione e della gestione, sia dal punto di vista normativo, rimanendo di difficile attuazione, finanche pratica, una normazione seppur residuale in capo alle Regioni, sulla scia dei rilievi già posti in essere nel progetto di riforma costituzionale denominato “devolution”. Questo però mette in luce un duplice ordine di problemi. Innanzitutto si pone in contrasto con l’attuale art. 117 della Costituzione per quanto riguarda il problema del riparto delle competenze, ma ancor più si pone il problema del principio di sussidiarietà, recepito nel nostro ordinamento all’articolo 118 della Costituzione50, che recita “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Infatti lo Stato si troverebbe nuovamente a gestire, praticamente in via esclusiva, la produzione di energia, unendosi 50 Articolo 118 Costituzione: “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze. La legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell’articolo 117, e disciplina inoltre forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali. Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. 14 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) a ciò il fatto che la produzione della stessa da parte dei privati viene disincentivata dai tagli agli incentivi fiscali, in aperto contrasto con il summenzionato principio di sussidiarietà. Sembrano pertanto ritornare quanto mai attuali le vecchie tematiche del monopolio di Enel, conclusosi poi con la sentenza della Corte di Giustizia Europea Costa c. Enel, che aveva sancito la contrarietà del monopolio ai principi comunitari, ed in particolare alla libera circolazione delle merci. Inoltre la Comunità europea ha espresso a chiare lettere il principio “chi inquina paga” e in tal senso si sono sviluppati i meccanismi di compensazione, come le norme che prevedono il pagamento di crediti compensativi per il mancato uso alternativo del territorio e per l’impatto ambientale provocato dalle immissioni di agenti inquinanti da parte dei proprietari di impianti51 e come la nascita dei mercati volontari che rispondono sempre a questa ratio di compensazione. E ciò perché la tutela della salute e dell’ambiente sono entrambi diritti universalmente riconosciuti e strettamente interconnessi tra di loro 51 La Legge Marzano prevede infatti che i proprietari di nuovi impianti di produzione di energia elettrica di potenza termica non inferiore a 300 MW corrispondano alla Regione, dove si trovano, a titolo di contributo compensativo per il mancato uso alternativo del territorio e per l’impatto dei cantieri un importo di 0,20 Euro per ogni MWh di energia elettrica prodotta per i primi sette anni di esercizio degli impianti. E questo vale anche per il caso di potenziamento di impianti già esistenti. Il contributo può essere sostituito da “accordi volontari”, sicuramente riconosciuti dalla dottrina se in pejus. Senza contare che nel caso gli impianti di produzione energetica abbiano impatti su zone costituite da “parchi nazionali” il contributo dovrà essere calcolato in base a criteri determinati con apposito decreto del Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio. Alla stessa ratio degli accordi volontari risponde anche la creazione dei cosiddetti “mercati volontari” che si occupano, in generale, della transazione di quote relativamente alla riduzione dell’impatto ambientale. Per esempio le Regioni Veneto e Friuli Venezia Giulia hanno avviato un progetto in collaborazione con le Università degli Studi di Padova e di Udine per la creazione di un mercato volontario di crediti di carbonio (“CarboMark”) che ha come scopo proprio la riduzione delle emissioni di gas serra, obiettivo raggiungibile mediante l’acquisto di una quota non preponderante di crediti da compensazione derivanti da attività agroforestali (www.carbomark.org). Brevi cenni di riflessione issn 2035-584x e che rivestono nell’epoca attuale, di totalizzante industrializzazione, una rilevanza sconosciuta ad altre epoche. In tal senso si è mossa ad esempio la Germania che, nonostante i limiti climatici, prevede di riuscire a coprire con le fonti rinnovabili l’80% del fabbisogno di energia. Come messo in luce da recenti studi, infatti, non ci sarebbero barriere tecniche insormontabili per far funzionare il pianeta solo con le fonti “green”, finanche in tempi molto brevi (le previsioni si aggirano intorno al 2030), gli ostacoli alla realizzazione di una innovazione così importante sarebbero solo di tipo sociale e politico52. Federica Foschini si è laureata in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Padova. Attualmente sta svolgendo il Dottorato di Ricerca in Filosofia del Diritto presso la stessa Università 52 Questa è la conclusione di uno studio pubblicato su “Energy Policy” dai ricercatori Mark Delucchi e Mark Jacboson. In particolare, in questi studi, si legge che il 90% dell’energia dovrebbe arrivare dall’eolico e dal solare, il 4% dalle fonti geotermali, il 2% dallo sfruttamento di onde e maree e un altro 4% dall’idroelettrico. M. A. Delucchi, M. Z. Jacbson, Providing all global energy with wind, water , and solar power, Part I: Technologies, energy resources, quantities and areas of infrastructure, and materials, Energy Policy. 15 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x La comunicazione fra Diritti umani e cooperazione sanitaria. Il caso del Tracoma Elisabetta Scala Abstract Il contributo analizza le relazioni tra la cooperazione allo sviluppo in ambito sanitario ed i suoi destinatari nel Sud del mondo. Il crescente condizionamento dell’opinione pubblica legata alle priorità d’investigazione farmaceutica, le gerarchie d’intervento sanitario nei Paesi in via di sviluppo gestite in maniera monopolistica dalle multinazionali, la vulnerabilità delle popolazioni a rischio di contagio globale, le ripercussioni sulla salute delle crisi economiche e l’aumento dell’esclusione sociale con i suoi caratteri rispetto alle questioni di genere sono tra i principali temi sui quali si concentrerà l’attenzione. Al di là delle precise responsabilità che possiamo rintracciare, emerge la necessità di un’attiva mobilitazione sociale informata (interferente) e consapevole del fatto che tutte le problematiche legate alla povertà sono questioni di giustizia, la quale sfoci anche in una corretta comunicazione sanitaria sull’attuale stato delle popolazioni affette da tracoma. Sommario: 1. premessa; 2. il tracoma: malattia della miseria lungo la storia; 2.2 il legame fra il tracoma e le pratiche sanitarie: il caso dell’immigrazione; 3. alcuni cenni sullo sviluppo storico della cooperazione sanitaria internazionale; 4. le politiche della banca mondiale e l’eclisse dell’organizzazione mondiale della sanità; 5. la campagna per i farmaci essenziali; 6. prospettive. «Dentro quei buchi neri, dalle pareti di terra, vedevo i letti, le misere suppellettili, i cenci stesi. Sul pavimento erano sdraiati i cani, le pecore, le capre, i maiali. Ogni famiglia ha, in genere, una sola di quelle grotte per tutta abitazione e ci dormono tutti insieme, uomini, donne, bambini e bestie. Così vivono ventimila persone. Di bambini ce n’era un’infinità. In quel caldo, in mezzo alle mosche, nella polvere, spuntavano da tutte le parti, nudi del tutto o coperti di stracci. Io non ho mai visto una tale immagine di miseria; eppure sono abituata, è il mio mestiere, a vedere ogni giorno decine di bambini poveri, malati e maltenuti. Ma uno spettacolo come quello di ieri non lo avevo mai neppure immaginato. Ho visto dei bambini seduti sull’uscio delle case, nella sporcizia, al sole che scottava, con gli occhi semichiusi e le palpebre rosse e gonfie; le mosche si posavano sugli occhi e quelli pareva che non le sentissero. Era il tracoma. Sapevo che ce n’era quaggiù, ma vederlo così, nel sudiciume e nella miseria, è un’altra cosa. Altri bambini incontravo coi visini grinzosi come dei vecchi, e scheletriti dalla fame; i capelli pieni di pidocchi e di croste. La maggior parte aveva grandi pance Fonte: World Health Organization, Programme for the Prevention of blindness, Archiving community support for trachoma control, London, 1996. Il caso del Tracoma parole chiave Tracoma; Diritto alla salute; Cooperazione sanitaria internazionale; Farmaci essenziali; Paesi in via di sviluppo; Organizzazione mondiale per la sanità (OMS); World Health Organization (WHO); Banca Mondiale (BM); Divario Nord-Sud; Emigrazione. 16 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) gonfie, enormi, e la faccia gialla e patita per la malattia. Le donne che mi vedevano arrivare per le porte, m’invitavano ad entrare e ho visto in quelle grotte scure e puzzolenti, dei bambini sdraiati in terra, sotto le coperte a brandelli che battevano i denti dalla febbre. Altri si trascinavano a stento ridotti pelle e ossa…» Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Firenze, 1945. Premessa I l miglioramento delle condizioni di salute nei Paesi in via di sviluppo è senza dubbio l’obiettivo più importante della cooperazione internazionale; data la sua rilevanza, richiede un momento di riflessione sulle zone d’ombra che spesso, sfuggendo all‘apprezzamento dell‘opinione pubblica, siamo portati ad ignorare. È un fatto importante che dopo più di 40 anni di cooperazione internazionale, successivi a secoli di colonialismo, la condizione di salute dei Paesi in via di sviluppo non sia affatto migliorata. Nonostante la dichiarazione di Alma Ata del 19781, il progetto delle Nazioni Unite “Salute per tutti entro l’anno 2000” è slittato al 2015, trasformandosi poi in “Millennium Development Goals”2, con obiettivi ridimensionati avuto riguardo al progetto originario e comunque già in ritardo rispetto alla tabella di marcia prefissata. Perché questa incapacità di agire sulla salute? In questi 40 anni sono cambiati i rapporti fra i due blocchi, arbitri del destino di intere popolazioni, ma un rapporto purtroppo è rimasto immutato, anzi ha assunto proporzioni più gravi: il rapporto tra Nord e Sud del mondo3. 1 World Health Organization (WHO) e Children’s Emergency Fund (UNICEF), Alma-Ata 1978 Primary Health Care, “Health for all” Series, No. 1,Geneva, 1978. 2 Per un approfondimento ed una visione integrale del documento citato si veda E. Missoni, G. Pacileo, Le politiche delle organizzazioni internazionali e gli obiettivi di sviluppo del Millennio, Pisa, 2006. 3 A cinque secoli dal viaggio di Colombo, conviene ricordare che il 1492 segna l’inizio di una lotta accanita tra le potenze coloniali per la spartizione ed il controllo delle risorse materiali del pianeta, per lo sfruttamento di un potenziale di manodopera abbondante Il caso del Tracoma issn 2035-584x Il primo vive quasi soffocato dai beni di consumo, il secondo non è in grado di offrire le calorie indispensabili per assicurare la sopravvivenza all’organismo umano. Se da un lato assistiamo ad un avanzamento straordinario in molti campi della ricerca medica, compresa la disponibilità di farmaci, strumenti per le diagnosi ed altre tecnologie che servono a garantire la salute, dall’altro lato questo progresso non si applica a tutti, se è vero che ogni anno 14 milioni4 di uomini e donne muoiono per malattie infettive e parassitarie, le quali colpiscono prevalentemente coloro che vivono nei Paesi poveri. Malattie che sono per lo più prevenibili e curabili. Un esempio che consideri la propagazione di una specifica patologia può illustrare le questioni in gioco. Sulla base di questa considerazione si è scelto di focalizzare l’analisi su un’antica malattia degli occhi: il tracoma. Debellato nei paesi industrializzati durante gli anni Sessanta, resta ancora oggi la prima causa di cecità nei Paesi in via di sviluppo. Dunque una scelta giustificata in quanto questa a basso costo, oltreché l’origine dell’incrinatura tra Nord e Sud. A voler essere precisi, bisognerebbe anche distinguere tra Nord e il Nord che si colloca all’interno del Sud, cioè quello delle élite privilegiate del Sud con stili di consumo uguali a quelli del Nord. Inoltre c’é un Sud all’interno del Nord: il nostro Quarto Mondo (concetto che riprendo da Jean Chesneaux nelle sue riflessioni contenute in Che cos’è la storia. Cancelliamo il passato?, Milano, 1977). Il miracolo economico e tecnico occidentale ha dato luogo su scala mondiale ad un preoccupante fenomeno di dualismo e ha determinato un quadro generale caratterizzato da un’ineguaglianza economica senza precedenti tra le diverse nazioni del pianeta. Oggi, un decimo dell’umanità detiene circa il quaranta per cento delle risorse energetiche mondiali. In pratica (come ci spiega puntualmente Vaclav Smil nel suo libro Storia dell’energia, Bologna, 2000 ), questo significa che il consumo settimanale di benzina di una tipica famiglia americana con due macchine equivale al consumo energetico annuo di un agiato contadino indiano! 4 D. Balabanova, Health sector reform and equity in transition, in “Health System Knowledge Network, WHO Commission on social determinants of health”, 2007. Richiamiamo qui l’attenzione sulla bibliografia a seguire che, di necessità, in mancanza di recenti pubblicazioni sui temi trattati dall’articolo in lingua italiana, sarà prevalentemente in lingua inglese ed in castigliano. 17 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) malattia rappresenta uno degli esempi più significativi del divario esistente tra medicina e realtà del mondo. 1. il tracoma: “malattia della miseria” lungo la storia Fonte: World Health Organization, Programme for the Prevention of blindness, Archiving community support for trachoma control, London, 1996. Prima causa di cecità nel mondo, il tracoma è un’antica patologia che tende a scomparire spontaneamente con il miglioramento delle condizioni igieniche e lo sviluppo socio-economico. Ricercando l’etimologia sul dizionario5 troveremo questa definizione: «la parola deriva dal latino trachoma, e dal greco tráchoma, derivazione di trachy/s ‘aspro, ruvido’, per la scabrosità delle palpebre». Possiamo trovare ulteriori informazioni in un glossario medico6: «la Chlamydia è il microbo responsabile del tracoma, provoca arrossamento e gonfiore delle palpebre, finché, con ripetute reinfezioni, le ciglia si ripiegano verso l’interno dell’occhio così da trasformare ogni battito delle palpebre in un graffio, che crea microlesioni profonde alla cornea. Tale processo è molto doloroso e gradualmente conduce a una cecità totale e irreversibile». Secondo le rilevazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sono 146 milioni7 le persone colpite da questa malattia a causa della scarsità d’acqua potabile, delle condizioni sanitarie precarie, dell’abbondanza di mosche ed ancora una volta come conseguenza dell’isola5 The American encyclopaedia and dictionary of ophthalmology, Vol XVII, Chicago, 1921, consultabile al link http://www. archive.org/stream/americanencyclop06wood/americanencyclop06wood_djvu.txt; sito consultato il 13/05/2011. 6 The Medline Plus Encyclopedia, www.nlm.nih.gov/medlineplus/ency/article/001486.htm; sito consultato in data 13/05/2011. 7 “Bulletin of the World Health Organization”, 2008. Il caso del Tracoma issn 2035-584x mento e della povertà. Questi fattori, che contribuiscono a rendere inarrestabile la trasmissione dell’infezione, sono i principali limiti nella lotta contro il tracoma che colpisce soprattutto le popolazioni delle zone aride del pianeta. Il costo per prevenire questa agonia? 27 centesimi8. Un attacco può, infatti, essere trattato velocemente ed efficacemente quando si trova nella sua fase iniziale, con un piccolo tubo di pomata antibiotica appartenete alla classe delle tetracicline. Per i paesi industrializzati è una cifra insignificante, specialmente se la rapportiamo alla salute della vista, eppure, per i Paesi in via di sviluppo è così alta da causare, in alcune regioni, la cecità nell’80% dei bambini9. Fonte: Trachoma Expert Committee Fact Sheet, International Trachoma Initiative, 2008 L’epidemia è particolarmente grave nei Paesi dove il livello di povertà è estremo, così lo troviamo iperendemico nell’Africa Sahariana e Sub-Sahariana, in Medio Oriente, in India, nel Sudest asiatico, in parte della Cina e in Australia dove si registra un elevato tasso d’infezioni da tracoma tra gli aborigeni10. Più in generale, va rilevato come il 90%11 delle persone non vedenti vive nei Paesi in 8 The Role of Optometry in Vision2020, in “Community Eye Health”, XV (2008), n. 43. 9 N. Zerihun, D. Mabey, Blindness and low vision in Jimma Zone, Ethiopia: results of a population-based survey, in “Ophthalmic Epidemiology”, 2007. 10 S.K .West, Trachoma: new assault on an ancient disease, in “Progress in Retinal and Eye Research”, 2004. 11 S.P. Mariotti, R. Pararajasegaram, S. Resnikoff, Trachoma: looking forward to Global Elimination of Trachoma by 2020, in “The American Journal of Tropical Medicine and Hygiene”, 2003. 18 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) via di sviluppo, specialmente in zone rurali e nelle periferie degradate delle città dove, date le precarie condizioni ambientali, sanitarie e socio-economiche (malnutrizione, malattie, mancanza di medicine e di cure adeguate), un individuo ha dieci probabilità in più di perdere la vista rispetto ad una persona che vive nei paesi industrializzati12. Il dato rilevante è che nell’80%13dei casi la cecità può essere evitata attuando programmi di prevenzione e di cura, i cui costi, come abbiamo visto, sono bassissimi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, che dal 2001 promuove una vasta campagna mondiale per la lotta al tracoma col nome Vision2020, stima che nel 2020, se non saranno moltiplicati gli sforzi nel campo della cura e della prevenzione della cecità, gli attuali 37 milioni di non vedenti del pianeta, dei quali 1.500.000 sono bambini, aumenteranno di numero fino a diventare circa 75 milioni14. In considerazione dei dati citati, appare chiaro che la realizzazione di programmi per la cura e la prevenzione del tracoma è un’assoluta priorità per il futuro delle popolazioni colpite, mentre si calcola che tale operazione richiederebbe un impegno economico di 200 milioni di dollari l’anno15. Potrebbero apparire solamente cifre; le cose cambiano se si pensa che con sole tre dosi di vitamina A, le carenze vitaminiche rendono vulnerabili al battere del tracoma, pari a una spesa di € 1 a persona all’anno, si può salvare la vista a un bambino e che con soli € 30 si può eseguire un’operazione di cataratta16. La cecità conseguente alla diffusione del tracoma, pur non essendo mortale, comporta enormi costi sociali ed è legata a un processo di emarginazione dei disabili con il conseguen12 Ayerba Maria, La Visión como Herramienta para el Desarrollo, Granada, 2008. 13 S. Resnikoff, D. Pascolini, D. Etya’ale, I. Kocur, R. Pararajasegaram, G.P. Pokharel, Global data on visual impairment, in “Bulletin World Health Organization”, 2008. 14 Ibidem 15 J.W. Mecaskey, C. A. Knirsch, J. A. Kumaresan, J. A. Cook, The possibility of eliminating blinding trachoma, in “Lancet Infectious Diseases”, 2003. 16 Ibidem Il caso del Tracoma issn 2035-584x te risultato di una minore aspettativa di vita. L’impossibilità d’accesso all’istruzione, la riduzione della produttività per le persone che non possono più condurre autonomamente la propria vita o lavorare, le spese di riabilitazione causate dalla malattia, costituiscono ostacoli sociali ed economici che incidono in maniera importante sul bilancio di ciascuna famiglia, sulle comunità locali, sui servizi sociali e sanitari nel loro complesso. Ma mentre imperversa l’emergenza di un decisivo contrasto a questa malattia, tv giornali e media non se ne occupano perché non è tema che possa andare in prima pagina, non vi è interesse per una corretta informazione, poche persone in Europa e negli Stati Uniti ricordano la tetraciclina e quasi nessuno sa che il tracoma continua a essere un flagello per la gran parte della popolazione mondiale. La sfida autentica e più impegnativa consiste, nel lungo periodo, nell’individuare un percorso di sviluppo socio-economico stabile per i Paesi poveri. Nell’impossibilità di arrivare velocemente a queste condizioni ideali in tutti i contesti interessati, sono stati finora adottati due diversi approcci: vaccino e antibiotico. Dopo la scoperta della cura antibiotica mediante la somministrazione della tetraciclina, avvenuta negli Stati Uniti nel 1941, diversi centri di ricerca farmaceutica continuarono gli studi per la realizzazione di un vaccino. In una prima fase, il proseguo delle ricerche venne stimolato da alcune rilevazioni sui limiti della cura antibiotica che evidenziarono la parziale o temporanea efficacia di quest’approccio, quando non addirittura gravi complicazioni nella profilassi e il rischio di reinfezioni conseguenti al rafforzamento del battere. Purtroppo però, contrastata l’epidemia nel mondo industrializzato, queste considerazioni vennero presto oscurate con la totale cessazione delle investigazioni farmaceutiche17. Il principale approccio odierno è quindi fondato sulla cura antibiotica risalente al 1941 ma, diversamente da quanto avvenne nelle società occidentali, la sistematica somministrazione della tetraciclina non è sempre accettata 17 C. R. Dawson and J. Schachter, Trachoma-antibiotics or vaccine?, in “Investigative Ophthalmology”, 2000. 19 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) nelle comunità rurali oggetto dei programmi. Inoltre, la partecipazione dell’intera popolazione ai trattamenti è pressoché impossibile, data l’assenza di infrastrutture adeguate e la mancanza di personale medico che guidi le popolazioni nella rigorosa profilassi antibiotica. Attualmente, lo standard terapico per la cura raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità consta nella somministrazione della tetraciclina in pomata due volte al giorno per cinque giorni, una volta al mese, per sei mesi. Nonostante 40 anni di esperienza c’è però tutt’ora un dubbio di fondo sulla scelta della cura antibiotica come miglior soluzione al problema18. Le ricerche sul tracoma dovrebbero essere strettamente collegate alla transizione dal trattamento nell’ambito dei programmi della cooperazione alla cura della vista basata sul sistema sanitario pubblico nazionale e, altrettanto importante, sarebbe la ripresa delle ricerche farmaceutiche per l’individuazione di un vaccino. Senza rinunciare all’influenza delle considerazioni di carattere medico-scientifico, occorre ricordare che le misure attualmente adottate trascurano la pluralità di fattori che contribuiscono al diffondersi dell’epidemia. Vi sono, infatti, infinite peculiarità nelle tradizioni popolari nazionali e regionali che guidano e modellano le abitudini delle popolazioni colpite e che rappresentano vincoli molto stretti nella lotta contro la trasmissione dell’infezione. Dunque, l’unica condotta ragionevole appare quella che vede, accanto agli interventi in campo medico, anche un approfondito studio dei fattori culturali e sociali che, come avviene per la povertà, la disuguaglianza nella distribuzione delle risorse o le migrazioni, condizionano la propagazione delle malattie. In questa prospettiva, risulta fondamentale l’avvio di studi per migliorare la comunicazione verso le popolazioni destinatarie degli interventi sulle modalità di trasmissione del battere, capace di incidere efficacemente sulle diverse pratiche del quotidiano che contribuiscono ad accrescere il rischio di contagio. Da uno studio effettuato nel Nepal possiamo informarci sui modi di trasmissione del 18 Ibidem Il caso del Tracoma issn 2035-584x tracoma in un villaggio: le popolazioni affette si trasmettono l’infezione scambiandosi vestiti, asciugamani e vivendo in comunità allargate, in questo modo il tracoma trova un terreno fertile e si diffonde tra i membri di una famiglia o tra componenti di famiglie che vivono vicine. Così, nello stesso villaggio, sono generalmente presenti più focolai del battere. La presenza di animali che condividono la stessa abitazione sembra poi aggravare il livello dell’infezione, lo stesso avviene anche in relazione al numero di persone che dividono la stessa abitazione per dormire19. D’altro canto, nell’ambito di un progetto per la costruzione di latrine nei villaggi rurali in Etiopia, Paese maggiormente colpito da questa malattia, uno studio del 2005 descrive così le ragioni che spiegano la maggior incidenza della malattia nelle donne: «women have especially benefits from having latrins in their communities. Because woman in endemic communities were traditionally forced to wait until dark to defecate for privacy, latrines have allowed them gain a measure of equality to men in addition to have health advantage»20. In India sono stati pubblicati dati dai quali emerge la necessità di sensibilizzare l’opinione pubblica e gli operatori sanitari internazionali: «trachoma has been largely forgotten as a public health issue. Community with trachoma are often those with the fewest resources it take on health issue, and trachoma strikes the most vulnerable members of those communities: women and children»21. Sulla stessa linea lo studio pubblicato dall’istituzione International Trachoma Initiative 19 E. Harding, A. Aguirre, Two doses of azithromicin to eliminate trachoma, in “The New England Journal of Medicine”, 2008. 20 P.M. Emerson, Role of flies and provision of latrines in trachoma control: cluster-ran-demised controlled trial, in “The Lancet”, 2005. Sul cruciale ruolo delle donne nella prevenzione si veda inoltre l’articolo di RC. Brunhamt, The prevalence of Chlamydia Trachomatis infection among mothers of children with trachoma, in “American Journal of Epidemiology”, 1990 ed il rapporto pubblicato nel 2000 dall’organizzazione Global Alliance for Women’s Health, Trachoma is a women’s health issue. 21 K. Park, Textbook of Preventive and Social Medicine, Jabalpur, 2003. 20 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) che, fondata nel 1998 per rispondere all’emergenza del tracoma, denuncia, a chiare lettere, la mancata considerazione del tracoma negli interventi della cooperazione sanitaria internazionale: «although the disease is widespread, trachoma mostly affects poor and isolated communities, meaning it receives little international attention as a public health issue. As a result, few people have heard of trachoma, even though trachoma is the leading cause of preventable blindness, with 63 million people currently suffering from active infection. In fact, it is one of the oldest infectious diseases known to mankind; references to trachoma appear on papyrus scrolls dating back to ancient Egypt»22. A questa mancanza di considerazione internazionale corrisponde anche un esiguo numero di recenti studi delle scienze sociali sull’attuale diffusione del tracoma, salvo rarissimi casi. Tra questi, si segnala Menendez Alvaro, docente di Storia della Medicina dell’Università di Granada che scrive: «porque lo dramático es que esta enfermedad infecciosa se puede evitar y tratar; de hecho, hasta hace sólo 50 años se podían ver casos de tracoma en zonas de España, Portugal o Italia. Al final es sólo cuestión de medios»23. Prioprio la Spagna ha di recente presentato una ricerca epidemiologica sul tracoma: “Medioambiente y salud en la enfermedad de la miseria: epidemiologia del tracoma en la España contemporanea, 1900-1965”. 2.2 il legame fra il tracoma e le pratiche sanitarie: il caso dell’immigrazione Dal punto di vista storico, si ipotizza che la malattia abbia avuto il suo nucleo originario nell’antico Egitto e gli studi sembrerebbero confermarne la diffusione in Europa durante le guerre napoleoniche, agli inizi del 1800, quando l’Egitto divenne un campo di battaglia delle truppe inglesi, francesi e turche24. 22 International Trachoma Initiative, Report on the 2nd Global Scientific Meeting on Trachoma, Geneva, 2003. 23 A. Menendez, Consideraciones sobre la Higiene pública, Granada, 2000. 24 Per un approfondimento di carattere storico: C. Trompoukis, D. Kourkoutas, Trachoma in late antiquity and early Byzantine periods, Crete, 2007. Il caso del Tracoma issn 2035-584x La testimonianza della sua diffusione nel Ventesimo secolo in Europa e negli Stati Uniti, sono i centri antitracoma che nacquero velocemente per rispondere all’emergenza mentre, le autorità sanitarie, allarmate, iniziarono a cercare forme di controllo che permettessero di isolare le persone infette. Ci sembra utile fare riferimento ad un’esperienza relativa a queste pratiche di controllo sanitario forzato negli Stati Uniti, precisamente a Ellis Island. Un isolotto di fronte a Manhattan che fu la prima tappa per oltre quindici milioni di immigrati dalla metà del Diciannovesimo secolo fino agli anni Settanta del Ventesimo secolo. Quando le cosiddette navi della speranza approdavano nel porto di New York, i passeggeri di prima e di seconda classe ricevevano la visita degli ufficiali dell’immigrazione nelle loro cabine, dove venivano interrogati e visitati a loro comodo. Diversa era invece la sorte dei passeggeri di terza classe, che venivano trasbordati, a volte dopo giorni di attesa, su dei traghetti che li trasferivano a Ellis Island. L’ispezione per la terza classe era infinitamente più meticolosa e umiliante di quelle effettuate a bordo dei piroscafi. Appena arrivati, gli immigrati di terza classe si vedevano appuntate alle vesti delle targhette con un numero di identificazione che, come ricordano le numerose testimonianze dei reduci dell’isola, inducevano molti di loro a sentirsi come “merce al mercato” o come “bestiame destinato alla vendita”. Essi venivano poi indirizzati al grande deposito dei bagagli e, quindi, al secondo piano, nella sala di registrazione, dove dovevano affrontare dottori e ispettori. I medici li esaminavano, cercando sintomi di malattie comuni e non, alcune delle quali impedivano l’ingresso legale negli Stati Uniti: «a series of lows extended excludability to persons with epilepsy, tubercolosis, trachoma, bouth of insanity, varous categories of mental retardation, and to anarchists and prostitutes»25. 25 A. Emanuelle, Six Second Per Eyelid: The Medical Inspection of Immigrants at Ellis Island, in “Dynamics”, 1997. Ulteriori dati sui controlli sanitari possono essere rintracciati nello studio di K. Howard, Based on the Work at Ellis Island, in “Journal of the American Association”, 1914 e E. Yew, Medical Inspection of Immigrants at Ellis Island, 1891-1924, in “Bulletin of New York Academy of Medicine”, 1980. 21 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) Riportiamo una descrizione di Teodorico Rosati, ispettore sanitario sulle navi degli emigranti: «Accovacciati sulla coperta, presso le scale, con i piatti tra le gambe, e il pezzo di pane tra i piedi, i nostri emigranti mangiavano il loro pasto come i poveretti alle porte dei conventi. È un avvilimento dal lato morale e un pericolo da quello igienico, perché ognuno può immaginarsi che cosa sia una coperta di piroscafo sballottato dal mare sul quale si rovesciano tutte le immondizie volontarie ed involontarie di quella popolazione viaggiante. L’insudiciamento dei dormitori è tale che bisogna ogni mattina fare uscire sul ponte scoperto gli emigrati per nettare i pavimenti. Secondo il regolamento i dormitori sono spazzati con segatura, occorrendo si mescolano disinfettanti, sono lavati diligentemente ed asciugati. Ma tutte le deiezioni e le immondizie che si accumulano sui pavimenti corrompono l’aria con forti emanazioni e la pulizia sarà difficile. La traversata durava 25/30 giorni, talvolta qualche giorno meno, dipendeva dalle “carrette del mare”. I nostri emigranti arrivavano a New York e, fino al 1892, il centro deputato alla loro accoglienza era Castle Garden che però, ad un certo momento, si rivelò insufficiente ad accogliere questa enorme massa di gente. Ad Ellis Island i nostri emigranti dovevano subire tutta una serie di controlli sanitari da parte di ispettori che incutevano timore con le loro divise e con il loro portamento. Il primo controllo, che questi ispettori sanitari facevano, era guardare loro gli occhi per vedere se avessero il tracoma; seguiva tutta una serie di altre ispezioni di carattere sanitario. Se ci fosse stato qualche caso dubbio, veniva inviato ad una commissione speciale che avrebbe eseguito un esame più attento. Naturalmente, se si fosse sospettato che il nostro emigrante potesse essere portatore di qualche malattia contagiosa, oppure fosse stato, anche più semplicemente, troppo in là negli anni, oppure non avesse avuto i soldi, veniva talvolta mandato indietro, rispedito a casa»26. 3. alcuni cenni sullo sviluppo della cooperazione sanitaria internazionale In quegli stessi anni, quando l’emigrazione europea ed asiatica si riversava negli Stati Uniti, la fondazione, avvenuta nel primo quarto del Ventesimo secolo, delle prime 26 Testimonianza scaricabile al sito http://www.ecoistitutoticino.org/emigrazione/cavenago2-5.htm; sito consultato in data 13/05/2011. Il caso del Tracoma issn 2035-584x agenzie sanitarie internazionali con personale permanente diede avvio ai primi programmi su scala mondiale. Tra le agenzie più importanti: l’Ufficio Internazionale dell’Igiene Pubblica di Parigi, la Divisione per la Salute Internazionale della Fondazione Rockfeller, l’Ufficio Internazionale del Lavoro, la Lega Internazionale delle Società della Croce Rossa e l’Organizzazione Sanitaria della Lega delle Nazioni che sorse immediatamente dopo la Prima guerra mondiale. Buona parte dei Paesi occidentali sostenne allora che i problemi dei paesi poveri non erano imputabili allo sfruttamento economico, o alle regole del commercio internazionale, o alla dipendenza politico-militare, ma che erano il prodotto dell’alto tasso di natalità. Concezione ideologica che provocò, come diretta conseguenza, una scarsa attuazione sul piano culturale e politico-economico. Inoltre, questa forma di concettualizzare il problema, convertì rapidamente le donne nella causa principale della povertà27. Nel cosiddetto Terzo Mondo le decisioni riguardanti la natura e l’estensione dei servizi sanitari, rimasero a lungo una prerogativa delle istituzioni coloniali europee e l’impatto del sistema sanitario internazionale in Africa e in Asia si impose e si rafforzò su queste basi anche dopo la Seconda guerra mondiale. La fondazione delle Nazioni Unite, che successe alla Lega delle Nazioni, dette avvio alla nascita di nuove organizzazioni come la World Health Organization e Children’s Emergency Fund che emersero come i più potenti centri di produzione e distribuzione d’esperti in medicina e nutrizione28. Va in ogni caso rilevato come gli unici servizi sanitari attivati nelle zone rurali erano a cura di missionari, mentre per la maggioranza della popolazione il contatto con la medicina occidentale era limitato a occasionali campagne mediche. Un’altra caratteristica dei servizi sanitari era la tendenza tecnica degli interventi. La salute era definita come assenza di malattia e i metodi d’intervento si esaurivano nell’attac27 W. Anderson, Postcolonial History of Medicine. Locating Medical History, Baltimore, 2004. 28 A.L.S. Staples, Constructing international authority in the World Health Organization, Columbus, 1988. 22 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) care le malattie occasionalmente. La fede nella medicina occidentale distolse inoltre le autorità mediche coloniali dall’investigare oltre sui colonizzati29. Quanto poi alla fiducia nella medicina occidentale, il legame tra parassitologia e medicina tropicale fece credere che le malattie potessero essere curate senza il coinvolgimento delle persone ammalate. Questa visione tecnica fu scelta come la migliore soluzione dai medici inglesi negli anni Venti così come dall’ Organizzazione Mondiale della Sanità negli anni Sessanta: per il successo erano richiesti solamente agenti chimici ed esperti che potessero amministrarli alla popolazione. La popolazione a rischio può essere ignorata30. La letteratura dominante nel modello occidentale di salute e sviluppo legava al controllo delle malattie la capacità di generare miglioramenti economici. Doppia decontestualizzazione dunque; in primo luogo la salute è un’entità autonoma, che può essere intesa al margine dei processi sociali e ambientali, controllata mediante l’eliminazione dei parassiti. In secondo luogo elimina la necessità di interventi in campo politico per migliorare le condizioni di vita. Le cure mediche destinate alla popolazione erano finalizzate al mantenimento della forza lavoro evitando di intaccare la salute degli stanziamenti europei. Questo fatto ebbe due importanti sviluppi. Il successo o il fallimento degli interventi sanitari era misurato dal livello di produzione, invece di misurarsi sul livello di salute dei nativi. Inoltre, per quanto riguarda l’estensione delle strutture sanitarie, venivano collocate vicino alle aree di stanziamento degli europei, e pertanto, concentrati nelle aree urbane. In questo contesto, «il governo coloniale non ha sviluppato nessun servizio sanitario per la generalità della popolazione»31. Solo negli anni Sessanta la decolonizzazione avviò delle importanti trasformazioni: il gra29 Ibidem 30 R.M. Doménech, La Historia de la medicina en el siglo XXI. Una vision poscolonial, Granada, 2007. 31 A.M. Brandt, From Analysis to Advocacy. Crossing Boundaries as a Historian of Public Health, Baltimore, 2004. Il caso del Tracoma issn 2035-584x duale smantellamento del controllo economico coloniale in Asia e Africa limitò per un breve periodo le ingerenze occidentali ed anche in relazione ai programmi sanitari vi furono rivendicazioni d’autonomia. Allo stesso tempo, la decolonizzazione produsse una crescente domanda di figure professionali europee, altamente specializzate e fondamentali per lo sviluppo dei paesi di nuova indipendenza32. Le centralità che cominciavano ad assumere le agenzie internazionali nella promozione della salute erano direttamente collegate al processo d’indipendenza politica ed economica dei nuovi Paesi. Il consolidamento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ed il suo immediato riconoscimento come indiscutibile leader della salute mondiale, grazie al suo costante riferimento ai risultati decantati dalla letteratura prodotta dalle agenzie durante i due conflitti mondiali, crearono allora le migliori aspettative33. Le istituzioni sanitarie, così come la retorica del periodo, dimostrarono d’aver esteso le loro preoccupazioni sull’intera popolazione e, le strutture sanitarie di epoca coloniale, nate nelle zone urbane, venivano ora allargate a diverse comunità34. Ma il periodo post-bellico fu anche un momento di crescente interesse dei poteri coloniali verso la possibilità di sviluppare nuovi intrecci, nuove relazioni ed accordi, che ebbero l’effetto di incrementare gli investimenti nei Paesi in via di sviluppo. Pertanto, «le industrie realizzavano che la manodopera di cui necessitavano richiede investimenti economici e sociali, inclusi gli investimenti nel campo della salute»35. Nella realtà ci fu il timore che un possibile sviluppo sociale ed una maggiore indipendenza politica dei Paesi poveri potessero rivelarsi critici per le economie industrializzate del mondo occidentale, le cui necessità, con32 B. Khoshnood, La evoluciòn de la salud internacional en el siglio XX, in “Revista de Salud Pública de México”, 2002. 33 E. Crawford, The Universe of International Science, in “Science History Publication”, 2000. 34 L. Briggs, Demon and Mothers in the Social Laboratory, in “Reproducing Empire”, 2002. 35 Ibidem. 23 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) tinuavano a richiedere un mercato nei Paesi in via di sviluppo36. Non solo l’interesse alla produzione, ma anche un mercato di consumo. Negli Stati Uniti, la recessione seguita alla Seconda guerra mondiale e l’incremento di manufatti richiesero anche un corrispondente incremento dell’esportazione. Allora diventò importante il controllo delle malattie tropicali come mezzo per salvaguardare gli equilibri economici. In aggiunta al vantaggio economico nel controllo delle malattie tropicali, presto il successo medico fu visto come punto chiave nella lotta contro il comunismo che negli anni Quaranta era percepito come il maggior ostacolo alla rivitalizzazione del mercato globale37. A questo proposito, è indicativo che gli stessi esponenti politici statunitensi abbiano commentato in più interventi che «la guerra al comunismo era la prima motivazione dell’amministrazione Eisenhower nel finanziare l’Organizzazione Mondiale della Sanità per il “Malaria Eradicating Program” nel 1957»38. A fortificare la presenza dei modelli europei fu anche l’interesse dei nuovi leader africani nell’ottenimento dei finanziamenti. Le élites locali, che generalmente vivevano nelle zone urbane, richiedevano la migliore assistenza sanitaria che il governo era in grado di garantirgli. Questa domanda fece sì che «il governo attuò una serie d’investimenti in grandi ospedali nelle zone urbane. In mancanza d’altri fondi, i governi non riuscirono a investire anche le zone rurali»39. La diseguaglianza nella distribuzione di servizi sanitari si radicalizzò su queste basi aggravandosi negli anni immediatamente successivi alle crisi economiche degli anni Settanta. Le ripercussioni saranno pesantissime perché, com’è facile intuire, l’impatto sociale 36 B. Furman, A Profile of the Unites States Public Health Service, Harvard, 1973. 37 S. Litsios, Other Approach to the Public Health, in “Bulletin of History of Medicine”, 2005. 38 B. Furman, A Profile of the Unites States Public Health Service, cit. 39 A.M. Moulin, Historical Studies about Scientific Development and European Expansion, New York, 2001. Si veda inoltre Vaughan Megan, Colonial Power and African Illness, Stanford, 1991. Il caso del Tracoma issn 2035-584x delle crisi economiche in campo sanitario è più devastante che in altri ambiti della vita sociale. I risultati di questa radicalizzazione possono essere interpretati alla luce degli studi pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dalla Banca Mondiale. 4. le politiche della banca mondiale e l’eclisse dell’organizzazione mondiale della sanità Le crisi petrolifere degli anni Settanta (seguito della guerra arabo-israeliana 1973 e rivoluzione iraniana 1979) ebbero importanti effetti negativi sull’economia mondiale, colpendo duramente tutti i paesi importatori di petrolio. Le misure adottate per far fronte all’aumento del costo dell’energia determinarono una fase di recessione. Per i Paesi in via di sviluppo, che negli anni Sessanta avevano registrato una significativa crescita economica, le conseguenze furono ancora più gravi perché, in aggiunta all’aumento del costo del petrolio, ci fu un ribasso del prezzo delle materie prime. Lo shock economico fu assorbito abbastanza velocemente nei paesi industrializzati ma per la maggior parte dei Paesi poveri, principalmente per quelli africani, segnò l’inizio di una difficile crisi, contrassegnata da impoverimento e indebitamento. Il debito è stato una conseguenza devastante e, ad oggi, irreparabile. Come aggravante, dobbiamo aggiungere che l’80%40 dei prestiti erogati era trasferito all’estero da parte di governi locali corrotti. È precisamente in questo momento di difficoltà economico-sociali che interviene la Banca Mondiale con la sua politica di structural adjustment delle economie nei Paesi in via di sviluppo dettando condizioni vincolanti per la concessione dei crediti: drastici tagli nella spesa pubblica (inclusi servizi sanitari), privatizzazioni in tutti i settori, apertura agli investimenti esteri. Si minavano le basi di ogni futuro mi40 C. Young, The End of the Post-Colonial State in Africa?, in “African Affairs”, 2004. Per ulteriori approfondimenti si vedano inoltre W. Reno, Clandestine Economies, Violence and States in Africa, in “Journal of International Affairs”, 2000 e L. Eisemberg, The sleep of reason produces monsters. Human costs of economic sanctions, in “New England Journal of Medicine”, 1997. 24 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) glioramento economico dei paesi più poveri41. Nel 1987 la Banca Mondiale presenta per la prima volta un documento per la promozione della sanità. Contiene una serie d’indicazioni da seguire nella ristrutturazione dei servizi sanitari con valore restrittivo per i paesi indebitati. Il documento si compone di quattro fondamentali capitoli, ciascuno dei quali specifica le linee guida: a) introdurre nelle strutture sanitarie pubbliche la partecipazione dei privati; b) promuovere programmi assicurativi; c) favorire la privatizzazione dei servizi sanitari; d) decentralizzare il governo della sanità42. Da questi quattro punti, oltre al passaggio di responsabilità al capitale dei privati, si presentano anche le condizioni necessarie per promuovere le assicurazioni. Gli effetti non tardano a manifestarsi. Lo stesso UNICEF denuncia nel rapporto del 1989 che a causa di questi aggiustamenti, giudicati dagli stessi operatori come inumani, inefficienti, non necessari, «almeno mezzo milione di bambini sono morti negli ultimi dodici mesi a causa della gravissima crisi economica»43; dal che si evince che la salute nei paesi più poveri si è notevolmente aggravata. La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità vive negli anni Ottanta una profonda crisi di legittimità. Nel 1988 viene eletto direttore un ricercatore giapponese, Hiroshi Nakajiama, che sostituì il precedente Mahlera dopo la travagliata campagna per i farmaci essenziali lanciata da quest’ultimo44. Questo 41 J.K. Boyce, L. Ndikumana, Is Africa a Net Creditor? New Estimate of Capital Flight from Severely Indebted Sub-Saharan African Counties, 1970-1996, in “Journal of Development Studies”, 2001. 42 Per una visione integrale del documento della World Bank, Financing Health Services in Developing Countries. An Agenda for Reform, Washington DC, 1987. 43 J. P. Grant, The State of the World’s Children, Oxford, 1989. 44 Il blocco dei finanziamenti budgetari, la crisi nei rapporti con il principale contribuente, gli USA, e la sostituzione della direzione sono stati interpretati da alcuni studiosi come la diretta conseguenza delle scelte operate dall’amministrazione Mahler. Su questa linea citiamo i lavori di F. Godlee, WHO in retreat: it is losing its influence?, in “British Medical Journal”, 1994. Inoltre, sempre Il caso del Tracoma issn 2035-584x nuovo quadro istituzionale vede il blocco dei finanziamenti all’istituzione e l’aumento, per conseguenza diretta, di programmi finanziati fuori dal budget ordinario da vari donatori (cartelli industriali, case farmaceutiche) e agenzie multilaterali come la Banca Mondiale. All’inizio degli anni Novanta questo apporto rappresentava il 54%45 dell’intero bilancio. Ma questo tipo di finanziamento, oltre che vincolare i progetti alla soddisfazione dei bisogni dei donatori, genera interventi dall’assetto fortemente gerarchizzato e limitato generalmente alla durata di due anni. La popolazione, una volta terminato il progetto, viene totalmente abbandonata46. Inoltre, in programmi verticali, come quello della vaccinazione universale, i metodi vengono decisi dai donatori con esiti che possiamo apprezzare dalle pubblicazioni dei medici attivi nei programmi: alla fine degli anni Ottanta si registra un impegno straordinario per le vaccinazioni nei Paesi in via di sviluppo con buoni risultati, ma si tornò rapidamente si livelli precedenti quando terminò il programma. Nel caso delle vaccinazioni in Nigeria, dal 70% della popolazione nel 1990 si è tornati al 20% nel 199447. Malgrado le raccomandazioni e le dichiarazioni di principio, la salute dei Paesi più poveri, particolarmente quelli dell’Africa Sub-Sahariana, è precipitata in un baratro e accanto al progressivo degrado delle strutture pubbliche si assiste alla fioritura del mercato sanitario, un mercato basato su farmaci illegali e messi in vendita ovunque. Farmaci spesso scaduti o contraffatti48. A questo proposito è particolarmente preoccupante l’esistenza di un mercato di farmaci cinesi contraffatti, il più delle volte mortali e prodotti esclusivamente per la loro distribudello stesso autore, The World Health Organization: WHO’s special programmes: undermining from above, in “British Medical Journal”, 1995. 45 A. Green, An Introduction to Health Planning in developing countries, Oxford, 1999. 46 G. Maciocco, L. Ombroni, L. Roti, Imperialismo umanitario, Firenze, 2007. 47 W. Hsiao, P. Heller, What should macroeconomists know about health care policy?, in “International Monetary Fund, Working Paper”, 2007. 48 Commission for Africa, Our common interest: report of the Commission for Africa, London, 2005. 25 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) zione in Africa. Di fronte all’impossibilità di accedere alle cure mediche professionali, la popolazione nei Paesi poveri è costretta ad accettare ciò che gli si offre49. Margaret Whitehead, professore di Sanità pubblica all’università di Liverpool, in un articolo pubblicato nel 2001, presenta così gli effetti prodotti dai programmi dell’ Organizzazione Mondiale della Sanità e le politiche della Banca Mondiale in cui si riassumono le conseguenze di questo processo: le malattie dimenticate, ridotto accesso all’assistenza, contrabbando di farmaci, impoverimento a lungo termine50. I programmi perseguono una politica di intervento su singole malattie che garantiscono visibilità presso l‘opinione pubblica occidentale, dall’HIV, alle vaccinazioni, alla cardiochirurgia, disinteressandosi dell’intero sistema sanitario locale. Così, può capitare che in un paese il trattamento di una singola malattia sia gratuito (per un tempo limitato), mentre tutto il resto dell’assistenza sia a pagamento (ovvero inaccessibile a gran parte della popolazione)51. Gli operatori sanitari locali, a causa di stipendi bassissimi, o emigrano o si trasferiscono presso il servizio che in quel momento ha il temporaneo privilegio di ricevere i finanziamenti dai programmi perché pagano stipendi molto più alti. Il risultato è che, se da una parte, per le malattie oggetto dei programmi verticali, si ottiene qualche risultato (finchè durano i finanziamenti), dall’altro si impedisce lo sviluppo di un sistema sanitario nazionale che con fatica i paesi poveri stanno cercando di costruire. La conseguenza finale di questo imperialismo umanitario, ovvero dell’imposizione di modelli di intervento tarati sulle esigenze dei donatori, è il peggioramento delle condizioni generali di salute delle fasce più deboli della popolazione52. 49 G. Martin, C. Sorenson, T. Faunce, Balancing intellectual monopoly privileges and the needs for essential medicines, in “Globalization and Health”, 2007. 50 M. Whitehead, Equity and Healthsector reforms: can low income countries escape the medical poverty trap?, in “Lancet”, 2001. 51 Ibidem 52 S.A. Okuonzi, Learning from failed health reform, in Il caso del Tracoma issn 2035-584x Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Organizzazione Mondiale della Sanità, visti i catastrofici risultati stanno rivedendo (finora solo a parole) le loro posizioni. Questo ad esempio si legge in un recente studio pubblicato da quattro operatori del Fondo Monetario Internazionale: le forti iniezioni di risorse indirizzate a specifiche malattie hanno indebolito le infrastrutture e spostato le risorse umane necessarie per prevenire e trattare le malattie comuni che colpiscono molte più persone. Inoltre i molteplici donatori, ciascuno con le proprie priorità e le proprie procedure amministrative e i propri metodi di valutazione, hanno prodotto caos e sprechi nei Paesi in via di sviluppo. Infine un’importante preoccupazione è la sostenibilità di questi programmi, dato che i fondi dei donatori non sono stabili e duraturi. In conclusione, per i Paesi poveri, questi fondi hanno rappresentato un elemento di destabilizzazione nella gestione del sistema sanitario53. Per continuare a parlare di salute e per riflettere sul suo status di merce o diritto, è ora indispensabile illustrare brevemente la questione dei brevetti sui prodotti farmaceutici. 5. la campagna per i farmaci essenziali Abbiamo esposto precedentemente la politica che l’Organizzazione Mondiale della Sanità portò avanti negli anni Settanta definita anche come “rivoluzione pacifica”, ovvero una nuova politica di sostegno per i farmaci essenziali a quei Paesi che erano appena divenuti indipendenti, riscattandosi dai regimi coloniali ed acquisendo per la prima volta, dopo lunghi anni, secoli a volte, autonomia anche in campo sanitario. Fu, in effetti, dopo la decolonizzazione, con le speranze che essa portava, che l’Organizzazione Mondiale della Sanità elaborò vaste politiche sanitarie; tra queste, quella dei farmaci essenziali. Il termine farmaco essenziale è un concetto particolarmente rilevante nella nostra trattazione in quanto ci riconduce alla sfe“Lancet”, 2004. 53 G.J. Scheber, P. Gottet, L.K. Fleisher, A.A. Leive, Financing Global Health: Mission Unaccomplished, in “Health Affairs”, 2001. 26 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) ra dei Diritti umani: soddisfano i bisogni della gran parte della popolazione e quindi dovrebbero essere resi disponibili in ogni momento, in quantità adeguate e nei dosaggi appropriati ad un prezzo che l’individuo e la comunità possano permettersi54. La campagna fu furiosa, osteggiata dai gruppi d’interesse che cominciavano ad emergere, perché, almeno in linea teorica, veniva a prevalere l’impegno dei governi per garantire il diritto alla salute attraverso una serie di misure che fissavano le priorità tra il bisogno dei pazienti e il rimedio dato dal farmaco. Per la prima volta il diritto alla salute sancito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità si tramutò in uno strumento in mano ai governi. Nel 1976 fu redatta una lista dei farmaci essenziali (Essential Drugs List), cioè medicinali scientificamente riconosciuti, adatti ad affrontare con efficacia i bisogni essenziali della popolazione: 230 medicinali. Quella lista esiste ancora, e viene aggiornata periodicamente, oggi include medicinali salvavita come quelli recenti contro l’HIV55. I brevetti sono il tema principale nella guerra ai prezzi dei farmaci, e questo è ciò che determina la mancanza degli stessi nelle zone d’emergenza sanitaria. La protezione del diritto d’autore stabilisce, infatti, un monopolio del brevetto, ovvero dell’invenzione intellettuale, per la durata di 20 anni. Nella fattispecie, i detentori del brevetto farmaceutico (in genere le multinazionali), detengono incontrastati il controllo sulle varie fasi della ricerca, o sul singolo farmaco, nella piena titolarità di decidere per 20 anni le regole di approvvigionamento del farmaco ed il suo prezzo56. Le ripercussioni sulla salute dei paesi poveri all’inizio del secondo millennio furono tanto importanti che condussero Médecins Sans Frontières verso negoziati con l’Organizzazione Mondiale per il Commercio, un’organizzazione relativamente recente che, deputata a re54 R. Adlund, A. Carzaniga, Health services under the General Agreement on Trade in Services, in “Bulletin of the World Health Organization”, 2001. 55 Ibidem 56 M. Muller, Taking TRIPS, Patent Law and Access to Medicines, in “Medicine”, 2007. Il caso del Tracoma issn 2035-584x golamentare gli standard globali per gli scambi commerciali, si ritrovava paradossalmente a sostituire l’Organizzazione Mondiale della Sanità nel trattamento della salute globale. La campagna si è occupata del prezzo dei farmaci, della loro accessibilità, ma anche dei target nella squilibrata ricerca medica. Infatti, nell’attuale contesto politico e commerciale è ovvio che un’azienda farmaceutica non investirà mai nella ricerca per le malattie da cui non è possibile trarre profitto visto che colpiscono in prevalenza i poveri. Gli accordi firmati da tutti i paesi membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio stabiliscono che i farmaci, come qualsiasi merce prodotta industrialmente e commercializzabile, devono essere brevettabili per un periodo minimo di vent’anni. Nei paesi ricchi, dove i servizi sanitari nazionali garantiscono l’accesso gratuito alle terapie essenziali, un regime di monopolio rigido non ha ricadute sulla salute individuale; ma nei paesi poveri si traduce in prezzi inaccessibili e in morti evitabili. Nella riunione interministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio di Doha del 2002 si è ribadito che la lista dei farmaci va interpretata in modo da favorire la salute pubblica garantendo “l’accesso ai farmaci essenziali per tutti”, e che ogni governo ha il diritto di tutelare la salute, adottando le salvaguardie previste, ad esempio le licenze obbligatorie (che permettono la produzione e utilizzazione di versioni generiche di un farmaco sotto brevetto)57. Purtroppo però, con rare eccezioni, gli interessi commerciali continuano a prevalere sul diritto alla salute dei più deboli. La ricerca farmaceutica assiste al crescere degli investimenti, ma contemporaneamente notiamo un declino nella capacità di intervenire sulle malattie più diffuse come la tubercolosi, la malaria, il tracoma. Si continua ad investire nelle aree che garantiscono visibilità internazionale ma senza un vero rinnovamento. Questo ha un impatto drammatico per i Pa57 Per una visione completa degli accordi si veda World Trade Organization Agreement and Public Health, A Joint Study by the WHO and WTO Secretariat, 2002 scaricabile al link http://www.twnside.org.sg/title/5187a.htm; sito consultato in data 13/05/2011. 27 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) esi poveri e sulla diffusione delle cosiddette malattie dimenticate58. Il costo dei farmaci nel 2000 era così elevato che Médecins Sans Frontières calcolò che “per curare i primi 15 pazienti malati di HIV la spesa era uguale a quella necessaria per gestire un intero campo profughi in Congo59. Organizzazioni come Médecins Sans Frontières lottano per un’interpretazione umana delle norme di proprietà intellettuale, che permetta l’uso di farmaci generici di qualità, e che favorisca, o almeno non blocchi, lo sviluppo di un’industria generica di qualità nei Paesi in via di sviluppo. La ricerca scientifica si è ormai concentrata da decenni sulle malattie del mondo ricco: obesità, calvizie, impotenza, malattie cardiovascolari e tumori. Anche per quanto riguarda la ricerca sull’HIV, viene finanziata per i pazienti del nord e i prezzi dei farmaci sono tarati sulle capacità finanziarie dei pazienti ricchi. Il 95%60 dei pazienti sieropositivi che vivono nei paesi poveri contano poco, al massimo meritano qualche iniziativa di donazione volontaria di farmaci in occasionali campagne sanitarie. La soluzione della questione sanitaria di base nei paesi più poveri resta un passo obbligato sulla strada dei diritti umani. 6. prospettive L’opinione pubblica è stata accerchiata da iniziative demagogiche che hanno sfruttato la disponibilità alla solidarietà, ma la carenza di una reale volontà politica ha determinato una qualità della cooperazione che è imbarazzante difendere61. 58 Medicine Sans Frontaire, A caro prezzo, Le disuguaglianze nella salute, Pisa, 2006. 59 Vedi il rapporto redatto per la World Bank da C. Fink, Implementing the Doha mandate on TRIPS and public health in “The World Bank Journal”, 2003. Inoltre si veda anche il lavoro pubblicato da V.B. Kerry, K. Lee, TRIPS, The Doha declaration and paragraph 6 decision: what are the remaining steps for protecting access to medicines?, in “Globalization and Health”, 2007. 60 Medicine Sans Frontaire, A caro prezzo, Le disuguaglianze nella salute, cit. 61 Nella sterminata letteratura critica sulla cooperazione internazionale citiamo qui alcune delle ana- Il caso del Tracoma issn 2035-584x L’esperienza mostra che la capacità di intervento va valutata non solo per gli impegni contrattati o le etichette di priorità ma anche e soprattutto per l’impatto sullo sviluppo. In maniera non dissimile dall’approccio coloniale, non sono rare, oggi, le incomprensioni di fondo del contesto in cui si deve operare che già preannuncerebbero il fallimento dell’intervento: il problema non può essere affrontato in maniera saltuaria o emergenziale. Le questioni legate alla sanità di base hanno carattere multifattoriale e molte sono le tematiche che vi sono connesse: autogoverno, sovranità alimentare, immunizzazione regolare, igiene ed istruzione sono essenziali. Nel complesso, nonostante i buoni propositi, i rimedi prospettati riguardano solo le carenze di un approccio superficiale egoistico e strumentale, che sin dagli esordi ha caratterizzato le politiche della cooperazione, non le cause, le quali vanno individuate nell’attività di quel gruppo di interesse che ha impedito che la cooperazione fosse strumento di sviluppo da un lato e dall’altro, per il mondo industrializzato, di crescita culturale, politica e sociale. Cosa possiamo fare? Ovvio che non si tratta di pretendere un francescano voto di povertà da parte del mondo industrializzato o una generosità disinteressata da parte delle multinazionali farmaceutiche, bensì di studiare e dibattere pubblicamente margini di manovra che possano essere considerevoli in ordine alla canalizzazione dei fondi per gli interventi sanitari globali. Al fine di arginare il problema del tracoma e di altre malattie prevenibili e curabili che imperversano nei paesi poveri, appare necessaria una corretta comunicazione, non solo in riferimento alle popolazioni destinatarie dei programmi di cura e prevenzione, ma anche verso l’opinione pubblica occidentale, in grado di sensibilizzare la società sulla base del binomio di lisi politologiche più significative: R. Lemarchand e K. Legg, Political Clientelism and Development: A Preliminary Analysis, in “Comparative Politics”, 1972; R.A. Rubinstein, International Health and Development. Theory and Methods, Greenwood, 1990; C. Clapham, Africa and the International System. The Politics of State Survival, Cambridge, 1996; G. Carbone, L’Africa. Gli stati, la politica, i conflitti, Bologna, 2005. 28 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x verità e giustizia da cui potrebbe scaturire una solidarietà autentica. Sarebbe infatti un errore interpretare i problemi legati alle malattie dimenticate nei Paesi poveri come fossero inconvenienti secondari dell’attuale ordine mondiale e non, invece, conseguenza di politiche sociali ed economiche inadeguate a canalizzare le risorse nella direzione di un reale sviluppo. Pertanto, un ultimo e decisivo elemento per la formazione di un forte movimento d’opinione nasce dalla riflessione sui nostri stili di vita. Le domande sarebbero molte, ma in questa sede è inevitabile far riferimento agli aspetti legati alla salute: a fronte dei 27 centesimi per salvare la vista ad un bambino nei paesi poveri, abbiamo davvero bisogno di grattacieli, delle grandi banche, degli impianti sportivi e di 600 modelli di automobili? Gli abitanti del Nord non possono continuare a eludere queste domande se non vogliono aggravare ulteriormente il conflitto tra Nord e Sud. Col pretesto che non potremmo di certo accogliere tutti coloro che vorrebbero stabilirsi nei Paesi industrializzati, affronteremo la questione dell’emigrazione? In passato, le società contadine avevano il senso del vivere quotidiano fondato sulla solidarietà familiare62. Ma questa concezione è andata del tutto perduta in conseguenza dell’accelerazione dei mutamenti tecnologici ed economici in seno alla società dei consumi, di sradicamenti e migrazioni forzate, di ogni sorta d’inquinamento e della crescita esponenziale dei costi sociali ed ecologici. Sicché, l’obiettivo primario diventa ritrovare questa razionalità contadina a un livello globale, tale da consentire il raggiungimento di un livello di vita decente e stabile per tutta la popolazione del globo. Elisabetta Scala, laureata in Scienze e Tecniche dell’Interculturalità. Si è occupata di Cooperazione Internazionale operando in Etiopia e in Spagna [email protected] 62 Nella nostra riflessione un richiamo letterario va all’opera di Ignazio Silone, Fontamara: immagine delle popolazioni povere ed oppresse di tutto il mondo. Il caso del Tracoma 29 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x La participatio tomista come comunicazione Tommaso Scandroglio Abstract Parole chiave Quali sono le analogie e le differenze tra il termine tomista «participatio» e il sostantivo di uso corrente «comunicazione»? Al fine di individuarle è necessario sezionare il lemma participatio nei suoi costitutivi (p. logica e ontologica; predicamentale e trascendentale) e approfondire le relazioni tra i concetti di essenza ed essere, materia e forma, sostanza e accidenti e le dinamiche causali che soggiacciono alla creazione e al fieri. Partecipazione; Comunicazione; Comunicare; Essenza; Essere; Predicamentale; Trascendentale; Causalità; Dio. Sommario: 1. L’oggetto del presente articolo; 2. Un glossario; 3. Partecipazione logica e ontologica; 4. Le tre forme di causalità; 5. Partecipazione predicamentale e trascendentale; 6. Il modo dell’essere, tratto specifico della partecipazione. espressioni linguistiche proprie della contemporaneità. Come si avrà modo di notare nello sviluppo di questo scritto, i termini moderni indicati in precedenza riceveranno mutua sollecitazione aprendosi ad approfondimenti ermeneutici condotti in più direzioni ma sempre vincolati al testo tomista. 1. L’oggetto del presente articolo O ggetto del presente saggio è il tentativo di verificare se le accezioni del termine «participatio» così come vengono usate da Tommaso D’Aquino nei suoi scritti offrono delle contiguità semantiche con i termini «comunicazione» e «comunicare», e lemmi affini per radice etimologica quali «comunione» e «comune», nei loro significati correnti1. A tal fine si cercherà di porre in evidenza le analogie e le differenze di contenuto tra un termine di stampo prettamente metafisico, così come adoperato da un autore del Duecento, ed 2. Un glossario Per meglio comprendere il senso di alcune espressioni ed affermazioni contenute negli scritti dell’Aquinate è opportuno indicare in prima battuta le definizioni2 dei termini di stampo metafisico più ricorrenti nelle opere di Tommaso. Essenza: ciò che una cosa è, ciò che è espresso nella sua definizione, la quidditas per dirla in termini tomisti. L’essenza sul piano onto- 1 I sinonimi esplicativi di questi due lemmi sono stati presi in massima parte da Il Vocabolario Treccani, Roma, 2008. 2 Cfr. Tommaso D’Aquino, La Somma contro i Gentili, (a cura di P. Tito Sante Centi), I, Bologna, 2000, Glossario, pp. 49-54. Le voci sono state ampliate ed integrate nelle loro rispettive definizioni. La participatio tomista come comunicazione 30 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) logico-reale è individuale perché attualizzata nell’ente singolare, è id quod habet esse nel particolare. Sul piano epistemologico l’essenza è universale perché intesa come entità logica della mente3. Natura: è l’essenza in quanto principio intrinseco di attività. Per Tommaso D’Aquino è «l’essenza della cosa in quanto ordinata all’operazione della cosa stessa»4. Essere: è l’attualità5, l’atto per cui qualcosa esiste, attraverso cui il quid diventa ente: «essere sta ad indicare l’atto»6. Ente: ciò che esiste, ciò che ha l’essere nel singolare, ciò il cui atto è l’essere nel particolare. È l’attualità partecipata dall’essenza nello specifico. Altresì può essere intesa anche come attualità limitata dall’essenza nell’individuale7. Forma: ciò che determina la struttura propria di una data realtà, ciò che, ad esempio per i corruttibili, «dimensiona formalmente»8 la materia: «forma autem substantialis est quae facit hoc aliquid»9. La forma viene partecipata dalla materia10. Ad esempio l’anima è la forma sostanziale dei viventi. Materia: è il sostrato fisico indeterminato11. La materia ricevendo la forma sostanziale costituisce la sostanza materiale. Cornelio Fabro definisce la materia come «soggetto fisico di diverse determinazioni da parte di diverse forme o di modi di essere»12. Sostanza: ciò a cui compete di esistere in sé e non in qualcosa d’altro: un gatto, un uomo etc. Ogni sostanza ha una sua natura: issn 2035-584x ad esempio «la persona è una sostanza individuale di natura razionale»13. Accidente: ciò a cui compete di esistere in qualcosa d’altro come nel suo soggetto: la bianchezza rende bianco un soggetto. 3. Partecipazione logica e ontologica Occorre innanzitutto distinguere tra partecipazione logica e partecipazione ontologica. Partiamo dalla prima14. La partecipazione logica può essere intesa secondo due accezioni. Nella prima accezione rinveniamo una dualità di significati: partecipazione come inclusione e partecipazione come ricezione15. Ad esempio la specie «uomo» partecipa del genere «animale», è inclusa in quella di animale, ma non viceversa (ci sono animali non umani). A specchio possiamo affermare che la specie «uomo» riceve dal genere la definizione: « “partecipare” nel campo logico è ricevere in sé la “definizione” che è propria del partecipato»16. L’uomo è un animale: la definizione «è un animale» appartiene ad «animale», essere partecipato. Già da questa primissima analisi appare in filigrana un elemento concettuale proprio del verbo «comunicare»: la ricezione infatti è momento conclusivo e terminale della dinamica della comunicazione dove un soggetto emette un messaggio ed un secondo lo riceve. Dal rapporto genere-specie passiamo al rapporto specieindividuo. Parallelamente, seppur in un grado inferiore dal punto di vista logico, l’individuo «Carlo» partecipa alla specie «uomo», Carlo è incluso nella specie umana17. In questo primo senso di partecipazione albeggia nuovamente il verbo «comunicare»: «ogni singolare [es. Carlo] ha la sua propria natura […]. La mente la percepisce simile a quella degli altri particolari, e così la vede come ragione formale comu- 3 Cfr. U. Pellegrino, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso D’Aquino, in «La Scuola Cattolica», Anno XCI (Gen.Feb 1963), p. 45. 4 Tommaso D’Aquino, De ente et essentia, c. 1. 5 Cfr. B. Mondin, La metafisica di San Tommaso e i suoi interpreti, Bologna, 2002, p. 100. 6 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, I, c. 22. 7 Cfr. U. Pellegrino, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso D’Aquino, cit., p. 45. 8 Espressione di Giovanni Reale contenuta in Aristotele, La Metafisica, (a cura di G. Reale), Napoli, 1968, Vol. I, p. 569. 9 Tommaso D’Aquino, De mixtione elementorum. 10 Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, Torino, 1960, p. 491. 11 Cfr. Aristotele, Metafisica, VII, c. 3, 1029a. 12 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, Segni (RM), 2005, p. 92. 13 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 29, a. 1. 14 Cfr. P. Lazzaro, La dialettica della partecipazione nella Summa contra Gentiles di S. Tommaso D’Aquino, Reggio Calabria, 1976, pp. 41-50. 15 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, I, c. 32 16 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 66. 17 Cfr. Tommaso D’Aquino, Commentarius in Boetium de Hebdomadibus, lect. II. La participatio tomista come comunicazione 31 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) nicata e comunicabile»18. La natura razionale propria degli esseri umani19 è quindi predicabile per più enti (universale logico) ed è quindi comune a più esseri, si comunica vicendevolmente: nel singolare si riflette per partecipazione l’idea del tutto20. Ma vi è una seconda accezione di partecipazione logica: participatio come composizione, unione tra genere e specie (l’uomo è unione di animalità e razionalità) e tra specie e individuo (Carlo è l’unione di razionalità ed ente individuale)21. Infine appuntiamo qui, ma renderemo maggiormente esplicita l’affermazione nel prosieguo dell’articolo, che la stessa dinamica gnoseologica soggiace alla regola della partecipazione: la conoscenza partecipa, in modo formale e imperfetto perché non completo, alla conoscenza che Dio ha di se stesso, conoscenza che diventa essa stessa bene partecipato22. Vi è poi una partecipazione ontologica che rende spiegazione del reale23. In essa il lemma «comunicare» è pervasivamente presente. Per comprendere l’intima struttura del concetto di partecipazione tomista occorre considerare che «soltanto Dio è essere per essenza, mentre tutte le altre cose sono esseri per partecipazione»24; «Dio è ente per essenza, e le altre cose per partecipazione»25. Nessun ente può dare a se stesso l’esse perché per farlo dovrebbe esistere (per poter dare l’essere) e nello stesso tempo non essere (per poterlo ricevere), cosa che è impossibile. Così come un sasso non potrebbe darsi da sé il calore se non irraggiato da una fonte di calore. Sia il sasso issn 2035-584x che il fuoco sono entrambi caldi, ma il sasso possiede il calore, il fuoco è calore. Il primo è caldo per partecipazione, il secondo per essenza, è caldo «di suo» diremmo. Perché negli enti creati non c’è coincidenza tra esse e essentia? Come prima accennato Dio è l’essere in forza della propria essenza: «l’essere di Dio si identifica con la sua essenza»26, e dunque «Dio è l’essere stesso per sé sussistente»27, «Deus enim per suam essentiam est ipsum esse subsistens»28. Questo accade dal momento che l’«essere sta ad indicare l’atto»29 e ciò che è distinto dall’atto, ma che a questo compete, si trova in uno stato potenziale: il blocco di marmo rispetto alla statua che dal primo si caverà è attualmente un blocco di marmo e potenzialmente una statua. Anche l’essenza, come vedremo, è potenzialmente esistente fino a quando non parteciperà all’actus essendi. Vi è quindi una distinzione tra essenza che potenzialmente è esistente e atto d’essere. Ma Dio è puro atto, in Lui non esiste la potenza, a differenza dei rimanenti enti. Quindi in Lui non può darsi un’essenza in stato potenziale e dunque di conserva non si può predicare una divisione tra essenze e atto, bensì una coincidenza30. In secondo luogo pensare che in Dio esista sia l’essere che l’essenza significherebbe dire che Dio è composto. Ma egli è semplice Uno, perché se fosse composto sarebbe divisibile, cioè potrebbe essere diviso in sé, ma questo starebbe indicare uno stato potenziale divino, il che contraddice il fatto che in Dio non è predicabile nessun stato potenziale31. Negli altri enti invece c’è una separazione tra essentia ed esse. La prima, che non ha in sé l’esse, non investita dalla forza attualizzante dell’essere, che può venire solo da Dio, rimane inesistente. Solo l’essere può comunicare attualità all’essenza: «Esse est actualitas omnis 18 P. Lazzaro, La dialettica della partecipazione nella Summa contra Gentiles di S. Tommaso D’Aquino, cit., p. 45. 19 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 29, a. 3 c.. 20 Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 27. 21 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, I, c. 17 22 Cfr. F. Di Blasi, Conoscenza pratica, teoria dell’azione e bene politico, Palermo, 2006, p. 4. 23 Cfr. E. Lupia, La partecipazione logica e ontologica nella «Summa contra Gentiles» di S. Tommaso D’Aquino, Messina, 1992, pp. 17-23. Annotiamo a margine che questo testo è un estratto quasi completo del volume del Lazzaro qui citato. 24 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, III, c. 66. Cfr. Ibidem, I, c. 60; III, c. 70. 25 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 4, a. 3 ad 3; q. 13, a. 11 c.. Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 502. 26 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, II, c. 52. Cfr. Ibidem, I, c. 22; III, c. 66; Summa Theologiae, I, q. 3, a. 4; I, q. 75, a. 5 ad 4; I, q. 104, a. 1 c. 27 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 44, 1 c. 28 Tommaso D’Aquino, De Malo, q. 16, a. 3 c. 29 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, I, c. 22. 30 Cfr. Ibidem. 31 Cfr. Ibidem. La participatio tomista come comunicazione 32 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) formae»32. Si può dire allora che l’esse, che è l’atto di essere, è l’astratto di ens, come il currere, che è l’atto di correre, è l’astratto di currens. Il «currere» è ciò, o per partecipazione del quale il currens corre, dato che questi partecipa all’atto di correre33. Analogamente l’esse partecipato sfocia nell’esistente: «l’esse è quella formalità o attualità suprema per partecipazione alla quale è compreso essere di fatto tutto ciò che in concreto esiste»34; «[l’actus essendi] è anzitutto ciò per cui (quo) ogni formalità può essere indicata come reale, cioè distinta, non solo nozionalmente, da ogni altra, ma “separata” realmente in natura, è l’atto dell’essenza»35; «Ente è un termine participiale di senso attivo, che indica in concreto l’esercizio di una formalità, quella dell’essere: ENTE allora è “ciò che è”, Id quod est»36. Dunque l’unico modo per avere l’essere è partecipare all’essere, che non può che derivare da Dio: «quello che spetta a una data cosa in forza della propria natura non può competere ad altri se non per partecipazione: cioè come il calore del fuoco viene comunicato ad altri corpi. Perciò l’essere stesso è comunicato alle altre cose dal primo agente mediante una comunicazione»37; «l’essere di qualunque cosa è un essere partecipato, poiché all’infuori di Dio nessuna cosa è il proprio essere […]. E così è necessario che Dio stesso il quale è il suo essere, sia in modo primario e immediato la causa di ogni essere»38; «ogni cosa esiste per il fatto che possiede l’essere; pertanto nessuna cosa, la cui essenza non è esistere, esiste per la sua essenza [non può passare da uno stato potenziale di esistenza ad uno di attualità se non in virtù appunto di un atto che proviene dall’Esse di issn 2035-584x Dio che è Actus Essendi], ma per partecipazione, cioè ricevendo l’essere»39; «tutti gli enti distinti da Dio non sono il loro proprio essere, ma partecipano l’essere»40. L’ens allora ha l’essere41, non è l’essere42, prende l’essere: la partecipazione dunque viene intesa come partem capere dell’essere. E perciò gli enti esistono solo per partecipazione a differenza di Dio che è essere sussistente: «Rimane vero perciò che tutti gli enti distinti da Dio non sono il loro proprio essere, ma partecipano l’essere»43. Da notare che la partecipazione non significa far propria anche la natura dell’Essere-Dio partecipato così come ricorda Tommaso: «ogni creatura è in rapporto a Dio, come l’aria in rapporto al sole che la illumina. Come infatti il sole è risplendente per sua natura, mentre l’aria diventa luminosa partecipando la luce del sole, senza partecipare la natura del sole»44. Infatti si partecipa all’atto di essere promanante da Dio non alla sua essenza, sebbene i due concetti metafisici in Dio coincidano. Non partecipare alla natura divina comporta dunque che Dio è assolutamente altro dagli enti, da questi separato e distinto, seppur partecipato. Quindi in questo senso è incomunicabile rispetto agli esseri in merito al suo status ontologico45. La partecipazione pertanto riguarda l’«atto di essere, che comunicandosi alle essenze spiega la loro concretezza»46. L’essenza dunque prende l’essere, ma – è bene sottolinearlo – non partecipa dell’Esse divino, bensì dell’esse proprio causato da Dio, esse che è atto (e non Atto) e che attualizza l’essenza47. Avremo allora un’efficace definizione di essenza 32 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 3, a. 4 c. 33 Cfr. Ibidem, I; q. 50, a. 2 ad 3; Commentarius in Boetium de Hebdomadibus, lect. II; C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 15. 34 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 16. 35 Ibidem, p. 89. 36 Ibidem, p. 84. 37 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, II, c. 52. Nelle citazioni i termini «comunicazioni», «comunicare» e simili verranno scritti in corsivo per metterli in evidenza. Gli altri termini o espressioni scritti in corsivo sono tali perché così presenti nei testi citati. 38 Ibidem, III, c. 65. 39 Ibidem, I, c. 22. Cfr. Ibidem, Summa Theologiae, I, q. 44, a. 1 c.; De Veritate, q. 21, a. 5 c. Anche gli accidenti esistono per partecipazione, attualizzandosi grazie alla sostanza. 40 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 44, 1 c. 41 Cfr. B. Mondin, La metafisica di San Tommaso e i suoi interpreti, cit., p. 100. 42 Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 92. 43 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 44, a. 1 c. 44 Ibidem, I, q. 104, a. 1 c. 45 Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 630. 46 P. Lazzaro, La dialettica della partecipazione nella Summa contra Gentiles di S. Tommaso D’Aquino, cit., p. 51. 47 Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 651. La participatio tomista come comunicazione 33 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) come «id quod habet esse» in questo o quel particularis48. L’actus essendi permette all’essentia di esistere (per gli enti corruttibili occorre per venire ad esistenza anche la materia: «la forma [actus essendi partecipato dall’essentia] non ha l’essere [concreto], quindi, se non nella materia»49), consente il venire ad esistenza dell’ente concreto, il quale quindi risulterà dalla composizione di atto d’essere ed essenza50: «la forma sta all’essere come la luce sta all’illuminazione, come la bianchezza sta all’essere bianco. […] la forma è principio dell’essere, perché il compimento della sostanza, il cui atto è l’esistenza»51. La «bianchezza» partecipando all’atto d’essere diventa «essere bianco». L’atto d’essere chiama all’esistenza l’essenza e allora potremmo dire che, grazie all’essenza che partecipa all’actus essendi, l’ens è ec-sistente cioè posto fuori dal nulla, e nello stesso tempo, dato che l’actus essendi proviene da Dio, l’ens in-siste in Dio52. Da appuntare però questo particolare nel processo di individualizzazione dell’ente corruttibile particolarissimo. È l’essenza che limita, ma in senso ancora ampio, l’actus essendi, e l’essenza singolarizzata in atto è individualizzata ancor più dalla materia. Perciò l’essenza limita l’atto di essere, e la materia individualizza la forma, che dunque era già stata limitata. Ad esempio la razionalità (essentia) partecipando all’atto di essere si compone nell’essere di natura razionale (natura razionale che è la forma), il quale informando la materia si individualizza infine nell’ente concreto (Marco). Su quest’ultimo passaggio di specificazione che attiene al rapporto forma-materia così si esprime il Dottore Angelico: «La forma poi è limitata dalla materia per questo che la forma, in sé considerata, è comune a molte cose; ma dacché è ricevuta nella materia, diventa issn 2035-584x forma soltanto di una data cosa»53; «la composizione di materia e di forma, che costituisce una natura determinata»54. La dinamica dell’esistenza si perfeziona quindi tramite la partecipazione dell’essenza all’atto di essere: «qualunque natura o forma raggiunge la perfezione con l’essere in atto»55. A sua volta la forma attualizzata sarà partecipata dalla materia: «la sostanza intellettiva […] non è impedita dall’essere principio formale ed esistenziale della materia, nel senso che comunica il proprio essere alla materia»56: l’esse partecipato dall’essenza, che si struttura nella forma, comunica la sua attualità alla materia. E dunque si può concludere che «nelle nature corporee, invece la materia partecipa all’essere non per sé, ma mediante la forma»57: la materia partecipa di quell’essere già attualizzato nell’essenza. Quindi non partecipa direttamente di quello stesso actus essendi di cui partecipa l’essenza prima che venisse attualizzata, ma, se così vogliamo esprimerci, ne partecipa indirettamente, cioè prende l’attualità d’essere direttamente dall’essenza che a sua volta aveva ricevuto l’esse da Dio58. Qui infine il «comunicare» viene inteso nella sua accezione di «trasmettere», di «contagiare» attualità. Queste argomentazioni sottendono poi un’altra considerazione. Il venire all’esistenza a motivo dell’attualità dell’esse comporta che la forma o l’essenza erano in potenza e congiungendosi con l’atto di essere si attualizzano: la forma/essenza «sta all’essere in atto come la potenza sta all’atto rispettivo»59; «dovunque si riscontrino due cose di cui l’una è compimento dell’altra, il rapporto tra l’una e l’altra è quello di potenza e atto: poiché niente può essere compiuto che mediante il proprio atto. […] l’esistenza [ipsum esse] è il compimento di una essenza esistente […]. Perciò in ciascuna delle cose suddette c’è composizione di atto e 48 Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 88. 49 Ibidem, p. 58. 50 Cfr. U. Pellegrino, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso D’Aquino, cit., pp. 44-45; C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., pp. 17-18; Partecipazione e causalità, cit., p. 640. 51 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, III, c. 54. 52 Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 649. 53 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 7, a. 1 c. 54 Ibidem, I; q. 50, a. 2 ad 3. 55 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, III, c. 66. 56 Ibidem, II, c. 68. 57 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 104. 58 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, III, c. 66. 59 Ibidem. La participatio tomista come comunicazione 34 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) potenza»60; «ideo ipsa quidditas est sicut potentia, et suum esse acquisitum est sicut actus; et ita per consequens est ibi compositio ex actu et potentia»61. La potenzialità richiama quindi il concetto di inesistenza, di mancanza di attualità riferito all’essere: «quanto è in potenza ancora non esiste»62; «act is coinceived simply as perfection or affirmation of esse, potency is conceived as capacity to receive perfection or as negation or privation»63. L’ente che partecipa allora concretizza un passaggio da potenza ad atto. Ma essendo Dio puro atto e dunque non interessato dalla transizione dalla potenza ad atto, discende il fatto che Egli mai potrà partecipare, potendo invece solo essere partecipato64: «A Dio niente si può attribuire per partecipazione»65. 4. Le tre forme di causalità Il concetto di partecipazione non può che richiamare quello di causalità66, come espressamente indica l’Aquinate: «poiché dal fatto che una cosa è ente per partecipazione segue che sia causata da altri»67. Dio è causa di tutto perché tutto crea, cioè chiama dal nulla ogni ente: «Dio ha prodotto le cose nell’essere»68; «tutto ciò che in qualsiasi modo esiste deriva da Lui»69. Dio causa direttamente senza intermediari, quindi nella creatura c’è presenza immediata degli effetti causati da Dio, creatura perciò penetrata da Dio in tutti i suoi principi e perfezioni. Allora essendo Dio riflesso nelle creature, anche le pure perfezioni che a Lui appartengono saranno presenti negli enti, issn 2035-584x seppur queste perfezioni siano partecipate e quindi limitate70. Ecco una prima accezione dell’espressione «esse intensivo» di cui si dirà meglio più avanti71. Allineandosi sulla posizione aristotelica, Tommaso afferma che Dio è il Motore immobile, il puro Atto che non è mosso da altri ma che muove tutto72. Anche in questo caso viene alla luce una particolare sfaccettatura del termine «comunicare»: partecipare al moto del Primo motore significa trasmettere il moto dalla Fonte originaria ad altri elementi che ricevono il moto. Ma Dio non è solo la Causa incausata ed efficiente, altresì è Colui che sostiene il moto, cioè che permette che gli enti conservino la loro esistenza73, la loro attualità d’esse. Poiché, se cessasse il moto che proviene dal Motore immobile, a cascata ed immediatamente ogni moto inferiore cesserebbe: «è impossibile che il divenire e il moto di queste cose perdurino, se viene a cessare la mozione del movente. Dunque è impossibile che permanga l’essere delle cose, senza un’operazione da parte di Dio»74. Da ciò consegue che Dio permette ogni atto, non solo quello d’essere, ma ogni attualità che da questo promana75. La causalità trascendentale, che trova in Dio la Causa efficiente, quindi consente la causalità predicamentale, causalità che agisce solo all’interno dell’ordine degli enti creati, intesa sia in senso dinamico come successione delle cause seconde (la generazione, gli effetti delle azioni umane, etc.)76, sia in senso statico come elemento grazie al quale si produce quell’ente particolare, a motivo della specializzazione della materia da parte della forma (con esclusione ovviamente degli esseri privi di ma- 60 Ibidem, II, c. 53. 61 Tommaso D’Aquino, Scriptum super Sententiis magistri Petri Lombardi, II, dist. 3, q. I, a. 1 c. 62 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, I, c. 17. 63 C. Fabro, The Intensive Hermeneutics of Thomistic Philosophy: The Notion of Participation, in www.pao.chadwyck.co.uk, consultato il 18/04/2011, p. 464. 64 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, I, c. 38. 65 Ibidem, I, c. 60. 66 Cfr. S. Vanni Rovighi, Istituzioni di filosofia, Brescia, 1994, p. 128. 67 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 44, a. 1 ad. 1. Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 471. 68 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, II, c. 16. 69 Ibidem, II, c. 15. 70 Cfr. Tommaso D’Aquino, De Veritate, q. 21, a. 4 c.; C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 525. 71 Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 473. 72 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, I, c. 13. 73 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 104, a. 1. 74 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, III, c. 65; c. 20. Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 474. 75 Cfr. U. Pellegrino, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso D’Aquino, cit., p. 46; C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., pp. 481-483. 76 Cfr. U. Pellegrino, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso D’Aquino, cit., p. 47. La participatio tomista come comunicazione 35 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) teria, quali gli angeli)77. In merito alle cause seconde appuntiamo solo che «la creatura non va detta “operare per partecipazione” solo in senso causale trascendentale [le nostre azioni sono causate, cioè praticabili, solo a motivo di una causa prima78], come vuole il Neoplatonismo, ma anche in senso soggettivo predicamentale, per mezzo di capacità e potenze [proprie]»79, potenze che fluiscono dall’essenza. Tommaso infatti a tal proposito scrive: «Operatur etiam naturali sua potentia, quae est principium suae operationis, scilicet sensu vel intellectu: quae non est essentia ejus, sed virtus ab essentia fluens»80. L’agere che dunque viene dall’interno dell’ente è prodotto a motivo della causa predicamentale, perché causa racchiusa nell’ordine dell’ente stesso. Quindi in merito alla creazione (momento statico dell’esse) Dio è la causa prima ed unica, cioè esclusiva; in merito al movimento (momento dinamico del fieri) Dio è sempre la causa prima, ma non più esclusiva81. Nel processo causale poi si inserisce un altro elemento che va ad incidere sull’ente: «Poiché ogni causa agente produce cose consimili, un effetto acquista la forma da quell’essere cui è reso simile dalla forma acquistata: la casa materiale, per esempio, deve la sua forma all’arte»82; «ciò cui viene attribuita una qualifica per partecipazione non viene così qualificato se non in quanto ha una certa somiglianza di quell’essere che è tale per essenza: il ferro, ad esempio, è detto infuocato in quanto partecipa una somiglianza del fuoco»83. Se ogni ente è stato creato da Dio, in ogni ente risplende una somiglianza di Dio, dato che nell’effetto residuano degli elementi della causa84 (non si può dare identità tra causa ed ef- issn 2035-584x fetto, bensì solo somiglianza, perché – tra gli altri motivi che si possono addurre – ciò comporterebbe la creazione di un altro dio, ma Dio è increato ed è uno). Ciò ci porta a due considerazioni. In primis si può predicare non solo una somiglianza tra Dio ed enti, che vogliamo rappresentare come una comunicazione verticale, bensì, proprio a motivo del fatto che tutti gli enti hanno in comune l’esse, si può anche asserire l’esistenza di una somiglianza tra gli enti, cioè una comunicazione orizzontale, data dalla simultanea presenza negli esseri di elementi identici (pensiamo all’animalità tra un uomo e un cane) e di elementi differenti (poniamo mente alla razionalità tra un uomo e un cane). Una comunicazione che significa «avere insieme, mettere in comune» gli elementi uguali85, e di riflesso una mancanza di comunicazione per gli elementi differenti. In secondo luogo la participatio tra Essere e creature si manifesta come una comunicazione non di una totalità, bensì come una trasmissione analogica di un’ontologia. Il concetto di somiglianza, che platonicamente potrebbe essere espresso con il relativo concetto di imitazione/mimesi86, disvela dunque un’altra accezione del verbo «comunicare»: l’ente manifesterà nella sua struttura ontologica alcune analogie con l’Ente divino87. «Comunicare» quindi come appalesare, rivelare manifestamente tramite il proprio essere: una divulgazione ontologica potremmo dire. «La gloria di Dio è l’uomo vivente e la vita dell’uomo è la manifestazione di Dio»88, ci ricorda Ireneo. In merito poi alla similarità con Dio, questa si articolerà su più aspetti e sarà predicabile nuovamente grazie alla partecipazione intesa come comunicazione, cioè trasferimento di elementi costitutivi e di qualità, il primo dei quali è necessariamente l’esse: «Dio vuole comunicare il proprio essere alle altre cose sotto forma di 77 Cfr. B. Mondin, La metafisica di San Tommaso e i suoi interpreti, cit., p. 101. 78 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 109, a. 1 c.; I, q. 75, a. 5 ad 1. 79 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 149. 80 Cfr. Tommaso D’Aquino, Scriptum super Sententiis magistri Petri Lombardi, II, dist. 17, q. I, a. 2 ad 6. 81 Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 478. 82 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, II, c. 43. 83 Ibidem, I, c. 40. Cfr. Tommaso D’Aquino, De Potentia, q. 7, a. 7 ad 3. 84 Cfr. P. Lazzaro, La dialettica della partecipazione nella Summa contra Gentiles di S. Tommaso D’Aquino, cit., p. 74. 85 Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 630. 86 Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 27. 87 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, III, c. 97; De Potentia, q. 7, a. 7 ad 3; Sententia super Physicam, IV, lect. 7, 7. 88 Ireneo, Adversus haereses, IV, 20, 7. La participatio tomista come comunicazione 36 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) somiglianza»89. Sotto questa prospettiva Dio è dunque inteso come causa esemplare. Analogamente anche nel fenomeno sociale della comunicazione, se questa avviene correttamente e se il mittente e il destinatario utilizzano gli stessi sema con identici significati, c’è se non identità di contenuti pensati-trasmessi e pensati-ricevuti almeno similarità. Nella causa esemplare si annida poi un altro snodo concettuale che è pertinente con l’oggetto del presente articolo: la comunicazione agli enti dell’esse e di altre qualità come la bontà, la perfezione, la sapienza, l’agire etc.90 è intesa dal Dottore Angelico come un dono, una elargizione: «Dio […] non agisce per acquistare, bensì per elargire qualcosa con la sua azione»91. Il comunicare diventa quindi effondere/diffondere l’essere e tutte le preziosità metafisiche che su di esso possono insistere, preziosità accidentali anch’esse esistenti nell’ente se non per partecipazione92. Il comunicare poi è assunto addirittura ad elemento intrinseco della bontà di Dio: «Egli perciò comunica ad altri esseri la sua bontà, non per accrescere così il proprio bene, ma perché il comunicare è a lui connaturale, essendo egli la fonte della bontà»93. In questo donare all’ente la bontà ed altre qualità divine si rinviene poi un altro significato affine a quello di «comunicare»: rendere partecipe qualcuno di un contenuto. Quindi condividere. Ma dato che questa azione di condivisione avviene, per così dire, tra due intimità, cioè tra l’essere sussistente di Dio e l’essenza attualizzata dell’uomo, allora il comunicare assume i toni specialissimi del confidare, del confessare, verbi più appropriati allo spettro metafisico che investe la relazione tra due interiorità, quella profondissima dello spirito di Dio e quella dell’anima della persona umana. Il rapporto di esemplarità poi non si esaurisce considerando solo la relazione diretta Dio-creatura, ma all’interno di questa relazione si instaura, come accennato prima, una partecipazione tra genere e specie, e tra specie 89 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, II, c. 6. 90 Cfr. Ibidem, I, c. 93; III, c. 70. 91 Ibidem, III, c. 18. 92 Cfr. Tommaso D’Aquino, De Veritate, q. 21, a. 5. 93 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, I, c. 93. La participatio tomista come comunicazione issn 2035-584x e individui. In merito a questa doppia partecipazione e trasferendoci dal piano logico a quello ontologico-reale, se nella dinamica Causa prima-effetti la perfezione di Dio si riverberava negli effetti da Lui prodotti e quindi sopravviveva in essi non in modo identico ma analogico, parallelamente ciò accadrà anche tra genere e specie, e specie individui. Ad esempio il singolo uomo non possiederà tutte le perfezioni che in senso estensivo e pieno appartengono alla specie di riferimento: «si dice che “uomo” partecipa di “animale” perché non possiede la ragione di animale secondo la sua intera estensione [communitatem]»94. La singola essenza attualizzata, dato che è legata ad un individuo materiale, comunica all’individuo solo una parte della perfezione della specie, non tutte le perfezioni95. Così Tommaso per il rapporto analogo tra genere e specie: «Ogni creatura [che appartiene ad una data specie] ha un essere definito e determinato [differente da quello di una creatura appartenente ad un’altra specie ma possiede identico genus]»96. In modo simile Fabro: «Quindi l’essenza di una creatura superiore, benché abbia una somiglianza con quella inferiore, per il fatto di avere un genere comune, tuttavia non ha questa somiglianza in modo completo, perché è determinata a una data specie, cui è estranea la specie della creatura inferiore»97. Come inciso annotiamo che ciò comporta che la totalità della perfezione formale – presente solo nell’Ente supremo: «Dio è lo stesso essere per sé sussistente; quindi niente gli può mancare della perfezione dell’essere»98 – è stata come distribuita da Dio in tutti gli enti – ma anche in questo caso non in modo esaustivo dato che le possibilità di declinazione concre94 Tommaso D’Aquino, Commentarius in Boetium de Hebdomadibus, lect. II. 95 Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 17, 76; U. Pellegrino, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso D’Aquino, cit., p. 46. 96 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 84, a. 2 ad 3. 97 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 76. 98 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 4, a. 2 c. Cfr. Tommaso D’Aquino, De Potentia, q. 7, a. 7 ad 2; C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 520. 37 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) ta della perfezione formale sono illimitate: le «cose causate […] ricevono frazionato e parzialmente ciò che in Dio si riscontra in maniera semplice e universale»99. Questa distribuzione richiama un’altra accezione del termine «comunicare»: diffondere100, propagare un messaggio. In questo caso il messaggio è innanzitutto l’essere: «comunicazione» come irradiazione dell’esse, rendere comune l’essere in tutti gli enti. Ma torniamo allo snodo concettuale che vedeva la creatura attualizzare solo una parte delle perfezioni della specie. Sotto questa visuale la partecipazione diventa similitudine tra due stati più o meno perfetti di una stessa forma. Pensiamo alla formalità dell’animalità del cane e dell’uomo, la quale – pur essendo identica dal punto di vista contenutistico tra questi due soggetti (entrambi partecipano all’animalità) – possiede una grado di maggiore perfezione nell’uomo, cioè una modalità di espressione dell’essere più alta. In questa particolare prospettiva la partecipazione può venire spiegata come ordine intensivo, cioè come gradualità più o meno intensa di perfezione101. Quanto più l’ente si avvicina alla pienezza delle perfezioni che è presente solo in Dio, tanto più l’espressione «partecipare l’essere» si eleva in quella di «attingere l’essere». Così Fabro sul punto: «Più il “partecipare” è perfetto e meno è “partecipare”, e diventa propriamente “attingere”. E l’ “attingere” più cresce in perfezione, più dice immediatezza d’unione e pienezza di comunicazione»102. Allora il «comunicare» tra partecipante e partecipato è così intenso che trascende nell’ «essere come il partecipato»: più si cresce raffinandosi nella via della identificazione, più ci si avvicina al perfezione somma. Analogamente anche nel processo della comunicazione verbale tanto più questa avviene tra due soggetti consimili tanto più sarà univoca. Facciamo ora ritorno alla questione della gradualità delle perfezioni negli esseri finiti. Dun- issn 2035-584x que l’atto di essere si comunica non in modo identico per tutti gli enti bensì con gradualità differenti – tramite un rapporto di magis et minus103 – determinando perfezioni differenti, realizzando quella dinamica ontologica che si può definire come «dialettica dell’imperfetto»104. E tra più individui della stessa specie, e tra specie dello stesso genus, le differenze dovranno imputarsi agli accidenti105, non certo alla sostanza costitutiva degli stessi dato che «secondo l’angolo intelligibile dell’astrazione formale […] tutti gli uomini sono egualmente uomini, e la natura umana, presente nell’uno, non può, come natura umana, esser diversa da quella dell’altro, altrimenti quest’altro non sarebbe più un uomo, ma qualche altra cosa»106. Più in particolare e in merito alle differenze tra gli enti dobbiamo dire che questi ultimi «non si diversificano rispetto alla forma o essenza come tale, ma essi stessi diversificano nel campo dell’essere reale tale forma o essenza»107. Cioè l’actus essendi viene limitato tramite l’essentia, la quale essenza attualizzata comunicherà alla materia i suoi tratti specifici. Da qui discende il fatto che l’esse per participationem è un esse accidentaliter108, secundum quid109. Le differenze quindi dovranno essere rintracciate non nell’esse in quanto tale, bensì nelle varie modalità di aver l’essere110. In sintesi potremmo affermare che tutti gli uomini sono identici per natura, ma altresì sono tutti diversi perché tale identica natura fiorisce in modo unico in ciascuno di noi, cioè «each one shares humanity in his own way»111. Su questo punto nuovamente Fabro 99 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, I, c. 32. 100 Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., pp. 122-123. 101 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 93, a. 3 ad 3. 102 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 145. 103 Cfr. Tommaso D’Aquino, De mixtione elementorum. 104 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 54; F. Olgiati, La filosofia tomistica e la nozione metafisica di partecipazione, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», a. XXXII (1940), F. VI, p. 596. 105 Cfr. Tommaso D’Aquino, De Malo, q. 2, a. 9 ad 16. 106 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 78. 107 Ibidem, p. 81. 108 Cfr. Tommaso D’Aquino, De Potentia, q. 7, a. 4 c. 109 Cfr. Tommaso D’Aquino, De Veritate, q. 21, a. 5; C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 140. 110 Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 489. 111 C. Fabro, The Intensive Hermeneutics of Thomistic Philosophy: The Notion of Participation, cit., p. 485. La participatio tomista come comunicazione 38 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) appunta che «in relazione all’atto di essere, l’individuarsi della specie umana appare come una magnifica fioritura dai colori e dalle tinte più varie»112. In questo senso le formalità particolari possono essere rappresentate come predicazioni univoche113. Allora il rapporto analogico ad esempio tra più individui appartenenti alla medesima specie (o tra più specie appartenenti al medesimo genere) mostrerà una doppia relazione di carattere antitetico: una comunicazione di un elemento identico – la sostanza – e una mancanza di comunicazione dato dalle differenze specifiche – gli accidenti – che non possono rinvenirsi negli altri individui perché propri solo di un singolo soggetto. Così ancora Fabro: «Per riassumere quanto è stato detto intorno allo sviluppo della nozione tomista di partecipazione predicamentale, possiamo dire che la specie è detta partecipare al genere, e l’individuo alla specie non soltanto in quanto vi sono altre specie che “comunicano” nella stessa ragione generica, ed altri individui che “comunicano” nella medesima ragione specifica e che quindi hanno una medesima definizione, ma anche, e in conseguenza di ciò, per il fatto che fra le molte virtualità formali del genere ciascuna specie non ne realizza che una sola, e fra i molteplici modi di essere di cui è suscettibile una specie ogni individuo non ne realizza che uno solo, con esclusione degli altri»114. Questa gradualità di perfezioni può predicarsi anche sul piano gnoseologico e trattasi di astrazione intensiva: la ragione di esse ricomprende tutte le perfezioni dell’esse inferiori ad essa. Così la ragione «Vita» si mostra come una totalità formale verso cui le varie manifestazioni di «vita», oggetti della nostra conoscenza, appaiono come partecipazioni, degradazioni115. Il presente iter argomentativo ha allora messo in luce l’esistenza di due modalità di partecipazioni: l’una predicamentale-univoca, l’altra trascendentale-analoga116. Nella issn 2035-584x prima, ad esempio, due uomini possiedono la medesima-univoca formalità. E la formalità non esiste in sé dal punto di vista ontologico117 bensì esiste solo nell’uomo concreto e particolare. Ad esempio la razionalità non esiste in sé, ma esiste nel momento in cui si realizza nell’essere umano concreto, cioè nel momento in cui viene partecipata dall’essere concreto: «ciò che è detto essere per partecipazione è composto realmente dell’ “ipsum esse”, che è il partecipato, e dal “quod est”, che è il partecipante»118. Trattasi quindi di un’altra categoria concettuale di partecipazione: la participatio di un soggetto alla forma119. Formalità poi piena perché ogni ente riceve completamente dal punto di vista intensivo e non estensivo il contenuto essenziale: ogni uomo possiede pienamente l’«umanità» dell’essere uomo. Possiede cioè perfettamente l’«umanità» ma non nella sua totalità: Carlo non è la totalità dell’«umanità» bensì solo una sua parte, parte che però in sé è completa nell’«umanità». Il Maestro domenicano così glossa: «Socrate, per esempio, è detto uomo non perché è la stessa umanità, ma perché la possiede»120. La pienezza di partecipazione è spiegabile perché «ogni formalità invero, quand’è considerata soltanto secondo il suo contenuto intelligibile è unica e indivisibile in sè: se quindi la si suppone esistere, secondo la purezza di questo suo contenuto che la specifica, essa, anche in realtà, non può esistere che unica»121. Formalità piena e nello stesso tempo particolarissima dato che nel singolo uomo fiorisce in modo unico e specialissimo, appunto individuale. Quindi si potrebbe anche dire che egli non possiede tutte le perfezioni formali dell’«umanità» – ogni uomo, 112 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 78. 113 Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 484. 114 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 81. 115 Cfr. F. Olgiati, La filosofia tomistica e la nozione metafisica di partecipazione, cit., p. 599. 116 Nel prossimo paragrafo spiegheremo meglio cosa si debba intendere per partecipazione predicamentale e per partecipazione trascendentale. 117 Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 15, 59. Il termine «ontologico» è qui usato nell’accezione di esistente nella realtà, ben consci che anche la formalità pensata è essa stessa ente e quindi ontologicamente esistente. 118 Ibidem, p. 15. 119 Cfr. Ibidem, p. 16. 120 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, I, c. 32. 121 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 91. La participatio tomista come comunicazione 39 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) come è stato accennato, non è l’«umanità», ma partecipa all’«umanità» cioè ha una sua umanità specifica. Oppure, esemplificando su altro versante, potremmo dire che la razionalità è espressa perfettamente in ogni uomo, ma questi non possiede tutti i modi in cui la razionalità si può estrinsecare. Possedere tutta una formalità non significa necessariamente possederla totalmente122 (cosa invece predicabile per Dio). Entrambi gli esempi sono dunque casi di «immanenza piena della formalità universale negli inferiori»123. Allora – e il sostantivo «comunicazione» viene nuovamente interessato dalla nostra indagine – c’è tra tutti gli uomini un’identità e insieme una similarità. Identità di forma, ma diversità di modalità attraverso cui la forma esiste, si appalesa nel concreto124: «esse uniuscuiusque est ei proprium et distinctum ab esse cuiuslibet alterius rei»125; «Tutti gli esseri convengono in questo: nell’avere la propria ragion d’essere, ma la nozione non dice di più, perchè in concreto ciascun essere ha il proprio modo di essere, che è distinto e diverso da ogni altro»126; «l’umanità certamente è la ragione per la quale e Pietro e Paolo sono detti “uomini”, ma l’umanità non dice tutto quanto è costituito in Pietro e Paolo, altrimenti Pietro e Paolo in nulla differirebbero e s’identificherebbero»127. Dunque esiste una specialissima comunicazione/ relazione tra gli individui a motivo del loro status ontologico, insieme uguale e diseguale. Dal punto di vista estensivo invece, come prima accennato, nessun uomo esaurisce in sé tutti i modi in cui può estrinsecarsi la razionalità. Nella partecipazione trascendentale analoga invece i partecipanti possiedono una similitudine/analogia degradata del partecipato, che è esistente in sé. Così ad esempio l’esse degli uomini è una degradazione dell’Esse-Dio, ed è quindi imago dell’essere divino. Dio quindi issn 2035-584x non comunica imperfettamente l’essere dato che questo, si potrebbe appuntare, si trova degradato, ma comunica perfettamente un esse che viene limitato dall’essenza. Trattasi di un’analogia di proporzionalità trascendentale che riguarda creatore-creatura (nell’ordine predicamentale invece attiene al rapporto sostanza-accidenti) che li considera secondo il contenuto di realtà che essi hanno, cioè in proporzione alla loro ontologia128. Esse dunque imperfetto perché non così estensivamente presente nell’uomo come in Dio, ma altresì esse perfetto perché l’uomo, dal punto di vista intensivo, possiede pienamente l’esse, è formalmente finito, completo, seppur limitatamente alla sua condizione di creatura. Infine se Dio causa l’atto di essere, se conserva l’atto di essere e se ogni ente somiglia al primo Ente innanzitutto perche esistente, ciò significa che tutto ciò che è tende ad esistere, tende allora a somigliare a Dio che è atto puro di esistere129: «Ma il supremo agente causa tutte le azioni delle cause agenti inferiori, muovendole alle loro operazioni, e quindi ai loro fini. Perciò ne segue che tutti i fini di codeste cause sono ordinati dalla prima causa agente al fine suo proprio. Ebbene, la prima causa agente di tutte le cose è Dio […]. Ora, la Sua volontà non ha altro fine che la Sua bontà, la quale è lui stesso […]. Perciò tutte le cose […] sono ordinate a Dio come a loro fine»130. Analogamente Fabro: «Ma la bontà divina può esser ancora considerata come causa finale di tutte le altre bontà: essendo il primo principio di origine di tutte le cose, è anche il termine di tutte le loro operazioni per le quali si perfezionano, onde non possono esser dette buone se non in quanto sono ordinate all’ultimo fine, la bontà divina»131 Ecco dunque che Dio è anche causa finale132. Volendo allora sintetizzare le tre modalità causali in cui si estrinseca il rapporto tra Dio e gli enti e recuperando un efficace esempio pro- 122 Cfr. Ibidem, p. 142. 123 Ibidem, p. 62. 124 Cfr. Ibidem, p. 60; Tommaso D’Aquino, Sententia super Metaphysicorum, X, lect. 1, n. 11. 125 Tommaso D’Aquino, De Potentia, q. 7, 3 c. 126 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 63. 127 Ibidem, p. 71, 74. 128Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 648. 129 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, III, c. 19. 130 Ibidem, III, c. 17. 131 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 19. 132 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, III, c. 18; De Veritate, q. 22, a. 1 c. La participatio tomista come comunicazione 40 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) posto da Fulvio Di Blasi, potremmo affermare che Dio è causa efficiente: tengo sollevato un libro (ente) con la mia mano (Dio). Se tolgo la mano il libro cade. La mano è causa efficiente del fatto che il libro stia sollevato: «ogni volta che qualcosa sta agendo in un modo che non può essere causato dalla sua natura, dobbiamo logicamente riferire l’agire a una causa esterna capace di causarlo per essenza, e diciamo che il soggetto dell’azione partecipa di quella causa»133. In merito poi alla causa esemplare il partecipante è reso simile alla causa: il libro sospeso rivela ad esempio la forza della mano che riesce a sollevarlo, mostra in sé questa qualità che appartiene però originariamente alla mano. Infine il libro obbedisce nell’effetto alla teleologia della causa. Detto in altri termini l’ens che partecipa è teleologicamente orientato verso la direzione impressa dalla causa: il libro è posto esattamente all’altezza dove è stato sollevato, cioè voluto-finalizzato, dalla mano. Trattasi di causa finale134. 5. Partecipazione predicamentale e trascendentale Questo excursus ha messo quindi messo in evidenza l’esistenza di due partecipazioni, oltre a quella logica e ontologica di cui si è già accennato: la partecipazione predicamentale e quella trascendentale135. Nella partecipazione predicamentale sia partecipato che partecipante rimangono nell’ambito dell’ente finito, e può aver luogo sia nella prospettiva logica (la partecipazione della specie al genere: l’uomo che partecipa all’animalità) sia in quella ontologica (la partecipazione della materia alla forma: il corpo che partecipa all’anima). Così Fabro: «Per “partecipazione predicamentale” intendo quella nella quale ambedue i termini della relazione, partecipato e partecipante, restano nel campo dell’ente e della sostanza finita (predicamenti). Di essa nel Commento al De Hebdomadibus sono ricordati due modi: issn 2035-584x uno formale-nozionale ed uno reale; e ciascuno di questi due modi è stato presentato sotto due forme: A = la specie partecipa al genere e l’individuo alla specie; B = la Materia partecipa alla Forma ed il soggetto (la sostanza) partecipa all’accidente»136. La partecipazione predicamentale allora è una partecipazione immanente che si articola come una relazione, una comunicazione armonica cioè collaborativa tra gli esseri, e altresì all’interno di ogni singolo ente tra le sue parti costituenti. Questa comunicazione virtuosa può essere spiegata solo se c’è una regia somma, solo se le parti sono in relazione tra loro e un unum superiore. Nella sua totalità allora la partecipazione predicamentale può essere intesa come un organismo, un ordo composto da parti che si coordinano tra loro in modo razionale. C’è dunque una specie di affinità universale, affinità ontologica tra gli esseri, un legame che li unisce in rapporto gerarchico a Dio137 e che si appalesa come un principio di continuità metafisica tra gli esseri138: «sicut est ordo quidam inter substantias corporales […] ita est etiam quidam ordo inter substantias spirituales»139. La partecipazione trascendentale riguarda invece l’Ente e l’actus essendi-essentia. Partecipare in questa accezione significa, come afferma Fabro, «avere in modo limitato, imperfetto, particolare un atto e una formalità [essenza] che altrove si trovano in modo illimitato, perfetto e totale»140; è «un rapporto di partecipazione, di “avere”, in opposizione allo “essere” senza contrazione o limitazione»141: è prendere una parte, non prendere la totalità. E più avanti in modo analogo: «“Partecipare” si predica di un soggetto che ha una qualche formalità od atto, ma non in modo esclusivo e in modo totale»142. 133 F. Di Blasi, Conoscenza pratica, teoria dell’azione e bene politico, cit., pp. 8-9. 134 Cfr. Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 6, a. 4 c. 135 Cfr. C. Fabro, The Intensive Hermeneutics of Thomistic Philosophy: The Notion of Participation, cit., pp. 471-473. 136 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 66. 137 Cfr. Ibidem, p. 123. 138 Cfr. Tommaso D’Aquino, De Veritate, q. 11, a. 1 c.; q. 16, a. 1 c.; q. 25, a. 2 c.; C. Fabro, The Intensive Hermeneutics of Thomistic Philosophy: The Notion of Participation, cit., p. 479. 139 Tommaso D’Aquino, De Veritate, q. 15, a. 1 c. 140 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 140. 141 Ibidem, p. 19. 142 Ibidem, p. 142. La participatio tomista come comunicazione 41 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) Così infine Tommaso: «Inoltre ogni volta che un essere riceve in maniera particolare, ciò che a un’altra cosa appartiene universalmente, si dice che partecipa»143. Inoltre è da notare che «questo avere o essere secondo limitazione si può realizzare tanto nell’ordine predicamentale (di qualche natura universale rispetto agli individui ai quali vien comunicata), [l’uomo partecipa alla natura razionale] come nell’ordine trascendentale dello esse rispetto a tutti gli enti finiti materiali e spirituali [l’essenza degli uomini partecipa all’esse]»144. Allora la differenza tra l’Ente Dio e gli enti particolari dovrà rinvenirsi nella limitatezza della possessione dell’essenza attualizzata, cioè nella modalità particolare in cui l’essere diviene esistente nella creatura: «in relazione alla quale [la qualità d’essere] ciascuna forma o grado, non è che una particolarizzazione, cioè partecipazione»145. La partecipazione trascendentale individua l’alveo ove incanalare l’essere, una partecipazione quindi che «permette il fluire dell’essere nell’ambito dei predicamenti»146. Tale participatio poi, come già in precedenza abbiamo visto, si articola nel modo seguente: la forma partecipa all’actus essendi, «l’atto d’essere comunica alla forma che la rende principium essendi et agendi dell’ente concreto»147. La concretezza, sotto questa particolare angolatura, sta ad indicare la determinazione dell’esse che dà una parte conferisce attualità all’essenza e dall’altra riceve da questa specificazione: l’essenza individualizza l’essere e lo rende dunque unico148. In tale dialettica il sostantivo «comunicazione» risulta perciò quanto mai appropriato ad indicare questo scambio reciproco e virtuoso di issn 2035-584x proprietà strutturali dell’ente tra esse ed essentia. Scambio che indica relazione profonda tra più soggetti, espressione che ancora una volta trova addentellati semantici con il comunicare. Allora se ci riferiamo contemporaneamente ai due tipi di partecipazione ne risulta che la creatura è ente per partecipazione in senso trascendentale perché composta di essenza ed esse, e nell’ordine predicamentale perché composta di sostanza e accidenti, e forma e materia149. Le due partecipazioni, trascendentale e predicamentale, si riflettono in due causalità corrispettive, che prendono quindi anche loro il nome di causalità trascendentale e predicamentale, di cui già innanzi si fece un cenno. Anche in questo caso il verbo «comunicare» esprime al meglio il senso profondo del termine «participatio». Nella causalità predicamentale la forma comunica l’esse alla materia. Questo può avvenire dato che la forma – essentia già permeata dall’esse – ha già in sé l’atto di essere e quindi lo può trasmettere di suo. Quindi la forma nei corruttibili insieme alla materia determina l’ente predicamentale nel suo grado ontologico150: «nei composti di materia e forma si dice che la forma è principio d’essere»151. Da notare quindi che Dio, in questa forma di partecipazione, non è attore principale, sebbene ovviamente si muova dietro le quinte della scena ontologica. La causalità predicamentale coinvolge anche il rapporto tra sostanza e accidenti: la prima comunica l’esse agli accidenti. Nella causalità trascendentale invece viene messo in evidenza il fondamento ultimo sia degli esistenti (rapporto statico) sia del divenire (rapporto dinamico). E Dio che causa gli enti facendo partecipare l’atto d’essere alle varie essenze; è sempre Dio che causa il moto degli atti. La Causa prima è «causa universalis omnibus rebus (creazione e conservazione), e [causa universalis] agendi omnium rerum (rapporto tra Causa prima e cause seconde)»152 cioè causa che permette l’agire, che trasmette/ comunica il moto. 143 Tommaso D’Aquino, Commentarius in Boetium de Hebdomadibus, lect. II. 144 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 19. In merito alla partecipazione predicamentale su questo specifico punto cfr.C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 642. 145 C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 75. 146 P. Lazzaro, La dialettica della partecipazione nella Summa contra Gentiles di S. Tommaso D’Aquino, cit., p. 126. 147 Cfr. B. Mondin, La metafisica di San Tommaso e i suoi interpreti, cit., p. 101. 148 Cfr. F. Olgiati, La filosofia tomistica e la nozione metafisica di partecipazione, cit., p. 599. 149 Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità, cit., p. 648. 150 Cfr. Ibidem, p. 645. 151 Tommaso D’Aquino, Summa contra Gentiles, II, c. 54. 152 F. Olgiati, La filosofia tomistica e la nozione metafisica di partecipazione, cit., p. 102. La participatio tomista come comunicazione 42 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) 6. Il modo dell’essere, tratto specifico della partecipazione A questo punto, al fine di comprendere meglio il concetto di partecipazione e di come questo possa declinarsi nelle sfumature di significato della coppia di termini «comunicazione/comunicare», torniamo per un momento all’etimo del verbo «partecipare». Tommaso nel Commentarius in Boetium de Hebdomadibus afferma che «Est autem partecipare quasi partem capere»153. Il lemma «partecipare» in prima battuta si può riferire all’aspetto quantitativo: uno tutto che si divide in parti assegnate a più soggetti. Ad esempio la divisione testamentaria, oppure la divisione dei beni tra i coniugi che si contrappone alla comunione dei beni. Come appare intuitivo in questa accezione il «partecipare» è antitetico alla «comunione» perché indica una dinamica esattamente opposta: non un mettere insieme, una creazione di unità, una comunicazione di beni, bensì una parcellizzazione della stessa, una segmentazione e distribuzione di una totalità. Nello stesso tempo però si può predicare una «comunanza» una volta che la totalità si è divisa, «comunanza» intesa come riconoscimento che le parti provengono da un’unica fonte, che in esse c’è la medesima qualità d’origine154. Quindi a ben vedere la partecipazione quantitativa cessa di per se stessa una volta che il bene materiale è stato diviso, rectius esiste solo nel mentre dell’atto divisorio e sopravvive in un certo qual senso unicamente nella prospettiva storica, cioè nel già ricordato riconoscimento di una origine comune delle parti. Su un primo livello di generalizzazione potremmo dire allora che la partecipazione quantitativa è un affettare un unicum, dunque ha relazione con un oggetto. Se invece applichiamo il concetto di partecipazione ad un piano metafisico, e non più meramente empirico, la participatio interessa il modo155. Partecipare ad un dolore, ad una gioia di una persona non intacca 153 Tommaso D’Aquino, Commentarius in Boetium de Hebdomadibus, lect. II. 154 Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 22. 155 Cfr. Ibidem, p. 23. La participatio tomista come comunicazione issn 2035-584x l’oggetto «dolore» o «gioia» bensì riguarda la particolare modalità attraverso cui si fa proprio il dolore o la gioia di una persona156. Similmente per i concetti di esse, forma, sostanza – tutti elementi che abbiamo visto possono essere partecipati rispettivamente da essenza, materia e accidenti – i quali in sé ovviamente sono indivisibili e quindi non suscettibili di frammentazione in parti. La partecipazione metafisica intesa come «entrare in comunione con»157 evidenza dunque il modo limitativo, il come specifico attraverso cui si ha l’esse, la forma, la sostanza. Allora il partecipare è un partialiter esse, un partialiter habere, espressioni che sono antagoniste dell’esse, habere, accipere totaliter. Tutto ciò ci spinge ad un’analisi ancora più profonda del termine «comunicazione» e degli affini «comunicare-comunione-comunanza». Sotto il profilo quantitativo ad esempio la «comunanza» è effetto della partecipazione, è una risultante della stessa: prima della divisione non ci sono le parti di cui si riconosce una comune origine. Sotto il profilo metafisico la «comunanza» è invece la radice della partecipazione, perché è entrare in comunione con il dolore o la gioia di un soggetto, e – per l’oggetto delle nostre riflessioni – con l’esse, la forma, la sostanza. Tale accezione allora supera il primo significato di participare che si ha in latino e che è riferibile all’aspetto quantitativo: partem capere o partem habere. Un dividere una totalità, come abbiamo visto. Bensì è più vicino al corrispettivo verbo greco. La traduzione infatti di participare nella lingua di Omero è e che letteralmente significano «comunico, ho in comune, mi unisco, mi associo». E se infine, attraverso un percorso etimologico circolare, cerchiamo il corrispettivo latino di questi verbi greci scopriamo che la traduzione indica habere simul, habere cum alio, communicare cum aliquo in aliqua re158. Ed infatti tutti gli enti han156 Cfr. C. Fabro, The Intensive Hermeneutics of Thomistic Philosophy: The Notion of Participation, cit., p. 453. 157 Non è un caso che la partecipazione al sacramento dell’eucarestia per il rito cattolico venga definita appunto come «comunione». 158 Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso D’Aquino, cit., p. 23. 43 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) no in comune la prima formalità più astratta che possa darsi, cioè l’esse: «Omnes autem causae creatae communicant in uno effectu qui est esse»159. Questo iter etimologico rivela un dato interessante. Nella prima accezione quantitativa veniva in evidenza un rapporto dualistico tra soggetto e cosa: il successore e la parte di eredità che gli spetta. Nella seconda accezione, in modo interlocutorio, potremmo dire che la partecipazione si appalesa come un trittico: due soggetti e l’oggetto della partecipazione. E così nel partecipare al dolore di una persona c’è la sofferenza, chi soffre e chi partecipa alla sofferenza. Però sul piano metafisico e in relazione ai termini esse, forma e sostanza, il rapporto torna ad essere duale, ma gli elementi della relazione sono mutati. Non vi sono più, come sotto il profilo quantitativo, il soggetto e l’oggetto, bensì due soggetti: l’actus essendi e l’essentia; la forma e la materia, la sostanza e gli accidenti. In questo caso non c’è più nemmeno l’oggetto del rapporto a tre che abbiamo visto poco prima. In certo qual senso l’oggetto della partecipazione diventa lo stesso soggetto: egli stesso viene partecipato. L’esse offre sé stesso alla partecipazione. Questo ci conduce al senso più profondo di partecipare che indica l’innestarsi in qualcosa per vivere della sua stessa vita all’interno della limitazione propria, il ricevere l’essere di qualcuno in una singolarità data, così come dal mare si attinge parte della sua acqua con un secchio. Anzi il rapporto di comunanza è così intimo che quasi la dualità dei soggetti svanisce, dato che l’uno si confonde con l’altro, l’uno si fonde nell’altro: infatti l’essere e l’essenza si compongono dando vita all’ente che è uno. Analogamente il sinolo di forma razionale e materia costituisce l’uomo vivente nella sua interezza. In tale accezione allora il verbo «comunicare» appare insufficiente a far comprendere l’intimo significato del termine «partecipazione». Infatti «comunicazione» evoca dualità, che come abbiamo descritto, effettivamente esiste: essere-essenza, forma-materia, sostanza-accidenti. Però d’altro canto la comunione dei due elementi è così forte che genera unità. Ecco quindi perché, tra l’altro, il rapporto tra Dio e l’uomo è 159 Tommaso D’Aquino, De Potentia, q. 7, a. 2 c. La participatio tomista come comunicazione issn 2035-584x trascendente – indicando una dualità di poli ontologicamente assai distanti – ma altresì indica una pervasiva traccia divina in ogni ente. Ed infatti Tommaso si spinge a dire che «tutti gli esseri hanno in se stessi qualcosa di divino, cioè l’inclinazione naturale, che deriva dal Primo principio»160. E questa inclinazione naturale negli esseri razionali non è altro che la lex naturalis, la quale ancora una volta trova la sua definizione nel concetto di partecipazione: «la partecipazione della legge eterna nella creatura razionale si dice legge naturale»161. Il comunicare in quest’ultima prospettiva ermeneutica quasi diviene l’«essere con», una sorta di identificazione del partecipante con il partecipato, appunto una somiglianza come sopra descritto. Quanto sin qui detto allora potrebbe farci concludere che forse il termine «comunicazione» è spendibile laddove si volesse mettere l’accento sul rapporto dualistico della participatio, ma apparirebbe debole ove si desiderasse indicare l’unità dei due elementi che costituiscono ogni rapporto partecipativo. Tommaso Scandroglio è dottore di ricerca in Filosofia del diritto (Università degli Studi di Padova) ed è docente del corso Legge naturale e diritto presso l’Università Europea di Roma. 160 Tommaso D’Aquino, Sententia libri Ethicorum, VII, l. 13, n. 14. 161 Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I - II, q. 91, a. 2. 44 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Diritti sociali e pluralismo giuridico in Gurvitch Alberto Scerbo Abstract Parole chiave Il concetto di diritto sociale, connesso ai valori transpersonali, opposto a quello di diritto individuale, che esprime valori personali, si lega alle differenti forme di socialità, da cui discendono le diverse modalità di estrinsecazione dei fatti normativi. Gurvitch procede, quindi, alla partizione del diritto sociale in una pluralità di livelli. Uno sguardo è, quindi, rivolto al contenuto della Dichiarazione dei diritti sociali. diritti sociali; Gurvitch; Pluralismo sociale; Democrazia. 1- Diritto sociale e diritto individuale L ’unité du droit s’affirme dans cette échelle d’une façon purement immanente et se réalise dans la pluralité même des faits normatifs équivalents. Unité immanente dans la varieté, tel est le dernier mot de la théorie pluraliste du droit”1. In tal modo Gurvitch pensa di ovviare ai limiti riscontrabili nelle più diffuse teorie giuridiche. Infatti, l’impostazione seguita consente di pervenire ad una soluzione dialettica che procede alla sintesi delle tradizionali opposizioni tra essere e dover essere e tra autonomia ed eteronomia, ma anche di definire in modo preciso e completo il rapporto tra la sfera della soggettività e la sfera dell’oggettività, e di cogliere, inoltre, la necessaria unità tra la funzione sociale e la struttura giuridica. La positività del diritto è, così, soggetta ad un’analisi del tutto parallela a quella concernente gli aspetti costitutivi del fenomeno sociale, poiché la specificazione della socialità finisce per porsi come condizione del processo di configurazione dei fatti normativi, che, a sua volta, determina la concettualizzazione delle forme di diritto. “ 1 G. Gurvitch, L’experience juridique et la philosophie pluraliste du droit, Paris, 1935, pp. 150-151. Fonti del diritto diventano, perciò, i “fatti normativi”, che “in un solo e medesimo atto generano il diritto e fondano la loro esistenza sul diritto”, nel senso che “creano il loro essere generando il diritto che serve loro di fondamento”2: essi costituiscono, cioè, tutte le manifestazioni della realtà sociale capaci di creare il diritto. Pertanto, ogni forma di socialità può diventare fonte del diritto, di modo che «le forme di socialità svolgono, accanto e nell’interno dei gruppi e delle società globali in cui sono integrate, la funzione di fonti primarie del diritto; funzione assai importante e decisiva, essendo impossibile capire la vita giuridica dei gruppi e delle società globali senza tener conto della vita giuridica delle forme di socialità»3. Con una specificazione, però, dal momento che «i fatti normativi delle società globali godono nella vita giuridica di una supremazia nei con2 G. Gurvitch, L’idée du droit social, Paris, 1932, p. 119. 3G. Gurvitch, Sociologia del diritto, Milano, 1967, p. 174. Precise annotazioni si rinvengono nel saggio di G. Marchello, Pluralismo e dialettica sociale, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, (1950). Diritti sociali e pluralismo giuridico in Gurvitch 45 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) fronti dei fatti normativi dei gruppi particolari, mentre questi a loro volta hanno la supremazia nei confronti dei fatti normativi delle forme di socialità»4. Il nucleo della teoria sociologico-giuridica di Gurvitch risiede nella distinzione tra socialità spontanea, o diretta, e socialità organizzata, o riflessa. La socialità spontanea si presenta sotto due forme distinte, per interpenetrazione e per interdipendenza, corrispondenti rispettivamente alla fusione parziale nel Noi e alla mera instaurazione di rapporti con gli altri. Il primo tipo comporta la reciproca immanenza di parti e tutto, mentre la seconda forma determina uno stato in cui le coscienze e i comportamenti restano in contrasto con l’insieme. Da questa biforcazione discende un diverso atteggiarsi del grado di intensità della socialità spontanea. In tal modo, dal punto di vista della forza della fusione parziale si individua una integrazione superficiale, che si esprime nella Massa, una più intima, che si realizza nella Comunità, ed un’altra profonda al massimo grado, rappresentata dalla Comunione. All’interno di queste forme di socialità si scopre la presenza di una relazione inversamente proporzionale tra intensità ed estensione, poiché all’espansione dell’una corrisponde il restringimento dell’altra; ciò non è privo di conseguenze, dal momento che mette in luce come il maggior equilibrio si realizzi nell’ambito della forma intermedia dello stato di comunità, che, per tale ragione, si appalesa quale forma più stabile e più sicura di socialità. Dal lato della socialità per interdipendenza, il differente grado di intensità produce relazioni di avvicinamento, di allontanamento e miste. I rapporti con altri si condensano in processi di unione o separazione tra i gruppi e tra gli individui, ma bisogna considerare che nessun rapporto di questo tipo può instaurarsi senza una preesistente fase di interpenetrazione, visto che l’interdipendenza presuppone sempre l’operatività di simboli comunicativi, i quali possono favorire l’unità delle coscienze solamente in dipendenza di una precedente unione intuitiva. Il cerchio si chiude attraverso la 4 Ibidem, p. 174. issn 2035-584x precisazione che il risvolto giuridico di tali connotazioni è offerto dalla caratterizzazione sociale e individuale del diritto. La differenziazione tra le due forme di socialità, che riverbera i suoi effetti nella individuazione delle distinte modalità di estrinsecazione dei fatti normativi, conduce direttamente alla concettualizzazione del diritto sociale, “inteso come diritto di integrazione, di comunione e di collaborazione in una totalità antigerarchica”5. Strettamente connesso ai valori transpersonali, in quanto espressione della socialità per interpenetrazione fondata sull’unione intuitiva, si differenzia dal diritto individuale, che esprime valori personali, perché manifestazione della socialità per interdipendenza costituita sulla comunicazione simbolica. Il diritto sociale “è diritto di pace, di aiuto scambievole, di lavoro in comune”, mentre il diritto individuale “è diritto di guerra, di conflitto, di separazione”6. Sì che “ogni potere giuridico è funzione del diritto sociale” ed è «sempre impersonale, oggettivo, immanente; non costituisce mai una dominazione e non è proiettato al di fuori della molteplicità dei membri che costituiscono un «Noi». Al contrario, il diritto individuale, diritto di separazione e di equazione per eccellenza, non costituisce mai di per se stesso un potere»7. Su queste basi si comprendono le ragioni poste a fondamento del favore dimostrato da Gurvitch per il diritto sociale, che non discende mai da atti impositivi provenienti dall’esterno, perché è «sempre un diritto autonomo, inerente ad ogni “Noi” particolare, favorevole all’autonomia giuridica delle parti interessate»8. 5 G. Gurvitch, Le temps present et l’idée du droit social, Paris, 1932, p. 7. Essenziale rimane il riferimento al saggio di N. Bobbio, Istituzione e diritto sociale (Renard e Gurvitch), in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, (1936). 6 G. Gurvitch, Sociologia del diritto, cit., p. 184. 7 Ibidem, p. 185. Il problema del diritto è analizzato in chiave critica da V. Palazzolo, La teoria del diritto di Georges Gurvitch, in “Archivio di cultura italiana”, (1940). 8 Ibidem, p. 184. Nell’approfondire il rapporto tra diritto e potere, La Torre osserva che in Gurvitch il potere politico, “anche là dove assume le forme estreme della “dominazione” si basa sempre su un qualche tipo di socia- Diritti sociali e pluralismo giuridico in Gurvitch 46 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) In concomitanza con i diversi gradi della socialità per interpenetrazione, Gurvitch opera una suddivisione del diritto sociale, che acquista pieno significato in opposizione al diritto subordinativo, da intendere come una forma degenerativa del diritto sociale, in virtù della soggezione al diritto individuale. Questo fenomeno può essere spontaneo, quando la prevalenza del diritto individuale è imputabile a credenze mistiche, o organizzato, allorché la sovrastruttura organizzata si mostra come il risultato non di una socialità spontanea sottostante, bensì di manifestazioni esterne di diritto individuale. Da tali premesse si dipanano le partizioni del diritto sociale ipotizzate da Gurvitch. Il livello più superficiale di integrazione è realizzato dal diritto sociale della massa, in cui alla esclusività del diritto oggettivo segue la negazione dei diritti soggettivi, con l’effetto di dare origine ad una specie di diritto molto vicina al diritto subordinativo di dominazione. Il diritto sociale della comunità realizza, invece, il maggiore equilibrio tra aspetti soggettivi ed oggettivi del mondo del diritto, soprattutto perché la comunità costituisce, per un verso, l’espressione di socialità più stabile ed efficace e, per l’altro, la fonte del diritto più sicura, in considerazione della capacità di far emergere la distanza tra le caratteristiche essenziali delle credenze giuridiche e tutte le altre. A dispetto dell’intensità del grado di interpenetrazione, la comunione favorisce un diritto sociale con una validità più attenuata, dal momento che la comunione è solitamente fugace ed instabile, e per lo più legata all’influenza di fattori mistici e morali; in questo campo il diritto di integrazione si svolge con il predominio del momento oggettivo e il contemporaneo processo di annichilimento del diritto in quanto tale. È interessante notare quale volto assume il diritto individuale in concomitanza con i vari tipi di rapporti connessi alla socialità per interdipendenza; si riconosce, così, un diritlità, in genere quella «per interpenetrazione», talvolta (nei casi di «dominazione» sulla socialità «per interdipendenza»”, di modo che si può ritenere che “il potere politico è saldamente vincolato al fenomeno giuridico” (M. La Torre, Norme, istituzioni, valori. Per una teoria istituzionalistica del diritto, Roma-Bari, 1999, p. 180). issn 2035-584x to interindividuale di allontanamento, che si origina dal conflitto e si traduce, in fondo, nel diritto del più forte, di cui sono manifestazione concreta il diritto di guerra e il diritto alla proprietà alienabile, un diritto individuale di avvicinamento, che trova compiutezza in istituti come la donazione e la concessione, ed un diritto individuale misto, la cui manifestazione classica è il diritto contrattuale. Un ulteriore tassello va inserito nella costruzione di Gurvitch, che riguarda i piani di profondità delle diverse specie di diritto. Sotto questo profilo rileva il contrasto tra diritto organizzato e diritto non organizzato: ogni diritto organizzato – si precisa – è sempre sovrapposto ad un diritto non organizzato ad esso sottostante, ed ogni diritto non organizzato ha sempre la tendenza a coprirsi di una crosta più stabile e più fredda di diritto organizzato. Tra questi due piani fondamentali della realtà giuridica sussiste, tuttavia, una perpetua tensione, – che – deriva dal fatto che il diritto organizzato non riesce, nel suo schematismo riflesso, ad esprimere appieno il diritto non organizzato più dinamico e più ricco di contenuto9. Gurvitch rompe, così, la necessaria concatenazione tra diritto ed organizzazione, che sembra costituire il passaggio obbligato per innalzarsi dalla dimensione dinamica della socialità a quella certa della giuridicità. Di conseguenza apre la strada ad una modalità di confronto più articolata, per la quale esiste vero diritto di integrazione quando è fondato sul diritto non organizzato prodotto dalla comunità sottostante, ragion per cui si assiste all’espansione del diritto di subordinazione nel momento in cui si realizza il distacco tra diritto organizzato e diritto spontaneo e l’organizzazione che ne deriva acquista il carattere di una associazione di dominazione. Attraverso tali premesse Gurvitch rileva la complessità della realtà sociale, che lo induce a privilegiare, accanto ad uno studio in profondità, o in verticale, uno studio in orizzontale, o di tipo differenziale10. Proprio questo speci9 Ibidem, p. 193. 10 Alcune precisazioni sono contenute anche in C. Faralli, Il tempo dello storico e il tempo del sociologo: la polemica tra Braudel e Gurvitch, in “Sociologia del diritto”, (1996), n. 3. Diritti sociali e pluralismo giuridico in Gurvitch 47 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Da parte sua Gurvitch schematizza piuttosto minuziosamente l’analisi sociologica del diritto, precisando la necessità di distinguere la microsociologia e la sociologia differenziale del diritto. La prima, diretta a «studiare le specie di diritto in funzione delle diverse forme di socialità, – nonché – a studiare le specie di diritto in funzione dei livelli di profondità individuabili nell’ambito di ogni forma di socialità in quanto fatto normativo»13; l’altra, rivolta all’indagine delle strutture giuridiche rappresentative di unità collettive reali, rilevanti nelle forme della tipologia giuridica dei gruppi particolari e della tipologia giuridica delle società globali. Il modello si completa, quindi, con la previsione dell’ulteriore campo esplorativo della sociologia genetica, che, prescindendo da ogni impostazione di carattere evoluzionistico, si propone di definire le «“regolarità tendenziali” di mutamento nell’ambito di ogni tipo di sistema giuridico, – ma anche i – fattori di siffatte regolarità di trasformazione nella vita giuridica in genere»14. La sistematizzazione concettuale elaborata da Gurvitch implica di necessità una serie di specifiche e dettagliate partizioni, che denotano il più compiutamente possibile l’intersecazione tra pluralismo sociale e pluralismo giuridico15, basato peraltro sul superamento di una concezione individualistica a vantaggio della valorizzazione dell’aspetto sociale, sulla preferenza accordata al momento aggregativo piuttosto che all’elemento atomistico, sulla rilevanza attribuita ad una scelta di decentramento del potere e di diversificazione della capacità normativa in contrapposizione ad una tendenza centralistica. Il risvolto di un approccio di tal genere è lo sviluppo in concreto della teoria pluralistica, che si verifica a partire dall’idea che ogni comunità dotata di socialità attiva e portatrice di un valore positivo si impone come fatto normativo che dà origine ad una propria regolamentazione giuridica. Si precisa, però, che anche i gruppi con le caratteristiche indicate non sempre si dimostrano capaci di costruire un ordinamento giuridico, in ragione della loro temporaneità o stabilità o ancora della funzione rivestita. È certa, però, l’affermazione della pluralità degli ordinamenti giuridici, che sposta l’attenzione dal piano formale a quello sostanziale ed induce ad una rielaborata riflessione sul tema della sovranità, da osservare sotto l’ottica giuridica piuttosto che sotto quella politica, per pervenire ad uno spostamento di visuale nell’ambito della socialità spontanea. Il campo della sovranità giuridica non organizzata costituisce il fondamento del riconoscimento e della previsione di una pluralistica diffusione degli ordinamenti giuridici, che si prospetta, tra l’altro, senza una precisa disposizione giuridica, perché aperta ai mutamenti e alle variazioni dettate dalla storia. Tale organizzazione ricostruisce in termini antiformalistici il rapporto tra società e diritto e propone una diversa interpretazione di alcune categorie 11 G. Gurvitch, Sociologia del diritto, cit., p. 127. 12 Ibidem, pp. 133-134. 13 Ibidem, p. 176. 14 Ibidem, p. 249. Per un approfondimento della sociologia del diritto v. M. A. Stefani, Georges Gurvitch sociologo del diritto, Roma, 1982, 1974. 15 Un quadro sistematico del pluralismo di Gurvitch è dovuto a M. D’Aguanno, Gurvitch pluralista, Napoli, 1974. Nello specifico, sul rapporto tra pluralismo sociale e pluralismo giuridico, v. il saggio di A.R. Favretto, Dal pluralismo dei rapporti sociali al pluralismo delle normatività. Individui e diritto in Tönnies e Gurvitch, in “Sociologia del diritto”, (1992), n. 3. fico punto è oggetto di attenzione critica nei riguardi di alcuni autori precedenti. Si evidenzia, così, che la tipologia giuridica dei gruppi non costituisc[e] il punto forte della sociologia del diritto di Hauriou, il cui merito consiste piuttosto nelle sue analisi in profondità della realtà del diritto, che di tale realtà pongono più accuratamente in luce il “pluralismo verticale” che non il ”pluralismo orizzontale”11. Ugualmente il difetto essenziale della sociologia giuridica di Ehrlich (…) è la mancanza assoluta di qualsiasi analisi microsociologica e differenziale, vale a dire di una spiegazione che renda conto delle forme di socialità e dei tipi giuridici dei gruppi. Il pluralismo sociologico e giuridico di Ehrlich è esclusivamente verticale e lo porta a confondere, sotto il termine vago di “diritto della società”, svariati tipi di diritto12. Diritti sociali e pluralismo giuridico in Gurvitch 48 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) della politica, al punto che anche il soggetto politico più rappresentativo, lo Stato, non soltanto assume un ruolo non esclusivo nella produzione del diritto, ma è chiamato a confrontarsi, proprio sotto l’aspetto giuridico, con le altre diverse realtà sociali. I rapporti dello Stato con gli ordinamenti giuridici non statuali sono catalogati in funzione del particolare tipo di diritto sociale rappresentato. É possibile, perciò, distinguere tra ordinamenti del diritto sociale puro, in cui la coazione è condizionata, perché è ammessa l’opportunità giuridica di sottrarsi mediante l’abbandono della comunità, e ordinamenti del diritto sociale condensato nello Stato, caratterizzati dalla coazione incondizionata, non suscettibile di deroghe. Il diritto sociale puro incontra una ulteriore partizione. Può essere, infatti, indipendente, quando è concentrato entro ordinamenti giuridici superiori o equivalenti a quello statale, come nel caso del diritto nazionale sovrafunzionale, del diritto internazionale e del diritto della Chiesa, e non indipendente ma sottoposto alla tutela dello Stato, quando soccombe, nell’ipotesi di conflitto, all’ordinamento statale, come accade per tutti quei sistemi che sono ricondotti nel campo del diritto privato. Si possono individuare, infine, gli ordinamenti del diritto sociale ammessi dallo Stato, che occupano una posizione intermedia tra il diritto puro e il diritto condensato, i quali si caratterizzano per una precisa autonomia, ma sono pur sempre al servizio dello Stato: l’esempio più illuminante è il diritto dell’autogoverno locale, ma vale anche per il diritto degli enti decentrati che svolgono funzioni tecniche o esercitano servizi pubblici. 2. Pluralismo sociale e democrazia pluralista La visione pluralistica della realtà sociale e la costruzione di una teoria sociologico-giuridica capace di assicurare la sostanziale limitazione del potere dello Stato favoriscono, perciò, una precisa presa di posizione dal punto di vista politico16. Gurvitch non manca, infatti, di pre16 Su questo aspetto cfr. lo studio critico di A. Tanzi, Georges Gurvitch. Il progetto della libertà, Pisa, 1980. issn 2035-584x stare attenzione al riscontro operativo delle scelte concettuali formulate. E rileva innanzitutto che il diritto di integrazione lascia spazio all’espansione della violenza nel momento in cui contemporaneamente si verifica lo scarto tra diritto organizzato e diritto spontaneo e l’affermazione di un potere basato su fattori mistici e non giuridici. Il diritto di subordinazione si instaura in queste condizioni e produce rapporti sociali in cui la dominazione raggiunge il massimo livello: tale effetto negativo giustifica in maniera razionale il giudizio di fondo espresso nei confronti dei regimi totalitari e delle teocrazie orientali. Per converso, il pensiero di Gurvitch si dirige verso la valorizzazione ed il sostegno della democrazia, che critica nella forma trasmessa dalla modernità, incentrata essenzialmente su una impostazione individualistica di stampo monistico. Si ritiene necessario, invece, prodigarsi per l’attuazione di una democrazia pluralista, capace di consentire il pieno dispiegamento delle sue molteplici sfaccettature e di dare consistenza alle differenti componenti di autonomia operanti al suo interno. Quasi anticipando il dibattito contemporaneo sull’essenza della democrazia, Gurvitch analizza in chiave problematica l’idea della “democrazia come metodo” e tutte le formule generiche, sicuramente riduttive della nozione, che sono state sostenute nel corso del tempo dagli studiosi. Non manca di soffermarsi sull’opera di Rousseau, che ha avuto il merito di sintetizzare i caratteri fondamentali dell’anima democratica mediante la teorizzazione del principio della volontà generale, concepita come l’idea di una sostanza razionale presente in tutti gli individui e resa operativa dal suffragio universale. È preciso, anche se fugace, l’accenno ai limiti strutturali del potere democratico inteso alla maniera rousseauiana, che discendono dalla sostanziale coincidenza tra volontà generale e volontà di tutti e finiscono per evidenziare solamente l’aspetto puramente operativo della vita democratica, dove l’oscuramento dell’elemento qualitativo e l’esaltazione del valore del consenso in termini di calcolo numerico. La stessa idea di libertà individuale annichilisce dinanzi all’esito delle deliberazioni, Diritti sociali e pluralismo giuridico in Gurvitch 49 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) soprattutto in considerazione del fatto che la singola scelta non appare più come il risultato della volontà dell’individuo, ma come la manifestazione di una volontà superiore, detentrice della misura delle cose. La successiva attribuzione al principio di libertà di una maggiore concretezza, la modificazione in senso qualitativo dell’uguaglianza, concepita in maniera sostanziale oltre che formale, e la visione della sovranità popolare non come un dato acquisito, ma come oggetto di ricerca da porre a sostegno delle istituzioni statali, ha determinato una nuova prospettiva dell’ideologia democratica, che rende inaccettabile le teorie di formazione atomistica ed impone una revisione del fondamento tradizionalmente assunto. L’attenta analisi dei principi costitutivi dell’ideale democratico conduce, in verità, a comprendere che la premessa filosofica non si ritrova in una matrice individualistica, bensì in una prospettiva che sintetizza individualismo e universalismo, per la quale le parti si compongono con il tutto in un rapporto di interpenetrazione dell’unità e della molteplicità, in cui si prospetta l’equivalenza tra valori personali e transpersonali. Questi specifici riferimenti rinviano direttamente alla teoria del diritto di Gurvitch e dimostrano come la filosofia giuridica elaborata dal giurista francese ha come conseguenza necessaria la proiezione verso una scelta politica di tipo democratico, ma anche come il concetto di democrazia che ne scaturisce è profondamente connesso con l’idea di diritto sviluppata secondo il modello transpersonalistico17. Infatti, il principio dell’unità nella varietà applicabile alla dottrina giuridica pluralista costituisce il fondamento anche della teoria politica democratica, perché, per un verso, impedisce di identificare il diritto con la forza e, per l’altro, di pensare allo Stato come strumento per la realizzazione di un ordine coercitivo incondizionato destinato al controllo sociale. Si comprende come la scelta autenticamente democratica di Gurvitch sia legata al problema giuridico, e soprattutto al bisogno 17 Su transpersonalismo si rinvia a A. Olgiati, Il transpersonalismo in Gurvitch, in Il concetto di giuridicità nella scuola moderna del diritto, Milano, 1943. issn 2035-584x di recuperare un’intima connessione tra il diritto e l’organizzazione sociale: per Gurvitch «la démocratie est la voie indespensable, la seule possible, vers la réalisation du droit au sein d’une organisation sociale»18. La formula ha valore tanto nella direzione del diritto, quanto, all’inverso, dal lato della politica, dal momento che non è soltanto l’organizzazione di governo democratica a garantire la configurazione di un ordine giuridico radicato nella società, ma, all’opposto, è anche il diritto a definire l’identità del potere e ad assicurare una condizione politica caratterizzata dalla subordinazione del potere al diritto. L’antidemocraticità è, per Gurvitch, il connotato di ogni teoria che antepone il potere al diritto, perché, anche se involontariamente o indirettamente, pone le premesse per l’instaurazione di un regime fondato sull’autolegittimazione del potere, sulla mancanza di controlli efficaci e sulla tendenziale arbitrarietà dei comportamenti. Per tale ragione il processo di realizzazione della democrazia è inseparabile dall’idea del diritto, visto che è proprio di un regime autenticamente democratico l’affermazione di un reale “potere del diritto”, per il quale tutti gli atti del potere esecutivo sono soggetti al controllo di legalità da parte degli organi della giurisdizione. E così «à force d’être impregées de droit, les relations d’organisation se trouvent subordonnées à un genre particulier du droit, le droit social; ce droit élimine de la structure de l’organisation l’ordre du droit individuel, qui ne masque, en tant qu’il est appliqué au pouvoir social, que l’arbitraire, la violence et la hiérarchie ; de sorte que, du point de vue purement juridique, la démocratie peut être definie comme l’institution de la souveraineté du droit social à l’interieur d’une organisation»19. Il concetto qui espresso può costituire, in un certo qual modo, la sintesi del poliedrico e variegato percorso intellettuale di Gurvitch, perché coniuga i fondamenti dell’impianto filosofico, le risultanze dell’analisi sociologica, 18 G. Gurvitch, L’experience juridique et la philosophie pluraliste du droit, cit., p. 252. Il volume ripropone il saggio Le principe démocratique et la démocratie future in “Revue de Métaphisique et de Morale”, (1929). 19 Ibidem, p. 254. Diritti sociali e pluralismo giuridico in Gurvitch 50 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) i risvolti della dottrina giuridica e le applicazioni della scienza politica in un quadro sostanzialmente unitario, che mostra come la problematizzazione dell’esperienza giuridica permette di scoprire la forma di diritto più rappresentativa della natura sociale dell’uomo e, quindi, più rispondente alle esigenze e alle aspettative della realtà, e ad indirizzare, di conseguenza, verso la definizione delle regole di funzionamento del potere politico. In un rapporto di convergenza tra politica e diritto, in cui la democrazia si prospetta come l’esito naturale dell’approccio “filosofico” al problema dell’esperienza. L’idea di Gurvitch è, così, di trasformare la questione da specificamente politica in giuridica ed inoltre di considerare che il problema della democrazia deve caricarsi anche di una valenza economica, per ritagliare soluzioni di convenienza rispetto alla prassi e del tutto adatte alla formazione di una forma organizzativa tendenzialmente “unitaria” e “completa”. In verità il sistema democratico esprime, con la più ampia chiarezza, il significato, e la realtà, di una concezione pluralistica, tanto è vero che Gurvitch non esita a considerare che «l’avenir de la démocratie est dans l’universalité et la multiplicité de ses faces, dans son caractère, pour ainsi dire polyédrique, dans son extension continuelle à des nouvelles régions des rapports humains, dans le fait qu’elle sort des limites exclusives de l’organisation politique». Che costituisce, senza dubbio, il metodo più vantaggioso per approdare ad una condizione di integrazione della «liberté individuelle dans son acception plus concrète avec l’idée de l’égalité»20. Pertanto, è evidente che la democrazia politica ha bisogno senz’altro del sostegno della democrazia economica, in considerazione del fatto che solamente attraverso questo metodo è possibile attenuare le discriminazioni sociali, impedire un esercizio arbitrario del potere capitalista ed assicurare la convivenza tra le classi. Il pensiero di Gurvitch è, perciò, 20 Ibidem, pp. 256-257. Spunti interessanti si trovano nel saggio di N. Abbagnano, La sociologia della libertà di Gurvitch, in “Quaderni di sociologia”, (1955), n. 18. issn 2035-584x proteso verso una strada “riformista”, per allargare gli spazi di democraticità e per valorizzare il ruolo dei gruppi che partecipano attivamente alla vita economica. Tutto ciò si realizza per il tramite del diritto sociale. La democrazia acquista, così, il valore di forma ideale di stato, perché espressiva, e attuativa, del diritto delle comunità, nel senso che stigmatizza il fatto che «chaque totalité sociale s’affirme comme la source d’un nouveau droit objectif et participe directement aux relations juridiques internes auxquelles il donne lieu»21. Questo preciso riferimento giuridico richiama immediatamente in opposizione la categoria del diritto individuale. Gurvitch chiarisce che la distinzione prospettata non rievoca affatto quella tradizionale tra diritto oggettivo e diritto soggettivo, né la classificazione del diritto in pubblico e privato. Innanzitutto perché tanto il diritto sociale quanto il diritto individuale contengono insieme elementi oggettivi e soggettivi; in secondo luogo va sottolineato che sia il diritto individuale che quello sociale partecipano del diritto privato allo stesso modo del diritto pubblico. A tal proposito, si deve ricordare che la partizione tra pubblico e privato rappresenta un prodotto convenzionale dello Stato e, se diversi autori hanno giustamente rilevato la presenza di esempi di diritto sociale all’interno del diritto privato, un processo dello stesso tipo non è stato avviato per il diritto pubblico, dove, invece, ad avviso di Gurvitch, si possono scoprire concrete espressioni di diritto individuale. In verità, è proprio la coesistenza di questo contenuto nel diritto pubblico a determinare la struttura moderna dell’organizzazione del potere, che, evidenziando la matrice individualista della concezione dello Stato, rende più agevole l’esercizio arbitrario dell’attività di governo ed intacca l’essenza stessa della democrazia politica. Si afferma, così, la necessità di espellere dal diritto pubblico l’ordine del diritto individuale, poiché la vera democrazia politica comporta la “reductio du droit public au seul 21 Ibidem, p. 261. Diritti sociali e pluralismo giuridico in Gurvitch 51 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) et pur droit social engendré par la communauté politique sous-jacente à l’organisation superposée»22. A queste condizioni la democrazia si prospetta come l’istituzione della “sovranità del diritto sociale” all’interno di una organizzazione, poiché si propone espressamente lo scopo di strutturare l’organizzazione sovrapposta alla totalità puramente oggettiva della comunità, che costituisce, in definitiva, il fondamento di ogni organizzazione. E pertanto «le droit social est l’essence même de la démocatie. Il symbolise juridiquement et incarne en lui l’idée su self-government collectif à base d’égalité et de liberté” – per cui – “la démocratie est le droit social organisé; la souveraineté du droit social est la démocratie»23. Lo stesso meccanismo funziona per la democrazia economica, chiamata ad ispirare l’organizzazione industriale ai principi del diritto sociale, che esprime l’essenza della comunità oggettiva sottostante. Di conseguenza, per Gurvitch la democrazia sotto l’aspetto economico riflette «la rébellion du droit social à l’intérieur de chaque entreprise contre son assujettissement anormal à l’ordre hétérogène du droit individuel»24. Il significato ultimo di tale asserzione coincide con il bisogno di una azione pubblica diretta a modificare l’assetto della società capitalistica, la quale è sostanzialmente improntata sul perseguimento e la difesa degli interessi dei titolari delle attività produttive, con il conseguente predominio di un ordine giuridico ispirato al diritto individuale. Il rinnovamento non può che consistere nella instaurazione di rapporti di potere basati sul diritto sociale dei gruppi, che sfaldano l’associazionismo di dominio ed eliminano la confusione che scaturisce dalla soggezione del potere esercitato da tutti all’influenza del diritto individuale. In tal modo Gurvitch manifesta un particolare favore per l’indirizzo socialista, in forza, probabilmente, anche dell’esperienza politica vissuta in patria, ma seguendo un processo di rivisitazione che, se per un verso ribadisce il rifiuto dell’in22 Ibidem, p. 263. 23 Ibidem. 24 Ibidem, p. 264. issn 2035-584x dividualismo capitalistico, per l’altro critica l’impianto collettivistico, di matrice statalista e a struttura dirigista. L’intento perseguito è l’annullamento dell’esercizio del potere dell’uomo sull’uomo, al fine di sconfiggere l’idea della supremazia dello Stato e smantellare ogni forma di individualismo. Ciò a cui si aspira è, in definitiva, la sostituzione dell’interesse comune all’interesse particolare, in un campo come quello economico generalmente caratterizzato dagli egoismi delle singole componenti. 3. La dichiarazione dei diritti sociali La sintesi di questi concetti si trova espressa nella Dichiarazione dei diritti sociali, pubblicata a New York nel 1944, in cui si supera la dimensione del pluralismo di fatto per recuperare quella del pluralismo come ideale morale e giuridico, accompagnato da una una tecnica pluralista, al fine di «limiter l’Etat par une Organisation Economique indépendante se gouvernant elle-même, et réciproquement, à instaurer des contrepoids effectifs entre la Constitution Politique et la Constitution Sociale, entre la Démocratie Politique et la Démocratie Economique, entre la Propriété Publique et la Propriété Sociale, entre l’Intérêt Général Politique et l’Intérêt Général Economique, entre les Producteurs et les Consommateurs, entre les deux derniers pris ensemble et les Citoyens»25. «Dans la plénitude concrète des ses manifestations – spiega Gurvitch – plusieurs aspects de l’être humain se distinguent nettement. Il est producteur et plus spécialement, travailleur, ouvrier; il est consommateur et souvent usager (client); il est citoyen, bien entendu. Mais les catégories de producteur, consommateur et citoyen, n’épuisent pas son être: sous le citoyen, le producteur et le consommateur, demeure l’homme indépendant de toutes ces fonctions et qualités»26. La dichiarazione dei diritti sociali è, pertanto, strutturata rispecchiando questo quadro di riferimento e, quindi, differenziando le diverse sfere di incidenza, seguendo un modello basato sulla integrazione delle varie attività sociali e sulla individuazione di un complesso circolo 25 G. Gurvitch, La déclaration de droits sociaux, Paris, 1946, pp. 62-63. 26 Ibidem, p. 66. Diritti sociali e pluralismo giuridico in Gurvitch 52 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) combinato di contrappesi, idoneo a convogliare l’esercizio dei poteri entro misure adeguate. La costruzione di un sistema organizzativo generale fondato sulla convivenza reciprocamente condizionata dei gruppi e degli apparati istituzionali, fonte di equilibrio politico, giuridico e sociale, assicura, ad avviso di Gurvitch, l’effettività della tutela giurisdizionale delle nuove dichiarazioni dei diritti, che, esprimendo il “diritto spontaneo della nazione”, colgono e realizzano autenticamente i valori essenziali della democrazia. La proposta di nuove tecniche aspira al superamento di una prospettiva meramente strumentale, per approdare al riconoscimento di accorgimenti che incidano sulla organizzazione complessiva della società, ma in quanto rappresentativi di un modo più radicale di intendere la democrazia. L’accentuazione delle limitazioni del/i potere/i diventa così il segno del ruolo effettivamente incisivo rivestito dalla comunità sociale, che si attesta quale soggetto centrale della politica, per un recupero della dimensione ontologica della democrazia. Ed infatti, il riconoscimento della necessità di nuove strade per la realizzazione dei valori democratici e per l’affermazione della libertà dell’uomo rinvia principalmente all’attuazione del principio di autonomia, inteso come capacità di autoregolamentazione responsabile, condizione indispensabile per dispiegare compiutamente le forme più ampie di autogoverno degli individui e dei gruppi sociali. Il riferimento al momento economico, oltre che a quello politico, come il richiamo alle diverse sfere della soggettività, nonché al ruolo dei diversi gruppi ed insiemi, costituiscono il presupposto, e la ragione ultima, della formulazione di una dichiarazione che ha per contenuto diritti strutturalmente “sociali”, che evidenziano la partecipazione dei singoli ad un tutto, che prende parte direttamente alle relazioni giuridiche, sulla base di una reciproca fiducia di fondo e sull’impegno di vivere il concetto di solidarietà. L’obiettivo è di evitare la ripetizione di precedenti esperienze, risolte nella propugnazione di «programmes de l’action de l’État – trattando soltanto – de ses devoirs et de ses issn 2035-584x droits, n’attribuant aux intéressés, groupes et individus, aucun droit social propre, aucune autonomie juridique, aucune capacité même de revendiquer et de contrôler, aucune garantie de leur liberté et de leur rôle actif, aucune faculté de se gouverner eux-mêmes et de défendre effectivement leurs droits»27. Per favorire, al contrario, l’incontro di teoria e prassi, di società e diritto, di individuo e comunità, di “me” e “noi”, con l’obiettivo di far rivivere nella sua purezza “la richesse du flux du vécu”28. Alberto Scerbo, Ordinario di “Filosofia del diritto” presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “Magna Graecia” di Catanzaro, dove insegna anche “Teoria e tecnica della normazione e dell’interpretazione”. Ha scritto, oltre a numerosi saggi, le monografie Felice Battaglia. La centralità del valore giuridico (Napoli, 1990), Tecnica e politica del diritto nella teoria del processo, Soveria Mannelli (CZ), 2000, Giustizia Sovranità Virtù, Soveria Mannelli (CZ), 2004 e Istituzionalismo giuridico e pluralismo sociale, Soveria Mannelli (CZ), 2008. Ha curato, insieme a Massimo La Torre, Una introduzione alla filosofia del diritto, Soveria Mannelli (CZ), 2003 ed insieme a Massimo La Torre e Marina Lalatta Costerbosa Questioni di vita o morte, Torino, 2007. È coautore del volume Prospettive di filosofia del diritto del nostro tempo, Torino, 2010. Per Rubbettino è co-curatore della collana Res Publica, per la quale ha curato la Dichiarazione dei diritti sociali (2004). [email protected] 27 Ibidem, p. 74. 28 G. Gurvitch, L’experience juridique et la philosophie pluraliste du droit, cit., p. 21. Diritti sociali e pluralismo giuridico in Gurvitch 53 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali Paola Chiarella Abstract Parola Chiave Nel dibattito contemporaneo sulla tutela dei diritti sociali, il problema della loro protezione passa attraverso le questioni dell’esigibilità e della giustiziabilità. Se rispetto ai diritti di prima generazioni i diritti sociali sembrano non tenere il passo quanto alla effettività della tutela, occorre indagarne le ragioni dal punto di vista teorico e individuare precise responsabilità e relativi rimedi. Diritti Sociali; Esistenza; Esigibilità; Giustiziabilità; Responasabilità Statale; Rimedi. Premessa I l cuore del dibattito contemporaneo verte intorno ai diritti sociali è dato dal problema della mancanza di giustiziabilità. Parte della dottrina, erede dell’impostazione kelseniana imperniata sulla centralità della sanzione, ritiene, infatti, di dover riconoscere il carattere di diritto soggettivo unicamente alle pretese sottoponibili al vaglio di un giudice, tali da legittimare una condanna del soggetto inadempiente ad eseguire quanto richiesto dal titolare del diritto. Il bisogno dell’intermediazione legislativa di specificazione del contenuto del diritto e, soprattutto, di predisposizione di procedure volte a rimediare eventuali inadempienze appare, per tale ragione, evidente. Infatti, si ritiene che, solo quando gli elementi di dettaglio, necessari per enucleare compiutamente un diritto sociale, siano precisati attraverso una legge, come ad esempio, l’oggetto della prestazione ed il soggetto obbligato, allora il titolare potrà fruttuosamente intraprendere un’azione legale per rivendicare la propria pretesa. In tal senso, appare utile richiamare la distinzione tra l’esistenza, l’esigibilità e la giustiziabilità di un diritto. In sostanza ci si doman- da se, attraverso le tecniche ermeneutiche, sia possibile venire a capo di un’interpretazione che consenta di concepire i diritti sociali, esistenti a livello costituzionale e giustificati sul piano morale, come diritti esigibili e, come tali, anche giustiziabili. Occorre indagare se il paradigma giuspositivistico, del primato della legge e del giudice quale applicatore della stessa, possa, ancora ai nostri giorni, essere presentato come elemento ostativo per la tutela di diritti essenziali. Il punto nevralgico è, dunque, presto individuato nel problema di ovviare alla mancanza di una legge che specifichi il contenuto di un diritto sociale. In definitiva, occorre provare se l’esistenza di diritti sociali, espressione di valori fondamentali e incorporati nei testi costituzionali, possa trovare la forza per affermarsi in tecniche interpretative capaci di creare ponti di sostegno laddove manchi l’impalcatura legislativa. In assenza della legge, individuare procedure, per vie alternative, pone il problema della legittimità delle procedure stesse. Proponendo una soluzione in questi termini si giunge altresì ad una interpretazione del senso della separazione dei poteri dello Stato e più, in generale, della democrazia. Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali 54 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) 1. Diritti sociali e obblighi dello Stato Il fenomeno della costituzionalizzazione dei diritti sociali ha fatto sì che la moralità che fonda tali diritti trovi la sua forza nel dato costituzionale. Se ci muoviamo all’interno della componente morale, che riempie di contenuto tali diritti, ci troveremo dinnanzi all’impellenza di rinvenire vie alternative alle omissioni parlamentari che si traducono in contrasto con le indicazioni costituzionali. È possibile configurare un obbligo morale in capo allo Stato se teniamo presente che lo stesso non è un’istituzione irriflessiva nei confronti dei consociati, la cui attività possa essere svolta senza dar conto del proprio operato soprattutto laddove quest’ultimo si concretizzi in una violazione delle situazioni giuridiche soggettive. L’idea evoca il Principio di razionalità1 posto da Ackerman tra i principi rettori del dialogo liberale volto a risolvere il problema della diseguaglianza. Il Principio di razionalità postula che ogni posizione di potere debba essere giustificata, allorché si chieda al detentore di renderne conto. Nessuno, infatti, può godere del “privilegio dell’invisibilità”. Gli organi dello Stato, detentori di potere, sono chiamati a rispondere circa il proprio operare o meno nei confronti della collettività. Il potere si esercita, non più come in passato, principalmente nell’interesse del sovrano secondo la formula del sic volo, sic iubeo, ma in nome e per conto della collettività. La teoria dei diritti pubblici soggettivi secondo cui sovrano è lo Stato e i cittadini sono suoi organi è, infatti, ormai superata. La funzione di rappresentanza delle istituzione politiche ci porta a riconoscere che le «istituzioni che esercitano potere sulle persone devono trattare queste persone come esseri umani»2. Come ricorda Norberto Bobbio, l’azione politica non si sottrae affatto al giudizio morale poiché essa è soggetta, «come ogni altra azione libera o presunta libera dell’uomo, al giudizio di lecito 1 B. A. Ackerman, La giustizia sociale nello Stato liberale, Bologna, 1984, p. 42. 2 R. Dworkin, Cosa sono i diritti umani, in “Ragion Pratica”, (2007) II, p. 471. issn 2035-584x e illecito, in cui consiste il giudizio morale»3. L’agire politico si deve, infatti, confrontare non solo con il problema dell’idoneità dei mezzi circa il raggiungimento del fine, ma deve porre altresì la questione della legittimità del fine, poiché anche per chi ritiene che l’azione politica abbia natura essenzialmente strumentale, essa non è «strumento per qualsiasi fine che all’uomo politico piaccia perseguire»4. Se il fine dell’azione politica è il bene comune, e non il perseguimento di interessi di parte, allora essa deve attivarsi con i mezzi più idonei al raggiungimento di quel fine. La realtà istituzionale della politica nasce in virtù di un’intenzionalità collettiva di funzione5. Gli organi dotati di poteri di rappresentanza esercitano le loro funzioni grazie all’investitura popolare. Così facendo, si materializza un’ontologia che seppure invisibile fa sì che l’agire politico sia rappresentativo della volontà popolare. Allorché tale agire non sia rappresentativo degli interessi e dei bisogni della collettività, l’ontologia invisibile si sgretola ed il detentore del potere non ha più un titolo valido per svolgere le suddette funzioni. Lo stesso accade per il Parlamento che ritardi ingiustificatamente la predisposizione di quanto necessario per rendere giustiziabili i diritti sociali, definiti come «il più importante fondamento di legittimità delle istituzioni politiche e degli assetti sociali nel vecchio continente»6. L’investitura di potere rappresentativo a cui consegua però assenza di intervento legislativo in materia sociale determina la messa in mora del Parlamento. Quando ci si interroga sui fondamenti della democrazia e del riconoscimento dei diritti fondamentali «è necessario ricorrere a considerazioni di valore (…) che non possono essere determinate da norme giuridiche che compongono il sistema»7, e ciò in ragione del fatto 3 N. Bobbio, Elogio della mitezza, Milano, 2010, p. 84. 4 Ibidem, p. 85. 5 J. R. Searle, La costruzione della realtà sociale, Milano, 1996, p. 33. 6 A. J. Menéndez, La linfa della pace: i diritti di solidarietà nella Carta dei Diritti dell’Unione Europea, in “Diritto e questioni pubbliche”, (2004), n.4, p. 96. 7 C. S. Nino, Il diritto come morale applicata, a cura di Massimo La Torre, Milano, 1999, p. 60 Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali 55 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) che il discorso giuridico non è «un discorso insulare in quanto è immerso in un discorso giustificativo più ampio»8. La validità delle norme non può poggiare sull’esistenza di altre norme dal momento che questa operazione, sebbene possibile, non sarebbe giustificativa, ma meramente descrittiva di un rinvio di norma in norma. Essa lascerebbe insoddisfatti coloro che pretendono una ragione o una giustificazione in senso pragmatico circa l’esistenza della norma. Chi, ad esempio, per stipulare un contratto segua una certa forma, potrebbe giustificare la sua condotta riferendosi all’articolo del codice civile che ne prescrive il formalismo per quella tipologia. Tuttavia la ragione pragmatica della forma, ammettiamo per atto pubblico, non poggia solo sull’articolo che la contempla. Un fatto (l’aver rispettato la forma prescritta) «può essere certo la causa di una condotta, ma non ne costituisce la ragione»9 che invece può consistere nell’esigenza di maggiore certezza ed opponibilità ai terzi che quella forma consente di ottenere. Lo stesso ragionamento vale per gli altri tipi di norme per cui, detto in altri termini, «le ragioni inerenti al ragionamento giuridico che alludono al fatto che certe norme sono parte di un sistema giuridico non sono, esse stesse, ragioni giuridiche, ma appartengono ad un sistema giustificativo più ampio»10. Dietro l’incorporazione dei diritti sociali nel testo costituzionale si deve riconoscere la componente giustificativa dal punto di vista morale, che consiste nell’assicurare ad ogni individuo le condizioni necessarie a condurre una vita dignitosa rispetto alla quale autonomia e benessere sono condizioni imprescindibili per «la capacità di formulare, modificare, e perseguire una concezione della vita buona e l’assenza di sofferenza fisica»11. Mancando queste due condizioni, la vita dell’uomo verrebbe negativamente compromessa e quando ciò non dipende dalle scelte 8 Ibidem. 9 M. La Torre, Presentazione a C. S. Nino, Il diritto come morale applicata, cit., p. VIII. 10 C. S. Nino, Il diritto come morale applicata, cit., p. 69. 11 C. Fabre, Social Rights under Constitution. Government and the Decent Life, Oxford, 2004, p. 15. issn 2035-584x personali del soggetto, ma dalla mancanza di intervento statale e di cooperazione sociale, mantenere lo status quo di indifferenza appare inaccettabile. I diritti sociali esprimono il bisogno di protezione contro quei fattori che minacciano la soddisfazione di necessità basiche, rappresentando, infatti, «uno scudo per gli indifesi, almeno contro alcune delle forme più devastanti e più comuni di minacce alla vita»12. L’obbligo del legislatore ha poi una natura oltre che morale anche giuridica13. Infatti, la previsione di diritti sociali nel testo costituzionale e la ratifica del Patto internazionale sui diritti economici, sociale e culturali del 1976 (PIDESC), consentono di individuare da subito almeno un soggetto obbligato che è lo Stato, e più in particolare il legislatore, tenuto ad affrontare le questioni sociali attraverso lo strumento della legge. Su questo aspetto Hayek ha fondato una delle ragioni che militano contro i diritti sociali poiché un diritto può dirsi esistente nella misura in cui ad esso corrisponda l’obbligazione di un altro soggetto individuato attraverso la legge. In realtà, il soggetto originariamente “individuato” è lo Stato, poi soggetti ulteriormente “individuabili” saranno coloro che il legislatore riterrà opportuno gravare di determinati obblighi sociali. Infatti, alla luce del diritto internazionale, le obbligazioni relative ai diritti umani attengono primariamente gli Stati. Quando gli Stati cercano di mettere in atto queste obbligazioni nel diritto nazionale, è necessario che essi impongano dei doveri sulle persone soggette alla loro giurisdizione. Doveri di rispettare i diritti di altre persone, e doveri di contribuire al benessere comune, rendono possibile che lo Stato assista e provveda in modi che rendono 12 H. Shue, Basic Rights. Substistence, affluence and U.S. foreign policy, Pricenton, New Jersey, 1996, p. 18. 13 Si afferma, ad esempio, che la Dichiarazione universale dei diritti umani contenga sia l’obbligo morale che giuridico di realizzare i diritti economici, sociali e culturali. Cfr. A. Eide, Economic, Social and Cultural Rights as Human Rights, e M. Scheinin, Economic, and Social Rights as Legal Rights, entrambi in A. Eide, C. Krause, A. Rosas (ed.), Economic, Social and Cultural Rights. A textbook, Dordrecht, Boston, London, 1995, rispettivamente p. 35 e p. 41. Sul rapporto tra moral rights e legal rights cfr. C. Fabre, Social Rights under Constitution. Government and the Decent Life, cit., p. 100. Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali 56 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) ciascuno capace di godere i propri diritti economici, sociali e culturali14. L’art. 2.1 del PIDESC, ad esempio, dichiara che ciascuno degli Stati parte si impegna ad operare, sia individualmente sia attraverso l’assistenza e la cooperazione internazionale, specialmente nel campo economico e tecnico, con il massimo delle risorse di cui dispone al fine di assicurare progressivamente con tutti i mezzi appropriati, compresa in particolare l’adozione di misure legislative, la piena attuazione dei diritti riconosciuti nel presente Patto. Sono configurabili allora obblighi “immediati” in capo agli Stati che consistono nell’adottare misure di attuazione e nel garantire che i diritti contenuti nel Patto si esercitino senza alcuna discriminazione15. Ciò significa che l’inattività dello Stato è in re ipsa l’inadempimento di un obbligo. Su tale aspetto un gruppo di esperti ha elaborato nel 1986 alcuni Princìpi interpretativi sull’implementazione del PIDESC (detti di Limburgo) che contribuiscono a specificare e chiarire quanto richiesto dal Trattato16. Il princìpio 16 prevede, ad esempio, che tutti gli Stati parte hanno l’obbligo di iniziare immediatamente a compiere i primi passi nella realizzazione dei diritti contemplati. Infatti, sebbene i diritti sociali si realizzino di regola in “misura progressiva” ciò non significa che lo Stato possa trattenersi dal compiere a tempo indefinito, gli sforzi necessari alla sicura realizzazione (princìpio 21). La componente della progressiva realizzazione del Patto è spesso erroneamente concepita come implicante che i diritti economici, sociali e culturali possano essere realizzati solo quando un paese raggiunga un certo livello di sviluppo economico. Questo non è né l’intento né l’interpretazione giuridica di questa disposizione. Piuttosto, questo dovere obbliga tutti gli 14 A. Eide, Economic, Social and Cultural Rights as Human Rights, in A. Eide, C. Krause, A. Rosas (ed.), Economic, Social and Cultural Rights. A textbook, cit., p. 35. 15 Cfr. Economic, Social and Cultural Rights. Handbook for National Human Rights Institution, United Nations, New York and Geneva, 2005, p. 9. 16 I princìpi sono detti di Limburgo dal luogo in cui si sono tenuti gli incontri tra gli esperti. Lo stesso vale per i princìpi di Maastricht derivanti da un altro incontro tenutosi nella città olandese nel 1997. issn 2035-584x Stati membri, a prescindere dal livello di ricchezza nazionale, a muoversi il più velocemente possibile verso la realizzazione dei diritti economici, sociali e culturali (princìpio 25). Il Patto esige immediatamente l’uso efficace ed equo delle risorse17. A tale scopo tutti gli Stati dovranno utilizzare gli strumenti più appropriati e tra questi sono incluse anche le misure legislative, amministrative, giudiziali, economiche, sociali ed educative (princìpio 17). Le misure legislative possono in alcuni casi non essere sufficienti oppure in altri apparire indispensabili laddove le legislazioni già esistenti fossero in contrasto con quanto richiesto dal Trattato e pertanto debbano essere modificate (princìpio 18). In particolare poi, tutti gli Stati devono prevedere rimedi effettivi che includono chiaramente anche quelli giudiziali (princìpio 19). Oltre ai Princìpi di Limburgo sono stati individuati successivamente altri principi, detti di Maastricht, sulle violazioni dei diritti economici, sociali e culturali che distinguono tra violazioni attive e passive. Le prime possono consistere, tra le tante, nella deroga o sospensione di misure legislative o nella negazione della titolarità di diritti ad alcuni individui o gruppi. Le seconde possono concretizzarsi nella mancata adozione di misure appropriate in base a quanto richiesto dal Patto (ovvero nel mancato adoperarsi affinché sia assicurata l’efficacia di questi diritti secondo standard minimi internazionali); nella mancata riforma della legislazione contraria a tali diritti; nell’incapacità di portare ad effetto la legislazione e le politiche di implementazione; nella mancata regolazione delle attività di individui o gruppi che con il loro comportamento violino tali diritti, oppure ancora nella mancata previsione di strumenti di controllo sulla loro realizzazione18. 17 Economic, Social and Cultural Rights. Handbook for National Human Rights Institution, cit., p. 10. L’espressione “al massimo delle risorse disponibili” include sia le risorse nazionali che l’assistenza e la cooperazione economica e tecnica che lo Stato può ricevere dalla comunità internazionale (princìpio 26). Secondo Robert Robertson le risorse possono essere di cinque tipi: 1) risorse umane; 2) risorse tecnologiche; 3) risorse conoscitive; 4) risorse naturali; 5) risorse finanziarie. 18 V. The Maastricht Guidelines on Violations of Economic, Social and Cultural Rights, Princìpio 14 Violations through Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali 57 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) Alla luce di quanto sinora sostenuto, dovremmo ragionare sui rimedi che devono essere individuati a livello nazionale allorché la lacuna legislativa minacci seriamente il godimento di diritti essenziali per la vita di ognuno. Infatti, le norme costituzionali sui diritti prive di garanzie (per esempio non giustiziabili, o prive di leggi attuative delle necessarie agenzie) sono invece norme che introducono (quantomeno) un dovere giuridico di completamento a carico del legislatore19. La funzione promozionale che il diritto svolge nello Stato sociale richiede il compimento di azioni positive dei poteri pubblici volte a soddisfare esigenze fondamentali degli individui20. Per tali ragioni, come afferma PecesBarba, il dovere originario dello Stato avente carattere negativo/astensivo si scompone in una pluralità di doveri positivi finalizzati alla soddisfazione di diritti di credito originatisi dal valore di uguaglianza21. Come tramandato dalla tradizione repubblicana e socialista l’atto costitutivo del politico crea una comunità il cui valore risiede non nella protezione che offre contro l’aggressione altrui, ma nel fatto che rende possibile una forma di vita veramente umana, nella quale ciascuno può ora relazionarsi con gli altri22. 2. Esistenza ed esigibilità dei diritti sociali Nel momento in cui si prende coscienza dell’inadempimento, da parte del legislatore, dell’obbligo morale e giuridico derivante dalle norme costituzionali e internazionali sui diritti sociali, non si può fare a meno di riscontraacts of commission e Princìpio 15 Violations through acts of omission; cfr. V. Abramovich - C. Curtis, Los derechos sociales como derechos exigibles, Madrid, 2004, pp. 80-81. 19 M. Jori, Aporie e problemi nella teoria dei diritti fondamentali, in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Roma-Bari, 2001, p. 80. 20 N. Bobbio, Sulla funzione promozionale del diritto, in “Riv. trim. dir. proc. civ.” (1969), pp. 1313 e ss. 21 G. Peces-Barba, Los deberes fundamentales, in Doxa (1987), n. 4, p. 338. 22 F. Atria, ¿Existen derechos sociales? in Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes, Alicante, 2005, p. 17. issn 2035-584x re l’esistenza di vuoti normativi, che rendono l’ordinamento giuridico incompiuto. Tale incompiutezza viene definita da Ferrajoli, in una delle quattro tesi presentate nella teoria dei diritti fondamentali, come una lacuna che ci porta a distinguere l’esistenza dei diritti dalle loro garanzie. Questo concetto ci consente di concepire separatamente l’esistenza di un diritto dalla sua esigibilità e giustiziabilità. Se queste categorie non fossero distinte, dovremmo negare l’esistenza di un diritto laddove manchino le norme che ne specificano il contenuto, nonché le procedure che lo rendano giustiziabile. Dato che non sappiamo contro chi fare valere il diritto, né in concreto che cosa esso comporti e neppure se si possa ottenere tutela giudiziale, taluni deducono che il diritto in questione non esista. Questa impostazione, fondamentalmente kelseniana, ha però anche un certo sapore realista allorché la dimensione pratica e fattuale venga assunta come unica norma di riconoscimento all’interno del sistema giuridico. Se tuttavia teniamo presente il carattere nomodinamico di un ordinamento giuridico in virtù del quale l’esistenza o meno di una situazione giuridica ovvero di un’aspettativa, di un obbligo, di un divieto o di un permesso, dipende dall’esistenza di una norma che li contempli, allora appare evidente che è possibile trovarsi dinnanzi a diritti esistenti perché costituzionalmente previsti per i quali però, in mancanza di una legge, non sia possibile individuare l’obbligo o il divieto preciso ad essi corrispondente. Il diritto esiste, ma manca come dice Ferrajoli la “garanzia primaria” a precisione dell’obbligo e del divieto e tale mancanza è fonte di una lacuna nell’ordinamento giuridico. Accanto poi alle garanzie primarie di esigibilità, il filosofo italiano individua le garanzie secondarie di giustiziabilità che consistono negli «obblighi di riparare o sanzionare giudizialmente le lesioni dei diritti, ossia le violazioni delle loro garanzie primarie»23. La presenza di lacune primarie e secondarie non incide sull’esistenza del diritto che si pone in un momento anteriore rispetto alla specificazione di quegli elementi pur tut23 L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, cit., p. 11. Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali 58 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) tavia indispensabili per il diritto stesso. Questo appare più chiaro allorché si distinguano i diritti fondamentali dai diritti patrimoniali. Questi ultimi non sono essi stessi norme come accade per i diritti fondamentali, ma sono predisposti da norme (quelle ad esempio del codice civile) che «non ascrivono né impongono immediatamente nulla, ma semplicemente predispongono situazioni giuridiche quali effetti degli atti da esse previsti»24. In virtù allora di un contratto, di un testamento, di una donazione, (che sono atti singolari), il soggetto potrà dire di avere un diritto e che un altro consociato è nei suoi confronti obbligato. I diritti patrimoniali sono quindi «predisposti da norme ipotetiche quali effetti di contratti, i quali sono sempre, simultaneamente, le fonti delle correlative obbligazioni che ne formano le garanzie primarie»25. I diritti fondamentali invece sono disposti da norme tetiche che cioè «immediatamente dispongono le situazioni con esse espresse»26. Ecco allora che, mentre per i diritti patrimoniali predisposti da norme ipotetiche, l’esistenza del diritto implica la garanzia primaria e pertanto diritto e garanzia sono co-originari, per i diritti fondamentali, che sono norme ascrittive di situazioni giuridiche, può ben configurarsi l’esistenza di un diritto e l’inesistenza della garanzia primaria. Negare ciò, ricorda Ferrajoli, significa sminuire il valore di due grandi conquiste del XX secolo, che sono, appunto, l’internazionalizzazione dei diritti fondamentali e la costituzionalizzazione dei diritti sociali. La mancanza della garanzia primaria incide su un piano diverso, che è quello dell’efficacia, e non dell’esistenza di un diritto. Che i diritti fondamentali siano ancora inefficaci in alcune parti del mondo, non significa che essi non esistano, ma, piuttosto, che occorre impegnarsi a livello politico e istituzionale per assicurarne la più piena protezione. La proclamazione di un diritto non coincide, infatti, con il suo adempimento, né l’impegno a realizzare garanzie sociali è di per sé satisfattorio27. 24 Ibidem, p. 17. 25 Ibidem, p. 30. 26 Ibidem. 27 H. Shue, Basic Rights. Substistence, affluence and U.S. foreign policy, cit., p. 16. issn 2035-584x Le garanzie di cui parla Ferrajoli sono «i diversi strumenti attraverso i quali i diritti si rendono effettivi»28, sicché allora occorre distinguere «l’oggetto di un diritto e le forme in cui questo può essere realizzato, perché un diritto può realizzarsi in diversi modi»29. A questo punto, però, appare chiaro che l’inefficacia non è una lacuna, perché il diritto esiste comunque e dunque la sua esigibilità potrebbe essere definita per via interpretativa. A tal fine sembra utile il principio di covalidità di Ota Weinberger, che consente di superare la prospettiva nomo-dinamica kelseniana e dunque il postulato di Ferrajoli30. Il filosofo ceco sostiene che l’ordinamento giuridico non è solo “dinamico” (per cui le norme di grado inferiore sono derivate da quelle di grado superiore mediante attribuzioni formali di competenza a certi organi), ma anche “statico” e pertanto costituito da regole di condotta in cui le norme meno generali o individuali sono derivate da quelle più generali tramite inferenze logiche e senza la necessità di ulteriori atti di autorizzazione31. In questa prospettiva l’inefficacia non è semplicemente un difetto tecnico, ma si profila, piuttosto, come la mancata adozione delle norme sui diritti fondamentali quali “criteri di riconoscimento della validità di un ordinamento”32. Questo concetto rende ragione dell’esistenza dei diritti fondamentali all’interno di un sistema giuridico, in virtù della posizione che essi assumono nella struttura dell’ordinamento e più in generale della funzione da essi svolta. E dunque, non è in primo luogo la natura dei diritti economici, sociali e culturali che nega l’applicazione giudiziale di questi diritti, ma la mancanza di 28 J. L. Rey Pérez, La naturaleza de los derchos sociales, in “Derechos y Libertades”, (enero 2007), n. 16, Època II, p. 141. 29 Ibidem, p. 142. 30 Cfr. O. Weinberger, Rechtslogik, Berlin, 1989. 31 In argomento si v., M. La Torre, Ota Weinberger, Neil MacCormick e il neoistituzionalismo giuridico, in G. Zanetti, (a cura di) Filosofi del diritto contemporanei, Milano, 1999, capitolo I. 32 G. Palombella, Diritti fondamentali. Per una teoria funzionale, in “Sociologia del diritto”, (2000), n. 1, p. 55. Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali 59 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) competenza e buona volontà dei corpi giudicanti nel ricevere, esaminare, pronunciarsi sui reclami che riguardano questi diritti33. I diritti fondamentali vanno visti come norme che effettivamente prevedono come obbligatoria la tutela di un bene, il quale ha valore per la comunità, sostiene un interesse individualizzato, e colloca in una posizione di vantaggio i soggetti cui quel bene deve riferirsi34. I diritti sociali costituzionali svolgono poi una funzione caducatrice determinando l’illegittimità degli atti legislativi, esecutivi e anche giudiziari ad essi contrari. Se allora una norma «diviene criterio di validità (di altre norme e delle attività poste in essere dai poteri costituiti), un diritto fondamentale certo possiede un peculiare valore normativo»35. Da ciò ne consegue che i diritti fondamentali, essendo giuridicamente vincolanti, non possono essere lasciati alla disponibilità della sfera politica, nel senso che tale remissione «deve essere evitata poiché esiste già una decisione (politica) che ha reso positivi quei diritti, a livello internazionale e/o statale»36. Le difficoltà che presentano i diritti sociali si possono così superare per via interpretativa, fintanto che il legislatore non intervenga. Questo comporta il coinvolgimento degli organi giudiziari. I giudici ordinari potrebbero svolgere un ruolo significativo nella tutela dei diritti sociali, se quest’ultimi fossero interpretati come diritti soggettivi e non piuttosto come norme programmatiche. Si può condividere che in Italia pur in assenza di un’esplicita previsione normativa che prescrive l’applicazione diretta dei diritti costituzionali nei rapporti tra soggetti privati, quest’ultima non pare essere seriamente contestata da alcuno. Così, in assenza di una intermediazione del legislatore, spetta ai giudici evitare che i precetti costituzionali rimangano come in attesa di attuazione con grave violazione di beni a valenza massima37. 33 Economic, Social and Cultural Rights. Handbook for National Human Rights Institution, cit., p. 26. 34 G. Palombella, Diritti fondamentali. Per una teoria funzionale, cit., p. 63. 35 Op. cit., p. 65. 36 Op. cit., p. 68. 37 G. Comandé, Diritto privato europeo e diritti fondamentali, in G. Comandé (a cura di) Diritto privato europeo e issn 2035-584x Se questo vale per i rapporti tra privati, dovrebbe valere anche per i rapporti Stato-cittadino. Anche la giurisprudenza delle Corti costituzionali può rivelarsi particolarmente importante per la chiarificazione e lo sviluppo del contenuto concettuale dei diritti. Le Corti sono, infatti, «ad un tempo organi giudiziari ed organi legislativi, organi cioè dotati d’un certo potere di legislazione (sia pure, talvolta, solo abrogativo) superiore a quello goduto ed esercitato dai rispettivi Parlamenti»38. In questi casi potrà apparire evidente un conflitto tra la “democrazia come società retta da una costituzione” e la “democrazia come governo del popolo”39 e bisognerà allora compiere una scelta, che non costringe alla sospensione del giudizio se teniamo presente che sia la libertà individuale sia la democrazia presuppongono, e rinviano a, un corpo di princìpi verso i quali la stessa libertà e la stessa sovranidiritti fondamentali, Torino, 2004 p. 30. Nell’àmbito del diritto privato: «le tecniche adottare e adottabili sono quelle ormai consuete di utilizzo dei precetti costituzionali in funzione integratrice di clausole generali ovvero attraverso la “mediazione di norme ordinarie a struttura aperta” come l’articolo 2043 c.c. e, oggi, l’art. 2059 c.c. che consentono di trasformare il precetto di tutela dalla potenza in atto». 38 M. La Torre, Democrazia, in M. La Torre – G. Zanetti, Seminari di filosofia del diritto, Soveria Mannelli, (CZ), 2000, p. 191 e pp. 213-214 in cui si legge: «Il garantismo insomma è ben poca cosa se equivale al controllo plurilaterale tra poteri, sfociando in un sistema di reciproci condizionamenti istituzionali tra gli organi costituzionali dello Stato: il sistema dei “pesi e contrappesi” che impedisce ad un organo, quale che sia la sua posizione costituzionale, di elevarsi decisivamente su tutti gli altri. [Potremmo invece dire che l]a Grundnorm per questo garantismo normativo sostanziale risiede nei princìpi metagiuridici della Costituzione e non già nel compromesso raggiunto dai poteri dello Stato». 39 In questi casi può «esservi cioè conflitto tra la democrazia come società retta da una costituzione (da princìpi e regole dotati di dignità e forza superiori a quelle godute dalle leggi ordinarie espresse dagli organi della sovranità popolare) e la democrazia come governo del popolo (della volontà decisionistica e legibus soluta di questo). Tale tensione può presentarsi nella forma d’un conflitto di competenze tra il potere legislativo e quello giudiziario, tra il “rappresentante del popolo” e il “custode della costituzione” (che nei sistemi dotati di costituzioni “rigide” è oggi in genere il giudice, costituzionale e/o ordinario)». Ibidem, p. 217. Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali 60 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) tà (come volontà rispettivamente individuale e collettiva) nulla (giustificatamente) possono. Si tratta eminentemente di una serie di diritti la cui violazione – anche con l’assenso consapevole degl’interessati – sancirebbe una situazione moralmente inaccettabile; la cui violazione da parte di un certo regime politico – sia pure per consenso unanime dei cittadini – ci segnalerebbe la natura illiberale e non democratica di quel regime40. 3. Efficacia soggettiva dei diritti sociali e giustiziabilità Dell’inefficacia dei diritti sociali se ne fa spesso un uso retorico simile a quello della sineddoche, per cui un aspetto viene assunto come rappresentativo del tutto. Con questo non s’intende negare che l’inefficacia è un aspetto problematico, ma si vuole piuttosto evidenziare che esso non lo è di tutti i diritti sociali e che comunque non è totale o definitivo. Se si intende prendere sul serio una costituzione o un patto di diritti umani che consacrano diritti sociali, se uno assegna a questi strumenti non solamente valore normativo, ma un valore normativo supremo, destinato a limitare e imporre obbligazioni ai poteri pubblici, importa giustamente reclamare questa costruzione e non – come fanno molti giuristi – leggere nel termine «diritto», quando si tratta di diritti sociali, una espressione figurata o metaforica, tesi che tuttavia non sosterrebbero quando si trattasse di interpretare i diritti civili41. In questo modo s’intende superare l’angusta concezione che propone una lettura separata delle leggi ordinarie e della Costituzione, per cui le norme costituzionali sarebbero un mero limite per l’attività del legislatore, finendo per ridurre l’assetto costituzionale ad una funzione di delimitazione della regole del gioco e sottraendo ad esso in positivo ogni capacità promozionale, che invece la natura delle stesse norme in oggetto e ragioni storico-politiche inducono ad attribuirgli addirittura in via privilegiata42. 40 Ibidem. 41 V. Abramovich - C. Curtis, Los derechos sociales como derechos exigibles, cit., p. 58. 42 P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 1991, p. 190. issn 2035-584x Anche a livello internazionale alcuni diritti, consacrati nel PIDESC, (come ha evidenziato il Comitato sui diritti economici, sociali e culturali nell’Osservazione Generale n. 3), sono applicabili immediatamente dagli organi giudiziali e sono: “l’uguaglianza tra uomo e donna” come previsto dall’art. 3; “un equo salario ed una eguale remunerazione per un lavoro di eguale valore, senza distinzione di alcun genere” (art. 7.a.1); “la libertà sindacale ed il diritto di sciopero” (art. 8); “la protezione e l’assistenza di fanciulli e adolescenti senza discriminazione alcuna per ragioni di filiazione o per altre ragioni e protezione contro lo sfruttamento economico e sociale” (art. 10.3); “l’istruzione obbligatoria e gratuita accessibile a tutti e libertà dei genitori di scegliere l’educazione per i propri figli e libertà d’insegnamento” (art. 13 2.a, 3.4); “la libertà della ricerca scientifica e attività creativa” (art. 15.3)43. Ma anche per gli altri diritti, il riconoscimento internazionale e costituzionale determina, in ogni circostanza, un nucleo indisponibile per i differenti poteri costituiti, dal legislatore all’amministrazione fino agli stessi tribunali. Come conseguenza di ciò, nessuno di questi organi può disconoscerlo né lasciare di assicurarlo a tutte le persone, iniziando da quelle che si trovano in situazione di maggiore necessità44. Ecco che, mentre i rispettivi rami del governo devono essere rispettati, è appropriato riconoscere che i tribunali sono generalmente già coinvolti in una serie considerevole di questioni che hanno implicazioni importanti circa le risorse. L’adozione di una rigida classificazione dei diritti economici, sociali e culturali che li ponga, per definizione, oltre la portata dei tribunali sarebbe così arbitraria ed incom43 Cfr. V. Abramovich - C. Curtis, Los derechos sociales como derechos exigibles, cit., p. 88; H. J. Steiner , P. Alston, R. Goodman, International Human Rights in context. Law, Politics, Morals, Oxford, 2007, p. 314; M. Sepúlveda, The Nature of the Obligations under the International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights, Schoten, 2003, p. 134; A. Saccucci, Profili di tutela dei diritti umani, Padova, 2005, p. 59; L. Pineschi, (a cura di), La tutela internazionale dei diritti umani, Milano, 2006, p. 138. 44 G. Pisarello, Los derechos sociales y sus garantías. Elementos para una reconstrucción, Madrid, 2007, p. 86. Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali 61 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) patibile con il principio secondo cui i due gruppi di diritti umani sono indivisibili e interdipendenti. Essa ridurrebbe anche drasticamente la capacità dei tribunali di proteggere i diritti dei gruppi più vulnerabili e svantaggiati della società45. Infatti, come ricorda Alexy, «i diritti fondamentali sono posizioni così importanti la cui decisione di proteggerli non può essere semplicemente lasciata alle maggioranze parlamentari»46. Dire che un diritto è fondamentale significa che è collegato a situazioni giuridiche soggettive così esiziali per la vita degli individui, che la sua lesione non potrà mai trovare giustificazioni adeguate. Le norme sui diritti fondamentali contenute nella Costituzione obbligano il legislatore democratico, stabilendo cosa non possa decidere o debba decidere. I diritti sociali constano di tre elementi: il titolare, lo Stato e l’azione positiva dello stesso. Se dunque il titolare ha diritto ad un’azione positiva messa in atto dallo Stato, ne deriva che lo Stato ha il relativo obbligo di compiere l’azione positiva. Se questo è vero allora «il titolare del diritto ha il potere di far valere il diritto dinnanzi ai giudici»47. Ciò emerge anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale tedesca, secondo cui, allorquando il legislatore tardi arbitrariamente ad adempiere ai suoi obblighi, gli individui possono far valere i loro diritti in sede giudiziaria. Non c’è dubbio, ha affermato la Corte costituzionale che, tra gli obblighi gravanti sullo Stato si possono annoverare quelli di prestare aiuto a quei cittadini che sono ostacolati nel loro sviluppo personale e sociale da debolezza fisica e mentale e che non sono capaci di provvedere a se stessi. E dunque grava sullo Stato l’obbligo di assicurare le condizioni essenziali per un’esistenza dignitosa48. Sulla base dei ragionamenti seguiti dalla Corte costituzionale tedesca si può constatare che sebbene la Costituzione federale non enumeri espressamente molti diritti sociali, essa presenta tuttavia dei punti di par45 H. J. Steiner, P. Alston, R. Goodman, International Human Rights in context. Law, Politics, Morals, cit., p. 315. 46 R. Alexy, A Theory of Constitutional Rights, Oxford, 2004, p. 297. 47 Ibidem, p. 296. 48 Ibidem, p. 290. issn 2035-584x tenza oggettivi per un’interpretazione orientata verso l’assegnazione di diritti soggettivi. Per tali ragioni Alexy inquadra i diritti sociali o “diritti in senso stretto” nella categoria dei “diritti ad azioni positive dello Stato”, in cui sono compresi anche i “diritti di protezione contro gli altri cittadini” ed i “diritti di organizzazione e procedimento” e giustifica l’attribuzione di diritti sociali come diritti soggettivi evidenziando il loro carattere liberale, nel senso che senza i diritti sociali, che garantiscono la libertà reale, la libertà formale non avrebbe alcun valore, finendo per essere – riprendendo Böckenförde – una formula vuota. Infatti, i diritti fondamentali tra le altre cose, esprimono princìpi che richiedono che l’individuo sia capace di sviluppare liberamente la sua dignità nella comunità sociale, che presuppone un certo grado di libertà fattuale. Irresistibilmente la conclusione è che se lo scopo dei diritti costituzionali è il libero sviluppo della personalità umana, allora essi sono anche rivolti verso la libertà fattuale, e così sono ‘non solo princìpi che prevedono un potere giuridico, ma anche la reale capacità d’agire’49. In questo modo, alla luce del sistema tedesco Alexy giustifica in materia sociale l’intervento della Corte costituzionale, sollevando così il problema del bilanciamento tra il principio della libertà reale e quello della separazione dei poteri e della democrazia (che include la competenza finanziaria del Parlamento). La soluzione viene tracciata nei seguenti termini: se la lesione del principio della separazione dei poteri e il princìpio democratico fossero lesi in misura non così rilevante rispetto a quanto accadrebbe nel caso della lesione del principio della libertà reale, allora a quest’ultimo deve essere riconosciuta la prevalenza allorché i diritti sociali siano garantiti ad un livello essenziale o minimo. Sebbene questo riconoscimento allargato ad un numero elevato di persone comporti una spesa non indifferente per lo Stato, ciò non può condurre “né ad affermare che i diritti sociali non esistano, né che il principio della competenza finanziaria del Parlamento sia illimitato, dal momento che non esistono princìpi assoluti”50. 49 Ibidem, p. 340. 50 Ibidem, p. 344. Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali 62 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) Questo ragionamento ricorda la tesi espressa da Henry Shue sui diritti fondamentali, o meglio “essenziali”, “basic” secondo la sua definizione. Infatti, sono ritenuti essenziali i diritti di sussistenza perché il loro godimento è condizione indispensabile per il godimento di tutti gli altri diritti. Da ciò deriva che il tentativo di godere di altri diritti, sacrificando un diritto essenziale, sarebbe controproducente. Si priverebbero gli altri diritti non essenziali del loro fondamento sostanziale. Per tali ragioni se un diritto è essenziale, si può sacrificare un altro diritto non essenziale, se necessario, al fine di assicurare il diritto essenziale. Ma la protezione di un diritto essenziale non può essere sacrificata al fine di assicurare il godimento di un diritto non essenziale. Esso non può essere sacrificato perché non può essere sacrificato con successo51. In virtù di tali considerazioni si può dire che la tutela dei diritti sociali non può sicuramente essere sacrificata per preservare la separazione dei poteri. Al fine di trovare il giusto equilibrio tra i poteri dello Stato nel caso di inattività del legislatore, si potrebbe configurare in materia di diritti sociali il diritto al risarcimento del danno per mancata predisposizione delle garanzie primarie e secondarie. Questa soluzione non dovrebbe apparire teoricamente eccentrica e praticamente irrealizzabile, se consideriamo che essa è già alla base del sistema di diritto europeo in tema di risarcimento del danno per tardivo recepimento delle direttive comunitarie. Difatti, in ambito europeo la Corte di giustizia ha previsto il risarcimento del danno a carico del singolo Stato in quanto la piena efficacia delle direttive comunitarie è subordinata ad un’azione da parte dello Stato, di modo che per i cittadini si profila l’impossibilità di far valere dinanzi ai giudici nazionali i diritti riconosciuti dal diritto comunitario. Allo stesso modo, i diritti sociali impongono agli Stati l’obbligo di predisporre misure necessarie a renderne effettivo il godimento e la garanzia sicché l’inattività del legislatore 51 H. Shue, Basic Rights. Substistence, affluence and U.S. foreign policy, cit., p. 19. issn 2035-584x può certo configurare la possibilità del risarcimento del danno. Procrastinare la tutela di diritti fondamentali, come renderli ineffettivi, si traduce in un’azione fraudolenta, come lo sarebbe «fornire alle persone dei buoni pasto senza fornire cibo»52. Ora, se la giustizia, come ricorda Rawls, è la prima virtù delle istituzioni sociali, il rimedio all’agire fraudolento risulta condizione indispensabile per la legittimazione dello Stato. Altrimenti, in tema di diritti sociali, si pone in atto una prassi di scorrettezza costituzionale e pratica antidemocratica53 che finisce per rendere l’esercizio del potere del tutto ingiustificato. Paola Chiarella è Dottore di ricerca in Teoria del diritto e ordine giuridico europeo [email protected] 52 Su carattere fraudolento e per la citazione si v. H. Shue, Basic Rights. Substistence, affluence and U.S. foreign policy, cit., p. 27. 53 L’espressione di Norberto Bobbio non si riferisce esplicitamente al tema dei diritti sociali, ma più in generale al rapporto tra morale, politica e diritto e constata la frequenza con cui l’agire politico segue una prassi volta ad aggirare il rispetto delle norme costituzionali e ad sottrarsi al giudizio morale. Si v. N. Bobbio, Elogio della mitezza, cit., p. 86. Esistenza, esigibilità e giustiziabilità dei diritti sociali 63 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Momenti di sostenibilità sociale. Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim Daniela Teobaldelli Abstract Questo studio tende a mostrare come Durkheim, ponendo l’imperativo morale ad elemento centrale della distribuzione del lavoro e della socialità, ha il merito di intuire i problemi della contemporaneità sollevati dalla globalizzazione economica e dalle crisi ad essa connesse. Attraverso l’analisi della proprietà e della divisione del lavoro si accede allo studio degli equilibri socialmente sostenibili. Durkheim procede all’ipotesi di una ridefinizione del legame sociale basato sulla centralità del lavoro, come tentativo di interpretare un consenso che giustifichi il rapporto della persona con i propri beni. Durkheim mostra come il principio del profitto, che traduce le rappresentazioni collettive in rapporti contrattuali, rischia di ignorare le condizioni reali della N ell’analisi di Durkheim della solidarietà organica derivante dalla divisione del lavoro, i diritti reali occupano una regione della normatività sociale in cui il diritto di proprietà viene considerato «la relazione più completa che possa esistere tra una cosa ed una persona perché sottomette completamente la prima alla seconda»1. In tal senso, la solidarietà negativa, che ha origine dalla differenziazione delle funzioni, non vincola le persone tra loro, non elabora scopi comuni verso i quali coordinare e dirigere le volontà, ma si limita a consentire un’integrazione ordinata della società2 e, affinché possa postulare l’astensione da turbative considerate illegittime 1 E. Durkheim, La divisione sociale del lavoro, trad. di F. Airoldi Namer, Milano, 1999, p. 134. 2 In altri termini, i diritti reali, che delimitano e rendono palese erga omnes il rapporto del dominus con i propri beni, sembrano non contribuire in alcun modo all’unità del corpo sociale, cfr. R. Marra, Il diritto in Durkheim : sensibilità e riflessione nella produzione normativa, Napoli, 1986, p. 71. società esponendo il consenso ai pericoli della strumentalizzazione. In questa direzione, il valore morale che regge il contratto appare come medio politicoeconomico delle differenze per definire il consenso sull’interesse generale, costituendo la principale spinta verso un diritto del lavoro capace di armonizzare le differenze sociali. Parole chiave divisione del lavoro; Consumo; Proprietà; Consenso; Rischio; Equità; Socialità; Imperativo Morale; Sostenibilità. nel particulare di ciascuno, è necessario che sia preceduta e fondata da una solidarietà condivisa di tipo contrattuale che regoli lo scambio e le comunicazioni sociali3. La normatività contenuta nei diritti reali, e nella proprietà in primo luogo, sembra rappresentare una socialità imperfetta e non autosufficiente che, per determinarsi e legittimarsi, richiede un solido consenso esterno «determinato altrove dall’intreccio positivo delle relazioni umane»4. 3 L’espressione di solidarietà negativa sembra impropria per designare tali relazioni poiché non vi si rinviene un’autentica coesione, ma solo il lato negativo di qualunque cooperazione. La solidarietà negativa non può prescindere da quella positiva perché «al massimo della sua estensione ed in un funzionamento ideale, un accordo di questo tipo farebbe somigliare la società ad una ordinata costellazione, nella quale ogni astro si muove senza interferire nel movimento degli altri corpi», E. Durkheim, La divisione sociale del lavoro, cit., p. 136. 4Ibidem, p. 137; i rapporti internazionali sono esempi di tale dipendenza perché essi intervengono soprattut- Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim 64 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) Le ipotesi condotte nella Divisione sociale del lavoro sulla natura della proprietà sembrano concentrarsi soprattutto nell’interpretazione del consenso diffuso che garantisce socialmente il rapporto della persona con i propri beni. Contrariamente alla teoria classica della scienza sociale sul nesso proprietà-lavoro, dove l’attività umana è posta a fondamento dell’appropriazione legittima della ricchezza, e in seguito alla considerazione che «l’individuo non si appartiene del tutto»5, Durkheim ritiene che i diritti che l’uomo ha su se stesso non siano assoluti ma limitati dai fini collettivi e morali ai quali è chiamato a collaborare e che il solo valore individuale che deve essere affermato e garantito è il rispetto della «persona umana in generale, cioè dei caratteri comuni essenziali che fanno la qualità di un uomo»6. In questa direzione, cadrebbe il nesso costitutivo tra lavoro e diritto di proprietà7. Tuttavia, il dedurre le cose dalla persona può apparire un procedimento vano perché i due termini, non solo sono del tutto eterogenei, ma sembrano potersi congiungere solo con la mediazione di una causa che sia loro esterna8. In altri termini, posto che l’individuo non è to per regolare l’estensione dei diritti degli Stati sulle «cose», cioè sui territori, cfr.R. Marra, op.cit., p.72. 5 La duplicità dell’individuo fa sì, infatti, che l’io individuale non possa, esclusi i casi di anomia soggettiva, prescindere dall’io-sociale, ed è per tale motivo che la persona non può considerarsi tale se non in relazione con l’ambiente sociale, E. Durkheim, Lezioni di sociologia : fisica dei costumi e del diritto, trad. di M.L.Corvi, A.S. Piergrossi, Milano, 1973, p. 146. 6 R. Marra, op. cit., p. 77. 7Destituendo il lavoro da ogni pretesa di giustificazione legittima del diritto di proprietà, l’attività pratica potrebbe essere conservata principalmente come fonte di produzione, indipendentemente dalla questione sulla titolarità dei beni medesimi, cfr. Ibidem, p. 78. 8 La ricchezza non si costituisce soltanto attraverso la produzione, essa non deriva semplicemente da un elemento materiale e impersonale che sia possibile apprezzare oggettivamente perchè i gusti, i bisogni sociali, le mode e tutto quanto costituisce l’attività rappresentativa della società, interviene a modificarne il concetto stesso e a conferirgli una dimensione relativa e parzialmente casuale, estranea alle relazioni rigorose prefigurate dalla scienza economica, cfr. E. Durkheim, Lezioni di sociologia, cit., p. 151. issn 2035-584x in grado di rinvenire nella propria costituzione naturale la capacità di orientare, se non con atti di costrizione, la questione giuridica dell’appropriazione legittima dei beni e che la stessa attività materiale deve attendere il vincolante giudizio di valore da parte della società, per poter misurare adeguatamente la consistenza degli effetti utili conseguiti, sembra allora necessario pervenire ad una categoria a priori del possesso che prescinda dal fatto fisico della detenzione9. Il diritto di proprietà, che consiste nell’esclusione dell’uso di un bene nei confronti di tutti gli altri soggetti diversi dal proprietario, ad eccezione dello Stato, sembra definirsi negativamente nel divieto che esso sanziona piuttosto che per le attribuzioni che conferisce10. Il diritto di proprietà accordato agli uomini sembra, nelle intuizioni di Durkheim, essere l’evoluzione e il perfezionamento di un diritto di proprietà divino e il carattere che lo rende inviolabile e che fonda in definitiva l’istituzione stessa, ancor prima di essere trasferito alla persona, sembra risiedere nell’ordine naturale delle cose. L’intangibilità conferita alla proprietà deriverebbe, non dal rispetto dovuto alla personalità umana, individuale o collettiva, ma da una sacralità esterna e superiore all’individuo11. L’analisi del diritto moderno permette di definire i differenti caratteri della proprietà fondiaria e di quella mobiliare, corrispondenti entrambe a due fasi distinte dell’evoluzione giuridica. Infatti, mentre la prima risulta anco9 L’impostazione del problema e l’uso di categorie concettuali prelude ad un incontro con la dottrina di Kant in cui si rinviene una confutazione della proprietà-lavoro: «la lavorazione, quando si tratta di un primo possesso, non è altro che un segno esterno della presa di possesso, che si può sostituire con molti altri che costano minor fatica». Durkheim riporta questa argomentazione kantiana come la giustificazione più sistematica mai tentata dei diritti del primo occupante all’interno di una morale essenzialmente spiritualista, cfr. ivi, p. 156; vedi anche I. Kant, La metafisica dei costumi, trad. di G. Vidari, Milano, 1916, pp. 55 ss. 10 Cfr. E. Durkheim, Lezioni di sociologia, cit., p. 169. 11 Il rispetto della proprietà non è un’estensione alle cose del rispetto che si deve alla persona umana, ma deriva da elementi esterni e superiori la persona, cfr. ibidem, p. 187. Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim 65 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) ra gravata da limiti e divieti, a ricordo della sua antica natura religiosa, la seconda, al contrario sembra godere di una legislazione più mobile e flessibile affidata, del tutto o in larga misura, all’arbitrio dei privati e alle esigenze del mercato. Se, come in Durkheim, la proprietà non deriva dal lavoro come una necessità logica e il legame che unisce i beni alla persona non è naturale, l’attuazione di una società civile sembra rimanere l’esclusivo trait d’union tra gli individui e i beni appropriabili poiché «è essa che fa l’attribuzione e procede alla distribuzione in accordo con i sentimenti che prova per l’individuo, secondo il criterio mediante il quale valuta i propri servizi»12. Se si considera che gli economisti sempre più spesso parlano di una società dei due terzi e si attendono che presto diventi la società di un terzo, nel senso che tutto quello che serve per soddisfare la domanda del mercato potrà essere prodotto da un terzo della popolazione13, le affermazioni di Durkheim sembrano offrire un importante contributo alla ridefinizione sociale ed economica degli attuali princìpi mercantili e alla ridefinizione sociologica delle regolamentazioni e degli equilibri. In questa direzione, l’analisi di Bauman spiega che l’odierna versione liquefatta e deregolamentata dei legami che uniscono il capitale al lavoro ammette la traduzione della flessibilità in una costante precarietà14 e conduce 12 Ibidem, p. 239; Durkheim supera così gli errori degli economisti e dei socialisti che fondano la proprietà sul lavoro spiegando che «una identificazione di questo tipo tende in effetti a far prevalere la quantità del lavoro sulla qualità» facendo sì che il valore di una cosa non venga determinato dal lavoro, ma dal modo in cui la società, nelle molteplici circostanze, valuta la cosa; sul punto vedi anche M. A. Toscano, Evoluzione e crisi del mondo normativo: Durkheim e Weber, Roma, 1975, p. 147. 13 Cfr. Z. Bauman, Modernità liquida, trad. di S. Minucci, Roma, 2002, p. 170. 14 La crescente indipendenza del capitale deve comunque confrontarsi con considerazioni di carattere locale e il «potere di disturbo» dei governi nazionali può ancora, anche se in maniera sempre minore, imporre restrizioni alla libertà di movimento dello stesso. Quest’ultimo, tuttavia, è diventato extraterritoriale e il suo livello di mobilità spaziale è quasi sempre sufficiente a ricattare gli organismi politici legati al territorio e a imporre dipendenza. I governi nazionali non possono non subordinare le proprie politiche, in misura sempre crescente, issn 2035-584x il lavoro, spogliato di reali prospettive e perciò reso episodico, a non esser più adeguato nel definire le modalità di impegno reciproco15. Le nuove fonti di profitto sono le idee anziché gli oggetti fisici e l’odierno coinvolgimento del capitale riguarda, di conseguenza, non più il produttore e i lavoratori, ma i consumatori, e, solo nell’ambito di questo rapporto, sembra possibile stabilire legami di reciproca dipendenza16. Contrariamente alla divisione del lavoro teorizzata da Durkheim, diretta a creare legami di solidarietà tra le differenti funzioni alle minacce del capitale globale e al suo finanziamento. Un governo dedito al benessere del proprio elettorato non ha altre speranze che implorare e sedurre, anziché costringere, il capitale a entrare e, una volta entrato, a trattarlo con tutti i riguardi. E ciò si può fare soltanto «creando condizioni migliori per la libera impresa», il che significa porre tutto il potere di regolamentazione di cui il governo dispone al servizio della liberalizzazione, per smantellare le ancora esistenti leggi e statuti «che ostacolano la libertà di impresa». In pratica tutto questo significa meno tasse, meno regole per le imprese e soprattutto un «mercato del lavoro flessibile», cioè una popolazione di lavoratori docile, incapace o incurante di opporre una resistenza organizzata a qualsiasi decisione il capitale possa prendere; cfr. ibidem, p. 172. 15 Le definizioni di lavoro flessibile, a seconda della prospettiva da cui le si stabiliscono, sono varie e di opposto significato, quindi, se per la classe dei lavoratori la precarietà è un destino, per quella degli investitori è una scelta o una necessità. L’idea di flessibilità, che questi sperano di raggiungere, è quella per cui il lavoro, deve essere forgiato sulle tendenze instabili del mercato e quindi perdere la sua originaria rigidità, affinché non debba più essere considerato come una variabile economica, cioè come una incognita nei calcoli degli investitori. Si potrebbe paragonare la flessibilità del lavoro alle oscillazioni di un pendolo. Tanto più il movimento è rapido, tanto più le sue variazioni si riducono ad una costante prossima allo zero, e quindi, non valutabile come incognita, cfr. ibidem, p. 174. 16 Le idee sono prodotte una sola volta, e quindi continuano a produrre ricchezza a seconda del numero di persone che riescono ad attirare in qualità di acquirenti/clienti/consumatori, non dal numero di persone assunte e incaricate di replicarne il modello. Per essere competitivo, efficiente e redditizio, il capitale dipende dai consumatori e dalla pianificazione dei suoi spostamenti, e quindi, la presenza di una manodopera locale e il suo «potere di presa» sul capitale sono, oggi, dei fattori secondari, cfr. Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, trad. di O. Pesce, , Bari, 2006, p. 174-175. Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim 66 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) e riconoscimento di una complementarietà e mutua dipendenza, i soggetti attualmente impegnati in una attività economica sembrano «essere più che mai consapevoli del loro ruolo usa e getta»17. La metamorfosi dell’ultima modernità sembra aver invertito il rapporto tra capitale e lavoro e declinato il capitalismo industriale in capitalismo cognitivo, in cui la produzione e il controllo delle conoscenze sono centrali nella valorizzazione del capitale. L’attuale struttura della divisione del lavoro sembra pertanto comprendere quattro categorie. Da un lato, ci sono i manipolatori simbolici, che inventano le idee e i modi per farle apparire desiderabili e commerciabili e, dall’altro, coloro che sono impegnati nella riproduzione del lavoro, come gli educatori o i funzionari. Nella terza categoria figurano coloro che sono inseriti nei vari servizi personali per creare un diretto contatto con i fruitori del servizio, cioè i venditori di prodotti. Infine, la quarta categoria comprende le persone che tradizionalmente formano il substrato sociale del movimento operaio o, in altri termini, i lavoratori di routine, legati alla catena di montaggio o, nelle fabbriche più moderne, alle reti informatiche o ai dispositivi automatizzati, che risultano essere gli elementi più facilmente sostituibili dal sistema economico poiché il loro lavoro non specializzato riduce il potere contrattuale al minimo o ad essere del tutto inesistente18. 17 Z. Bauman, Modernità liquida, cit., p. 175 18 Il ruolo centrale che la nozione di tempo giocava all’interno del capitalismo industriale sembra, nello stesso movimento di trasformazione, cedere il posto, nel capitalismo cognitivo, alla nozione di tempi sociali necessari alla costituzione e alla valorizzazione dei saperi. Queste trasformazioni nella divisione del lavoro e nell’economia della conoscenza vanno di pari passo con i cambiamenti profondi che riguardano i meccanismi di regolazione del mercato del lavoro. In particolare, lo sfaldamento del modello canonico del rapporto salariale (il contratto a tempo indeterminato) e la crisi del sistema di tutela sociale costruitogli attorno, si combinano con un importante processo di desalarizzazione formale della manodopera. Un’autonomia crescente delle conoscenze dei lavoratori si trova così associata a una precarietà altrettanto importante che riguarda le condizioni di impiego e di remunerazione della forza lavoro, issn 2035-584x Parafrasando Durkheim, ciò che per Bauman dà un senso alla classe dei lavoratori, oltre alle strutture sociali ad essi connesse19, risiede nel precetto comportamentale/attitudinale, diffuso e perciò condiviso, del concepire l’attività come «ritardo della gratificazione, come la negazione dell’immediatezza che, svilendo gli obiettivi, li traduce paradossalmente nella loro esaltazione»20 e contribuisce, allo stesso tempo, a diffondere e radicare l’etica del lavoro21. Supposta la condizione di una globale flessibilità del lavoro, che sempre più volge ad una disoccupazione di tipo strutturale, il ritardo della gratificazione sembra non essere più un segno di virtù morale, quanto un onere problematico, sintomo di ordinamenti sociali imperfetti e di inadeguatezza personale. All’etica del lavoro, che stimolò l’inversione di ruolo tra mezzi e obiettivi, proclamando la virtù del lavoro fine a sé stesso, sembra essersi sostituita in larga misura un’estetica del consumo, che riduce il lavoro ad un ruolo meramente subordinato e strumentale rispetto a quello cui è preposto: il poter consumare e, possibilmente, entro termini non troppo estesi22. secondo una relazione sulla quale sarebbe opportuno interrogarsi. In questo passaggio, i modelli di rete, di laboratorio di ricerca e di relazioni di servizi, potrebbero, in un certo senso, giocare lo stesso ruolo che la fabbrica degli spilli di Smith ha giocato nell’avvento del capitalismo industriale, cfr. ivi, pp. 176-177; vedi anche R. Reich, L’economia delle nazioni: come prepararsi al capitalismo del Duemila, trad. di M. A. Giannotta, Milano, 1993. 19 Si riferisce alle strutture sociali del Welfare State, cfr. Z. Bauman, Modernità liquida, cit., pp. 59-61. 20 Ibidem, p. 183. 21 Nella sua forma di «ritardo della gratificazione», la procrastinazione preservava tutta la sua implicita ambivalenza: si preferiva l’arare e il seminare piuttosto che il raccogliere e consumare i frutti del raccolto, l’investire piuttosto che il distribuire i guadagni, il risparmiare allo spendere, il lavoro al consumo, cfr. ibidem, p. 184. 22 Nella società dei produttori della prima modernità, il principio etico della gratificazione ritardata assicurava, di norma, lo sforzo lavorativo. Nella società liquida dei consumatori, viceversa, lo stesso principio è necessario all’atto pratico per garantire la curabilità del desiderio: per restare vivo e crescere, il desiderio, ha bisogno di essere periodicamente e ripetutamente gratificato e, tuttavia, la sua gratificazione ne decreta anche la sua fine. Una società governata dall’estetica Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim 67 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) In questo senso, l’individualismo moderno teorizzato da Durkheim, che ha elevato la dignità della persona a culto e ha legato l’identità al lavoro svolto, è stato sostituito da un processo di individualizzazione che, qualificando l’individuo non come lavoratore ma come consumatore, lo ha reso oggetto di un’attività endemicamente e irrimediabilmente individuale tanto che, anche laddove viene espletata in compagnia di un centro commerciale affollato23, le relazioni che lo stesso intrattiene tendono ad essere considerate come res consumens, completamente estranee da ogni proposito di solidarietà morale, in quanto sociale, e sociale, in quanto morale. Se Durkheim alla costrizione aveva sostituito un’azione individuale di spontanea adesione ad un comportamento condiviso, la globale ubbidienza a logiche di consumo regolabili ed uniformate secondo standars flessibili, tende a raggiungere l’individuo attraverso la lusinga e la seduzione e, mostrandosi mascherata da del consumo ha bisogno di un tipo di gratificazione che non sia mai completa, che rimanga sempre interrotta a metà. La procrastinazione serve la cultura del consumatore attraverso la sua stessa autonegazione: la fonte dello sforzo creativo non è più il desiderio indotto di ritardare la gratificazione del consumo, ma il desiderio indotto a ridurre il ritardo o abolirlo del tutto, insieme a quello di ridurre la durata della gratificazione allorché questa dovesse giungere, cfr. Z. Bauman, Homo Consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, trad. di M.de Carneri, P. Boccagli, Trento, 2007, pp. 21 ss. 23 «In una società di consumi, il condividere l’universale dipendenza da shoppihg è la conditio sine qua non della completa libertà individuale: l’articolo prodotto in massa è lo strumento della differenziazione dell’individuo. L’identità può essere acquisita solo tramite il prodotto che tutti comprano e può essere preservata solo attraverso lo shopping, alimentato da gadgets e prodotti usa e getta, destinati all’obsolescenza immediata, forniti dal mercato. Il processo di costruzione delle identità dipende anche dai mass media: la vita desiderata è quella che si vede in tv. Gli shopping malls, cioè i viali dove poter fere acquisti, rendono la vita del consumatore un posto sicuro perché nei suoi spazi sono garantiti incontri cercati e incontri mancati, episodi momentanei e apparenze riflesse da apparenze. La libertà di voler controllare e lasciarsi sorprendere dalle apparenze, trova il suo apice nel mondo non assolutamente impegnativo della televisione, dove il potere dello zapping rende il consumatore apparentemente incondizionato e in-condizionabile, cfr. ibidem, pp. 39 ss. issn 2035-584x esercizi di libero arbitrio24, meglio nasconde il proposito volto unicamente al profitto25. La società contemporanea, che rappresenta le categorie di consumatori, non dei produttori, come il motore dello sviluppo economico, considera coloro che non dispongono di sufficienti risorse per adattarsi agli standards non più una provvisoria anomalia che attende di essere corretta e rettificata, ma come una classe al di fuori delle classi, una categoria mantenuta permanentemente off limits dal sistema sociale. I poveri, coloro che non hanno risorse sufficienti per adattarsi agli standards, non vivono in una cultura diversa da quella dei ricchi, e devono convivere nello stesso mondo costruito a beneficio di coloro che sono stati scelti dal mercato dei produttori percependo così maggiormente il loro disadattamento e la loro inferiorità. In altri termini si può affermare che, poiché il consumo è un comportamento condiviso da tutti, e viene condotto in modo estremamente diverso a seconda delle risorse individuali, esso di fatto, anziché produrre una condizione di cooperazione e solidarietà, distribuisce la libertà in molteplici categorie di consumo e di target. In questa prospettiva analitica, alimentata dai rilievi di Durkheim, il lavoro sembra non essere più quel perno socialmente etico, economico e politico attorno al quale si potevano legare definizioni di identità, di funzioni, di proprietà, di progetti di vita e riconoscimenti di classe. Il lavoro ha acquisito oggi un signi24Se la definizione dell’attuale incertezza può essere riassunta come la paura dell’inadeguatezza agli standards, allora le proposte del mercato, per far fronte a tale timore, diventano numerose ed irresistibili per il consumatore. Se prima il vecchio regime della coercizione e della sorveglianza offriva, come ricompensa alla gratificazione differita, la libertà dai tormenti della scelta e dalla responsabilità, ora il mercato, a fronte di una incertezza privatizzata, perché tradotta come inadeguatezza personale, elabora e distribuisce soluzioni ad hoc affinché il consumatore non si senta gravato dal peso della responsabilità di una scelta sbagliata, cfr. ibidem, p. 123. 25 Il principio del profitto legalizza le funzioni economiche e politiche dedicate all’assunzione e alla riproduzione di standards individuati (su «modello del consumatore»), superando ogni morale solidarista ed equitativa ed eleggendo il Profitto stesso ad esclusivo Valore, cfr. C. B. Menghi, Logica del diritto sociale, Torino, 2006, pp. 55 ss. Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim 68 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) ficato puramente estetico che viene valutato non in base alla capacità di contribuire ad una sostenibilità sociale, ma alla capacità di creare bisogni e desideri al consumatore. L’ipotesi di una solidarietà sociale basata sulla centralità del lavoro e il tentativo di interpretare un consenso diffuso che, nel tempo, giustifichi socialmente il rapporto della persona con i propri beni, rendono il contributo di Durkheim un’interessante momento di riflessione per una definizione più ampia di interesse generale e di diritto sociale26. Come la proprietà, anche lo scambio, che nei suoi caratteri esteriori crea interessi eterogenei e lega i contraenti per un tempo assai limitato, non è in grado, senza il coordinamento di un corpo centrale, di poter garantire una regolazione sociale. «Il contratto ha bisogno di un controllo, di formalizzazione giuridica e di organizzazione perché, altrimenti, la volizione sarebbe destinata a rimanere allo stato di mera intenzione»27e gli egoismi produrrebbero un antagonismo permanente, uno stato di conflitto continuo, poco favorevole allo sviluppo delle relazioni economiche e l’interesse, non adeguatamente normato, diventerebbe un motivo di contrapposizione e di conflitto28. Per dimostrare che l’attività sociale diminuisce costantemente a favore dell’individuo, Durkheim pone il diritto come unità di misura che rileva i caratteri generali dell’estensione reale della vita sociale29. Il crescente ampliamento del diritto restituivo, che fornisce gli strumenti ed i fini da perseguire, dimostra l’interesse della società per le relazioni private e sostituisce alla materialità dello scambio una reciprocità di diritti e doveri. «Non tutto nel contratto è contrattuale»30 perchè la complessità delle condizioni esterne impone un 26 «Tutte le attività che si producono nell’organismo sociale sono pubbliche e stabiliscono relazioni tra i funzionari, pertanto il diritto privato è una dizione impropria; esiste soltanto il diritto della collettività, esiste soltanto il diritto sociale», cfr. E. Durkheim, La divisione sociale del lavoro, cit., p. 142. 27 Ivi, p. 358. 28 Cfr. R. Marra, op. cit., p. 126 ss. 29 Cfr. E. Durkheim, La divisione sociale de lavoro, cit., p. 213. 30 Ibidem, p. 218. issn 2035-584x sistema di riferimenti, segni, consuetudini e semplificazioni che l’individuo non può riprodurre. Il diritto contrattuale sembra così esistere in una dimensione del tutto diversa da quella normalmente attribuitagli dagli utilitaristi: esso non è semplicemente un utile complemento delle relazioni particolari, ma ne è, propriamente, la norma fondamentale, la base necessaria dalla quale non si può deviare che parzialmente e accidentalmente31. Posto che il diritto corrisponde allo stato della società, inteso come ambiente sociale interno e alle sue condizioni densimetriche e volumetriche, e che i costumi assumono il ruolo di leggi naturali non contraddette, almeno in condizioni normali, dal legislatore, è possibile dedurre che alla regolamentazione del contratto contribuiscono non soltanto il diritto formalizzato ma anche le obbligazioni e le consuetudini professionali e morali32, la cui ricezione giuridica nei codici appare come un lento processo di assorbimento, di razionalizzazione e di adeguamento ai principi di solidarietà e sensibilità sociali. Se nei contratti solenni l’elemento che garantiva l’osservanza della convenzione era principalmente il rapporto instaurato con la divinità, nel contratto consensuale è il riconoscimento morale dei diritti dell’individuo a contenere il rispetto sociale che è dovuto alla persona e a istituzionalizzare il giudizio e la riparazione di torti. Il contratto consensuale permette alla solennità di produrre i suoi effetti non per opera di formule ad invocazione divinatoria ma invocando la legge, e permette di reperire, corrispondentemente all’affermarsi 31 È vero che i contraenti possono talvolta derogare alle disposizioni di legge, ma non va dimenticato che il contratto deve comunque soddisfare le condizioni di validità richieste dal codice e che, inoltre, è previsto un sovente intervento del giudice nelle relazioni provate per accordare , ad esempio, una proroga al debitore o l’obbligo di restituire una cosa prima del termine fissato da parte del mutuatario. I contratti originano anche delle obbligazioni non convenute; è la previsione della norma che obbliga le parti non solo a quanto espressamente pattuito, ma anche a tutte le conseguenze che derivano dall’equità, dalla consuetudine o dalla legge, cfr. ibidem, p. 219. 32 Il costume, tranne nei casi di anomia illustrati da Durkheim, non si oppone al diritto e ne costituisce, anzi, la base, essendo la sintesi di tutte le esperienze della vita sociale e della tradizione, cfr. ibidem, p. 87. Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim 69 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) del diritto laico dell’individuo, una più autentica espressione delle volizioni personali33. In altri termini, affinché il contratto consensuale potesse essere ammesso tra gli istituti del diritto, è stato necessario che le credenze collettive, le sole capaci di garantire un fondamento morale alle istituzioni, fossero orientate dal culto dei valori religiosi al rispetto della persona e all’affermazione di diverse prerogative, come i diritti dell’individuo34. Le conseguenze implicate dal principio del consenso sembrano appartenere a tre specifici ordini. Innanzitutto, il contratto consensuale è un rapporto sanzionato dove l’organizzazione giuridica interviene dall’esterno ad assicurare alle parti la piena realizzazione degli obblighi e dei diritti convenuti. In secondo luogo, mentre nel contratto reale la definizione delle parti dipendeva solo dalla cosa consegnata e nel contratto solenne si prevedeva unicamente un soggetto che prometteva ed un altro che riceveva la promessa, il contratto consensuale è di natura bilaterale e consente di rappresentare un duplice ruolo per entrambi i contraenti, ciascuno, ad un tempo, debitore e creditore35. Le relazioni consensuali, infine, sono necessariamente dei contratti bona fides, nel senso che le conseguenze giuridiche sono fatte dipendere esclusivamente dalle volizioni delle parti36. Nel contratto reale, infatti, non ci si interrogava su che cosa si era voluto scambiare, perché 33 Cfr. R. Marra, op. cit., p. 138; vedi anche E. Durkheim, La divisione sociale del lavoro, cit., p. 228. 34Si tratta di una produzione sociale e normativa che deriva spontaneamente da certe condizioni morfologiche, densimetriche e volumetriche, del corpo sociale; cfr. E. Durkheim, Lezioni di sociologia, cit., p. 145. 35 Cfr. ibidem, p. 234. 36 A differenza del contratto solenne, le parole hanno valore solo come segni da interpretare, rilevano unicamente se esprimono con precisione degli stati delle volontà, altrimenti non rappresentano nient’altro che espressioni prive di senso, cfr. R. Marra, op. cit., p. 142; nel contratto reale e in quello solenne, il semplice consenso non era mai sufficiente a produrre un’obbligazione; occorreva un elemento superiore che si sovrapponesse per legare realmente i contraenti. Nel primo era la natura e la quantità delle cose ricevute a determinare esattamente l’entità del debito, nel secondo contratto questo ruolo era assolto dai riti e dalle parole, cfr. E. Durkheim, La divisione sociale del lavoro, cit., p. 236. issn 2035-584x era il valore intrinseco della cosa a determinare ciò che il debitore doveva all’altra parte. Anche nelle formule del contratto solenne non vi era la necessità di esplorare le intenzioni, dal momento che la parola era dotata di una intrinseca chiarezza tale da escludere ogni contemplazione sulla buona fede37. Insieme al principio del consenso ha origine anche la norma secondo cui il contratto non è considerato valido se stipulato in circostanze per cui la volontà delle parti non si è determinata liberamente38. In questo modo, l’avvento del contratto consensuale, unito ad uno sviluppo dei sentimenti di solidarietà e rispetto tra gli uomini, conduce le coscienze a ritenere che un contratto è morale, meritevole quindi di essere riconosciuto e sanzionato dalla società, solo quando esso è giusto, quando cioè una parte non ha il sopravvento sull’altra. Tale principio, non soltanto pretende di valutare le conseguenze oggettive degli impegni assunti, ma, al contempo, impedisce al contratto di convertirsi in un mezzo di sfruttamento per le parti. La condizione della giustizia nel contratto consensuale, che pretende l’esclusione di ogni forma di costrizione e considera fondamentale la natura della volontà espressa dalle parti, introduce le definizioni fondamentali che reggono il contratto equitativo39. Sembra potersi dire, nella direzione di Durkheim, che l’evoluzione delle relazioni contrattuali comunica il sentimento di una natura individuale imperfetta che, per potersi rafforzare attraverso i legami e poterne diventare pienamente consapevole, 37 Cfr. M. A. Toscano, op. cit., p. 142. 38 L’actio quod metus causa è tra le prime procedure istituite a protezione di colui che è costretto al contratto con mezzi non leciti, con la violenza o le minacce, sulla base dell’interpretazione per cui il contratto non è valido perché il consenso non si è formato spontaneamente ed è nato da una imposizione, cioè senza il dovuto rispetto della libertà naturale dell’individuo. Questa, infatti, è il presupposto in base al quale muoverebbe il principio dell’invalidità dei contratti per vizio di consenso, poiché la legge suppone che il consenso strappato con la forza è contrario all’interesse del contraente e pertanto l’ethos collettivo si rifiuta di ratificare un atto che si trasforma in una condanna immeritata a carico del contraente costretto; cfr. ibidem, p. 143. 39 Cfr. ibidem. Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim 70 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) necessita costantemente della regolazione esterna della società. Quando i sociologi definiscono l’attuale società di tipo complesso, intendono una società sempre più individualizzata, differenziata e globalizzata in cui il pluralismo e la tolleranza sono diventati valori degni di una totale considerazione40. Tuttavia, la libertà individuale sembra essere sempre meno capace di incidere concretamente sulle situazioni sociali, economiche e politiche, tanto che «se vogliamo essere individui, e questo è l’esito paradossale della modernità, possiamo esserlo ormai soltanto fuori dalla società»41. L’autoreferenzialità dell’individuo e la società pluralista, liberale e globale che vive di rappresentazioni collettive e le traduce in rapporti contrattuali, sembrano sempre più esporre il consenso al pericolo di strumentalizzazione. Infatti, se si considera che l’accordo intenzionale di volontà sull’oggettività dei bisogni42 è stato sostituito, nel passaggio dalla necessità alla rappresentazione, dal successo delle rappresentazioni economico-politiche43 che ignorano le condizioni reali o demografiche, il consenso allora, piuttosto che libero, può dirsi presunto. La natura bilaterale dell’accordo e la manifestazione del pieno consenso delle parti perdono la loro centralità di fronte alla crescente espansione dei contratti d’iscrizione i quali, attraverso l’utilizzo di formulari e modelli, da un lato, riducono la volontà delle parti a mere adesioni o astensioni e precludono a priori ogni possibilità di comunicazio40 «La vera contraddizione che sta emergendo in modo sempre più marcato, anche grazie alla globalizzazione, è quella che sembra essersi istituita nella società occidentale tra la tendenza all’inidividualizzazione e la tendenza alla differenziazione», S. Belardinelli, La normalità e l’eccezione. Il ritorno della natura nella cultura contemporanea, Catanzaro, 2002, p. 88. 41 Ibidem, p. 89; sul punto anche N. Luhmann, movendo dal fatto che l’uomo in quanto «sistema psichico» si è spostato ormai «nell’ambiente del sistema sociale», afferma che «l’uomo non è più il metro di misura della società» e rappresenta un sistema autoreferenziale, cfr. N. Luhmann, Sistemi sociali: fondamenti di una teoria generale, trad. di A. Febbraio, R. Schmidt, Bologna, 1990, p. 354. 42 Cfr. C. B. Menghi, op. cit., p. 79. 43 Cfr. ibidem. issn 2035-584x ne e di prospettiva sociale44 e, dall’altro, fanno sì che il contratto stesso diventi l’oggetto del consenso45, superando a priori il principio dell’uguaglianza tra le parti46. Secondo l’analisi di Durkheim, pur essendo il contratto il segno di una conquistata libertà ed autonomia, affinché la discussione e gli accordi possano aver luogo, è necessario che la società sia pervasa da sentimenti di fiducia, di senso del bene comune, di tolleranza e di responsabilità i quali, non potendo essere prodotti per via contrattuale, sembrano potersi rintracciare soltanto «in quel lento processo di socializzazione»47 che considera l’altro non come un limite alla libertà personale ma come la sua condizione necessaria48. Il tentativo di attribuire al contratto, o più esattamente all’idea morale che lo sostiene, un valore socializzante, posto che lo scambio è il mezzo che consente un confronto di posizioni e l’affermazione simultanea di personalità uguali e distinte, sembra condurre attualmente ad una nuova definizione dei caratteri e dell’estensione della solidarietà come una necessità morale volta a procurare, al di là dei vantaggi, dei doveri permanenti di socialità e 44 I contratti di iscrizione, a contrario di quelli di ascrizione, in cui il nesso di imputazione è la condotta dell’agente, inseriscono la volontà del contraente nel loro stesso meccanismo adeguandola a standards predefiniti. «Il contratto di iscrizione abbandona nella società di rappresentazione la prospettiva dell’obbligazione positiva, secondo cui la società ha il diritto di assoggettarsi a obblighi autodeterminati, alla trasformazione dell’obbligazione stessa secondo la percezione dell’interesse generale», cfr. ibidem, p. 121. 45 Cfr. ibidem, p. 79. 46 L’anomia costrittiva che segue la divisione del lavoro si ripropone anche nelle relazioni contrattuali laddove, non essendo stata stabilità una eguaglianza delle condizioni e delle opportunità iniziali esterne, una delle parti si trova costretta ad accettare le limitazioni dell’altra, cfr. E. Durkheim, La divisione sociale del lavoro, cit., pp. 365 ss 47 Il tentativo di Durkheim di rendere il contratto lo strumento moderno di socializzazione, sembra emergere anche, seppur con motivazioni non identiche, nelle considerazioni più attuali, ibidem, p. 90. 48 Anche nel contratto Durkheim considera fondamentale la duplicità dell’individuo in cui, al di là dei caratteri strettamente personali, sono insiti soprattutto quelli sociali, sul punto cfr. G. Paoletti, Dualismo o dualità? La nozione di “homo duplex” in Durkheim, in Homo Duplex. L’esperienza della dualità come problema filosofico, Pisa, 2004. Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim 71 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) imperativi di cooperazione rispetto ai quali, si suppone, non si ha il diritto di sottrarsi49. Seppur con argomentazioni che lasciano spazio ad ampie critiche, Durkheim, quando parla della necessità di un nuovo diritto che nasce dalla subordinazione degli interessi particolari a quelli generali, sembra riferirsi all’idea di una costituzione materiale che, a differenza di quella formale, legata al principio territoriale dello Stato, propone di raccogliere un consenso infra-politico, sottostante al piano politico istituzionale, e che, proprio per questo, risulta essere più idonea ad agire secondo i bisogni riconosciuti di interesse generale. In questa direzione, gli aspetti sociologici della critica di Durkheim sembrano inserirsi nella complessa relazione interdisciplinare che lega la sociologia alla filosofia del diritto, alle teorie degli economisti, dei giuristi positivi, delle scienze politiche e delle teorie generali, che negli ultimi anni propone una visione del diritto sociale come mezzo coniugativo, nel passaggio dalla Legge alla norma, ossia alle regole politico-economiche che sottendono i diritti sociali50. Alla separazione tra proposizioni scientifiche, giudizi di fatto e giudizi di valore, 51 Durkheim sostituisce l’interazione tra mezzi e finalità per evitare errori simili a quelli espressi dal modello utilitaristico della società che li considerava come prodotto empirico della forma della società52. «Tutti i mezzi sono essi stessi dei fini, se considerati da un altro punto di vista; per essere messi in pratica, infatti, 49 «Proprio per questo il diritto contrattuale risulta come l’espressione della particolarità e della differenziazione e come il diritto della divisione del lavoro», cfr. E. Durkheim, La divisione sociale del lavoro, cit., p. 203. 50 Cfr. C. B. Menghi, Rappresentazioni della sovranità, Torino, 2003, p. 131. 51 La contrapposizione tra mezzi e finalità viene colta da numerosi sociologi, tra cui Giddens. Secondo i giudizi di valore, «i dati scientifici possono essere utilizzati come mezzi tecnici che si adoperano per rendere agevole il conseguimento di finalità date, ma il valore delle finalità in se stesse non può essere provato attraverso l’applicazione di procedimenti scientifici», cfr. A. Giddens, Capitalismo e teoria sociale : Marx, Durkheim e Max Weber, trad. di C. Cantini, Milano, 1979 , p. 162 52 Cfr. E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, trad. di F. Airoldi Namer, Milano, 1963, p. 59. issn 2035-584x essi devono essere scelti proprio come è scelto il fine alla cui realizzazione sono volti. Vi sono sempre numerose strade che conducono alla stessa meta; si deve fare quindi una scelta tra esse»53. Non essendo la scienza da sola in grado di indicare la scelta del fine che meglio risponde ad un interesse generale, allo stesso modo, non può essere in grado indicare quali sono i mezzi più adeguati per raggiungerlo. «Per quale motivo essa dovrebbe consigliarci il mezzo più rapido invece di quello più economico, quello più sicuro piuttosto che quello più semplice o viceversa? Se la scienza non può esserci di guida nella determinazione dei suoi fini ultimi, essa è ugualmente impotente riguardo a quei fini secondari e subordinati che chiamano mezzi»54. Se il biologico contempla una distinzione chiara tra normalità e patologia, nella sfera sociologica, col proposito di superare la dicotomia tra mezzi e fini, l’individuazione di ciò che è anormale sembra non essere altrettanto certo e determinabile. Il criterio preliminare della generalità per cui «un fatto sociale che è generale per un dato tipo di società è quindi normale quando si dimostra che tale generalità si fonda sulle condizioni del funzionamento di quel tipo di società»55, sembra non essere in grado di fornire un modello di normalità alle società moderne poiché, essendo queste in una perenne fase di transizione, alle visioni tradizionali viene dato ancora un rilievo tale da indurre ad affermare che la loro fine progressiva è un fenomeno patologico56. Infatti, 53 Ibidem, p. 60. 54 Ibidem. 55 Cfr. E. Durkheim, La divisione sociale del lavoro, cit., p. 160. 56 In altri termini si può semplificare facendo riferimento alla coscienza collettiva, rigorosamente incompatibile con il modo secondo cui funziona un tipo di società che presenta un’alta divisione del lavoro. Il crescente prevalere della solidarietà organica conduce alla fine progressiva delle forme tradizionali di credenza; anzi, proprio perché la solidarietà sociale è sempre più subordinata alla interdipendenza funzionale nella divisione del lavoro, la fine delle credenze collettive è una caratteristica normale del tipo moderno di società. Il fatto che queste credenze persistano a livello generale non è dunque, in questo caso, un indice esatto di ciò Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim 72 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) in occasione dei rapidi cambiamenti sociali, quando «un’intera collettività vive un processo di evoluzione e non si è ancora stabilizzata nella nuova forma»57, gli elementi di ciò che è normale per quel tipo di società che sta per essere sostituita continuano ancora ad esistere e, pertanto, «è necessario analizzare le condizioni che hanno reso generale il fenomeno nel passato e poi indagare se queste condizioni sussistono ancora nel presente e, se tali condizioni non si danno, allora il fenomeno in questione non si può definire normale, sebbene sia generale»58. L’elaborazione di criteri di normalità nei confronti dei tipi specifici di società permette di seguire, nella teoria morale, una via intermedia tra coloro che concepiscono la storia come una serie di avvenimenti unici e irripetibili e quelli che cercano di formulare principi etici sovrastorici. Nella prima prospettiva si esclude la possibilità di ogni generalizzazione dei valori etici, mentre, nella seconda, si enunciano regole morali valide «per l’intera specie umana in modo definitivo». Solo con una conoscenza precisa delle tendenze potenziali che emergono nella realtà sociale, sostiene Durkheim, può avere successo l’intervento che mira a promuovere il cambiamento e la mobilità sociale. Lo studio scientifico della moralità permette, da un lato, di individuare quegli ideali che sono in fase di formazione, ma che sono ancora in gran parte nascosti alla coscienza comune e, dall’altro, di mostrare che, analizzando i cambiamenti delle condizioni sociali che sono alla loro base, e che servono a favorirne la crescita, si è in grado di indicare quali tendenze devono essere favorite e quali devono essere respinte perché obsolete59. Tuttavia il criterio metodologico basato sull’osservazione dei fatti sociali, ammette di poter indagare sulla che è normale e di ciò che è patologico, cfr. A. Giddens, op. cit., p. 164. 57 E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, cit., p. 69. 58 Ibidem. 59 «Il futuro è gia scritto per chi sa leggerlo», inoltre sulla determinazione del «fatto sociale» vedi ibidem, p. 165 ss. issn 2035-584x realtà per trarne delle regole di condotta morale «a partire da ciò che è normale e a partire dall’eccezione»60. La condizione di normalità, secondo una connotazione descrittiva e valutativa, corrisponde ad una normatività che viene non soltanto seguita e accettata perché ritenuta valida, ma anche imposta secondo i criteri che la legittimano61. Se nelle società semplici la validità della norma era sostenuta da criteri religiosi e, per questo, comportava immediatamente la sua idoneità ad essere operante, nelle società attuali il fatto che una norma, seppur condivisa dalla maggioranza dei membri di una società, possa dirsi valida, non autorizza sempre la sua imposizione. Ciò vuol dire che l’estrema differenziazione tra la validità e la cogenza di una norma è uno dei presupposti principali della normalità flessibile, tipica delle culture liberali e democratiche, attenta a non imporre norme senza consenso e, allo stesso tempo, senza mantenere vivo il dialogo sulla validità, a prescindere dal fatto che vengano o meno riconosciute62. L’importanza dell’equilibrio tra la cogenza e la validità di una norma sembra essere la traduzione dell’importanza, espressa da Durkheim, dell’accordo morale e del potenziale culturale o, in altri termini, dei capitali sociali, da cui le società attingono la loro forza integrativa63. Tale convinzione emerge in modo particolare nella società contemporanea dove, da una parte, si assiste ad un deperimento delle morali sociali, in primis della solidarietà e, dall’altra, il problema stesso dell’integrazione sociale, affidato agli equilibri economici di un mercato sempre più precario ed incerto, viene considerato secondario. Infatti, se si riduce la morale a funzione sociale, «in linea di principio nulla vieta di pensare che una società differenzia60 Cfr. S. Belardinelli, op. cit., p. 5. 61 Cfr. ibidem, p. 18. 62 Cfr. ibidem. 63 «un fatto che l’esistenza sociale dipende, in gran parte, dal consenso morale dei suoi membri e che una crisi radicale di tale consenso porterebbe al limite dell’estinzione sociale», cfr. T. Parsons, La struttura dell’azione sociale, trad. di M. A. Giannotta, Bologna, 1986, p. 440. Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim 73 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) ta, qual è la nostra, per esigenze sociali, abbia dovuto farsi prima individualista e, successivamente acentrica, priva cioè di un centro, e tendente a funzionare come se gli individui non esistessero»64. In altri termini, da un lato, ciascuno è libero di seguire come meglio crede le proprie convinzioni morali e, dall’altro, l’integrazione sociale avviene per adattarsi ad esigenze che non coinvolgono direttamente l’individuo ed appartengono ad una logica sistemica65 sovraindividuale e fattuale. La normalità di una cultura liberale e democratica «non può non fare i conti con una certa dose quasi endemica di anomia»66 perché nel pluralismo è concessa la possibilità a ciascuno di «coltivare la propria eccezione»67. Tuttavia, se l’attitudine comportamentale dell’ultima modernità continua ad affermare che ogni eccezione è concessa, fatto salvo il principio di non invadere la libertà dell’altro, si rischia, non solo «di cadere nel più radicale indifferentismo»68, ma anche di svuotare di significato quei patrimoni culturali che hanno reso possibile la valorizzazione dell’eccezione stessa. Se si ammette che esiste una situazione normale di estrema differenziazione, nella quale è lecito ritenere che le divergenze indi64 S. Belardinelli, op. cit., p. 21; vedi anche E. Durkheim, La divisione sociale del lavoro, cit., pp. 187 ss. 65 Cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, trad.di P. Rinaudo, Bologna, 1986. 66 Cfr. S. Belardinelli, op. cit., p. 22. 67 Cfr. ibidem. 68 Se nelle epoche passate la coscienza comune tendeva a privilegiare la normalità al punto di imporla anche con la forza contro l’evidenza più elementare, come coloro che non volevano guardare dentro al cannocchiale di Galileo, nell’era postmoderna, al contrario, sembra che il sentire comune, attratto sempre più dall’eccezione, non riconosca più alcuna normalità. Tanto una casa è unica, particolare, conforme ai nostri gusti e alle nostre scelte personali, e in questo, appunto eccezionale, tanto più essa ci sembra meritevole di essere seguita. Fatto salvo il principio che non bisogna invadere lo spazio altrui, qualsiasi stile di vita ci appare legittimo, quindi normale. Il sistema massmediatico è sempre più avido di fatti piuttosto che di valori e, l’unico di cui riesce a farsi veicolo è il valore dell’indifferenza. Persino di fronte ai comportamenti più criminosi c’è l’incapacità di giudicarli anormali, tanto ormai sembra usurato, stantio, esteticamente fastidioso il lessico della normalità, ibidem, p. 6. issn 2035-584x viduali, di classe e di gruppo, esprimano dei valori e degli interessi non omogenei, che possono essere individuati come istanze normative, allora sembra coerente ammettere il venir meno della generalità del riconoscimento quale principio del governo democratico delle differenze con esso compatibili69. Nella discrasia tra principio di generalità e riconoscimenti avanzati delle particolarità, la definizione della realtà contenuta nelle singole istanze normative risulterebbe essere troppo debole, parziale, inidonea e frammentata, comunque socialmente conflittuale. Durkheim come sociologo genetico, potente disegnatore sintetico e dotato di grandi capacità di aggregazione di conoscenze, avendo elevando, seppur con argomentazioni non del tutto condivise dalla critica70, l’imperativo morale ad elemento centrale della distribuzione del lavoro, della proprietà e della socialità e avendone indicati anche i limiti, ha il merito di presentare, a fronte di una globalizzazione economica che fa dell’anomia (e dell’eccezione) la sua stessa ragion d’essere, ulteriori momenti di indagine. Beck spiega che si parla di rischio quando è impossibile predire in maniera determinata l’esito di azioni che intendiamo intraprendere, per cui ogni decisione appare ambigua ed 69 Cfr. R. Marra, op. cit., p. 66. 70 «Come sociologo contemporaneo Durkheim mostra ampiamente la sua inattendibilità». Egli aspira a trattare le società odierne con lo stesso stile intellettuale con il quale si è occupato delle forme elementari della vita associata, adottando gli stessi criteri esemplificativi. Perciò, anche quando ci parla dell’oggi, il suo è un resoconto che spinge la soglia del presente lontano di millenni nel passato. Questo è evidente soprattutto nel caso del diritto e dello Stato. Il diritto rimane, in un’epoca di enormi sconvolgimenti sociali e politici, che svelano ancora una volta dietro le leggi, agenti manipolatori e prevaricatori, il simbolo visibile della solidarietà. Lo Stato è ancora l’organo della riflessione, dotato di una sua superiore coscienza, mentre è abbondantemente strumentalizzato dai detentori del potere. Grava il peso di un consensualismo ipertrofico che può risultare vanificante. Egli ha preparato un edificio complesso e, a suo modo, completo: se introduciamo in questo edificio la storia di ogni giorno, e dei nostri giorni in particolare, rimaniamo delusi e dobbiamo andare alla ricerca di altri luoghi e di altri supporti; cfr. M. A. Toscano, op. cit., p. 212. Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim 74 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) ogni desiderio di agire sembra ambivalente. Il rischio è l’incurabile mancanza di chiarezza che incita la scienza e la tecnologia, i due veicoli principali dello sviluppo contemporaneo, a risolvere le liquidità del contemporaneo71 e a far sì che l’ambiguità diventi, in termini odierni, un fattore di progresso che gioca la propria sovranità tra le necessità pragmatiche e le pianificazioni teleologiche del profitto. Sebbene l’ambivalenza sia un fenomeno sociale, ciascun individuo lo affronta come un problema personale e cerca le soluzioni che reputa migliori tra gli sconfinati prodotti che il mercato dei beni, dei servizi e delle idee propongono72. Se si considera che tra un decennio solo un europeo su due potrà godere di un’occupazione regolare a tempo pieno, e che anche per questa metà di occupati la sicurezza di lungo periodo del posto di lavoro sarà difficilmente paragonabile a quella che la tutela sindacale poteva garantire anche solo venticinque anni fa, quelli non occupati stabilmente cercheranno di guadagnarsi da vivere attraverso lavori occasionali, casuali, di breve durata, senza garanzie contrattuali e diritto alla pensione, ma con la concreta possibilità di essere licenziati con breve preavviso e secondo la necessità del datore di lavoro, che riflette i capricci del mercato globale73. Se si ammette come fine ultimo del sistema economico globale il profitto con la conseguente legittimazione dei suoi strumenti, assunti di fatto dall’intero corpo sociale, come nei casi di rischio ecologico, l’intuizione di Durkheim, che invoca una valutazione dei mezzi condot71 Quella che Bauman chiama modernità liquida, Beck la nomina modernità riflessiva poiché in questa ritrova degli effetti collaterali che si producono come un automatismo e si riflettono sulle strutture (concetti) e le trasformano, cfr. U. Beck, La società del Rischio. Verso una seconda modernità, trad. di W. Privitera, C. Sandrelli, Roma, 2000, p. 17. 72 Cfr. Z. Bauman, La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, trad. di G. Arganese, Bologna, 2002, pp. 39 ss. 73 Se la teoria di Beck dovesse avvicinarsi alla verità, allora i recenti e popolari progetti di passaggio dal welfare state al workfare state, non sono considerabili come misure intese a migliorare le sorti degli inoccupati, ma piuttosto «un esercizio statistico per cancellarli, attraverso il semplice trucco delle riclassificazione, dal novero dei problemi sociali e soprattutto etici», cfr. ibidem, p. 103. issn 2035-584x ta con la stessa dignità con cui si stabiliscono i fini, sembra più che mai importante. Particolare attenzione sembra dover esser posta anche al principio che pretende di raggiungere una massima uguaglianza delle parti nelle relazioni che investono i maggiori ambiti della vita sociale, il lavoro e il contratto. Recenti studi hanno dimostrato che numerosi problemi sociali e di salute sono più diffusi in quelle società in cui c’è una distribuzione più iniqua delle ricchezze che crea un divario sempre più incolmabile tra i ricchi e i poveri. «Le società più ineguali soffrono di più per tutti i problemi che tendono ad essere più frequenti se si scende nella scala sociale: più violenza, più detenuti, peggiore stato di salute, più madri adolescenti, più persone con problemi di droga»74. Sebbene si possa risolvere la questione adducendo la motivazione alle minori risorse disponibili, gli effetti che ne derivano possono raggiungere dimensioni allarmanti che rischiano di portare l’intero sistema sociale al collasso. A livello individuale, vivere in una società profondamente sperequata che, paradossalmente, invita all’omologazione attraverso la coazione al consumo, fa aumentare la competizione, il disagio, l’insicurezza e contribuisce al deterioramento della fiducia, elemento primo della qualità delle relazioni. Sembra non contare più la ricchezza complessiva di una nazione, piuttosto come questa è distribuita. Affinché l’uguaglianza economica sia maggiore è necessario, non soltanto che ci sia una minore differenza nei guadagni75, ma 74 G. Camardo, Uguali o no? in “Focus” n. 214, Agosto 2010, p. 23. I fattori presi in esame vanno dalla speranza di vita ai risultati scolastici. In media, i risultati peggiori sono quelli delle società con maggiore disuguaglianza, Usa in testa, e i migliori quelli delle nazioni dove c’è più uguaglianza, come i Paesi scandinavi o il Giappone, sul punto cfr. K. Pickett, R. Wilkinson, La misura dell’anima. Perché le disuguaglianze rendono le società più infelici, trad. di A. Olivieri, Milano, 2009. 75 Secondo I. Kawachi, professore di epidemiologia sociale alla Harvard School of Public Healt (Usa), «una delle caratteristiche del Giappone è una egualitaria distribuzione del reddito. Gli stipendi dei dirigenti sono molto più bassi degli standard dei Paesi ricchi e c’è l’idea che grandi disparità rovinino l’unità degli impiegati in azienda». La Svezia ha circa lo stesso livello di disuguaglianza della Gran Bretagna, ma se si considerano le tasse e i trasferimenti di denaro allo Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim 75 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) che anche la politica ridistributiva dello Stato, oltre ad applicare le tasse, operi in maniera sostenibile per i più bisognosi e contribuisca a ridurre la disuguaglianza nel reddito disponibile dei cittadini e ad incrementare le opportunità, vale a dire, «quanto più la posizione a cui si può arrivare è indipendente dalle origini sociali»76. Se, con i termini di Durkheim, ad essere uguali dovrebbero essere le opportunità iniziali, appare sempre più necessario allora che alcuni diritti siano costantemente garantiti e che gli organi rappresentativi, primari e secondari77, si adoperino per assicurare a tutti un livello di benessere che permetta un’esistenza dignitosa78. In conclusione, nel rapporto tra morale e profitto, l’ipotesi di un diritto sociale civile retto dal bisogno di armonizzare le istanze delle differenze sociali nell’interesse generale issn 2035-584x sembra essere l’unica via possibile per attuare esigenze di equità ancora in attesa di riconoscimento e per garantire alla società gradi di sostenibilità. Daniela Teobaldelli è dottore di ricerca in Teorie del diritto e della politica, Università degli Studi di Macerata. Stato, diventa uno dei paesi più egualitari. La Scandinavia è l’area dove l’uguaglianza è maggiore. La politica redistributiva dello Stato offre sostegni, come sussidi per i giovani che studiano, e prevede un’alta spesa sociale per offrire servizi, sanità, asili e assistenza alle donne», cfr. ibidem, p. 26 ss. 76 Ibidem, p. 25 ss; sul reddito disponibile vedi anche R. Lenti Targetti, Economia delle materie prime. Forme di mercato e politiche di controllo, Milano 1979. 77 Durkheim considera di primo ordine gli organi che sono direttamente parte dell’apparato statale, mentre chiama organi secondari quelli riflessivi, che stabiliscono quali interessi generali sono sostenuti direttamente dalla società, cfr. E. Durkheim, Lezioni di sociologia, cit., p. 137. 78 Gli studiosi dei collassi delle civiltà prevedono che se per altri quaranta anni i consumi procederanno senza limiti, le possibilità di sostentamento che il pianeta offre saranno sempre meno disponibili. Se si realizzasse poi la condizione per cui, gli abitanti del Terzo mondo, che consumano un volume di risorse trentadue volte inferiore a quello di un americano, raggiungessero il livello di consumi che appartiene al mondo civilizzato, le risorse del pianeta sarebbero già esaurite. L’idea che l’umanità possa crescere senza limiti col modello attuale è priva di fondamento. Abbiamo ormai quasi raggiunto il nostro limite in termini di risorse utilizzabili e dobbiamo agire al più presto per preservarle, il che comporta un cambiamento nel nostro modo di vivere. Trent’anni fa credevamo che il problema più grande della nostra civiltà fosse la sovrappopolazione. Siamo cresciuti da 1,5 miliardi a 6,5 miliardi in poco più di un secolo e fra trent’anni si stima saremo 9 miliardi, ma solo ora si comprende che il problema non è il numero di persone che popolano la terra, ma la quantità che ognuna di queste consuma», cfr. P. Conti in “Focus” n. 217, Novembre 2010, pp. 143-144. Riflessione filosofico-giuridica sul pensiero di Émile Durkheim 76 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Non è gentile accontentarsi delle parole. Il dono del senso Paolo Sommaggio Abstract Parole chiave Questo scritto tratta alcuni aspetti caratteristici del dono nella società giapponese. Nello scambio del dono, l’oggetto conferito e gli agenti che vi partecipano si trasformano in simboli e la relazione che li lega può essere avvicinata al linguaggio, al logos. Dono; Scambio; Sacrificio; Linguaggio; Logos; Struttura; Significante; Senso. “Kotowa da wa warui” (trad. it.: “Non è gentile accontentarsi delle parole” antico detto giapponese che accompagna lo scambio di un dono1) “Hoc habeo, quodcumque dedi” (antico detto attribuito al poeta Rabirio, in Seneca, De beneficiis, 6, 5) “Ecco perché si eleva un tempio alle Grazie in un luogo dove sia bene in vista: è per insegnare a ricambiare i benefici ricevuti” (Aristotele, Etica nicomachea, 1133, a 3-5) Sommario: 1. Esordio; 2. Metamorfosi dell’oggetto donato; 3. Metamorfosi dei soggetti donanti; 4. Metamorfosi del messaggio. Il rito; 5. Epilogo. 1. Esordio S embra che il termine dono derivi etimologicamente dal sanscrito: rah, ratih. L’espres- 1 Gran parte del materiale sulla cultura giapponese, di cui mi sono servito per la formulazione di queste riflessioni, proviene da J. Cobbi, L’obligation du cadeau au Japon, in C. Malamoud (a cura di), Lien de vie noeud mortel. Les Représentations de la dette en Chine, au Japon et dans le monde entier, Paris, 1988, pp.113165. Non è gentile accontentarsi delle parole sione significa cosa gradita, cosa piacevole2. Ricevere un dono, però, non è sempre una fortuna3, poiché implica il sorgere di una par2 Altri percorsi etimologici sono reperibili in E. Benveniste, Don et échange dans le vocabulaire indo-européen, in «L’Année sociologique», 3, pp. 7-20; si veda, naturalmente, anche Id., Le vocabulaire des insitutions indo-européennes, Paris, 1969, v. I, (trad.it.) Id., Il vocabolario delle istituzioni europee, Torino, 1976. 3 Come è noto il nipote di Emile Durkheim, Marcel Mauss, ha fornito la prima e più importante opera di approfondimento sociologico ed etnografico relativa al dono, che oggi può essere considerata un classico per la sua originalità e completezza, indicando nella simbolizzazione il suo fine non materiale. Come è altrettanto noto, egli sottolinea con particolare arguzia l’ambiguità che pervade l’espressione «dono» nelle lingue germaniche antiche: il termine gift , infatti, indica tanto dono che veleno vedi M. Mauss, Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaiques, in «Anné sociologique» (nouvelle série), 1, (1925), ora in Id., Sociologie et anthropologie, Presses Universitaires de France, Paris, 1985, pp. 145-279 (nuova ed. Paris, 2007); (trad. it.), Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, 1991 (ed. or. 1965), nota p. 267. Dal 1982 in Francia la critica al sistema economico basato unicamente sul profitto, l’approfondimento degli studi sul dono e la riscoperta di Marcel Mauss hanno dato origine al movimento anti-utilitarista (da cui l’acronimo MAUSS: Mouvement Anti Utilitariste dans les Sciences Sociales), animatore della rivista «La Revue du MAUSS». Recentemente è apparso in questa stessa rivista un articolo molto 77 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) ticolare sollecitazione, ovvero l’impegno a rendere. Potremmo pensare che questa reazione costituisca semplicemente un gesto che genericamente definiamo educato, ma ad uno sguardo più attento lo scambio di doni costituisce l’indizio di relazioni culturali e sociali molto più profonde4. Tanto da costituire una interessante ai fini delle nostre riflessioni: F. Fistetti, Il paradigma ibrido del dono tra scienze sociali e filosofia. Alain Caillé e la “Revue du MAUSS”, (2010), on line www.journaldumauss.net. Questo saggio rappresenta l’introduzione alla traduzione italiana di un recente testo di Alain Caillé: A. Caillé, Théorie anti-utilitariste de l’action, Paris, 2009, (trad.it) Critica dell’uomo economico. Per una teoria anti-utilitarista dell’azione, Genova, 2010. Alain Caillé è docente all’Università di Parigi Nanterre ed autore, nel lontano 1992 con il collega canadese Jacques T. Godbout (professore emerito al National Institut of Scientific Research della Università di Montreal), di uno dei testi più noti, Lo spirito del dono, ove si tracciano le basi per una identità individuale e collettiva in una prospettiva critica rispetto alla impostazione utilitarista sulla base della constatazione che oltre alla azione “interessata” esistono anche forme d’azione che hanno come scopo il proprio riconoscimento come agenti e che aprono un accesso al simbolico. J. T. Godbout, L’Esprit du don,, Paris, 1992, (trad.it, A. Salsano), Lo spirito del dono, Torino, 1993. Ricordo, per inciso, che la Rivista del movimento si è chiamata «Bulletin du MAUSS» dal 1982 al 1988, mutando poi denominazione in «Revue du MAUSS» dal 1988 sino al 1993 (trimestrale). Da questa data la rivista è semestrale. 4 Possiamo trovare una conferma, certo indiretta, tra matrici culturali del dono e matrici culturali della società, intesa come gruppo costituito da relazioni reciproche. Appare degno di considerazione il fatto che l’espressione communitas derivi dal termine munus che significa legge, ufficio, ma anche dono in un significato particolare ovvero ciò che si dà per saldare un impegno precedente rispetto alla dazione. Una sorta di obbligo che impone di rinunciare in parte alla propria assolutezza, in funzione del sorgere di una realtà che supera la (presunta) autarchia dell’individuo. Dunque non un contratto sociale, se per contratto intendiamo una relazione sinallagmatica a base volontaria dominata dall’interesse e dall’utile, ma una sorta di munus, sociale potrebbe indicare più compiutamente la relazione di base della comunità, intesa come entità ove il soggetto si manifesta. Considerazioni analoghe si ritrovano in R. Esposito, Il dono della vita tra «communitas» ed «immunitas», in M. Fimiani-V.G. Kurotschka-E. Pulcini (a cura di), Umano post-umano. Potere, sapere, etica nell’età globale,, Roma, 2004, pp. 63-77. Del medesimo autore si vedano altresì Id., Communitas. Origine e destino della comunità, Torino, 1988 e Id., Immunitas. Protezione e negazione della vita, Torino, 2002. Non è gentile accontentarsi delle parole issn 2035-584x vera e propria sorgente della comunità politica e giuridica alternativa, per molti aspetti, alla nota metafora del “contratto sociale” (fondata sull’individualismo e sulla volontarietà del sinallagma contrattuale) tanto cara agli autori del Giusnaturalismo moderno. In una delle sue opere forse più note, il Saggio sul dono5, Marcel Mauss indica con il termine paradigmatico di potlàc un analogo contesto di prestazioni e controprestazioni che costituisce e cementa i legami sociali presso alcune tribù del Nord-ovest americano6. La pratica del potlàc (che significa essenzialmente nutrire o consumare) si svolge in occasione di banchetti rituali ed assume i connotati di una vera e propria “lotta per la ricchezza”7, nel corso della quale ogni capo tribù cerca di mostrarsi più munifico degli altri gareggiando in generosità. Nella relazione agonistica, che si instaura tra i gruppi, si consuma l’abbondanza di beni in offerte e controfferte “al rialzo”. Questa cerimonia tuttavia si conclude, il più delle volte, con la uccisione dei capi delle tribù, i quali pagano sulla propria pelle la natura tanto rituale quanto sacrificale del potlàc. I beni offerti, il loro scambio, ed il loro sacrificio, assumono valore e senso nel momento dello scontro, della gara che innesca una relazione di reciprocità potenzialmente infinita: una particolare forma di relazione sociale, che preesiste rispetto al singolo, si manifesta nel rapporto agonistico e, indirettamente, ri-afferma il gruppo sociale. Anche nella società contemporanea, dove riteniamo che l’elemento individuale e volontario costituisca la base etica della azione del dono, possiamo notare come dietro certi gesti si celino invece schemi di azione che anticipano la soggettività, forse costituendola. Il rapporto tra donante e ricevente, che solo in 5 Mauss, Saggio sul dono, cit. 6 Sul concetto di potlàc vedi ibidem, n. 3, p. 162 (edizione italiana); vedi inoltre G. Meillassoux, voce «Potlach», Encyclopedia Universalis, Paris, 1980 t. 13, p. 424, ed inoltre U. Galimberti, Il corpo, Milano, 1989, pp. 247-251. Per ulteriori approfondimenti sul concetto di “dare” come rapporto di forza, rimando a J. Starobinski, A piene mani: dono fastoso e dono perverso, Torino, 1995. 7 Questa espressione è stata coniata da H. Codere, Fighting with Property; a Study of Kwakiutl Potlatching and Warface, Seattle, 1950. 78 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) apparenza si instaura ex novo, pre-esiste infatti tanto alla offerta quanto alla controfferta e trascende entrambe, manifestando una relazione che appare molto simile ad una relazione sociale di tipo linguistico. Per analizzare questa particolare forma di reciprocità all’interno della nostra cultura, utilizzeremo (come veri e propri strumenti ermeneutici) alcune considerazioni relative ad azioni sociali di dono in una cultura differente, quella giapponese. Quella società costituisce un terreno privilegiato di analisi poiché ignora apertamente la volontarietà e la individualità nello scambio di doni. Il Giappone, infatti, può essere considerato figura di quello che la cultura occidentale definisce come luogo estraneo, il luogo Altro: dunque perché non ricercare ciò che costituisce una delle matrici celate della nostra società in un luogo ove certi schemi si presentano con maggiore evidenza. Non vi è, in quel contesto sociale, alcun mistero sul fatto che la fitta rete di relazioni di dono e ricambio sia indisponbile al singolo8. La brevità di questo intervento ci impone, tuttavia, di tratteggiare solo alcuni elementi della cultura giapponese, senza alcuna pretesa di esaustività o di particolare approfondimento. Pertanto ci limiteremo ad analizzare come, nello scambio del dono, l’oggetto conferito e gli agenti (che vi partecipano) si trasformino in senso simbolico e quale valore costituisca questa particolare relazione che avvicineremo al linguaggio, al logos. Infine questo scritto, se possibile, vuole rendere omaggio ad una popolazione così diversa nelle forme quanto così simile nelle strutture relazionali alla cultura del nostro paese. Un gesto che assume un particolare significato proprio oggi che quel paese è stato tristemente colpito da catastrofi tanto grandi. 8 Un’interessante analisi della società giapponese che approfondisce l’ importanza dello scambio dei doni si trova in: R. Benedict, The Chrysanthemum and the Sword: Patterns of Japanese Culture, Boston, 1946, trad. it, Il crisantemo e la spada, Bari, 1993; vedi inoltre B. Harumi, Gift-Giving in a Modernizing Japan, sta in T. Sugiyama Lebra – W.P. Lebra, Japanese Culture and Behavior, Hawai’i, 1987, pp. 158-170; per una puntuale e profonda raffigurazione della cultura giapponese vedi: C. Nakane, Japanese Society, London, 1970, (trad. it.), La società giapponese, Milano, 1992. Non è gentile accontentarsi delle parole issn 2035-584x 2. Metamorfosi dell’oggetto donato. La trasfigurazione Esaminiamo le unità base della relazione che costituisce l’azione del dono in Giappone. Innanzitutto possiamo constatare che la funzione comunicativa dello scambio è resa possibile dal fatto che non è il contenuto del dono ciò su cui si concentrano l’interesse del donatore e del ricevente9. L’interesse maggiore è concentrato invece sulla presentazione, sulla composizione, sulla preparazione, sulla forma, sulla manifestazione di quanto viene offerto. La tradizione culturale giapponese prevede, infatti, una serie di infinite combinazioni delle forme esteriori in cui il dono può manifestarsi; sarà perciò la presenza e la disposizione di quegli elementi a caratterizzare e a porre in essere l’azione di scambio. La confezione, infatti, costituisce di gran lunga il tema più importante dell’omaggio, anche in termini di valore economico: la scelta della carta, la sua qualità, il suo colore e consistenza, la sua elaborazione definiscono e caratterizzano il dono celando l’oggetto, celebrandone una vera e propria sacralizzazione (allontanandolo dallo sguardo). L’allontanamento metaforico generato dalla confezione consente l’attivarsi di una vera e propria trasmutazione: la realtà materiale, bruta, del manufatto muta in un significante che partecipa di una sorta di linguaggio10. Il lemma-dono può così diventare, dunque, la rappresentazione di se stesso a colui che viene omaggiato: la sua simbolizzazione. Il dono, pertanto, se da un lato è caricato di forza simbolica, dall’altro viene eroso nel contenuto. Questo processo di trasfigurazione (o evaporazione) consente la sua metamorfosi. L’oggetto consegnato, come tale, “muore” occultato e trasformato dall’imballaggio, per presentarsi (una nuova nascita) come puro significante, come puro segno11. Una sorta di rito sacrificale. 9 A tale riguardo vedi il saggio di R. Barthes, L’ empire des signes, Gèneve, 1970; (trad. it.), L’impero dei segni, Torino 1984, pp. 51-55; in particolare p. 54. 10 La prima formalizzazione del termine «significante» è contenuta come noto in F. de Saussure, Cours de linguistique générale, Paris, 1922, (trad.it.), Corso di linguistica generale, Roma-Bari, 1997, pp. 83-88. 11 Sulla nuova forma di valore dello scambio vedi G. Piana, Baudrillard ed il partito preso dell’illusione, Postfazione alla 79 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) Solitamente, infatti, il rito del dono in Giappone consiste nello scambio di piccoli oggetti di prezzo modesto, presentati tuttavia con una cura ed un apparato certamente non proporzionati rispetto al valore economico di ciò che viene regalato. La metamorfosi, resa possibile dall’involucro, costituisce un vero e proprio sacrificio poiché allontana dallo sguardo (creando una membrana dialettica che separa dentro e fuori) e confina ciò che viene donato in una ulteriorità spaziale e temporale12. Il contenuto, infatti, è confinato in un altrove nascosto che rende la superficie (che lo rappresenta) il vero centro di attrazione. In altre parole, più ci si avvicina al contenuto (ad esempio eliminando gli involucri) più si procede (anche in termini cronologici) nel sistema di rimandi e più si ha l’impressione che gli stessi non rimandino a null’altro che a loro stessi13. Come in un gioco di specchi in cui l’immagine si perde in mille frammenti di qualcosa che sfugge sempre allo sguardo dell’osservatore. Ciò che emerge in questo rimbalzarsi di significanti è la relazione che a queste modalità dà forma, dirigendole. Il rito del dono, dunque, sacrifica l’oggetto per consentire una epifania: l’epifania di un logos, ovvero di quell’insieme di relazioni ad un tempo razionali e linguistiche. 3. Metamorfosi dei soggetti. Gli officianti Tuttavia nel rito del dono non viene sacrificato solamente l’oggetto, ma anche l’assolutezza dei soggetti che vi partecipano14. Vediamo in quale modo. edizione italiana di J. Baudrillard, Le crime parfait, Paris, 1995; (trad.it.), Il delitto perfetto, Milano, 1996, p. 159. 12 Il rapporto paradossale che esiste tra dono e tempo è il tema centrale del saggio: J. Derrida, Doner le temps, Paris, 1991, (trad. it.) Id., Donare il tempo. La moneta falsa, Milano, 1996; vedi in modo particolare pp. 44 e ss. 13 Traggo spunto per queste suggestioni da J. Lacan, Fonction et champ de la parole et du langage, sta in Id, Ecrits, Paris, 1966, (trad. it.) Scritti, Torino, 1974; soprattutto pp. 230 e ss. 14 Gli elementi simbolici rilevanti nella relazione di dono sono all’opera, altresì, nella cd. donazione degli organi. Mi sia consentito, su questo tema, rimandare al mio P. Sommaggio, Il dono preteso. Il problema del trapianto di organi: legislazione e principi, Padova, 2004. Non è gentile accontentarsi delle parole issn 2035-584x La serie di rimandi simbolici, di cui si compone l’azione rituale del dono, si caratterizza anche per una forma di obbligatorietà (di natura etica) che non lascia né il mittente né il destinatario completamente autonomi nell’atto di offrire e di ricambiare ma indica un sentiero “comunicativo” costituito di tracce già segnate. Una sorta di contesto “deontologico” in cui la scelta si impone come un dovere indisponibile e tuttavia non soverchiante. Un labirinto fatto di rappresentazioni che tentano di rimandare a qualcosa d’altro, ma che quanto più faticano a sfuggire a questo continuo rimbalzo, tanto più consentono l’emergere di una forma di eticità: come se partecipassero di una struttura comportamentale che sembra manifestarsi da sé, un linguaggio non verbale con il quale i protagonisti cercano di comunicare l’uno con l’altro. Gli artifici attraverso cui il giapponese viene immerso in questa fitta rete di rapporti di scambio sono molteplici. Il donante, innanzitutto, si propone in qualità di agente etico quando15, attraverso la cura tributata alla confezione dell’oggetto, sacrifica quest’ultimo a favore della sua sublimazione in simbolo comunicativo, rendendo indirettamente omaggio a ciò che consente a questa pura forma di entrare in un contesto, ovvero la struttura che abbiamo denominato deontologica16. In questo modo, inoltre, egli relativizza l’assolutezza della sua individualità e della sua volontarietà: tanto più il dono è ben confezionato, tanto meno esso dovrà risultare originale ed esclusivo, ma piuttosto frutto di un’attenta ricerca e studio di quelle indicazioni non scritte (che pertanto assumono una nota prescrittiva) che fanno parte di un certo «galateo dell’omaggio». Impegni che si riflettono anche sul ricevente, che a sua volta è obbligato a ricambiare attraverso modalità del tutto analoghe. Tutto è pronto: la trasformazione di chi offre e la trasformazione di chi riceve. L’eventodono, nella sua ripetizione rituale, dispiega in questo modo la sua intima funzione sacrale: 15 Sul rapporto tra esistenza e dono nella società occidentale in particolare nei rapporti tra soggetti durante la terza età, vedi: E. Guidolin, G. Piccoli, L’imbarazzo della vecchiaia. Lettura psicopedagogica della condizione anziana, Padova, 1991. 16 Cfr. Barthes, op. cit.. 80 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) la metamorfosi-trasformazione degli agenti e dell’agito in una relazione comunicativa17. Il dono viene offerto: l’offerta provoca una risposta necessaria che mantiene la comunicazione aperta, “obbligando” alla risposta18. Il messaggio (e di messaggio è corretto parlare dato che si tratta di un contesto comunicativo anche se non viene espresso attraverso le parole), si svolge su livelli differenti. Il primo livello è materico in un senso ben preciso: il semplice scambio, la traditio di un bene qualsiasi per sé sola non permette alcuna trasfigurazione comunicativa. Solamente se l’oggetto viene in qualche misura modificato, celato, sacrificato è possibile salire ad un livello ulteriore. Questo primo piano, dunque, esprime l’azione trasformativa sull’oggettodono che, come abbiamo visto, viene mutato in puro significante. Ma vi è di più; il fine determinante di questa prima fase del rito è non solo quello di “distillare” l’oggetto, ma altresì quello di trasfigurare le due parti della relazione per il fatto che (e nel momento in cui) entrano in rapporto: si sacrificano anch’esse nell’evento-dono. O, meglio, perdono la propria assolutezza ed originalità (individualità e volontarietà). Questa metamorfosi genera una modificazione del livello della relazione: consente di raggiungere un ulteriore livello. Mentre infatti il rapporto primitivo (quello per dire che ha originato l’occasione del dono) è tra due individui in carne ed ossa, il secondo costituisce entrambi come partecipi del contesto comunicativo comune che li rende ruoli di una relazione più complessa, con la quale entrambi si rapportano e che permette loro, in quanto medium, di rapportarsi19. E questo 17 Cfr. M. Godelier, L’énigme du don, Paris, 1997, p. 21. 18 Il termine che indica l’obbligatorietà del dono, come risposta alla benevolenza altrui nelle relazioni sociali è indicato, nella lingua giapponese, dalla espressione giri. Questo termine esprime il connettersi di legame sociale, obbligo e scambio. Cfr. J. Cobbi, op. cit., p.116, ed inoltre Id., Don et contre don. Une tradition à l’épreuve de la modernité; sta in A. Berque (a cura di), Le Japon et son double, Paris, 1987 pp. 159-168; vedi anche Id., Pratiques et représentations sociales des japonais, Paris, 1983. 19 A differenza tanto dell’individualismo metodologico quanto dell’olismo, il dono si pone veramente come me- Non è gentile accontentarsi delle parole issn 2035-584x legame ha le stesse sembianze di un discorso, di un logos. La fonte di cui si serve questo linguaggio è proprio l’evento-dono che, grazie al sacrificio/ rinascita di tutti i termini che ne fanno parte (l’oggetto e i due soggetti), consente il rinnovarsi continuo, di persona in persona, di tempo in tempo, di generazione in generazione, di una realtà che, pur essendo sempre differente, rimane costante nel proprio mutare20. Il dono, quindi, è come un rito che manifesta la presenza, in un certo contesto culturale, di una realtà relazionale che ha perso la sua natura materica a favore di una natura simbolica, non logorabile e, perciò, sempre sussistente. L’importanza dell’individuo in questa attività metamorfica è data dal sacrificio di una parte della sua assolutezza (individualità e volontarietà) a favore di una vera e propria epifania. L’epifania di una realtà, quella del logos, che esiste prima e oltre a lui. Che, in altre parole, non è a sua disposizione. L’avere coscienza di questa forza permette, forse, di vivere con serenità l’evento della caducità, l’evento del passaggio, della trasformazione. Di ogni trasformazione: anche da individuo a parte di una comunità. Il costo di mantenimento di un simile contesto è molto alto: la negazione delle pretese di assolutezza delle soggettività individuali che partecipano al rito. Un buon esempio per l’ethos della società contemporanea21. Questa operazione di distillazione, che culmina nello scambio del dono, appare dunque come una operazione altamente simbolica: un rito sacrificale di passaggio, di trasformazione, che permette di fare esperienza del logos e, con dium anche in quanto paradigma che differisce da ambedue i precedenti approcci i quali considerano o l’individuo o il gruppo come concetti primitivi ed assoluti. Su questo tema rimando ad A. Caillé, Il terzo paradigma: antropologia filosofica del dono, Torino, 1998. 20 Sul rapporto tra dono e suicidio del donante vedi M. Perniola, Scambio simbolico, iperrealismo, simulacro, in «Aut Aut», (1979), n. 170-171, p. 70. 21 Si veda a tale riguardo, A. Salsano, Il dono: solidarietà e interesse, in «Democrazia e Diritto», n. 2/3, (1994), pp. 516-525; R. Guidieri, Ulisse sena patria: etica ed alibi del dono, Napoli, 1999; si veda altresì C. Champetier, Homo consumans: morte e rinascita del dono, Casalecchio (BO), 1999. 81 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) esso, di un fenomeno molto importante: la nascita di quello che siamo soliti definire il senso. 4. Metamorfosi della relazione. Il rito Come è noto, nella società occidentale la modalità di estrinsecazione di rapporto simbolico tra due elementi è data da quello che possiamo definire un rimando analogico, ossia lo “stare per”. Il simbolo è ciò che sta per qualcosa d’altro. In ciò si manifesta tanto l’oggetto della rappresentazione quanto un surplus, che può essere indicato come un’immagine e quindi un rimando diretto, oppure una forma di relazione indiretta in quanto situata in un medium posto tra l’oggetto e la sua rappresentazione. Questo medium è frutto di una sedimentazione di aspetti tanto culturali quanto storici, di costume e di sensibilità: sempre e comunque un ponte che collega due realtà22. Il dono in Giappone non sfugge a questo tipo di logica, o meglio, il rapporto tra il donante ed il ricevente è sì rappresentato dallo scambio, ma questo è solo la superficie. In realtà le cose stanno in maniera diversa: la trasformazione dei relati e dell’oggetto rimanda costantemente alla relazione (“stanno per” la relazione); eppure, a sua volta, il processo di simbolizzazione di questa relazione non trova alcuna realtà simbolica ulteriore nella quale scaricarsi. Esso subisce, pertanto, una involuzione nella quale il punto d’arrivo è, paradossalmente, la struttura relazionale stessa. Sembra perciò un vicolo cieco: la metamorfosi della struttura è costretta, per proseguire questa ritualità, grazie alla quale metaforizzarsi, a ripiegare su se stessa divenendo così un simbolo di sé, un simulacro23. 22 Per approfondire ulteriormente questo tema rimando a S. De Donatis, Antropologia filosofica del dono: uno scambio “simbolico”, in «Dialeghestai», 7, (2005), on line <http://mondodomani.org/dialeghestai> 23 La nozione di simulacro è elaborata nelle opere narrative di Pierre Klossowski, soprattutto in Les lois de l’hospitalitè, (trad. it.), Milano, 1968. Nella discussione filosofica il problema del simulacro è stato introdotto da G. Deleuze, in particolare attraverso i saggi: G. Deleuze, Simulacro e filosofia antica, e Fantasma e letteratura moderna, contenuti nel saggio Logique du sens, Paris, 1969, (trad.it.) Logica del senso, Milano, 1997; sul medesimo Non è gentile accontentarsi delle parole issn 2035-584x La natura di questo simulacro è data dal fatto che esso sembra essere un segno che non significa nulla o, meglio, che rimanda solo a se stesso, ed ha nella sua forma anche e soprattutto il suo contenuto. E tuttavia possiamo notare che questo segno ha una funzione ben precisa: far scomparire la realtà materica dell’oggetto e mascherare questa scomparsa. Ciò può apparire di difficile comprensione, ma se si esamina la dinamica di confezione e scambio dell’omaggio in Giappone si può vedere come le cose vadano effettivamente in questo modo. Ad esempio, come abbiamo già notato, sussiste una forte sproporzione tra la cura posta nella confezione rispetto a quella tributata al contenuto: questa è una caratteristica precipua del dono giapponese, come ci ricorda anche Roland Barthes24. È la scatola, l’involucro il vero obiettivo del dono: protegge ma nel contempo manifesta, rende evidente e innesca quel meccanismo per cui «... trovare l’oggetto che sta nel pacchetto, ovvero il significato che sta nel segno, significa gettarlo via»25. Trovare il significato nel segno, dunque, significa liberarsi del segno, ovvero della carta. La confezione, pertanto, oltre che rendere manifesta una struttura comunicativa, crea la sublimazione necessaria al contatto: l’evaporarsi del contenuto nella sua manifestazione. Nell’atto stesso di creare e scambiare un dono, quindi, è il dono che si crea e, contemporaneamente, si rende palese. Ciò che fa del dono un apparente simulacro, dunque, è il fatto che nel suo esprimersi esso si occulta e che, quindi, nel suo venire ad esistenza si distrugge. Però, osservando meglio, qualche considerazione ulteriore può essere svolta. Non si tratta di un simulacro, ma di un vero e proprio simbolo: come un linguaggio nel quale ogni parola, per dare significato al suo articolarsi in frasi, deve smorzare il proprio suono nel senso tema vedi anche J. Baudrillard, L’échange symboliqùe et la mort, Paris 1976, (trad. it.) Lo scambio simbolico e la morte, Milano, 1992; e M. Perniola, La società dei simulacri, Bologna, 1980; per un approfondimento del concetto di simulacro nella riflessione filosofica italiana si veda anche G. Cantarano, Immagini del nulla. La filosofia italiana contemporanea, Milano, 1998. 24 R. Barthes, L’impero dei segni, cit., p. 54. 25 Ivi, p. 55. 82 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) generale del discorso, così il dono si esprime proprio nel momento in cui si occulta. La carta del regalo, quindi, oltre che nascondere alla vista, propone la caratteristica fondamentale dell’omaggio: dissolve ciò che contiene nella pura forma di sé come le parole, i logoi. Possiamo azzardare che gli spiriti maligni, da cui la carta tradizionalmente protegge, rappresentino proprio tutto ciò che il giapponese, a sua insaputa, vuole tenere lontano dal rito che si compie: trasformare un oggetto della realtà in un simbolo di qualcosa che non ha forma e non ha dimensione. La carta, pertanto, non contiene ciò che nella sensibilità occidentale chiameremmo un contenuto. Per il giapponese la carta è essa stessa una sorta di forma-contenuto. Ricapitoliamo brevemente: per poter sublimare un rapporto in pura forma di sé, e quindi in un apparente simulacro, le operazioni da compiere sono relativamente semplici: 1) autoeliminazione del donante e del donatario attraverso il loro ingresso nella struttura che dà loro senso nell’evento-dono; 2) distruzione rituale dell’oggetto nella purezza del suo segno: l’occultamento che lo manifesta in termini nuovi e simbolici. Ma non è finita qui. 5. Epilogo. Cercando la grazia Sicuramente il lettore più avveduto o smaliziato si sarà accorto che il vero tema del nostro discorso non è il Giappone né tantomeno il dono. O, meglio, il Giappone ed il dono rappresentano i fondali, i frames, le condizioni di pensabilità che permettono una chiarificazione del problema della donazione di senso26. Le riflessioni svolte su questo modo così diverso dal nostro di avvertire e vivere un fenomeno come il dono e l’azione del donare possono rappresentare il clima migliore, il contesto più utile nel quale poter riflettere su di un argomento spinoso quale il senso di un discorso, di ogni discorso. Il Giappone, quindi, è in grado 26 Il dono ed il senso si legano alla nota distinzione tra significante e significato, di serie e di struttura. Si vedano in proprosito, Deleuze, Logica del senso, cit. in modo particolare le pp. 41 e ss., e p. 50 ed il più recente G. Panizza, Il dono: inizitore di senso, di relazioni e di polis, Soveria Mannelli (CZ), 2003. Non è gentile accontentarsi delle parole issn 2035-584x di sostenere il ruolo del massimamente diverso che, nel gioco di fascinazione esotica, lancia il nostro discorso così lontano da agevolare il formarsi di un’immagine macroscopica anche sul problema del senso nel linguaggio ordinario. Il Giappone ed il dono sono, pertanto, dei pre-testi che servono da esempio del controverso rapporto tra significante e senso. La distanza che ci separa da una cultura così diversa permette quindi di analizzare più agevolmente ciò che avviene in forma meno appariscente anche in quei meccanismi che noi stessi poniamo in essere ogni giorno, con tanta naturalezza da dimenticare la loro esistenza. E infatti, come ci assicura Jacques Lacan, sono proprio le cose poste di fronte ai nostri occhi quelle più nascoste27. Alcune considerazioni, reperibili in Logica del senso di Gilles Deleuze, concludono la nostra ricerca proprio con un ritorno a Marcel Mauss, dalle cui parole siamo partiti. Il filosofo francese ricorda, infatti, che nella Introduzione28 alla Teoria generale della magia di Mauss, Lévi-Strauss indica con questa felice formula il concetto di struttura: «date due serie, significante e significata vi è un eccesso naturale della serie significante, un difetto naturale della serie significata»29; questo valore sarebbe «vuoto di senso e perciò suscettibile di ricevere un senso qualunque, la cui unica funzione consiste nel colmare uno scarto tra il significante ed il significato». Ciò che gli strutturalisti chiamano struttura sarebbe perciò lo scarto che possiamo intravvedere tra due serie di cui la prima, quella dei significanti, appare come predominante. Le analogie che possiamo scorgere, ponendo a confronto queste proposizioni con le riflessioni sinora svolte a proposito del valore rituale e simbolico del dono nella realtà 27 J. Lacan, Le Séminaire sur «La lettre volée» in Id., Ecrits, Paris, 1966; (trad. it.), Scritti, Torino, 1995, vol. I, pp.7-58. In quest’opera, come è noto, Lacan rilegge con straordinaria maestria la catena significante che attraversa il celebre racconto di E.A. Poe, La lettera rubata così come tradotto da C. Baudelaire. 28 C. Levi-Strauss, Introduzione all’opera di Mauss Teoria generale della magia, cit., introduzione presente nella edizione italiana. 29 Deleuze, cit., p. 51. 83 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) giapponese, sono assai significative. Che cosa impedisce di riconoscere nel dono, come declinato nella realtà giapponese, le caratteristiche che Lévi-Strauss indica come proprie di questo eccesso di significante, la cui funzione è così essenziale all’esistenza di una struttura, sia essa culturale o sociale? Poco sopra abbiamo indicato che il dono trasforma l’oggetto donato, di poco o nessun valore economico, in simbolo che sembra divenire simulacro poiché non rimanda ad alcuna altra realtà (anche se abbiamo notato che una realtà relazionale emerge comunque). Perché a questo punto non spingerci ancora più in là con l’immaginazione e provare a pensare che la società giapponese sia dotata di un referente di quel valore vuoto, ovvero l’eccesso di significante studiato da Lévi-Strauss? E se fosse proprio il dono, o meglio l’azione del donare, che permette di colmare lo scarto tra la serie dei significanti e quella dei significati? Facendo emergere una struttura relazionale comunicativa? Vediamo, brevemente, quali possono essere le assonanze che avvicinano le condizioni minime di esistenza di una struttura a quel logos che abbiamo cercato di evidenziare a proposito del dono in Giappone30. Secondo Deleuze, per poter individuare una struttura, occorrono almeno due serie eterogenee, di cui una sarà determinata come «significante» e l’altra come «significata»; inoltre, ciascuna di queste serie deve essere costituita da termini che esistono solamente per i rapporti che hanno gli uni con gli altri. A questi rapporti corrispondono eventi molto particolari, cioè singolarità31. Ultima caratteristica saliente è il fatto che le due serie eterogenee devono convergere verso un elemento paradossale che non deve appartenere a nessuna serie, o piuttosto appartenere ad entrambe ad un tempo. Detto elemento deve svolgere il ruolo di «casella vuota», che appare per una serie come un difetto (quella del significato) e per l’altra come un eccesso (quella del significante) e che ha la funzione di articolare le due serie l’una con l’altra, di farle comunicare, coesistere e ramificare. 30 Così come sottolineate da Deleuze, cit., pp. 51-52. 31 Deleuze, cit., p. 52. Non è gentile accontentarsi delle parole issn 2035-584x Se vediamo la serie dei significanti (che, ricordiamolo, deve essere in eccesso) come gli involucri del dono, e la serie dei significati come il contenuto del dono, ecco che il quadro che tentiamo di abbozzare acquista maggiore completezza: le singolarità hanno la loro corrispondenza nelle occasioni di offerta che esistono per l’appunto solamente nel momento in cui avviene il rito del dono. L’elemento paradossale, poi, è proprio il dono in quanto evento: chi potrebbe negare che il dono viva di un’esistenza paradossale in una realtà economica come quella del mondo contemporaneo. Infine, l’azione di offrire e ricevere collega l’oggetto contenuto con l’imballaggio e ramifica ed articola le due serie che li formano. Dunque la struttura del dono può, con buoni argomenti, essere considerata analoga al linguaggio, al logos. A questo punto l’espressione usata da Deleuze «donare senso», che appare come lontana ed esoterica, potrebbe rappresentare, in un altro registro, l’espressione che funge da titolo a questo lavoro, e che accompagna tradizionalmente lo scambio dei doni in Giappone: «non è gentile accontentarsi delle parole». È un’esortazione ad andare oltre le parole: testimonia la necessità di una azione, di un gesto etico che in qualche misura trasformi i significanti (gli involucri, e le parole) attraverso un rito sacrificale in grado di manifestare, come in una epifania, tutta la loro potenza. Per far sì che questo accada è necessario dunque donare, donare senso. Il senso può emergere attraverso uno schema rituale dove ciascun officiante sacrifica una parte della propria assolutezza e dove i rimandi dei significanti si rimbalzano apparentemente senza direzione. E tuttavia una direzione esiste: grazie a questo evento, ciò che è celato viene a galla attraverso l’eticità di coloro che partecipano alla struttura deontologica del logos. Il senso celato dalle parole-involucro è, dunque, quell’elemento che non si può consegnare direttamente, ma che si manifesta in seguito ad un sacrificio, che esige la trasformazione degli officianti e dell’oggetto immolato nel momento dello scambio: il rito trasforma ciò che è imprigionato nelle parole e permette 84 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x l’epifania più importante, la grazia del senso. Proprio come in un dono. L’unica differenza con il logos parlato o scritto è che in Giappone questo rito è compiuto anche nel gesto cortese di chi offre e ricambia un omaggio. Perché non è gentile accontentarsi delle sole parole. Paolo Sommaggio è professore associato confermato nell’Università degli studi di Trento dove insegna Filosofia del diritto, Metodologia della scienza giuridica e Deontologia e retorica forense. Avvocato e docente in diverse Scuole Forensi e di Specializzazione alle professioni legali, è autore di numerose pubblicazioni di argomento giuridico e bioetico Non è gentile accontentarsi delle parole 85 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica. Note per una discussione critica Romano Martini Abstract Parole chiave L’odierno primato nomico dell’economia nell’ordinazione della vita sociale appare mettere in questione il concetto stesso di democrazia, soprattutto in relazione alle sue dicotomie strutturali –sovranità-diritti, pubblico-privato, ecc.-. Oltre ai propri limiti, la democrazia rappresentativa esibisce tuttavia anche un’intrinseca dinamicità, come l’attuale predominanza della forma-governance sembrerebbe indicare (ma non senza problemi). Democrazia; Rappresentazione; Economia; Segreto; Pubblico/Privato; Eccezione; Conflitti; Governamentalità/Governance. 1 -Rappresentazione, comunicazione e segreto nella sovranità democratica E venti, singolarità e forme di ordinamentazione: estremi da dover congiungere. Il congiungere diviene, più che essere, compito del diritto. È qualità precipua di una logica prassica giuridica ambire a tenere unite, insieme, le singolarità che eventi (sempre inaspettati) esprimono, con le formalità astrattamente generali formulate attraverso leggi codificate. Diversi anni di riflessione sopra la contemporanea dimensione globale, segnalano diffusamente di una primazia delle prerogative di ordinamentazione/organizzazione sociale transitate dal politico-giuridico all’economico nella sua versione capitalistico-neoliberista1. 1 Senza ulteriormente questionare la tesi di fondo proposta dall’autore, ci limitiamo, in questa sede, a convenire sulla seguente diagnosi: «Anche gli scopi “economici” sono scopi che esigono scelte politiche e posizioni di norme: si dicono “economici”, e rifiutano altri aggettivi, soltanto per presentarsi sotto schermo di naturalità e neutralità. Un che di incontrovertibile, dinnanzi a cui le lotte della politica dovrebbero tacere», N. Irti, Nichilismo giuridico, Roma-Bari, 2004. Per una breve ma efficace analisi ricognitiva della questione del «primato Sono le stesse categorie fondanti della modernità giuridica –statualità, democrazia rappresentativa, supremazia della legge, ecc.-, a presentarsi oggi sotto forma critica di fronte alle funzionalità imposte dalle ragioni dell’economia. Le formulazioni normative del giuridico appaiono essere un mero effetto –o, per meglio dire, una mera effettività- della causalità prescrittiva delle ragioni dell’economia egemone. Non limitandosi a un astratto postulare normativistico -o, se si preferisce, aprioristicamente deontologico-, diviene compito giuridico attingere a un contenuto sociale, a una “materia vivente”, onde ottenere non soltanto un “legalistico” consenso (politico-economico), vale a dire non limitandosi a un’adesione appiattita su di un volontarismo sgorgante da leggi sociali ritenute “eterne”, “naturali”, benché effettivamente e storicamente determinate. Diversamente e superando l’adesione moralistica a presunte leggi neutrali/ naturali, un agire giuridico e politico dovrebbe mostrarsi di essere capace di operare una composizione di interessi molteplici che manomico» dell’economia, si veda inoltre V. Olgiati, Il mercato legislatore e il declino dei fondamenti sacrali della laicità dello Stato, in “Novum Jus”, III (2009), n. 2, pp. 189-212. La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica 86 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) terialmente connotano il sociale (economia, diritto e politica). Il problema della congiunzione diviene allora la questione della composizione pratico-materiale di bisogni, interessi e ragioni. Il tradizionale modello sillogistico che univa rigidamente su di un piano strutturalmente astratto la dimensione del pubblico con quella del privato -vale a dire il modello dello Stato democratico di diritto- sembra oggi scontare inadeguatezze, imbattendosi in un limite (forse) intrinseco. La relazione tra governanti e governati implica inevitabilmente una relazione comunicativa. Ma cosa accade se la dimensione pubblica deve preservarsi con il segreto, per non corrompersi o, meglio, per poter riprodursi? Come può esistere un alcunché di pubblico se non c’è comunicazione di ciò che per diritto avanza la pretesa di essere il Pubblico? E cosa ci sarebbe di privato se non ci fosse qualcosa che per proprio statuto ontologico non deve o non vuole essere comunicato in pubblico? E se il canale comunicativo tra pubblico e privato istituisce una relazione che si separa e autonomizza, ipostatizzandosi come apparato nella sua separatezza, sopra una dicotomia (pubblico-privato) che appare in tal modo divenire surrettizia? Oscuro ma lucido profeta della Società dello spettacolo, Guy Debord avvisava: La nostra società è costruita sul segreto, dalle “società schermo” che mettono al riparo da qualsiasi luce i beni concentrati dei possidenti, fino al “segreto difesa” che copre oggi un immenso territorio di piena libertà extragiudiziale dello Stato2. 2 G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, in Id., La società dello spettacolo, trad. di P. Salvadori e F. Vassari, Milano, 2004, p. 223. Nei Commentari, scritti a distanza di un decennio dall’uscita della Società dello spettacolo nel 1967, Debord (preconizzando di fatto l’implosione dei “socialismi reali” e la caduta di un “ordine mondiale” sorrettosi sulla contrapposizione dei due “blocchi”) introduce la fondamentale categoria dello «spettacolo integrato». Quest’ultima descrive una nuova forma spettacolare che, imponendosi su scala mondiale, integra i due modelli di spettacolo precedentemente descritti (denunciandone, in tal modo, l’intimo e segreto rapporto): lo spettacolo concentrato –tipico degli Stati totalitari e autoritari- e lo spettacolo diffuso – caratteristico degli USA e delle democrazie occidentali-. La società che raggiunge lo stadio dello spettacolo integrato si contraddistingue per «il continuo rinnovamento tecnologico; issn 2035-584x Tra formazione ed informazione, il gioco della comunicazione va oltre le possibili rigide categorizzazioni tra pubblico e privato. In un mondo separato e organizzato in rappresentazioni attraverso i media, nel quale si compenetrano forme/poteri dello Stato e dell’economia capitalistica, è quest’ultima ad assumere uno statuto sovrano al di sopra di un «rapporto sociale fra individui, mediato attraverso le immagini.»3 È quindi in questa forma di separazione che, secondo le tesi di Debord, può agire e autolegittimarsi l’odierno primato nomico-sociale dell’economico-politico, in una dimensione di segretezza, coprendo – o meglio rovesciando e mistificando- le proprie scelte irresponsabili (ossia, sostanzialmente a-nomiche). L’egemonia –la forza ed il consenso sociali- deontologico-normativa dell’economico trova oggi una propria ragione sufficiente nella forza degli interessi particolari che promuove e nel consenso sociale che per essi ottiene, soprattutto attraverso i sistemi di formazione ed informazione sociali/individuali che amministra attraverso la comunicazione organizzata con i media. È il funzionamento/funzionalismo di un apparato capace di rappresentare la socialità stessa –ovvero, di alienarla ed espropriarla in una forma reificata di separazione-, che si manifesta in tutta la propria luminosità accecante. In un contesto non più concentrato e concentrabile entro un’esclusiva dimensione statual-nazionale, qual è quello dei sistemi di comunicazione contemporanei, deve tuttavia rilevarsi l’incapacità di adeguamento delle modalità operative del giuridico –modalità che traducono tradizionali “logiche rigide”-, il quale inevitabilmente finisce con l’assumere un ruolo subordinato e dedicato alle istanze dell’economico capitalistico. E una sorte non migliore tocca al politico. Se la forza e il consenso, il conseguimento dei quali dovrebbe essere uno specifico compito pratico assegnato all’esercizio politico applicato ad istituziola fusione economico-statale; il segreto generalizzato; il falso indiscutibile; un eterno presente.» (ibidem, p. 196). Oltre questi brevi cenni, in questa sede non è possibile esaminare con maggiore accuratezza le tesi e le implicazioni logico-giuridiche dei testi di Debord. 3 Ibidem, p. 54. La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica 87 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) ni come la scuola, la famiglia o la religione, ecc., ovvero ai media sociali in senso lato, sono sussunti nella specifica logica rappresentativa dell’economia capitalistica, ben poco margine operativo resta alla “autonomia della politica”. La critica delle forme di rappresentazione -nonché della rappresentanza democratico-parlamentare- del potere, dice allora di un rapporto con una dimensione di segretezza che il medesimo potere intrattiene intimamente con le individualità della società che dovrebbe governare e che pubblicamente istituisce e rivendica come propria specifica prerogativa, in qualità di rappresentante di “un’ultima istanza”. Se l’economico è divenuta la forma rappresentativa che più di altri oggi esprime le istanze prime ed ultime del potere, vale forse allora la pena di inquadrare l’intera questione come problema dell’iconomia (avviando una riflessione in tal senso sopra il manifestarsi di una effettiva «dominanza organizzativa»4), ossia di un potere normativo dell’immagine e del simbolico che, con la rivoluzione post-industriale (vale a dire con l’affermarsi della cd. knowledge economy/society, soprattutto mediante l’acquisita egemonia della produzione info-telematica e di quella trans-genica)5, diviene uno dei fondamentali perni su cui ruota le possibilità di organizzazione delle società globali. In questo quadro generale appena approssimato, l’istituto del segreto di Stato rappresenta soltanto la classica “punta dell’iceberg”. In effetti, la necessità proclamata del segreto di Stato, non rinvia forse a quella segretezza che sembra fornire la sintassi di una determinata logica che soggiace alla costituzione ed istituzione della stessa forma-Stato, di quella stessa Ratio Status? Nel contesto moderno il segreto di Stato si è progressivamente mostrato essere una componente irrinunciabile, quando non necessaria, per lo svolgimento dell’attività politica e amministrativa6. Ciononostante, all’origine del pensiero costituzionalista liberaldemocra4 Cfr. V. Olgiati, op cit., pp. 203-208. 5 A riguardo cfr. A. Zanini, U. Fadini (a cura di), Lessico postfordista. Dizionario di idee della mutazione, Milano, 2001. 6 Si veda ad es. U. Rossi-Merighi, Segreto di Stato. Tra politica e amministrazione, Napoli, 1994. issn 2035-584x tico, nato per imporre limiti al potere sovrano assoluto, sussisteva un reale conflitto tra le necessità proprie alla conservazione dello Stato e le prerogative da riconoscere alle libertà e ai diritti degli individui che costituivano il corpo sociale dello Stato medesimo. La necessità di limitare e controllare l’esercizio dei poteri e delle competenze attribuite alle diverse autorità statuali, onde evitare abusi e ingerenze nella vita privata, impone criteri di trasparenza e pubblicità agli atti e alle attività di governo. Gli individui devono poter veder protetti e garantiti i propri diritti e interessi, perciò rinunciano a specifici poteri, delegandoli a un’autorità che da un lato li rappresenti e dall’altro li tuteli. Il rapporto che in tal modo si instaura e si istituisce tra individui e autorità, chiama in causa un do ut des7 come forma di un’obbligazione politico-giuridica, di un contratto per cui autorità diviene sinonimo di garanzia di sicurezza, per le libertà e per i diritti degli individui che agiscono nelle società. Formalmente, l’autorità dello Stato non deve abusare dei poteri conferitigli attuando un eccessivo controllo della sfera privata, poiché in tal modo tradirebbe il patto per cui è stata istituita e legittimata. Così, parimenti, devono essere gli individui della società a mantenere il massimo controllo sui poteri pubblici, ma ciò diviene appunto possibile solo con un massimo di pubblicità e trasparenza degli stessi. Questa sarebbe la logica che istituisce, sostiene, limita e controlla un potere pubblico, autorizzato ad essere tale in quanto rappresentanza e rappresentazione della sovranità di individui ri-uniti in un popolo. È, detto altrimenti, la logica che sta alla base della moderna nozione di democrazia come “sovranità che appartiene al popolo”8. È la medesima 7 Ma, va detto, è un rapporto che si instaura tra ciò che esiste e un alcunché che non esiste prima di un contratto sociale: dov’è il sovrano eminente che, controparte, “scambia” sicurezza con libertà prima della delega conferitagli? In altri termini, il do ut des esiste in quanto forma regolativa solo come un “possibile”, ovvero come finzione normativa –al pari della “società naturale”- ritenuta essere necessaria per organizzare/ordinamentare una “società civile”. 8 Per un quadro sinottico sulla questione si cfr. N. Bobbio, Teoria generale della politica, Torino, 1999, pp. 323-69 (ma si veda in particolare pp. 352-69, dove l’auto- La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica 88 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) logica che assicura allo Stato il monopolio della forza/violenza legittima per portare a compimento la promessa, nella massima trasparenza e pubblicità, di riduzione della violenza e dei conflitti che attraversano le società. Il potere dello Stato sarebbe con ciò una sorta di duplicazione –rappresentazione- delle potenzialità sociali (potestas vs. potentia), necessaria a realizzare le premesse di libertà ed eguaglianza degli individui, quali soggetti di diritto agenti in un regime di democrazia che persegue –rappresenta- il fine della giustizia. In riferimento alla problematica del segreto di Stato, la contrapposizione autorità-libertà assume profili e gradazioni mutevoli a seconda del contesto storico di riferimento. Ciò detto, il principio della pubblicità degli affari e degli atti dello Stato, quale pilastro delle costituzioni liberal-democratiche moderne, deporrebbe senza meno a sfavore della necessità di un potere segreto legalmente (e più o meno legittimamente) detenuto dalle autorità, in un ordinamento che, appunto, si vuole e si dice democratico. Tuttavia, abbandonata un’originaria ed irenica immagine idealizzata di libertà e giustizia per gli individui da contrapporre agli abusi di regimi con poteri assolutistici, il segreto di Stato finisce con il divenire un istituto irrinunciabile delle democrazie rappresentative: è in nome della conservazione dell’ordine/ordinamento democratico che una prassi governamentale9 ricorre con una certa frequenza all’istituto del segreto di Stato. Il segreto di Stato rinvia allora a questioni non risolte e non facilmente risolvibili nella mera suggestione degli “arcana imperii” di tacitiana memoria. Il diritto, in quanto relazione sociale, non può essere ridotto alla pura e semplice dimensione autoritativa, la quale pone in gioco una produzione di norme attraverso decisioni pertinenti alla politica, ovvero ai soggetti deputati a legiferare, a produrre leggi come strumento di pore tratta di “Democrazia e segreto”). 9 Il concetto di governamentalità è sviluppato soprattutto da M. Foucault durante le lezioni tenute sul finire degli anni Settanta del Novecento al Collège de France (in particolare si veda M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-1979, trad. di M. Bertani e V. Zini, Milano, 2005). issn 2035-584x tere o difesa di interessi e privilegi particolari. Parimenti, il diritto non può appiattirsi sulla formale nozione di isolati individui “liberi” ed “uguali”, che tra loro intrattengono rapporti di mero scambio mercantile, richiedendo forme di minima regolazione in vista della gestione e della tutela dei propri interessi particolari. Ciò che emerge in simili concezioni e pratiche del giuridico, compresso verso il politico da un lato e subordinato alle facoltà prescrittive dell’agire economico sic et simpliciter dall’altro lato, è un diritto dedicato e incapace di generarsi e svilupparsi come pratica e concreta esperienza di un comune vivere sociale. Nella tradizione dominante del pensiero moderno, vi è stata la tendenza a risolvere in forme di rappresentazione della sovranità la discrasia tra politica, economia e diritto che via via veniva a presentarsi nel corso storico10. Tali forme di rappresentazione sono tuttavia risultate efficaci, in modo quasi esclusivo, sul piano della produzione di un campo di sapere e di un ordine di discorso sulla democrazia. Volgendo lo sguardo al divenire storico dell’Occidente, infatti, si assiste a un progressivo disciplinamento del discorso stesso sulla democrazia che, a sua volta, ha sorretto la produzione e riproduzione di un ordine simbolico e di un immaginario i quali, in un modo specifico e del tutto differente rispetto l’antichità, sono risultati assai efficaci nell’incidere fino al livello antropologico sociale e individuale. L’oikonomía, come produzione di regole confinata entro le mura della casa-dimora e dedicata alla riproduzione della vita privata, era nel mondo classico esplicitamente tenuta separata dalla vita della polis, che riguardava piuttosto la sfera pubblica nella quale agivano i liberi cittadini, discutendo e producendo quelle norme poste a regolazione della vita, appunto, pubblica/politica11. La cru10 Cfr. sul tema C. B. Menghi, Rappresentazioni della sovranità, Torino, 2003 e Id., Logica del diritto sociale, Torino, 2006. Si veda anche A. Zanini, Filosofia economica. Fondamenti economici e categorie politiche, Torino, 2005. 11 Cfr. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, trad. di S. Finzi, Milano, 1988. Ma rinviamo soprattutto alla ricerca avviata da Giorgio Agamben a riguardo della «teologia economica», un concetto inesplorato che però si impone, nella contemporaneità, come preminente e in progressiva sostituzione della tradizionale “teologia La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica 89 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) ciale distinzione tra sfera privata e sfera pubblica, che tanto peso avrà nella storia del pensiero e delle pratiche giuspolitiche dell’Occidente, troverebbe così una parziale genealogia nel paradigma democratico dell’antichità. Tuttavia, come accennato, lo stesso concetto di democrazia subirà numerose mutazioni nel corso dei secoli seguenti. Quanto più appare nella sfera pubblica la dimensione sociale (categoria di per sé irriducibile al privato o al pubblico), tanto più la rigida dicotomia tra pubblico e privato assumerà contorni problematici, incidendo così significativamente nelle possibilità di costituzione o di costituzionalità di una democrazia -ossia nella sua teoria e nella sua prassi-. È di fatto una rappresentazione risultata egemone quella che ha finito con il coniugare, apparentemente senza soluzione di continuità, homo oeconomicus e homo democraticus, risolvendo il concetto stesso di democrazia -giuridica e/o politica- nella teoria e nelle tecniche di governo liberali ovvero, in definitiva, nel costituzionalismo liberal-democratico12. Assunto nel suo senso moderno, il termine democrazia non indica solamente una specifica teoria, bensì anche una pratica; non rinvia solo a una forma costituzionale, ma anche a un’istituzione e a una prassi di governo concrete. Questa doppia valenza di significato del termine democrazia ha potuto ben attecchire nelle dottrine sovraniste (o se si preferisce nella schmittiana tradizione “teologico-politica”). Le teorie moderne della sovranità pongono una distinzione tra titolarità ed esercizio del potere sovrano. In breve, in quanto forma di governo, la democrazia sarebbe un regime prodotto, conservato e riprodotto come specifica articolazione di una forma di dominio e potere. Ma, al contempo, la democrazia è anche stata istanza di liberazione da poteri, a vari gradi e livelli oppressivi, e di progressione e/o progettazione verso una sempre maggiore libertà ed eguaglianza sociali e politiche. Questa doppolitica”, di ascendenza schmittiana. Per un quadro sinottico di questi argomenti, si veda G. Sacco, Intervista a Giorgio Agamben: dalla teologia politica alla teologia economica, in “Rivista della Scuola superiore dell’economia e delle finanze”, I, (2004), n. 4, , pp. 10-17. 12 Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit. issn 2035-584x pia possibile declinazione della democrazia in quanto concetto e della democrazia reale in quanto pratica, ne restituisce una dimensione dinamica suscettibile di variazioni, anche molto importanti, e niente affatto priva di aspetti ambigui e paradossali (come ad es. l’idea molto atlantica di “esportazione della democrazia”)13. In periodi di relativa normalità, esercizio di dominio e istanza di liberazione/progressione appaiono integrarsi (come ad es. nel secondo dopoguerra del Novecento –i “gloriosi anni” del compromesso fordista-keynesista-). Al contrario, in periodi di crisi, in periodi di stato d’eccezione14, le due opposte tendenze che connotano la democrazia si manifestano in aperto conflitto tra loro. In quest’ultimo caso, i termini che dovrebbero formalmente descrivere un circolo virtuoso -autorità e libertà, diritti e sicurezza, società e Stato, ecc.- innescano di sovente un processo cortocircuitante. È soprattutto in virtù di uno stato d’eccezione (reale o artificialmente proclamato come emergenza) che l’autorità avanza la pretesa di usufruire di poteri speciali come proprie esclusive prerogative, fino a rivendicare per sé il diritto a sospendere libertà altrui e le norme vigenti, in nome di una normalità da doversi ripristinare. Ed è in questi casi che le due tendenze, e cioè esercizio di potere/dominio e istanza di liberazione, che attraversano la dimensione democratica descrivono un campo di forze o, meglio ancora, entrano in un rapporto di forza dal quale dipende il prevalere dell’una o dell’altra. 2. Il Pubblico, il Privato, la Democrazia: breve excursus storico-genealogico In effetti, autorità-libertà, diritti-sicurezza e individui/società-Stato appaiono come categorie che circoscrivono un ambito di riflessione abbastanza problematico. Per il fatto che, nel comune senso moderno di democrazia, tali categorie richiamino criteri di pubblicità delle 13 E per estensione della stessa concezione occidentale del diritto e del “regime di legalità”: cfr. U. Mattei, L. Nader, Il saccheggio. Regime di legalità e trasformazioni globali, trad. di A. M. Poli, Milano-Torino, 2010. 14 Un’ottima e sintetica tematizzazione sullo stato di eccezione è proposta da G. Agamben, Stato di eccezione, Torino, 2003, il quale avvia una stimolante ricerca sulla questione. La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica 90 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) attività di uno Stato (un facere notum), esse rinviano alla necessità di un pubblico (un factum notum), quale elemento che diviene di tutti e che da tutti è giudicabile. Ciò che intrinsecamente viene a pesare in questo gioco di forze interpolate è allora un’ulteriore coppia oppositiva: il pubblico contrapposto al privato15. La dicotomia pubblico-privato sta all’origine e ha retto, come un Giano bifronte, lo sviluppo concettuale-pratico della democrazia moderna nella storia occidentale. Un breve excursus storico –qui, necessariamente riduttivo e limitato- nel pensiero moderno risultato dominante, pare allora risultare opportuno per sostenere gli argomenti proposti da chi scrive. Per Thomas Hobbes, caposaldo della teoria sovranista, sembrano non sussistere particolari dubbi. La pace e la sicurezza rappresentano i termini del postulato logico che fonda l’autorità del sovrano come incarnazione di un potere assoluto e irresistibile. La sovranità trova fondamento in un pactum subjectionis –ossia in una dedizione di potestà a un sovrano- che succede a un pactum unionis stipulato tra liberi individui, altrimenti tra loro in conflitto. Dal momento in cui è in tale maniera istituito e riconosciuta quale autorità, nessuna ragione potrà opporsi alla volontà del sovrano medesimo, anche e soprattutto quando questi non dovesse rispettare i patti in nome di quella sicurezza per cui ha ricevuto mandato e delega di potere. La sicurezza è infatti la condizione necessaria alla conservazione e riproduzione dell’ordine dello Stato e altrettanto, perciò, degli individui consociati che del corpo dello Stato sono parti16. Specialmente da John Locke in poi, il privato diviene sinonimo di “proprio” individuale, ricevendo una determinata (e per molti aspetti epocale) sanzione giuridica nella moderna proprietà privata. Per Locke, infatti, la proprietà dell’individuo privato è tout court espressione della sua libertà e, 15 Sul tema cfr. N. Bobbio, La democrazia e il potere invisibile, in “Rivista Italiana di Scienze Politiche”,(1980), n. 2, p. 182. 16 Cfr. Th. Hobbes, Leviatano, ossia la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile, trad. di A. Lupoli, M. V. Predaval Magrini, R. Rebecchi, Roma-Bari, 1998. issn 2035-584x simmetricamente, la libertà dell’individuo si esprime di diritto attraverso l’appropriazione privatistica delle cose e del mondo, ovvero la proprietà privata è un naturale diritto di ognuno17. Il pubblico inizia così ad assumere una connotazione di senso in forte contrapposizione al privato, benché entrambi questi concetti mantengano una necessaria relazione di complementarietà, in una prospettiva “pratica” orientata verso una possibile ordinamentazione della “società civile”18. Sarà Jean-Jacques Rousseau che, prima e più risolutamente di ogni altro, si scaglierà contro l’idea di proprietà privata, quale fonte generatrice di disuguaglianza sociale. L’individuo “libero” si appropria -privatisticamente- di ciò che in natura è comune, lasciando altri individui espropriati di questa comunanza naturale. La proprietà privata rappresenta perciò il principale elemento corruttore di un possibile sistema democratico egualitario. Ma come può, per Rousseau, il proprio di ciascuno concepirsi oltre la dimensione privatistica per essere restituito come il proprio di tutti, ovvero per essere democraticamente un alcunché di “pubblico” e di egualitario? La risposta del filosofo ginevrino è abbastanza controversa. Le tesi di Rousseau così potrebbero riassumersi: il pubblico è ciò che, insieme, appartiene a tutti e non appartiene a nessuno. Il pubblico è la “volontà generale”; è la Repubblica che lo Stato e il Sovrano devono incarnare come unità politica degli associati, ovvero è il (la rappresentazione del) popolo, dove essi sono insieme cittadini, in quanto partecipano all’autorità del sovrano, e sudditi, in quanto soggetti alla legge dello Stato stesso19. 17 Cfr. J. Locke, Due trattati sul governo, (a cura di L. Pareyson), Torino, 1960 (qui si fa riferimento soprattutto al secondo dei due trattati). 18 Senza meno, entro questa direzione prospettico-argomentativa scelta, meriterebbe una parentesi di accurata riflessione a parte il pensiero di Adam Smith (nome tra i più autorevolmente annoverabili tra i “padri” della Political Economy e del liberalismo moderni -ma, va evidenziato, filosofo morale e giurista, prima ancora che economista-), rivolgendosi specialmente alla sua concezione di jurisprudence. Non potendo qui indugiare ulteriormente sopra tale questione, rinviamo alle eccellenti pagine che ad essa dedica A. Zanini, op. cit., pp. 21-135. 19 I testi presi qui a riferimento (soprattutto Il contratto sociale) sono tratti da J. J. Rousseau, Scritti politici, Torino, La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica 91 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) Ma in che cosa consiste la volontà generale, ossia quali sono le procedure che la istituiscono in quanto sovranità del popolo e fonte imprescindibile della forza che la legge esprime? Poiché la democrazia viene ad essere pensata sulla base di una concezione che postula individui neutri senza differenze di ceto, di classe o di sesso, ecc., liberi e reciprocamente uguali, la reciproca concorrenza tra essi diviene un fatto inevitabile. I conflitti che da una tale condizione scaturiscono devono essere ricomposti in un ordine stabile e disciplinato da un dispositivo di potere eminente e superiore. Tale potere, però, non può essere percepito come il potere di un altro, poiché se così fosse verrebbe meno la premessa logica della libertà assoluta e di diritto propria a ogni soggetto in natura. Gli individui hanno la volontà (e, pertanto, la pretesa) di essere riguardati e trattati come se fossero tutti liberi e uguali. Per questo motivo, essi si sottopongono alla volontà generale e agiscono come se fossero uno o, per meglio dire ancora, come se fossero un popolo senza differenze, un soggetto collettivo indifferenziato –ad unum versus-, che parla come unico corpo identitario e sovrano (successivamente identificato con la nazione). In definitiva, il popolo si esprime con una volontà generale che dà forma a una legge che obbliga tutti allo stesso modo. La volontà generale guarda all’interesse comune, ma ciò a differenza della volontà di tutti la quale, essendo una semplice somma di volontà particolari, persegue solo l’interesse privato di ogni singolo. La volontà generale si esprime infatti con una legge erga omnes che obbliga il popolo tutto all’obbedienza, in quanto obbedendo alla legge il popolo obbedisce alla propria volontà, vale a dire a se stesso in quanto individuale e volontaria appartenenza al popolo quale generalità coesiva. Rousseau abolisce formalmente in tale maniera il pactum subjectionis hobbesiano attraverso 1970 (trad. it. condotta secondo l’edizione critica stabilita da J. Halbwachs, Paris, 1943). Per ciò che concerne l’impianto dell’interpretazione critica degli stessi si è fatto riferimento a L. Althusser, L’impensato di J.-J. Rousseau, trad. di V. Morfino, Milano, 2003; A. Negri, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, Milano, 1992, soprattutto pp. 223-86; A. Illuminati, Rousseau, in A. Pandolfi (a cura di), Nel pensiero politico moderno, Roma, 2004, pp. 383-404. issn 2035-584x l’idea di una democrazia diretta. Il politico è pensato tuttavia costituirsi con un processo di totale alienazione dei singoli nell’astratto e formale concetto di volontà generale, il quale dovrebbe conseguire come spontaneo e individualistico atto (nel quale è ridondate un certo “pre-romanticismo”) intellettuale-sentimentale di subordinazione alla totalità del corpo sovrano: un impulso poco razionale che dà luogo, senza particolari mediazioni, a un risultato che invece una razionalità la pretende, quale fondamento del diritto ordinativo del sovrano democratico. Si tratta, infatti, di quella stessa astrattezza formale della volontà generale che funge da base alla normatività giuridica. L’istanza di eguaglianza sociale, presupposta da Rousseau come un ideale “naturale”, si risolve in una dichiarazione di eguaglianza solo politica, vale a dire in una concezione di uno spazio politico trascendentale al di sopra delle differenze sociali. Tanto Rousseau si distacca da Hobbes escludendo la delega a un sovrano che sia un terzo rispetto coloro che stipulano il patto sociale, quanto gli è molto prossimo nel definire i caratteri e le prerogative della sovranità stessa. Il sovrano che la volontà generale esprime viene dotato di un vero e proprio potere costituente, incondizionato e tutto condizionante20. È soprattutto quest’ultima caratteristica a rendere il pensiero di Rousseau controverso e non privo di ambiguità relativamente alla sua ricezione e applicazione: esercizio di democrazia diretta entro una dinamica sempre aperta della produzione di norme –funzione di un potere costituente- per un verso; esclusività e irresistibilità di un potere costituito nella totale alienazione che rischia di chiudersi nella sua autoreferenzialità –un potere costituito che blocca e limita il potere costituente-, per altro verso. Non sarà allora un caso che Rousseau potrà, perentoriamente e tautologicamente, affermare che «il Sovrano, per il solo fatto di essere, è sempre tutto ciò che deve essere». Il potere di fatto fonda e le20 Cfr. A. Illuminati, Rousseau, cit., p. 394. Sul concetto generale di potere costituente come fonte creativa di continua innovazione delle norme e delle costituzioni, nonché sulle relative problematiche che ha comportato in senso il pensiero giuridico-politico moderno, si veda A. Negri, Il potere costituente, cit. La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica 92 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) gittima l’autorità di diritto. Lo jus legato a una dimensione pratica e comune si risolve nelle potestas e auctoritas della lex pubblica del sovrano quale diretta emanazione della volontà generale. Il popolo, nei regimi democratici evocato quale titolare esclusivo del potere, appare solo come forma indifferenziata di un corpo sociale di individui isolati e depoliticizzati, posto all’ombra dell’identità sovrana dello Stato e dei suoi rappresentanti: un popolo, uno Stato. Lo Stato deve garantire una gestione pubblica, una rappresentazione pubblica di se stesso che appartiene a tutti ma è il proprio di nessuno (l’improprio del sociale-naturale postulato). La società deve in tal modo essere organizzata e governata sotto lo specifico comando statale, così come il lavoro sociale, che con la Rivoluzione francese impone la sua potente apparizione organizzata, deve essere ordinato nei rapporti di comando della proprietà privata. Nel meccanismo genealogico congeniato da Rousseau, la volontà di ciascuno appare inesorabilmente condurre a una totalità che rappresenta una comunità che, come necessaria mediazione normativa giuridico-politica, domina nella sua trascendentalità -ovvero in una forma di separatezza-. Lo Stato e la sua autorità pubblica appaiono sempre più come “legittimi” detentori di prerogative esclusive, di un potere legittimamente secretabile, benché nei limiti –invero, valicabili in questo senso- delle Costituzioni. Il processo storico-teorico di trasposizione di una singolarità sociale e dell’individuale nella cornice di un assoluto universale incarnato dal diritto pubblico-statuale, si compie attraverso lo sviluppo del sistema dialettico hegeliano. L’Aufhebung con cui Hegel esalta il passaggio dall’individuale al particolare della società civile prima, e da questo particolare all’Universale statuale poi –del “popolo” e della “nazione”-, è la traduzione logica dei passaggi che vieppiù sussumono, sottomettono questo individuale e questa società civile nell’etico razionale-sostanziale della costituzione politica rappresentata, appunto, nello Stato. Ma questo Stato che così risulta, altro non è che, di nuovo, un trascendente normativo che riproduce –ripeteseparatamente la logica dell’Individuale iniziale issn 2035-584x –e del “proprio” che asceticamente, quando non misticamente connotava questo individuale-. Nel sistema di Hegel la mediazione è immediata; le differenze sono sussunte, attraverso l’estenuante lavoro di mediazione dello Spirito nel mondo, nel circolo dell’Idea e riunificate nell’Identità dello Stato (individuale-statuale). L’Aufhebung non è che una ideo-logica trascrizione di un sostanziale Auflösung21. All’apice di una parabola del pensiero moderno, la dialettica hegeliana restituisce coerentemente il mondo sdoppiato delle rappresentazioni liberali e borghesi: la libertà individuale nega l’autorità dello Stato, salvo poi ri-affermarla come necessaria mediazione per i propri interessi particolari. Alla stessa maniera l’autorità dello Stato nega la libertà individuale, salvo poi (di nuovo) ri-affermarla come necessità della propria mediazione: negazione della negazione come separata immagine giuridico-politica del mondo, come rappresentazione dell’universale spirito del mondo. Eccedendo a questo troncone egemone del pensiero liberaldemocratico, Karl Marx, specialmente nei suoi scritti giovanili, costruisce la sua critica al diritto moderno22. Questa critica si traduce da subito in critica della filosofia hegeliana del diritto. Il postulato della scissione tra Stato e società che sta alla base del sistema di Hegel è immediatamente posto in crisi dalla critica marxiana. Per Marx, le moderne costituzioni politico-giuridiche altro non rappresentano che una perfetta unità formale astratta di ciò che effettivamente deve e vuole rappresentare: la moderna proprietà privata –e i particolari interessi di classe- come asse cardinale su cui può svilupparsi lo Stato. Nella critica marxiana, la moderna proprietà privata –ovvero il processo di accumulazione di potenza sociale produttiva, sancito giuridicamente-, la sua titolarità di comando, è il vero contenuto materiale che lo Stato conserva in segreto e riproduce dentro e oltre sé. In altri termini, la scis21 Cfr. C. Menghi, La negazione normativa. Aufhebung e Auflösung nella Scienza della logica di Hegel, Torino, 1997. 22 Cfr. in specie K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, trad. di G. Della Volpe, Macerata, 2008; Id., Scritti politici giovanili, a cura di L. Firpo, Torino, 1950. La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica 93 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) sione tra Stato e società civile, tra il citoyen e il bourgeois, che contraddistingue le costituzioni moderne, è una conseguenza inevitabile entro i termini di una concezione giuridica che pone la distinzione tra una forma giuspolitica astrattamente ordinativa (Stato) e il principio materiale che organizza la società (i rapporti sociali capitalistici di moderna proprietà privata, determinantesi soprattutto come accumulazione di forze e potenze socialmente produttive). La concezione borghese della proprietà privata trova una precisa traduzione giuridica, la quale fonda l’uguaglianza formale davanti alla proprietà nell’uguaglianza formale dinnanzi alla legge come espressione della “volontà generale”. Il principio materiale della proprietà privata –quale titolo di comando sul lavoro vivo sociale- può così concretizzarsi solo attraverso il sistema di rappresentanza che costituisce il moderno Stato politico, vale a dire attraverso quell’istituzione che, rappresentandosi una società depoliticizzata, garantisce unità ed eguaglianza formali agli individui isolati e la pretesa unica comunanza nell’esclusivo generale interesse di proteggere i propri interessi particolari. Parimenti, per il Marx critico dell’economia politica che ne studierà i rapporti interni, la cooperazione del lavoro vivo sociale è il segreto –soggettività socializzata sempre potenzialmente conflittuale- che i rapporti proprietari capitalistici accumulano, organizzano, ma, insieme, nascondono23. Letto nella filigrana della sua critica dell’economia politica, Marx mostra come l’accumulazione capitalistica del lavoro sociale transiti attraverso le diverse forme di Stato, in quanto forme di governo e amministrazione delle società: lo stesso “socialismo”, in effetti, appare negli scritti marxiani sempre come “forma di transizione” (verso il comunismo) che assume consistenza mediante il passaggio –appunto- per la forma-Stato. Relativizzato e riportato su di un piano d’immanenza dalla critica marxiana, l’ideale della democrazia di poter rappresentare l’unità egualitaria di differenze sociali sembra ideologicamente perdersi in un’identità 23 Cfr. soprattutto K. Marx, Lineamenti fondamnentali della critica dell’economia politica 1857-1858, 2 voll., trad. di E. Grillo, Firenze, 1997. issn 2035-584x formale-astratta, che tuttavia è capace –forse proprio per questo suo potere di astrazione (e di rappresentazione)- di esercitare e organizzare il dominio politico-sociale di una specifica classe e dei propri interessi particolari. Non risulterà essere, pertanto, un mero caso se il carattere mistico-identitario del rappresentativo Stato democratico (separato nel proprio rappresentare) verrà criticamente rilevato, con forti analogie, da due autorevoli pensatori di cose giuridiche e politiche, per altri versi agli antipodi su tutto: Hans Kelsen e Carl Schmitt. Afferma Kelsen: La discordanza tra la volontà dell’individuo, punto di partenza dell’esigenza di libertà, e l’ordine statale, che si presenta all’individuo come una volontà estranea, è inevitabile. […] La protesta contro il dominio esercitato da uno che è simile a noi, porta, nella coscienza politica, ad uno spostamento del soggetto del dominio, dominio che è inevitabile anche in regime democratico, vale a dire porta alla formazione della persona anonima dello stato. L’imperium parte da questa persona anonima, non dall’individuo come tale [ma da questa persona anonima dello Stato- n.d.r.]. La volontà delle singole personalità liberano una misteriosa volontà collettiva ed una persona collettiva addirittura mistica24. Sostiene Schmitt che la democrazia (tanto come forma di Stato quanto come forma di governo o di legislazione) è l’identità dei dominanti e dei dominati, dei governanti e dei governati, di quelli che comandano e di quelli che ubbidiscono. […] La parola “identità” è utile nella definizione della democrazia perché indica la completa identità del popolo omogeneo[…]. Nella democrazia pura c’è solo l’identità del popolo effettivamente esistente con se stesso, ossia nessuna rappresentanza. Con la parola “identità” è indicata l’effettività dell’unità politica del popolo a differenza di tutte le eguaglianze normative, schematiche o fittizie. 25 3.Diritto ed eccezione L’emersione delle differenze (di classe, di genere, di etnie, ecc.) ha vieppiù posto in questione il preteso carattere unitario, identitario 24 H. Kelsen, La democrazia, trad. di A. M. Castronuovo, Bologna, 1981, p. 53. 25 C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, trad. di A. Caracciolo, Milano, 1984, pp. 307-308. La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica 94 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x e universalistico del demos, in quanto speculare a quello dell’individuo astrattamente e formalmente inteso, nonché a quello dello Stato quale entità monolitica. La democrazia, come “sovranità che appartiene al popolo”, è di sovente apparsa ostile alle differenze che provocano scissioni nell’identità presupposta normale –e normativizzabile- tra il kratos e il demos. La celeberrima definizione di Schmitt per cui «Sovrano è colui che decide sullo stato d’eccezione»26, segnala una natura paradossale della sovranità stessa, innestando un elemento per molti aspetti inediti nel pensiero giuridico moderno. Poiché sovrano è colui al quale l’ordinamento giuridico riconosce il potere di proclamare lo stato di eccezione -che altro non significa se non potere di sospendere la validità dell’ordinamento stesso-, se ne deduce che la sovranità si definisce, al contempo, come inclusa ed esclusa nell’ordinamento giuridico, ovvero essa è insieme dentro e fuori tale “normale” ordinamento che conserva e riproduce come valido ed effettivamente vigente27. In virtù di questo suo potere legale di sospendere la validità della legge, il sovrano si pone, di fatto e di diritto, legalmente fuori legge. Nelle argomentazioni proposte da Schmitt, la norma rappresenta per definizione un caso medio e generale, e con ciò finisce con l’esprimere una rigida identità che meccanicamente deve ripetersi: in quanto generale e astratta, la norma deve cioè valere erga omnes, indipendentemente dal caso singolo a cui si applica. All’opposto, l’eccezione esprime l’esclusività di un caso singolo, di una differenza, rispetto l’identità della norma, «che rompe la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione»28. Tuttavia, poiché sia la norma che l’eccezione sono prerogative della decisione del sovrano, esse intrattengono e conservano un rapporto tra loro. Infatti, se è vero che nessuna norma può essere applicata al caos, poiché solo in una situazione normale (in un ordinamento stabilito) essa può avere un senso; altrettanto vero è che solo il sovrano può essere colui che decide in modo definitivo se uno stato di normalità regna davvero. Consegue da ciò che l’eccezione -struttura fondativa della sovranità- non precede la norma e l’ordine in quanto caos, essa è bensì ciò che risulta dalla sospensione della norma e dell’ordine vigenti. Nel rapporto con il caso singolo, la regola generale deve presupporlo come eccezione, come esclusività da includere nello stato di normalità. La differenza singolare è inclusa –catturata- nell’ordinamento giuridico-politico mediante una sospensione di quest’ultimo, ovvero è inclusa come esclusione, come un esterno da internare. Lo stato di eccezione, che per definizione eccede alla norma, riguarda il sovrano, ma in quanto eccedenza alla norma, lo stato di eccezione riguarda ugualmente anche chi è respinto, fuori o irriducibile nei confronti dello stato di normalità che regge l’ordinamento. La minaccia per il “normale” ordine costituito diviene condizione necessaria per la riproduzione e conservazione –per la sicurezza- dell’ordine medesimo. Il paradossale processo di identificazione tra il dentro e il fuori della norma, fino all’indiscernibilità tra l’autorità-potestà e il fuorilegge è per Schmitt, in ultima analisi, risolvibile in una sovradeterminazione irrazionalistica della sovranità che si presenta come accadimento di un evento puro del potere (con un implicita violenza connotante un tale evento). Sebbene Walter Benjamin non potesse ancora confrontarsi direttamente con le tesi schmittiane, molte considerazioni che nel 1920-21 proponeva (anno di pubblicazione del saggio Zur Kritik der Gewalt) sembrano anticiparne i temi e la sua critica. 26 C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, trad. di P. Schiera, Bologna, 1972, p. 33. Assumiamo (non senza torsioni concettuali) l’interpretazione della categoria dello stato di eccezione, sviluppando parzialmente quanto in merito riferisce con le proprie analisi G. Agamben, Stato di eccezione, cit. e Id., Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, 1995. 27 Cfr. C. Schmitt,Le categorie del ‘politico’, cit., p. 34. 28 Cfr. ibidem, pp. 39-41. «La funzione della violenza nella creazione giuridica è -scrive Benjamin- duplice nel senso che la creazione giuridica, mentre persegue ciò che viene instaurato come diritto, come scopo con la violenza come mezzo, pure –nell’atto di insediare come diritto lo scopo perseguito- non depone affatto la violenza, ma ne fa solo ora in senso stretto, e cioè immediatamente, violenza crea- La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica 95 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) trice di diritto, in quanto insedia come diritto, col nome di potere, non già uno scopo immune e indipendente dalla violenza, ma intimamente e necessariamente legato a essa»29. Queste parole confermano il sussistere di una zona di indistinzione tra coppie che tra loro sembrerebbero porsi su piani antinomici: violenza e diritto, norma ed eccezione, potere e libertà, ecc. In modo sobrio, anche Norberto Bobbio non manca di sottolineare intrinseci paradossi che il concetto di democrazia presenta. Ragionando sul rapporto tra segreto di stato e richiesta di pubblicità e trasparenza degli atti di uno Stato scrive: In linea generale si può dire che il segreto è ammissibile quando esso garantisce un interesse protetto dalla costituzione senza ledere altri interessi ugualmente garantiti (o perlomeno occorre fare un bilanciamento degli interessi). Naturalmente quello che vale negli affari pubblici di un regime democratico in cui la pubblicità è la regola e il segreto è l’eccezione, non vale negli affari privati, cioè quando è in gioco un interesse privato. Anzi nei rapporti privati vale esattamente il contrario: il segreto è la regola, contro l’invadenza del pubblico nel privato, e la pubblicità è l’eccezione30. In linea teorico-generale funge qui da premessa l’esistenza insuperabile di un conflitto tra interessi pubblici e interessi privati, di fatto non ricomponibili per gli stessi presupposti su cui basa la democrazia moderna. Tutto ciò non può che condurre a inevitabili paradossi, che chiamano in causa, di nuovo, il rapporto tra norma ed eccezione. È insomma nella logica stessa della democrazia che il rapporto tra regola ed eccezione sia invertito, rispettivamente, nella sfera pubblica e nella sfera privata. Un dibattito dedicato al segreto nella sfera pubblica non può svolgersi se non sul versante dell’eccezione e non della regola […]. Un caso davvero esemplare di questo paradosso ci è offerto proprio dal sistema democratico: abbiamo visto che la democrazia esclude in linea di principio il segreto di stato, ma l’uso del segreto di stato, attraverso l’istituzione dei servizi di sicurezza, che 29 W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. di R. Solmi, Torino, 1995, pp. 5-30, p. 24. 30 N. Bobbio, Teoria generale della politica, cit., pp. 368-69. issn 2035-584x agiscono nel segreto, viene giustificato tra l’altro come strumento necessario per difendere, in ultima istanza, la democrazia. 31 Nel dominio del diritto, un’eccezione, ossia una deroga a un principio, appare sempre giustificabile sulla base di altri principi posti alla base dell’ordinamento stesso e che verrebbero lesi nel caso di un’applicazione pubblica delle regole. Evidenti sono le petizioni di principio e i circoli viziosi discendenti da una tale impostazione formalistica riguardo la questione qui posta. Se l’eccezione risulta una sospensione necessaria del diritto, al fine di garantirne la conservazione, la riproducibilità permanente di uno stato di eccezione rischia di divenire una normale condizione, fagocitando in sé ogni ideale “stato di normalità” giuridicamente qualificabile. Il segreto (incomunicabile), quale istituzione dello Stato, appare in tutto e per tutto come un caso dell’eccezione. Tutto ciò, che in linea generale è condiviso per ciò che concerne gli affari pubblici, assume però –come visto- un senso affatto contrario per ciò che concerne i rapporti sociali privati/privatizzati (per definizione, poco comunicabili e secretabili). Proprio perché il pubblico non deve invadere la libertà e gli affari privati, allo stesso modo la norma prodotta dall’ordinamento dello Stato deve prevedere eccezioni alle proprie autorità e facoltà regolative. Ma in ciò si determina un paradossale chiasmo per cui anche la stessa autorità, in quanto pubblico separato dal privato, procede secondo una propria autonoma logica di eccezione –ovvero con una sua dimensione segreta- che conserva come una propria prerogativa esclusiva. Il dovere di riconoscere diritti di privati diviene diritto di dirigere da parte dell’ordine costituito e diritto di dovere da parte del suddito/cittadino. 4. Democrazia conflittuale A uno sguardo storicamente attento, non può sfuggire che lungo il XX secolo siano stati soprattutto i conflitti sociali ad aver contrassegnato quelle modificazioni dello Stato liberale nel mondo occidentale (nonché –con importanti distinzioni- nella parabola dei 31 Ibidem, p. 369. La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica 96 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) “socialismi reali”), tanto da far parlare da più parti di “democrazia regolata”. La materialità sociale guadagna il proscenio in un progressivo amalgamarsi di pubblico e privato, di Stato e mercato, di economia e politica. La Costituzione di Weimar, il New Deal negli USA., il “piano Beveridge” in Gran Bretagna, la maggior parte delle costituzioni europee nel secondo dopoguerra, sono solo alcune delle tappe che descrivono una curva espansiva dei diritti sociali per tutto il Novecento, di pari passo alla progressiva industrializzazione e, dunque, alla formazione delle “società di massa”32.Quanto chiama in causa questo sviluppo del diritto sociale è, senza meno, un processo di costituzionalizzazione del lavoro sociale. L’unità lavorista si è vieppiù ricercata quale fondamento da porre come principio –una Grundnorm- delle moderne costituzioni, come base per una produzione normativa finalizzata ad ordinamentare la società. Il rifiuto del dualismo tra norma e fatto e la corrispettiva assunzione di un approccio monistico, ben potevano ritrovare nell’unità del lavoro sociale prodotta dalla realtà industriale di massa un saldo punto di ancoraggio, una ben definita costituzione materiale delle forze sociali e delle diverse rappresentanze politiche di riferimento33. Il quadro teorico entro il quale tali argomentazioni e temi possano trovare sviluppo, prende buona forma nelle riflessioni attorno ai concetti di Welfare State, di Stato sociale, di fordismo-keynesismo, ecc. (termini rinvianti comunque alla presenza massiccia dello Stato, dell’autorità pubblica nell’organizzazione/regolazione della vita e del lavoro sociali). L’autorità dello Stato, a cui sono vincolati i diritti sociali e il loro riconoscimento, garanzia e tutela, appare agire come vera e propria mano visibile, che regola e disciplina ex ante (non ex post come la nota invisible hand del “libero 32 Per questi temi, tra altri, si veda Th. H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, trad. di P. Maranini, RomaBari, 2002 e l’importante studio di F. Ewald, L’Etat Providence, Paris, 1986. 33 Cfr. A. Negri, La forma stato. Per la critica dell’economia politica della costituzione, Milano, 1977. Per il concetto di costituzione materiale cfr. il classico C. Mortati, Costituzione in senso materiale, Milano, 1940. issn 2035-584x mercato” di derivazione smithiana) la società attraverso il dispositivo del piano34. Tanto John M. Keynes nell’ambito delle discipline economiche quanto Hans Kelsen in quelle giuridiche, contestano l’idea di un ordre naturel, di una lex naturae, di un laissez-faire allo scopo di conseguire un determinato “equilibrio” sociale. «L’emergenza normativa è perciò chiara e ineludibile: è il fondamento su cui poggia la moderna democrazia regolata.»35 Avanza un’idea di relatività rinviante a un rapporto convenzionale-pattizio, allo scopo di conseguire praticamente un determinato equilibrio sociale che deve essere perseguito agendo sui conflitti che capitale e lavoro – intesi come grandi aggregati sociali- esprimono per conservare e ottenere diritti (il cd. compromesso fordista-keynesista). Il controllo della domanda e dell’occupazione, quali elementi caratterizzanti le politiche keynesiste, segnalano la necessità di impedire grandi fluttuazioni della stessa domanda sociale (nonché domanda politica dei diritti) e, al contempo, di stabilizzare il quadro sociale complessivo nel quale essa si determina. Ciò che risulta decisamente significativo è una sovradeterminazione politico-sociale dell’istituzione statuale sui rapporti economici che il sistema politico-giuridico è chiamato a governare. Il ciclo di lotte dell’operaio-massa, le contestazioni antiautoritarie delle nuove soggettività sociali –costituitesi attraverso i dispositivi della scolarizzazione, della comunicazione e dei consumi di massa- espresse dai movimenti a partire dalla data-simbolo del 1968, e così via fino all’implosione delle burocrazie del socialismo reale, hanno indotto (la deregulation e le privatizzazioni della cd. Tacherite-Reaganomics stava compiendo il resto) a nuove forme di ristrutturazione delle macchine organizzativo-ordinative – economiche, giuridiche e politiche– delle società contemporanee. 34 Per queste argomentazioni e sul concetto di Statopiano, si cfr. M. Tronti, Operai e capitale, Torino,1966; A. Negri, La forma stato, cit. e Id., Crisi dello Stato-piano, Milano, 1974. 35 A. Zanini, op. cit., p. 293 (corsivi miei). La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica 97 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) 5.Note sul modello governamentale biopolitico Le considerazioni appena fatte ci conducono nell’ambito di una riflessione sulle relazioni di potere rispetto cui Michel Foucault ha scritto pagine estremamente importanti. La domanda che egli si pone non è quella tradizionale della filosofia politica: “cosa è il potere/ cosa sono le sue istituzioni?”; né il suo approccio ricalca quello tipicamente giuridico: “come si giustifica/legittima il potere?”. La domanda di fondo che Foucault si pone è “come funziona il potere?”. Gli studi foucaultiani sulle relazioni del potere vietano di pensare quest’ultimo come una “proprietà” localizzabile, ad es., nello Stato. Il potere, appunto, non lo si possiede né esso rappresenta un semplice privilegio. Il potere, piuttosto, sempre lo si esercita passando attraverso un insieme di tattiche e strategie, in base a determinate tecnologie che pone in atto sopra l’intero corpo sociale. Così, ad es., il potere poliziesco deve vertere “su tutto”: tuttavia non è la totalità dello Stato né del regno come corpo visibile e invisibile del monarca; è la polvere degli avvenimenti delle azioni, delle condotte, delle opinioni […]; l’oggetto della polizia sono quelle “cose di ogni istante”36. La stessa forma-Stato, in questo quadro, appare come una risultante di ingranaggi e procedure che non istituisce, bensì ratifica (il concetto dello Stato come macchina). Il rapporto di potere non si attua tra forme –come appunto la forma dello Stato- (ché, la forma è piuttosto pertinente all’ordine con cui il pensiero agisce e ordina), ma tra forze37. Il raffinamento dei 36 M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, trad. di A. Tarchetti, Torino, 1976, p. 233. Inoltre, descrivendo il dispositivo panottico della prigione, quale emblema del funzionamento del potere, Foucault scrive: «Ciascuno, al suo posto, rinchiuso in una cella […]. È visto ma non vede; oggetto di una informazione, mai soggetto di una comunicazione.», ibidem, p. 218 (enfasi mia). 37 Precisando ulteriormente questo, si può allora dire che «la forza non è mai al singolare, la sua caratteristica essenziale è di essere in rapporto con altre forze, di modo che ogni forza è già rapporto, e cioè potere: la forza non ha un oggetto o un soggetto diverso dalla forza stessa. Non dobbiamo vedere qui un ritorno al diritto naturale, poiché da parte sua il diritto è una forma di issn 2035-584x meccanismi e dei dispositivi contemporanei nel controllo sociale, spingono ben oltre la logica del Panopticon, mediante cui Foucault descriveva le “società disciplinari”. Se non altro è a una diffusione dei medesimi dispositivi di controllo a cui oggi assistiamo38. Sarà comunque lo stesso Foucault, ampliando il proprio campo di ricerca attraverso lo studio della governamentalità biopolitica, in quanto specifico paradigma dell’arte di governo liberale, a proporre un’avanzata analisi di logiche e dinamiche sociali del neoliberalismo contemporaneo39. Con la governamentalità la compenetrazione tra economia e politica diviene completa, tanto che sono gli stessi criteri formali dell’economia ad entrare a pieno regime performativo nel funzionamento dei dispositivi del potere40, ovvero fino a configurare tecniche di governo dispiegate in maniera del tutto immanente in seno alla società, secondo la specifica razionalità economica41. Il mercato diviene il luogo fondamentale di «veridizione» continua di un determinato «regime di verità» (un paradigma). Tanto che lo si intenda come “libero” gioco della “domanda-offerta” o della “concorrenza-competitività”, quanto che lo si intenda come “regolato/pianificato”, il mercato deve poter istituirsi e funzionare per riprodurre –appunto- un determinato regime governamentale. Quest’ultimo non basa su di una logica di rinuncia e delega a un sovrano di alcuni diritti, bensì funziona in modo immanente tenendo insieme eterogenei dispositivi, espressione, la Natura una forma di visibilità e la violenza è concomitante o conseguente alla forza, ma non la costituisce». G. Deleuze, Foucault, trad. di P. A. Rovatti e F. Sossi, Napoli, 2002. 38 A modo suo lo sottolineò G. Deleuze, La Société du Contrôle, in Id., Pourparlers (1972-1990), Paris, 1990, pp. 240-247. 39 Il riferimento è, in questo caso, soprattutto M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit. 40 Cfr. M. Koivusalo, Le antinomie del “displacement biopolitico”, in “aut-aut”, luglio-agosto (2000), n. 298, pp. 63-80. 41 Foucault chiama “società” o “società civile” la dimensione correlativa alle tecniche di governo informate dalla razionalità specificamente economica –un “regime di verità”-, da non intendersi però nel tradizionale senso di sfera autonoma rispetto allo Stato e/o il Politico: cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., pp. 237-258. La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica 98 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) al contempo giuridici, politici e, soprattutto, economici. Il management42, la principale tecnica dell’economico, investe ed informa di sé l’agire politico e quello giuridico, i quali assumono i caratteri dell’amministrazione del corpo vitale delle società, sotto gli imperativi dell’effettività e dell’efficacia. In altri termini, si tratterebbe di adeguare la politica e soprattutto il diritto a un paradigma di tipo gestionale, ossia a criteri normativi capaci di orientarsi nella realtà, sulla base di concrete situazioni e specificità, anziché lasciarli agire sulla realtà, secondo i tradizionali criteri di “generalità/universalità” e “astrattezza” delle norme43. Sebbene il concetto di governamentalità non possa propriamente essere sovrapposto a quello di governance44, vanno tuttavia rilevate fra i due forti similitudini. Entrambi i concetti, in effetti, dicono di una crisi che investe le principali categorie giuspolitiche fondanti la modernità occidentale (forma-Stato, democrazia rappresentativa, supremazia della legge, diritto pubblico/diritto privato, divisione dei poteri, ecc). Inoltre, essi rinviano a un effettivo “primato nomico” dell’economia (primato, invero, sempre in bilico tra iconomia ed eco-anomia socialmente deresponsabilizzanti). Parimenti -e perciò-, tanto governance, quanto governamentalità evocano un modello istituzionale “aperto e flessibile”, privo di un determinato centro di potere e affidato a dispositivi eterogenei di produzione 42 In riferimento alla genealogia nella «teologia economica», dell’attuale paradigma biopolitico (e dunque di un certo primato odierno dell’ economico); un paradigma capace di tenere insieme eterogenei dispositivi e relazioni sociali, così argomenta Agamben:«Ciò che tiene insieme queste relazioni è un paradigma che potremmo definire “gestionale”: si tratta cioè di un’attività che non è vincolata a un sistema di norme né costituisce una episteme, una scienza in senso proprio, ma implica decisioni e disposizioni di volta in volta diverse per far fronte a problemi specifici. In questo senso, una traduzione corretta del termine oikonomìa sarebbe, come suggerisce il Liddell-Scott, management.», in G. Sacco, op. cit., p. 12. 43 Si veda a riguardo P. Napoli, Le droit efficace. Aux origenes de la rationalité gestionaire, in “Rivista della Scuola superiore dell’economia e delle finanze”, I (2004), n. 4, pp. 48-75. 44 Sul concetto di governance si veda M. R. Ferrarese, La governance tra diritto e politica, Bologna, 2010. issn 2035-584x normativa, potenzialmente sempre forieri di competizioni e conflitti tra interessi, norme e ordinamenti. In questa cornice quindi, visto il relativo successo del termine, governance rappresenta un reale aggiustamento della moderna democrazia liberale? O non ne suona piuttosto il rintocco funebre? Nato in seno a studi sulla grande impresa, la praticazione del concetto di governance doveva indirizzarsi verso una soluzione consensuale dei conflitti scaturenti con i rapporti di lavoro. Adottato in seguito dalle discipline urbanistiche, il termine diviene soprattutto sinonimo di strategie di ottenimento del consenso riguardo politiche del territorio. Con il neoliberalismo governance assume una connotazione di senso che sembra indicare un’amministrazione dei rapporti sociali esistenti a fronte della crisi della democrazia rappresentativa. Questa polisemia non indica forse una forte ambiguità strutturale che solo una rappresentazione del concetto stesso tenta di occultare? Di certo, se il minimo comun denominatore di tale polisemico termine è rintracciabile nell’idea di costruire un consenso sociale a fronte di conflitti esprimenti istanze, rivendicazioni e/o diritti, diviene necessario comprendere meglio il ruolo e la funzione che la forma-governance intende riconoscere a tali conflitti nel praticare la propria soluzione per un’ordinamentazione sociale. In breve, se la “quarta rivoluzione industriale” è concentrata sulla riproduzione virtuale dell’interazione/comunicazione sociale e sulla riproduzione artificiale della vita –bio-logia-, come può l’ “ordine simbolico”, vale a dire il controllo dell’infosfera e della conoscenza, imporsi sulla società quale forma di ordinamentazione45? Il conflitto entro questa dimensione deve essere ricomposto in forme cripto-autoritative della rappresentazione, nella “dominanza organizzativa” dell’economico anche sul terreno simbolico, o piuttosto non risulta più procrastinabile una ricomposizione sociale e potente di un general intellect46 45 Cfr. V. Olgiati, op. cit. 46 Il concetto di general intellect è stato introdotto da K. Marx, Lineamenti per la critica dell’economia politica, II, cit., p. 403. Tra i numerosi studi che sviluppano tale concetto, segnaliamo qui, congruamente allo svi- La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica 99 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x -non più solo una volonté générale- già pienamente in opera nelle economie e società della conoscenza? Romano Martini è dottore di ricerca in Teorie del diritto e della politica, Università degli studi di Macerata. Tra i suoi lavori: Logica normativa del capitale sociale. Analisi teorico-giuridica dei Grundrisse di Karl Marx, Torino, 2010 [email protected] luppo delle argomentazioni proposte, A. Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo paradigma di accumulazione, Roma, 2007 ed inoltre, il già citato Lessico postfordista, cit. La crisi della democrazia tra rappresentazioni ed economia biopolitica 100 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Sull’interpretazione della disposizione normativa e su i suoi possibili rapporti con l’interpretazione musicale* Marco Cossutta Abstract Parole chiave Ricollegandosi alla possibilità di fondare una teoria generale dell’interpretazione, si accostano due mondi dell’interpretazione: quello giuridico a quello musicale. Si ritiene di poter ravvisare delle similitudini tali da poter ipotizzare che le due forme di interpretazione possano fra loro ricollegarsi, vuoi per quanto concerne la ineliminabile creatività dell’interprete, vuoi per quanto riguardano le procedure di controllo del prodotto di tale attività. Procedure che testimoniano l’aderenza dell’interpretazione-prodotto non tanto al testo originale, quanto alla sensibilità sociale in cui questo trova riproduzione. Emilio Betti; Interpretazione arbitraria; Interpretazione giuridica; Interpretazione musicale; Fedeltà interpretativa; Grafia musicale e linguaggio giuridico; Salvatore Pugliatti. Sommario: 1.Una specificazione; 2. Delimitazione dell’universo di discorso; 3. Vincoli all’attività interpretativa; 4. Alcuni problemi insiti all’interpretazione giuridica; 5. Sull’interpretazone musicale (il contributo di Salvatore Pugliatti); 6. Utili indicazioni tratte dall’interpretazione musicale; 7. Sull’adeguatezza del linguaggio; 8. Per un superamento dell’arbitrarietà. La seconda: “la speculazione moderna accentua nel linguaggio il carattere triadico del significare semantico, per cui esso […] consiste in un processo che si svolge fra tre termini: a) un soggetto, al quale perviene il messaggio del semàntema e che è chiamato ad intenderlo; b) un oggetto, che è […] forma rappresentativa, dalla quale proviene il messaggio; c) un altro soggetto, attualmente o virtualmente presente, che è il fulcro del senso e «parla» attraverso l’oggetto”2. La terza: “il problema dell’intendere è unico e identico negli elementi fondamentali che ne fanno un processo triadico, non ostante il necessario differenziarsi delle sue applicazioni”3. 1- Una specificazione P rima di iniziare il discorso introno all’interpretazione pare d’uopo riportare tre citazioni al fine di definirne i generali contorni. La prima: “il problema interpretativo, in generale, risponde al problema epistemologico dell’intendere. Utilizzando qui una distinzione familiare ai giuristi, quella fra azione ed evento, possiamo provvisoriamente caratterizzare l’interpretazione come l’azione, il cui esito od evento utile […] è l’intendere”1. 1 E. Betti, Teoria generale della interpretazione, cap. II. Citiamo dalla edizione corretta ed ampliata a cura di Giuliano Crifò, Milano, 1990, pp. 157-158. La prima edizione appare nel 1955. 2 - Delimitazione dell’universo di discorso Il discorso che seguirà si colloca nell’ambito della interpretazione giuridica, ma necessita preliminarmente di una delimitazione del 2 Ibidem, p. 205. 3 Ibidem, p. 258. Sull’interpretazione della disposizione normativa 101 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) campo d’indagine ché il sintagma interpretazione giuridica lo designa come troppo ampio. L’intervento verrà pertanto ristretto alla sola interpretazione della disposizione legislativa, che, seguendo le indicazioni di Carnelutti, offerte nella voce Documento (teoria moderna) redatta nel 1937 per il Nuovo digesto italiano, è documento dispositivo frutto di una dichiarazione di volontà. Si tralascia volutamente, in questa sede, ogni questione intorno all’essere o meno della disposizione legislativa un documento dispositivo riproduttivo (ovvero documento che recepisce una dichiarazione di volontà che ha preceduto la redazione del documento stesso), anche se l’opzione prescelta apparirà implicita nel prosieguo del discorso. Si riconosce, infatti, che la disposizione è una forma rappresentativa che, come tutte le forme rappresentative, dà agio all’interprete di indagare il pensiero o lo spirito, per richiamarsi ancora all’opera di Betti, dell’autore della stessa. La costante presenza di tre elementi nel processo interpretativo, ovvero la forma rappresentativa, oggetto dell’attività in parola, l’autore della stessa e l’interprete che pone in essere un’attività cognitiva prima, riproduttiva o normativa poi, offrono, sia pur avendo riguardo ad ambiti di applicazione differenti, la possibilità di riconosce e di delineare una teoria generale dell’interpretazione (da cui al magistero di Emilio Betti), che permette di poter accostare in questa sede musica e diritto. 3 - Vincoli all’interpretazione giuridica Se quanto fin’ora sommariamente richiamato permette la formulazione di una teoria unitaria dell’interpretazione nella triplice accezione di interpretazione ricognitiva, di interpretazione riproduttiva e di interpretazione normativa, ciò non di meno appare fuori dubbio che ogni forma di interpretazione, in considerazione del suo particolare oggetto e delle sue proprie finalità, abbia delle caratteristiche precipue tali da differenziarla sostanzialmente della altre. Nel nostro caso, l’interpretazione giuridica come sopra delimitata, ove la stessa voglia issn 2035-584x manifestarsi come interpretazione normativa4, è costitutivamente guidata da regole, nel senso ristretto di altre disposizioni legislative, preordinate alla (e vincolanti la) attività stessa. Sicché si può predicare d’essere giuridico di un prodotto conseguente ad un’attività interpretativa di un testo legislativo solo se la stessa è stata condotta sotto l’egida delle regole giuridiche sull’interpretazione giuridica5. Non così rigidamente predeterminato sembra lo svolgersi di altre forme di attività interpretative, le quali, pur non potendo manifestarsi in forme sregolate, ritrovano nel generale criterio di fedeltà all’originale l’unico vincolo, il quale, per così dire, appare di natura quasi esclusivamente morale6. In tal senso ed a prima vista, una interpretazione riproduttiva drammatica o musicale, che travalichi tale limite operando un fraintendimento (involontario o volontario) va incontro il più delle volte all’insuccesso (da cui il proverbiale fiasco). In modo diverso procedono le cose nel mondo del diritto, se una interpretazione giuridica, che non rimanga nell’alveo tracciato dalle regole sull’interpretazione, nel nostro caso da prima l’articolo 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, corre il rischio di vedersi, come si suol dire, cassata. Pare in ogni caso che, sia pur su piani diversi, la non ottemperanza dei vincoli posti im4 L’interpretazione con finalità normative mira a condizionare il comportamento; qui l’intendere ha principalmente lo scopo di regolare l’agire attraverso massime ricavate dalla forma rappresentativa oggetto di interpretazione. La disposizione legislativa può essere approcciata dall’interprete anche con altri intenti ed allora, più correttamente, potremmo parlare di interpretazione di un testo giuridico, ma non di interpretazione giuridica (con funzione normativa). 5 In senso ancora più ristretto si predica la giuridicità di tale risultante solo se l’attività che l’ha preceduta è stata posta in essere da un’autorità giuridicamente competente; cfr. in proposito H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, trad. it. Torino, 1975 (ma Wien, 1960), §§ 45-47. 6 Si richiama in ogni caso l’attenzione sull’articolo 20, comma primo, della legge n. 633 del 1941 in materia di Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, ai sensi del quale “l’autore conserva il diritto di rivendicare la paternità dell’opera e di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione od altra modificazione, ed a ogni atto a danno dell’opera stessa, che possano essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione”. Sull’interpretazione della disposizione normativa 102 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) plicitamente od esplicitamente, siano essi di natura morale oppure delle regole giuridiche, sia esiziale per l’interpretazione-prodotto, la quale ritroverebbe un generale rifiuto nei destinatari e nel caso particolare dell’interpretazione giuridica, perderebbe addirittura la sua qualificazione giuridica, tanto da poter generalmente riconosce che la fedeltà, sia intesa in senso ampio di fedeltà allo spirito dell’autore, che nel senso più ristretto di fedeltà alla legge7, debba necessariamente informare l’attività dell’interprete. 4 - Alcuni problemi insiti all’interpretazione giuridica Ritornando allo specifico della interpretazione giuridica, i limiti ed i criteri propri ad una corretta interpretazione sarebbero da ricercarsi in primis nel già richiamato articolo 12 delle Preleggi. Senza entrare nel merito dello stesso, appare in ogni caso evidente che la stessa disposizione menzionata debba essere a sua volta sottoposta ad un processo interpretativo, la cui risultante, come sembra assodato scorgendo il dibattito dottrinale, non sarebbe certamente univoca. È stato osservato come “le norme sull’interpretazione non impongono – a differenza delle norme interpretative dettate per interpretazione autentica – la conclusione concreta di un giudizio logico, ma stabiliscono solo limiti e criteri, principali o sussidiari, entro l’ambito dei quali quella conclusione va liberamente cercata”8. Risulta pertanto sottoposta a serrata critica la concezione, ben radicata nella cultura giuridica moderna, per la quale l’attività interpretativa ed applicativa della legge debba venire guidata esclusivamente da criteri logici, di natura deduttiva, quasi che le proposizioni conclusive di tale operazione possano venire 7 L’espressione è tratta dall’opera di Uberto Scarpelli; cfr. in particolare i saggi I magistrati e le tre democrazie e Il metodo giuridico apparsi sulla “Rivista di diritto processuale”, rispettivamente sulle annate XXV (1970), n. 4 e XXVI (1971), n. 4. 8 E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (teoria generale e dogmatica). Citiamo dalla edizione curata da G. Crifò, Milano, 1971, pp. 248-249. L’opera apparve nel 1949. issn 2035-584x annoverate fra i giudizi analitici di carnapiana memoria9. Quale antesignano dell’incontro fra il mondo del diritto ed il positivismo giuridico può essere citato l’Alfredo Rocco de La sentenza civile, per il quale, “ogni applicazione della norma giuridica, da chiunque, in qualunque forma, ed a qualunque scopo sia fatta, presuppone sempre un giudizio logico, e precisamente un sillogismo, in cui la premessa maggiore è data dalla norma, la minore dal singolo rapporto di cui si tratta, la conclusione da una norma di condotta speciale per quel dato rapporto, desunta dalla norma generale”10. Contro tale posizione si esprime, come noto, con toni polemici che sfiorano l’irriverenza, il Guido Calogero de La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione11. Se il testo di Calogero può apparire, a ben vedere e paradossalmente, marginale alla dottrina giuridica, proprio nei suoi gangli vitali si manifesta l’avversione all’idea che l’interpretazione della legge si debba risolvere in un’automatica applicazione del testo. In proposito Salvatore Satta, sulla scorta delle riflessioni di Giuseppe Capograssi12, 9 In proposito, più di cinquanta anni fa, è stato rilevato all’interno della prospettiva processuale del diritto: “l’aspirazione ad un discorso interpretativo svolto secondo il rigoroso procedimento definitorio e sillogistico, cioè come una ricerca di carattere logico-formale, indifferente ad ogni contenuto di esperienza, può dirsi in fondo il motivo, latente o esplicito, di tutte quelle tendenze metodologiche che vorrebbero risolvere ogni problema e ogni dubbio interpretativo mediate l’esplicazione, in definitiva tautologica, di ciò che logicamente è già tutto contenuto o nella singola norma, o nel principio, o nel sistema, o nell’intero ordinamento. Vale a dire in tutte quelle tendenze che vanno dalle tradizionali posizioni del dogmatismo e del concettualismo tuttora resistenti e rinnovatesi nel mondo dei giuristi, attraverso la mediazione gnoseologicamente più approfondita del formalismo, fino a quegli sviluppi recentissimi che vorrebbero adattare ai problemi della giurisprudenza i criteri di validità e i procedimenti elaborati dalla logica simbolica, con un riferimento ancor più rigoroso alle esigenze del formalismo logico e del matematismo”, così L. Caiani, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, 1954, p. 146. 10 La sentenza civile. Saggi, Torino, 1906, p. 5. 11 Cfr. La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione, Padova, 1937, p. 50. 12 Del pensatore di Sulmona in argomento si vedano almeno i saggi Intorno al processo (ricordando Giuseppe Sull’interpretazione della disposizione normativa 103 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) ebbe a rilevare come “difficilmente si possono ritenere esaustive le comuni definizioni della giurisdizione, che anzi in certo qual modo, in quanto presuppongono un sistema chiuso, sono la negazione della giurisdizione e comunque ne sminuiscono la portata. La dimostrazione più evidente è data dalla definizione della giurisdizione come attuazione della legge […]. Il fatto è che nella riferita definizione la legge è concepita come una volontà esaustiva di tutta la realtà, un esterno comando, che è in rapporto meramente formale con la giurisdizione, la quale si limita appunto ad attuare quel comando. È come se si riducesse l’ordinamento ad uno spettacolare giuoco delle parti, di cui una pone la legge, l’altra l’applica, l’una comanda, l’altra trasmette il comando e obbedisce o fa obbedire”13. Il processual-civilista, che ritiene la giurisdizione essere attuazione di giustizia, ci fa intendere senza mezzi termini, che la legge, il testo che il giurista è chiamato ad interpretare, non esaurisce la realtà giuridica e che l’ordinamento giuridico, a cui l’interprete concorre, non si manifesta con la mera, pedissequa, applicazione della legge. Per Satta, infatti, “se l’ordinamento vive nel concreto, l’azione, la comune azione di tutti gli uomini è l’ordinamento, perché nell’azione si chiude il ciclo che si è idealmente iniziato con la posizione della norma”14. Sicché qui si tratta, prendendo le mosse dal testo, di ri-produrre, di ri-creare, la legge, ovvero, riprendendo i termini propri alle speculazioni di Massimo Severo Giannini e di Vezio Criusafulli15, di trarre dalla disposizione la norma. Chiovenda), ora in Opere, vol. IV, Milano, 1959 (ma 1938) e Giudizio scienza verità processo, ora in Opere, vol. V, Milano, 1959 (ma 1950). 13 Così sub voce Giurisdizione (nozioni generali), in Enciclopedia del diritto. 14 Ibidem. 15 Cfr. Massimo Severo Giannini, Alcuni caratteri della giurisdizione di legittimità delle norme, in “Giurisprudenza costituzionale”, I (1956), n. 4-5, a cui segue il contributo di Vezio Crisafulli, Questioni in tema di interpretazione della Corte Costituzionale nei rapporti con l’interpretazione giudiziaria; si rimanda altresì alla voce Disposizione (e norma) redatta da Crisafulli ed apparsa nel 1964 sulla Enciclopedia del diritto. issn 2035-584x Rileva in proposito, ancora sulla scorta del pensiero capograssiano, Enrico Opocher come il diritto non può “esser posto indipendentemente da un continuo confronto con la cangiate realtà di quel mondo umano dal quale esso sorge come norma astratta ed al quale ritorna come definizione di concreti rapporti. Come se l’applicazione, sia pure intesa in quello che io preferirei chiamare il suo momento finale di osservanza spontanea e di accettazione vincolante e conseguente realizzazione forzata, non attuasse la piena posizione del diritto […] giacché ciò che si pone indipendentemente dal processo di attuazione non è il diritto e nemmeno la norma astratta, bensì la fonte da cui la norma discende”16. 5 - Sull’interpretazione musicale (il contributo di Salvatore Pugliatti) L’osservatore si trova di fronte ad una prospettiva, nella quale si annovera la prospettiva processuale del diritto17, che, pur non negando l’esistenza e la cogenza di regole sull’interpretazione, ovvero l’obbligo che ha il giurista di attenersi strettamente alle disposizioni, ritiene, senza per questo richiamarsi in modo esplicito alla Freirechtsbewegung, che la posizione della norma debba scaturire, in ultima istanza, da una libera ricerca, che suppone l’adeguamento della disposizione alla realtà sociale nella quale si concretizza in quanto norma. A prima vista, questo modo di procedere si fonda su di una (solo apparente) insanabile contraddizione, i cui due poli sono rappresentati, per un verso, dall’obbligo di attenersi alle regole e per altro, dalla necessità di una libera ricerca del diritto. Oltre a questa questione si palesa un altro e più pregante problema offerto dal pericoloso allontanamento dalla linea della certezza (formale) del diritto segnata dalla fedeltà alla legge. La stessa questione pare possa venire ravvisata anche nell’ambito della interpretazio16 Rapporti tra teoria generale ed interpretazione nella prospettiva della «applicazione» del diritto, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, XLII (1965), n. 3. 17 Cfr. in argomento F. Cavalla, La prospettiva processuale del diritto. Saggio sul pensiero di Enrico Opocher, Padova, 1991. Sull’interpretazione della disposizione normativa 104 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) ne musicale, se l’indagine storica ci segnale come, a detta di Richard Wagner, esecutore ideale è l’interprete dotato in pari tempo di talento inventivo e capacità di assimilare ed eseguire il pensiero altrui18. Anche nel campo musicale pertanto si propone la contraddizione palesatasi nell’incedere d’una certa prospettiva giuridica, e si ripropone anche il conseguente dibattito dottrinale che vede, ad esempio, il Parente schierarsi a favore della assoluta identità con il pensiero dell’autore19, per una figura di esecutore passivo e perfettamente obiettivo, anche se questa esigenza è, a suo dire, impossibile da raggiungersi e rimane sul piano ideale data “la insopprimibilità del personale spirito artistico dell’interprete”20, ed a lui opporsi il Cione21 ed anche il Pugliatti, il quale, abbandonando momentaneamente gli studi giuridici, esige nell’esecuzione “una umana partecipazione, che di quei segni sparsi e morti faccia una sola parola viva, intieramente sciogliendo ogni frammento esteriore, oggettivo, nella libera creatività del soggetto”22. Soffermiamoci brevemente sullo sconfinamento di Pugliatti dal mondo del diritto a quello dell’interpretazione musicale23. Il no18 Così per lo meno Marc Pincherle, Interpretazione dello strumentista, in Encyclópèdie française (citato da E Betti, Teoria generale della interpretazione, cit., p. 760). 19 “L’esecuzione dell’opera d’arte è da riferire ad una funzione pratica e non lirica, ed è insomma tecnica, non creativa […] l’originalità può valere nell’ambito della creazione, non già in quello della resurrezione del passato, rispetto al quale ogni originalità o soggettività si trova in arbitrio”, A. Parente, La musica e le arti, Bari, 1936. 20 Ibidem. 21 E. Cione, Problemi di estetica musicale, in “Logos”, 1938. 22 Il testo di riferimento è il quasi introvabile saggio su L’interpretazione musicale, redatto dal Pugliatti nel settembre del 1938 e pubblicato a Messina (edizioni di «Secolo nostro») nel 1940. 23 Come noto, la produzione letteraria di Pugliatti abbina scritti giuridici a riflessioni di carattere letterario e musicologico. Se fra le prime vanno annoverati gli scritti Interpretare la poesia, Messina, 1932, su Salvatore Quasimodo e sul Mondo poetico di Vann’Antò, Messina, 1962; fra i secondi, oltre alla monografia che verrà qui richiamata, spiccano i saggi Canti di primitivi, Messina, 1942, Carattere dell’arte di Vincenzo Bellini, Messina, 1946, “Semantica patetica” della musica, Messina, 1948, Chopin e Bellini, Messina, 1952 e Le musicae traditiones issn 2035-584x stro autore, all’interno di un itinerario speculativo di chiara ispirazione idealistica24, che lo porta ad enunciare il suo “credo nella realtà e nella creatività perenne dello spirito”25, ritiene come “i fatti della esperienza, carichi dei segreti sensi dell’umano (e di quell’insopprimibile divino che è nell’umano), non si lasceranno mai ridurre a cifre o segni, da legare con tecnico giuoco di trasformazioni e combinazioni e semplificazioni. Meno che mai i fatti dell’esperienza artistica, che sembrano destinati a riscattare la nostra esistenza dal ritmo monotono della quotidianità, e a realizzare l’unità superiore della vita e del sogno”26. Per Pugliatti l’attività interpretativa si rivolge, anche nell’ambito musicale, ad un testo da intendesi “come necessario limite esterno all’attività spirituale”27; ma il testo non va approcciato con intento meramente pratico28, dato che attraverso l’interpretazione “si attua una nuova sintesi creativa, nella quale l’opera del compositore (o del poeta) opera come un fatto dell’esperienza dell’interprete”29. In questo senso, “i segni del testo possono essere soltanto un veicolo attraverso il quale di Francesco Maurolico, Messina, 1968. Va ricordato che l’Università degli Studi di Messina dedicò al filone di ricerca musicologico il convegno “Salvatore Pugliatti e l’interpretazione musicale”, 9 e 10 febbraio 2004. 24 Cfr. ibidem, pp. 71-80. 25 Ibidem, p. 9. Per Pugliatti, “ciò vuol dire che l’interprete si definisce per virtù di una funzione creativa, la quale, nell’atto, può essere più o meno intensa, ma è sempre e necessariamente presente”, ibidem, p. 22. 26 Ibidem, p. 10. 27 Ibidem, p. 17 28 Pugliatti in tal modo esemplifica l’interpretazione “piegata a fini che sono esclusivamente pratici. La ricostruzione di un testo mutilo offrirà la materia al futuro interprete della poesia; la determinazione del senso della legge, ne renderà possibile l’applicazione al caso concreto; la traduzione da una ad un’altra lingua, può proporsi il modesto compito di apprestare uno strumento atto a stimolare la curiosità e l’interesse per la conoscenza del testo originale, o ad aiutare a vincere, per l’appunto, le difficoltà di ordine filologico. […] Di questa funzione pratica della interpretazione non si disconosce l’utilità; ma non è certo da ritenere che essa sia la funzione propria dell’interpretazione, né che su questo piano possa dirsi a pieno spiegato ed esaurito il fatto interpretativo”, ibidem, p. 21. 29 Ibidem, p. 38. Sull’interpretazione della disposizione normativa 105 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) l’interprete può prevenire alla piena intelligenza dell’idea che mosse il compositore o il poeta. L’interprete poi, se vuole – come si dice comunemente – rievocare o ricreare l’opera del compositore e del poeta (o di qualsiasi altro artista) deve trovare quell’unica e inedita parola che esprime il mondo dei propri sentimenti, del quale è entrata a far parte anche l’opera da interpretare, divenuta anch’essa un momento della sua esperienza”30. Sicché per il Pugliatti, il quale più volte nel testo richiamato prende criticamente le distanze dalla prospettiva interpretativa di Alfredo Parente31, interpretare è “riesprimere l’idea (poetica) già colta nella sua pienezza. [… N]uovamente esprimere, poiché l’idea poetica (e dunque tutta l’opera nella sua totale pienezza ideale) fa parte dell’esperienza dell’interprete”32. Pugliatti è conscio delle questioni sollevate, fra gli altri dallo stesso Parente, in merito alla possibile deriva arbitraria di una interpretazione lasciata per intero al gusto riproduttivo dell’interprete, non più mero esecutore di opera altrui, ma vero e proprio protagonista del processo di creazione dell’opera artistica. A tale proposito, pur non sposando compiutamente una prospettiva ermeneuticheggiante, come appare, in ambito musicale, quella proposta da Ferdinando Ballo33, ritiene come “l’interprete in quanto ricreatore [è] , senz’altro, creatore di una realtà artistica”34, ma questo atto creativo non sfoci necessariamente nell’arbitro nel momento in cui esso appaia ancorato alla realtà storico-culturale nella quale sorge. Infatti, per Pugliatti, è ben vero che l’opera dell’interprete “come realtà artistica, è nuova creazione, è realtà dell’interprete, e non può esser d’altri; 30 Ibidem, p. 59. 31 Si veda in argomento, oltre al testo di Parente già richiamato, la polemica fra lo stesso e Cione sui fascicoli del 1932 della rivista “La rassegna musicale”. 32 S. Pugliatti, L’interpretazione musicale, cit., p. 139. 33 Pugliatti richiama espressamente il saggio di Ballo, Interpretazione e trascrizione, apparso nel 1936 sulle pagine de “La rassegna musicale”; cfr. la richiamata L’interpretazione musicale a pp. 31 e segg., ove si riporta un passo dello stesso Ballo, ai sensi del quale “la validità storica del suo gusto personale è la misura della validità della sua interpretazione”. 34 Ibidem, p. 46. issn 2035-584x espressione del suo mondo, realizzazione della sua personalità. Nella quale espressione si sentirà, sì, l’eco della personalità del compositore, ma non quella soltanto; tutte le esperienze di vita, di cultura e d’arte saranno presenti, ma come voci indistinte, tutte disciolte e insieme plasmate nella forma nella quale il mondo dell’artista si è realizzato”35. Se pertanto è l’attività interpretativa ad offrire una realtà all’opera del compositore, quest’opera di oggettivizzazione non può essere condotta attraverso l’utilizzo di mere tecniche esecutive o riproduttive che dir si voglia; infatti “l’interprete deve trovare (propriamente: creare, non scoprire) di ogni nota (e di ogni sillaba) il giusto suono che le attribuisce quella espressività unica nella quale la visione artistica dello stesso interprete si concreta. Quel che si dice: tocco del pianista, cavata del violinista, non sono astratte attitudini tecniche (o non sono questo soltanto), ma, nell’atto, la virtù del giusto dosaggio sonoro, di quello che dà alla cellula del discorso musicale la sua piena capacità espressiva. E questa virtù deve anche possedere il declamatore o l’attore teatrale, poiché anche la parola, per essere espressiva, quando è pronunciata, deve attingere la sua giusta sonorità: che è quella sola, concreta, e non altra”36. Non vi sono pertanto “regole e princìpi che compongano una retorica musicale […] l’interprete che voglia dire qualcosa, che voglia esprimere quel che gli detta dentro (ed altro non potrà esprimere) non potrà mai appoggiarsi alla regola o al precetto, irreali nella loro astrattezza, ma deve creare nell’atto quella misura, quel timbro, quella melodia nella quali può vivere la sua parola come elemento dell’espressione”37. La posizione del giurista ritrova implicitamente il più che autorevole assenso di Wihelm Furtwängler, che ritiene essere il compito dell’interprete d’indole spirituale piuttosto che tecnica, la quale si acquisisce più con il cosiddetto trainig che con l’educazione della propria personalità. Sicché nel mondo della musica ritroviamo rispecchiati gli stessi problemi e gli stessi di35 Ibidem. 36 Ibidem, p. 60. 37 Ibidem, p. 65. Sull’interpretazione della disposizione normativa 106 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) battiti che caratterizzano l’approccio giuridico all’interpretazione. Da un lato la richiesta di assoluta fedeltà al testo, sia questo rappresentato dal pentagramma e dalla disposizione legislativa, che porta ad esigere dall’interprete una interpretazione letterale; dall’altro la tensione da parte dell’interprete a partecipare, seppure dal suo punto operativo subordinato all’autore, alla realizzazione pratica dell’opera artistica, per un verso, e del procedimento di ordinamento giuridico della società, per l’altro. Non appare fuori luogo rammentare che proprio nell’ambito giuridico, ove la prospettiva della fedeltà al testo ha radici profonde, si usi contrapporre certezza, derivante da questa fedeltà, ad arbitrio frutto di una eccessiva libertà interpretativa (abbiamo anche osservato come il termine arbitrio sia utilizzato anche nell’ambito della critica musicale, ad esempio dal Parente qui richiamato). 6 - Utili indicazioni tratte dall’interpretazione musicale La contrapposizione a cui siamo giunti potrebbe apparire insanabile, ovvero risolvibile solo con un’aproblematica scelta di campo se proprio un testo sull’interpretazione musicale non ci offrisse la possibilità di uscire da tale scomoda posizione. Il testo è L’interpretazione musicale di Giorgio Graziosi38. Nel testo richiamato l’autore, sin dalle prime battute, pone quello che per lui è il nucleo del problema dell’interpretazione musicale e, indirettamente, anche di quella giuridica. Infatti, Graziosi ritiene come “prima di indagare sul rapporto testo-interpretazione, sarà da vedere l’altro: musicistatesto. In che misura, cioè, la grafia musicale assorbe ed esaurisce le intenzioni di chi pensa e scrive musica?”39. Si vede bene come la questione è centrale proprio avuto riguardo al concetto di fedeltà che si pone, in certa prospettiva, quale spartiacque fra la certezza e l’arbitrio. 38 Torino, 1952. 39 Ibidem, p. 18. issn 2035-584x Il linguaggio, per usare un termine generale, utilizzato dal compositore e dal legislatore, è tale da ammettere un’unica ed univoca interpretazione-prodotto, oppure è la stessa struttura del linguaggio che induce l’interprete ad intervenire attivamente con la propria personalità, artistica o sociale, sulla traccia segnata dall’autore al fine di offrirne concretezza? Graziosi non ha dubbi in riguardo; proprio perché inadeguata a rendere “il senso esecutivo fisicamente preciso e mai variabile”, la grafia musicale “è completa e perfetta; di quella perfezione e completezza inerente alla nostra arte che, non essendo mai univoca, definita e schietta ma multipla e cangiante, s’è scelta una adeguata scrittura. Tale da fissarne l’essenza e nel contempo non compromettere la inafferrabile, rotante, potremmo dire, esistenza”40. Tutto ciò a significare come “l’opera musicale non è la pagina, ma è nella pagina”41. Grafia, quindi, quella musicale – che ai profani erroneamente richiama i segni di un linguaggio formalizzato – atta ad adeguare la pagina vuoi alla personalità artistica dell’esecutore, che non è, in questa prospettiva, un passivo ripetitore, vuoi, aggiungiamo noi, al gusto predominante nel contesto socio-culturale a cui questa (esecuzione) è destinata. Il che va a significare che la concatenazione di segni sul pentagramma, che forma nel suo insieme una composizione, non è, per il Graziosi qui richiamato, applicabile come, né riconducibile per sua natura a, un algoritmo42, ove la tecnica e l’incedere meccanicistico correttamente, all’interno di tale logica, elimina l’inventiva del soggetto percipiente sino a trasformarlo in un automa. Un’interpretazione meccanicistica appare impossibile non per 40 Ibidem, pp. 16 e 24. 41 Ibidem, p. 17. 42 L’algoritmo può essere definito come “l’insieme, ordinato in sequenza, di tutte le regole precise, inequivoche, analitiche, generali, astratte, formulate ex ante (cioè prima che si presentino concretamente questioni da risolvere e senza riferimento specifico ad esse), la cui scrupolosa e letterale applicazione, da parte di chiunque, lo pone infallibilmente in grado di conseguire il risultato giusto (o esatto o voluto, come sia più appropriato dire nei singoli casi)”. R. Borruso - C. Tiberi, L’informatica per il giurista. Dal bit a Internet, Milano, 2001, p. 249. Sull’interpretazione della disposizione normativa 107 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) deficienza della forma rappresentativa o per l’arbitrio dell’interprete, che coscientemente fraintende la forma al fine di far truffaldinamente emergere la sua personalità artistica offuscando quella dell’autore, due inconvenienti, i difetti del linguaggio e la sregolatezza dell’interprete ai quali facilmente si potrebbe porre rimedio, ma per l’intrinseca natura dell’oggetto del nostro parlare: della musica rispetto alla quale si può riconoscere come “ogni musica scritta è infinite musiche”43. Il sapere musicale non si declina attraverso procedure proprie al sapere logico-deduttivo; le sue proposizioni non contengono giudizi analitici, perché non sorgono dalla meccanica manipolazione dei segni secondo assiomi aproblematicamente posti, appartengono ad un altro mondo, magari definito da una estremizzazione del positivismo logico, come privo di senso, ma che attraverso la personalità artistica dell’esecutore e quindi con la sua tensione all’interpretazione riproduttiva, fa nascere nell’uditorio emozioni, mettendolo in movimento e facendolo reagire. In questo senso si può affermare come “nei riguardi del compositore la grafica è un mezzo perfetto di comunicazione, in quanto ne esaurisce tutte le intenzioni, se sono di musicista e non di scienziato”44. Il tutto con buona pace di quello Strawinski, il quale, forse richiamandosi all’Arrigo Boito del celebre motto fortunate le arti che non hanno bisogno di interpreti, auspica l’avvento e l’affermarsi di una esecuzione meccanica della musica per mezzo di apparecchi elettromagnetici che, eliminata la mediazione dell’interprete, pongano, per così dire, in diretto contatto l’autore dell’opera ed il fruitore della stessa, offrendogli l’unica esecuzione assolutamente corretta. Ancora una volta in opposizione radicale con l’idea di “una musica che non ha una bellezza, ma infinite bellezze, tante quante sono le virtualità formali, esecutive (in senso stretto: sonore) implicite nella grafia e che la grafia permette”45. Qualora volessimo non accondiscendere a questo incedere polemico dello Strawinski, 43 G. Graziosi, L’interpretazione musicale, cit., p. 40. 44 Ibidem, p. 28. 45 Ibidem. issn 2035-584x rimane aperto il problema di quella che genericamente viene definita la fedeltà all’autore. Possiamo ipotizzare, una volta scartata la prospettiva semplicisticamente definibile come logico-deduttiva, delle procedure di controllo tali da accertare un rapporto di fedeltà, questa volta però non di sapore formale, fra l’interprete e l’autore? Prima di affrontare questa che sarà l’ultima questione, ritorniamo brevemente al mondo del diritto, ove i problemi possono venire declinati nel medesimo modo. 7 - Sull’adeguatezza del linguaggio Infatti, parimenti a quello dell’interpretazione musicale, anche l’oggetto dell’interpretazione giuridica, a maggior ragione se ci riferiamo alla disposizione normativa, è un testo redatto per tramite di segni rappresentativi il cosiddetto linguaggio ordinario. Un linguaggio che il più delle volte viene definito difettoso. Ovviamente il termine di paragone, per poter predicare tale qualifica al linguaggio usato dai giuristi, è anche qui il linguaggio formalizzato, ove ad ogni segno corrisponde un unico significato. In questo senso si apre, sulla scorta della riflessione di Alf Ross46, l’analisi dei difetti semantici e sintattici d’un linguaggio che, sia pur utilizzando termini settoriali, rimane pur sempre aperto ad ambiguità e vaghezze tali da rendere fraintendibile il suo reale (nel senso di corretto) significato, il quale dovrebbe, dato che ci troviamo nell’ambito della interpretazione normativa, rettamente indirizzare il comportamento del destinatario. Sorge pertanto legittima, anche in questo particolare ambito, la domanda intorno all’adeguatezza o meno di tale linguaggio ad esprimere in modo non dubbio l’indicazione normativa, a maggior ragione avuto riguardo alla disposizione contenuta nell’articolo 12, primo comma, delle Disposizioni sulla legge in generale, la cui prima parte è incentrata sul significato proprio delle parole (la seconda introduce il riferimento all’intenzione del legislatore). 46 Cfr. Diritto e giustizia, trad. it. Torino, 1965 (ma Copenaghen, 1953), §§ 24-27. Sull’interpretazione della disposizione normativa 108 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) Per incidens va osservato come anche a seguito di quanto sopra fin troppo succintamente accennato si sviluppino gli studi di legistica o di redazione del testo normativo, i quali, nei loro sviluppi più coerenti, sempre in considerazione ai presupposti in base ai quali sorgono, propongono un itinerario di semplificazione, purificazione e, di fatto, formalizzazione del linguaggio giuridico, processo improntato sul rapporto di casualità, in modo tale da tramutare le disposizioni in veri e propri algoritmi da applicarsi automaticamente (e nel far ciò sviluppano coerentemente premesse teoretiche presenti nella scienza giuridica moderna sin dai suoi albori)47. Se, come evidenziato, esiste una forte e ben radicata tendenza a ritenere che la certezza del diritto si realizzi nella pedissequa adesione al dettato legislativo (da cui un’idea di fedeltà alla legge di sapore prettamente formalistico), non per questo non sussistono in ambito giuridico prospettive che riconoscono proprio nelle cosiddette imperfezioni del linguaggio, sulle quali si sviluppa l’intervento non passivo dell’interprete, il momento centrale ed ineliminabile dell’esperienza giuridica. Allo stesso modo della grafia musicale, sulla quale interviene il Giorgio Graziosi qui richiamato, anche all’interno del discorso giuridico riscontriamo elementi non definiti, qui esemplificabili con il richiamo alle clausole generali o ai concetti giuridicamente indeterminati rintracciabili nelle disposizioni normative, le quali fissano così principi generali la cui determinazione nel caso specifico è lasciata all’attività interpretativa posta in essere dalla giurisprudenza, la quale di volta in volta adegua il significato di un significante vago o ambiguo in modo tale da riconnettere la norma tratta dalla disposizione ai valori ed agli interessi contingentemente presenti nella realtà sociale in cui troverà applicazione. 47 Cfr. G. Taddei Elmi, Corso di informatica giuridica, Napoli, 2000, pp. 48 e segg., A. Amato Mangiameli, Diritto e cyberspace. Appunti di informatica giuridica e di filosofia del diritto, Torino, 2000, pp. 132 e segg,, A. E. Perez Luño, Saggi di informatica giuridica, trad. it. Milano, 1998, pp. 75 e segg. Più in generale sul procedimento di purificazione del linguaggio insito alle procedure logico-formali si veda la voce di H. Putnam, Formalizzazione, in Enciclopedia Einaudi. issn 2035-584x Tutto ciò non sarebbe possibile ove ci si trovasse ad operare con un linguaggio formalizzato e con la logica che ne presiede lo svolgimento. Anche in questo caso, quindi, non si riscontra una granitica posizione della norma, che si ritrova a coincidere perfettamente con il testo della disposizione, ma alla possibilità di trarre dalla disposizione una molteplicità di possibili significati, che possono ritrovare la loro giuridicizzazione nell’ambito del giudizio. Il che implica non la presenza di una predeterminata certezza del diritto – o di una giustizia prefigurata al caso di specie – ma la ricerca e la realizzazione concreta della certezza nel caso in giudizio anche attraverso l’attribuzione alla disposizione di un significato che appaia consono alla risoluzione della controversia. 8 - Per un superamento dell’arbitrarietà La rottura con la tradizione della pedissequa fedeltà al testo, ovvero, per quanto concerne il mondo del diritto, con quella prospettiva legolatrica48, che ha caratterizzato buona parte della scienza e della prassi giuridica degli ultimi due secoli49, pare raccogliere fra i suoi portati il forte depotenziamento del valore della certezza del diritto50. A ben vedere è soltanto una particolare rappresentazione della certezza del diritto che risulta menomata da questa prospettiva critica: la certezza di sapore matematico. Seguendo tale itinerario critico appare, infatti, possibile recuperare un altro genere di certezza; nel far ciò l’accostarsi ancora una volta al mondo dell’interpretazione riproduttiva può sicuramente essere d’aiuto. Rileva Emilio Betti nel § 39-a della sua Teoria generale della interpretazione, dalla quale abbiamo preso le mosse, come “si può dire che anche 48 Cfr. in argomento lo scritto di P. Moro, Il giurista telematico. Informatica giuridica ed etica della mediazione. In P. Moro (a cura di), Etica informatica diritto, Milano, 2008 (con contributi di M. Cossutta, P. Heritier, F. Macioce, G. Marzotto, A. Montanari, F. Puppo, C. Sarra, R. Scudieri). 49 Cfr. il testo di P. Grossi, L’Europa del diritto, Roma-Bari, 2007 e, ancor prima, S. Cotta, La sfida tecnologia, Bologna, 1968. 50 Cfr. in merito le riflessioni di N. Bobbio, Teoria della norma giuridica, Torino, 1958 e, dello stesso autore, Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino, 1960. Sull’interpretazione della disposizione normativa 109 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x in materia d’interpretazione riproduttiva si sia verificato il fenomeno della divisione del lavoro che si è prodotto nelle varie branche dell’attività umana. La figura d’interprete cui ha messo capo nella fase più recente la evoluzione differenziatrice delle attività interpretative, ha assunto una funzione mediatrice, non solo fra autore e pubblico, ma anche fra autore e immediato esecutore dell’opera”. Sicché, nella visone del Betti, alla messa in scena di un’opera, ovvero al suo fondersi armoniosamente con la realtà socioculturale nella quale e per la quale è ri-prodotta, concorrono più protagonisti: dall’autore della stessa, agli attori o esecutori, al direttore, al pubblico “ne’ riguardi del quale si presuppone il gusto atto a vigilare le soluzioni dei problemi espressivi che l’opera di riproduzione presuppone”, ed infine il critico che ha “funzione di collaborazione, rivolta a rendere avvertiti gli interpreti e il pubblico”. Egli ci suggerisce come “il regista e il direttore d’orchestra, attori e esecutori, pubblico e critici, sono insieme chiamati a còmpiti ermeneutici differenziati che, insieme integrandosi, dovrebbero servire ad una ideale collaborazione, rivolta ad intendere in una grande comunione d’intelligenza il senso del poema drammatico o musicale”51. All’interno di questa prospettiva il prodotto dell’attività interpretativa è, di fatto, il frutto della collaborazione di forze diverse, ognuna delle quale partecipa all’operazione volta ad intendere il significato del testo originale, ed il significato prodotto viene a sua volta sottoposto al controllo (ancora Betti: “non in senso matematico, ma dialettico ed ermeneutico”52) dell’intera comunità che ha partecipato, sia pure in differente maniera, a determinarlo. In questo contesto è l’armonico fondersi con un complesso socio-culturale che determina il successo dell’interpretazione, non la sua matematica aderenza al testo; il fiasco, a cui si faceva cenno nel paragrafo secondo, non è tanto determinato dalla deficienza tecnica, comprensiva questa del fraintendimento del testo, quanto dall’essere l’interpretazione in disarmonia con le aspettative socio-culturali presenti in un determinato contesto e sempre in evoluzione. Evoluzione a cui deve tenere dietro l’interpretazione riproduttiva per rimanere in sintonia con l’ambito in cui è proposta; è la rottura delle aspettative che, in massima parte, determina il fiasco. Si vede bene come l’interpretazione fedele non deve corrispondere soltanto al senso voluto dall’autore del testo, ma anche e soprattutto al contingente recepimento dello stesso nel contesto socio-culturale in cui viene vivificato (Betti direbbe “nel senso cioè di una corrispondenza di sensi” e non di una geometrica identificazione), perché in buona sostanza è questo contesto che lo ri-produce e che ne certifica la fedeltà. È il controllo dialettico, posto in essere dai partecipanti (ancora richiamiamo i soggetti indicati dal Betti: regista e direttore d’orchestra, attori e esecutori, pubblico e critici) ad una esperienza artistica che ne certifica o meno la corrispondenza al senso comune e, con questa, ne proclama o meno il successo. Lungo questo itinerario può collocarsi anche l’inesauribile ricerca della certezza del diritto, la quale lungi dall’apparire rigorosa correttezza logico-formale (in vero irraggiungibile dato il materiale con cui il giurista opera), più modestamente si palesa quale fragile certezza dialettica53 capace però di istituzio- 51 Così a pp. 644-645 della edizione citata. Non appare fuorviante rammentare come il Luigi Pirandello di Questa sera di recita a soggetto rileva, per tramite di un suo personaggio, il Dr. Hinkfuss: “ciò che a teatro si giudica non è mai l’opera dello scrittore, ma questa o quella creazione scenica che se n’è fatta, l’una diversa dall’altra; tante, mentre quella è una. […] Se un’opera d’arte sopravvive è solo perché noi possiamo ancora dismuoverla dalla fissità della sua forma; sciogliere quella sua forma in noi in movimento vitale; e la vita gliela diamo allora noi; di tempo in tempo diversa, e varia dall’uno all’altro di noi; tante vite e non una”. 52 Teoria generale dell’interpretazione, cit., p. 645. 53 Cfr. F. Cavalla, Il controllo razionale tra logica, dialettica e retorica, in Atti del XX Congresso Nazionale della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica, Padova, 1998, p. 41 (con contributi di M. Taruffo, B. Montanari, G. Fiandaca, P. Comanducci-R. Guastini, G. Pecorella, M. Jori, A. Pintore, D. Zolo, A. Margara, V. Albano, L. Alfieri, P. Borsellino, G. Incorvati, L. Ferrajoli, V. Villa, M. Fracanzani, M. A. Cattaneo, G. Insolera, P. Pittaro, G. Melis) e, dello stesso autore, Retorica giudiziale, logica e verità, in F. Cavalla (a cura di), Retorica processo verità. Principî di filosofia forense, Milano, 2007 (con contributi di A. G. Conte, S. Fuselli, M. Manzin, P. Moro, C. Sarra, P. Sommaggio, D. Velo Dalbrenta, F. Zanuso). Sull’interpretazione della disposizione normativa 110 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) nalizzarsi nel contesto sociale non per atto di arbitraria volontà (come taluni ritengono che debba avvenire una volta abbandonato il regolo), ma in seguito alla sua aderenza ai luoghi comuni (èndoxa), che verificano la corrispondenza dell’interpretazione-prodotto “al contesto storico, o culturale, o linguistico in cui tutti si muovono e che condiziona ogni argomentare”54. In conclusione va ribadito come il mondo del diritto è intriso di cosiddetti concetti (giuridici) indeterminati; basti pensare, per rimanere in un’area di diritto civile, all’idea di buona fede presente nel Codice civile in tema di contratti (articoli 1337 e 1338 – buona fede nelle trattative, 1366 – buona fede nell’interpretazione, 1375 – buona fede nell’esecuzione), al concetto di buon costume richiamato dall’articolo 1343 dello stesso Codice in materia di causa del contratto illecito, al proverbiale buon padre di famiglia richiamato dall’articolo 1176 sempre del Codice Civile, o ancora all’idea di ordine pubblico propria al sistema italiano di diritto internazionale privato, di cui all’articolo 16 della L. 218 del 1995. Nell’ambito del diritto penale appare indicativo il riferimento alla morale pubblica, offesa da “atti osceni”, di cui all’articolo 527, o da “immagini o altri oggetti osceni”, di cui all’articolo seguente. Ed è altrettanto indicativo che appaiano osceni, ai sensi della disposizione dell’articolo 528, gli atti e gli oggetti, “che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore”. 54 Così E. Berti, Nuovi studi sulla struttura logica del discorso filosofico, Padova, 1984, pp. 369-370. La citazione di Berti ci induce a richiamare gli studi di ermeneutica giuridica condotti da G. Viola e G. Zaccaria; cfr. in proposito il volume Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, Roma-Bari, 2000. Lo stesso Zaccaria rileva come “chi applica il diritto, con qualunque metodo proceda, è legato a quello sfondo intersoggettivo, costituito dal suo rapporto stratificato non soltanto con le norme e i precedenti, ma anche con le categorie dogmatiche, dottrinali e culturali. […] L’interpretazione giuridica è sempre il frutto dell’attività di un soggetto, che comprende e opera all’interno di un contesto, muovendo da una precomprensione e inserendosi in una prassi e in una comunicazione, che coinvolgono la comunità”, Precomprensione, principi e diritto nel pensiero di Josef Esser. Un confronto con Ronald Dworkin, in “Ragion Pratica”, VI (1998), n. 11, p. 149. issn 2035-584x Termini tutti che, se osservati attraverso lo spettro del rigoroso analista del linguaggio appaiono quanto meno indeterminati, più propriamente vaghi, dato che gli ipotetici contorni del significato espresso dal significante sono estremamente imprecisi e costantemente in evoluzione. Ciò non di meno, proprio se raffrontati con i luoghi comuni qui richiamati, i concetti giuridici indeterminati sono determinanti nel dispiegarsi dell’esperienza giuridica, perché permettono, per così dire, all’esperienza di armonizzarsi con il contesto sociale nel quale si colloca sì da evitare che la stessa, se costituita lungo un asse di precostituita autoreferenzalità, per un verso si anteponga e per l’altro si contrapponga, ovvero si manifesti estranea, alla legalità sociale, al sentimento comune. I concetti giuridici indeterminati rappresentano, quindi, degli elementi necessari al fine di poter determinare in un contesto sociale un intervento giuridico, sono proprio questi che permettono all’esperienza, intesa nel senso di ricerca, di dispiegarsi. In loro assenza l’esperienza giuridica si rappresenterebbe esclusivamente come valutazione formale di un concreto accadimento secondo astratti criteri, ovvero secondo parametri impermeabili al concreto svolgersi ed evolversi della vita sociale. È nella ricerca inesauribile di una valutazione del fatto concreto, che non sia avulsa dal sentimento sociale, ma non sia nemmeno da questo indirizzata ed inficiata, così da trasformarsi in pedissequa istituzionalizzazione giuridica del opinione del volgo (democrazia), che si sostanzia e mai si esaurisce la ricerca della certezza del diritto, esperire che è reso possibile anche dalla apparente indeterminatezza di alcuni assunti all’interno delle regole sì da permettere il manifestarsi ed il valutarsi di una regolarità non formalisticamente intesa. Non appare fuori luogo riconosce a chiusura di questo intervento, come, ancora all’interno della prospettiva processuale del diritto, nel 1954 Luigi Caiani riconosceva “che, dal punto di vista giuridico (come sotto molti aspetti anche da quello scientifico) il linguaggio è un fenomeno tipicamente sociale, e quindi che l’uso da parte Sull’interpretazione della disposizione normativa 111 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) del legislatore di determinati significati linguistici, che si riferiscano a cose, a concetti, a situazioni, a bisogni, a interessi o a comportamenti, dipende in ultima analisi dal valore sociale che essi vengono mano a mano assumendo. Valore che pertanto non è affatto così oggettivo e immutabile come potrebbe sembrare”. Questo, infatti, seguendo il pensiero del giurista padovano, dipende da molteplici fattori “in cui concorrono vuoi la costitutiva storicità e dialetticità delle istituzioni e dei rapporti umani, che pertanto si riflette sullo stesso significato dei termini che vi si riferiscono, vuoi, in particolare, tutti quegli altri elementi di carattere sociale ed anche tecnico […] nella quale date parole vengono usate e introdotte”. Da qui deriva “la modificazione del loro significato in ragione della evoluzione storica della realtà e dei rapporti sociali cui essi si riferiscono”. In questo modo, per l’autore, si coglie “il processo di traduzione e recezione delle valutazioni sociali metagiuridiche nell’ambito dell’ordinamento positivo, cioè in forma giuridicamente valida […]. Vale a dire che è in questo compito fondamentale della giurisprudenza che si può cogliere, in un certo senso, lo stesso processo produttivo del diritto, il quale invero, da questo punto di vista, potrebbe esser visto come un processo sempre più approssimato e determinato di traduzione dei giudizi di valore operanti socialmente in giudizi di valore operanti giuridicamente”55. issn 2035-584x Marco Cossutta, professore associato di Filosofia del diritto nell’Università degli Studi di Trieste, ove dirige il corso di master in primo livello in Analisi e gestione della comunicazione organizzato in collaborazione con il CERMEG. *Il presente contributo raccoglie il testo dell’intervento tenuto alla Scuola di dottorato in Giurisprudenza il 26 novembre 2010 presso l’Università degli Studi di Padova nell’ambito dell’incontro promosso dal Direttore della stessa, il prof. Francesco Cavalla, su “Interpretazione giuridica e interpretazione musicale”, che ha visto la partecipazione del M° Claudio Scimone 55 Così ne I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, cit., p. 209 e segg. Sull’interpretazione della disposizione normativa 112 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Mass moda, strumento di comunicazione di massa Raffaella F. Marin Abstract La Moda, originariamente vista come accessorio di uno stile di vita tipicamente femminile, negli ultimi decenni ha assunto una connotazione culturale molto più ampia e complessa. Infatti, grazie ai corsi di Laurea di settore, ai Master accademici ed alle scuole di specializzazione che hanno riconosciuto ed istituzionalizzato il fenomeno, essa è divenuta elemento caratterizzante nella storia del costume e simbolo fiero ed autorevole nelle nuove tecnologie della comunicazione di massa. In questa prospettiva, il Made in Italy si propone non solo come capitale economico transnazionale, ma come riflessione sulle origini della Moda che affascina l’uomo fin dai tempi più antichi. Creare Moda significa esprimere un mondo interiore attraverso il corpo rivestito, dove modelli culturali, valori e tradizioni si riflettono in un complesso significato e si esprimono nel mondo, mediante un dialogo non verbale. Moda, concetto di identità e identificazione ed economico. Oggi la Moda rappresenta uno dei massimi capitali economici del nostro paese e lo “stile italiano” è la voce più altisonante in tutti i paesi del mondo. La Moda italiana è simbolo di creatività, è un grido di successo riconosciuto che non ha pari. Ma da dove inizia la Moda? Sappiamo che fin dai tempi più antichi l’uomo ha utilizzato forme di rivestimento del corpo che oltre ad avere una logica funzionale di protezione dai fattori ambientali, intendevano affermare il proprio status ed esprimere la propria personalità mediante un linguaggio di simboli. Il rivestimento del corpo costituiva quindi non solo una necessità, ma una precisa volontà di affermazione della propria identità. Per comprendere la moda in senso attuale è necessario riconoscere che il fenomeno nasce da un senso di “identità propria” che si stacca da una molteplicità di biografie possibili e si realizza come risultato di appartenenza che è condizionata dalle esperienze del proprio vissuto. Ogni stilista infatti, per quanto singolare e caratteriz- L a Moda1, è ancor oggi un argomento che genera non poche perplessità nell’ambito delle scienze umane, nonostante autori di notevole rilevanza, abbiano posto i capisaldi su validi apparati teorici che intendono rappresentare il fenomeno Moda, intesa come forma compiuta in un contesto socio-culturale 1 Il termine Moda, inteso come foggia corrente nel vestire, è la diretta traduzione del francese mode, vocabolo apparso per la prima volta,nel 1482 al posto di manière e façon, per indicare uno specifico tipo di abbigliamento (N. Bailleux-B. Remaury, Moda. Usi e costumi del vestire, Torino, 1996. Si riportano due definizioni del termine, la moda come “l’usanza più o meno mutevole che, diventando gusto prevalente, si impone nelle abitudini, nei modi di vivere, nelle forme del vestire”, tratta da Il grande dizionario Garzanti della lingua Italiana, Milano,1993 e moda come “un principio universale, uno degli elementi della civiltà e del costume sociale, che interessa non solo il corpo ma anche tutti i mezzi di espressione di cui l’uomo dispone”, G. Devoto, G. Oli, Il Dizionario della lingua italiana, Firenze, 1995. parole chiave: Moda e identità; Moda e appartenenza; Stereotipie della Moda. Mass moda, strumento di comunicazione di massa 113 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) zato da una scelta di “stile”2, racconta la propria crescita e le proprie preferenze, attraverso le sue creazioni che costituiscono il sunto di una lunga e ricercata preparazione artistica e culturale..Per quanto ogni percorso possa essere individuale, è comunque condizionato dal processo di cultura e di socializzazione che pone le basi per una determinazione di modelli e regole. Naturalmente questo complicato processo non si svolge in modo lineare e cumulativo, in quanto ogni individuo si trova spesso a doversi confrontare con nuove situazioni e a doversi “ristrutturare” ridefinendo la propria identità in relazione al mondo esterno, sia dal punto di vista cognitivo, che da quello emozionale. Charles-Frederic Worth il “tiranno della moda”, (così definito, per il suo carattere insolente ed irascibile, dall’ Imperatrice Eugenia che gli commissionava tutti i suoi abiti da ballo) è il primo grande stilista che firma i propri modelli rendendoli così, proiezione reale della propria identità3. Con quasi oltraggiosa innovazione, nel 1858 accorcia le gonne lasciando esposto lo stivaletto, liberandosi in questo modo dallo schematismo del modello per trasmettere attraverso l’abito, il messaggio provocatorio di seduzione e di profonda volontà di liberazione dagli stereotipi istituzionali, pur mantenendone gli schemi. Ma è Paul Poiret il vero rivoluzionario della moda che, appassionato dall’ esperienza coloniale, enfatizza la teatralità nell’abito ispirandosi all’ Oriente, ai ricchi drappeggi di morbide stoffe e alle danze sensuali delle odalische, stravolgendo radicalmente il costume tradizio2 Una delle definizioni che dava Segre era “L’assieme dei tratti formali che caratterizzano un gruppo di opere, costituito su basi tipologiche o storiche”, C. Segre, Stile , in “Enciclopedia Einaudi”, vol. XIII, Torino, 1981, pag 549, P. Calefato, Mass Moda Linguaggio e immaginario del corpo rivestito, Roma, 2007. 3 L’affascinante Eugenia de Montijo, fu imperatrice dei Francesi dal 1853 al 1870 in virtù del suo matrimonio con Napoleone III; Eugenia dettò la moda: quando alla fine degli anni sessanta abbandonò le crinoline su consiglio del suo leggendario stilista inglese, Charles Frederick Worth, le donne di tutta Europa seguirono il suo esempio. Worth fu il primo a contrassegnare i propri modelli apponendovi il suo nome, a dividere la moda in stagioni ed a fornire i cartamodelli delle sue creazioni sul mercato, evitando così qualsiasi imitazione, J. Laver, Histoire de la Mode et du Costume, Paris, 1990. issn 2035-584x nale. Toglie coraggiosamente il castigato corsetto agli abiti femminili, liberandosi così dallo schematismo del modello di identità parigina per assumere un comportamento trasgressivo, proiettando il “suo” significato identificativo in un messaggio contrastante con gli stereotipi sociali dell’epoca. Da una prospettiva analitica, la componente “identificazione” si riferisce alle figure con le quali l’individuo si sente simile e condivide con esse determinati caratteri, siano essi di tipo sociale, artistico, etico, religioso, morale o di pensiero. Tra gli anni Sessanta e Settanta, ad esempio, si osserva un desiderio radicale di mutamento identificativo che si annuncia e si propone fin da subito attraverso il corpo rivestito. L’Isola di White, in Inghilterra, ospita un gruppo di giovani provenienti da diversi paesi europei che appartengono al neo-movimento “Hippy” e che, in tempi inaspettatamente brevi, diffonde le proprie ideologie ed i propri codici basati su una visione di libertà dalle costrizioni del capitalismo. I capelli lunghi simboleggiano la naturalezza, mentre gli abiti decorati con motivi floreali, diventano il simbolo esacerbato del movimento Hippy che oltrepassa i confini dell’abito, riproducendo il decoro anche sulla pelle. È una voce fuori dal coro istituzionale, un urlo sociale e politico che si manifesta prepotentemente attraverso il vestire e che si riconosce in una nuova identità psico-sociale come Figli dei fiori. Prediligono il contesto naturale che vuole esprimere la volontà di “scelta”, in dissonanza con un momento storico, travolgendo ogni stereotipo fino ad allora vigente. Tra gli anni Ottanta e Novanta prende invece vigore il “multiculturalismo” con l’intento di interpretare un mondo senza confini, attraverso la produzione del brand multietnico e del richiamo all’esotico che nasce da un punto di vista olistico, dove l’altro diverso da me, diventa motivo di ispirazione dove io mi voglio riconoscere e ritrovare. Termini come “stile Etno” o “Etno-chic” diventano così la parola d’ordine del pret a porter e degli accessori che, immancabilmente ne completano il look. Questi brevi richiami storici evidenziano pertanto, come l’identificazione conduca alla formazione del senso di appartenenza ad una entità collettiva che comunica mediante un unico Mass moda, strumento di comunicazione di massa 114 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) linguaggio di simboli. In altre parole, è fondamentale che l’individuo spesso costretto a cambiamenti, sia in grado, pur identificandosi nel corso della vita con modelli diversi, di mantenere stabile la propria identità: “Io, qui, ora”. L’identificazione potrebbe in certi casi, anche contrapporsi al proprio senso di identità con forme violente, dolorose, stridenti agli stili tradizionali e potrebbe a volte celare una volontà di distacco e di scioglimento dai propri canoni e dai propri valori, impegnandosi in una ricerca di nuove ideologie, di crescita esperienziale, di orizzonti ancora ignoti e non sempre palesemente accettabili. Pertanto, se identità e identificazione rappresentano le due facce della stessa medaglia, sorge spontanea la domanda: dove si colloca la mediazione per ottenere un risultato ottimale e non contradditorio in un mondo mediatico e comunicativo che percorre in pochi secondi l’intero pianeta? Il mio corpo rivestito veicola un insieme di codici che parlano a coloro che mi osservano, trasmettono ciò che io cerco di spiegare, di imporre, di chiedere con la mia presenza. E mentre mi esprimo, leggo i contenuti dei messaggi di coloro che osservo; contenuti espressi, voluti, ricercati, a volte impliciti, altre volte stonati, altre volte ancora maldestramente nascosti. Il mio corpo vestito è oggetto scritto e contemporaneamente letto nel mondo, mentre sono impegnata a leggere il mondo attorno a me, perché la Moda è un linguaggio di corpi che dialogano attraverso l’abito. Ma cosa succede quando l’identificazione è proiettata verso uno stereotipo che esce da ogni canone di valori tradizionali e condivisi? E se per caso la ricerca di identità si identifica con uno stile di vita che vive ai margini? Se il bisogno di metamorfosi porta alla ricerca di modelli che appartengono a “stili da strada”, che si rappresentano con un linguaggio di tipo sotto-culturale ostentando i propri codici con un messaggio di provocazione? L’esempio più eclatante nasce nelle strade di Londra negli anni ottanta e proprio mentre la famiglia reale ostentava ad Ascot vistosi cappelli piumati e tailleur di seta italiana, nell’East-End di Londra i ragazzi si trafiggevano il volto con spille da balia e pearcing, indossando abiti logori rigo- issn 2035-584x rosamente neri, in contrasto con i capelli coloratissimi raccolti a “cresta”. È l’abbigliamento Punk che negli anni ottanta si è imposto prepotentemente nella radicata storia monarchica e conservatrice, contrapponendosi al concetto di stile istituzionalizzato, volto alla sobrietà, concepito fino ad allora, come termine di esaltazione dell’ eleganza e della tradizione. L’intelligente revisione ed elaborazione dello “stile da strada” della stilista inglese Vivienne Westwood è riuscita a sfondare i cancelli di Buckingham Palace, permettendo che la moda punk ripulita dagli eccessi, entrasse nei salotti della famiglia Windsor e venisse in questo modo riconosciuta ed istituzionalizzata come forma creativa ed espressiva di Alta Moda. Grazie alla Westwood l’abito da strada è riuscito ad oltrepassare la pesante linea di confine, entrando prepotentemente in un mondo dove gli statuti ideologici tradizionali e conservatori erano indici caratteristici di una volontà condivisa, fondata su valori sociali collocati in una morale di estetica normativa. Già molto prima del movimento Punk, il filosofo Roland Barthes aveva descritto questi movimenti rivoluzionari stilistici come “trasformazioni”4 , a sfida dello stile conservativo e canonico, proponendo quello che potremmo definire un passaggio, una forma di allargamento del concetto di stile che dà voce ad una molteplicità di discorsi, che alimentano una memoria storica radicata nel tessuto culturale. Stereotipi e cultura della moda Il tema della Moda e dello stile si inserisce nel tema molto più ampio degli atteggiamenti ed accomuna gli stereotipi verso l’estetica. Benché la Moda sia oggi fenomeno transnazionale espressa da stilisti di diverse origini, permane la convinzione che la Moda sia un prodotto occidentale, una emanazione dei nostri modelli culturali che vanno dal Risorgimento alla Rivoluzione Industriale, per 4 “Trasformazioni derivate sia da formule collettive (dall’origine indefinibile, ora letteraria, ora preletteraria) sia, per gioco metaforico, da forme idiolettali”, R. Barthes, Le bruissement de la langue. Essais critiques IV; Paris, 1984. Id., Il brusio della lingua; Saggi critici IV, trad. B. Bellotto, Torino, 1988, p.133. Mass moda, strumento di comunicazione di massa 115 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) perpetuarsi e dare forza allo stato attuale di stile e modernità nel mondo. In realtà, nel mercato globale, il rapporto tra Oriente e Occidente si colloca attualmente in un quadro di evidente mutamento: l’Asia compete con l’Europa non soltanto per la crescita del sistema economico, ma anche da un punto di vista di tradizioni dove la Moda costituisce un punto di vista privilegiato. La competizione tessile offre molti spunti di riflessione sul ribaltamento dei ruoli, dove la relazione sartoriale tra i due paesi, si apre a nuove prospettive, sia nel campo dello stile che in quello dell’industria5. Con l’avanzata economica e culturale asiatica, la Cina per prima, gioca il suo ingresso nel settore internazionale della Moda, non solo come popolo di tradizione e “senza moda”, di produttore o acquirente di noti marchi europei, di “copiatore” della moda occidentale, ma bensì come riconosciuto creatore di stili. Le premesse erano chiare già alla fine dell’Ottocento come ben dimostra l’analisi simmeliana dove la Moda è descritta come forma che permette “l’oggettivazione” la riproducibilità tecnica di massa, definendola “Una forma con gli stessi diritti delle opposte correnti della vita: imitazione e innovazione, interiorità ed esteriorità, finalità individuali e finalità sociali”6. È lecito oggi, definire la moda come sistema mediatico, come mezzo di comunicazione di massa che si riproduce e si diffonde secondo modalità mass-mediatiche7, prime fra tutte il giornalismo di settore. Il vasto “Pianeta Moda” coinvolge oggi figure altamente specializzate, impegnate non solo nell’ ideazione e nella 5 S. Segre Reinach , Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda; vol. IV: Orientalismi, Roma, 2006, Segre Reinach analizza la moda all’interno del processo di globalizzazione e quindi come un’industria transnazionale, che coinvolge moltissimi paesi. La fine della visione eurocentrica è attribuibile ad un fenomeno specifico di questi ultimi anni. Il massiccio spostamento dell’industria tessile da Ovest verso Est comporta in termini economici e culturali una revisione dei canoni e delle modalità in rapida trasformazione, influenzando le convinzioni e le pratiche sul produrre abbigliamento, sul vestire e sul comunicare moda a Est e a Ovest. 6 G. Simmel, Zur psychologie der Mode, “Die Zeit”, 1895, 5, trad. it. La Moda; Roma,1985, pag 61. 7 P. Calefato, Mass Moda. Linguaggio e immaginario del corpo rivestito; Roma, 2007, pag 9. issn 2035-584x creatività artistica dell’ abito che rappresenta il momento ultimo, ma vede coinvolta anche una attenta squadra di addetti al settore comunicazione e marketing, di organizzatori di eventi, di coordinatori alle pubbliche relazioni, di compratori e venditori, di creatori di marchio ed immagine, fotografi, giornalisti e per ultima, ma non ultima come importanza, l’industria produttrice. Il nome dello stilista non è solo un marchio di fabbrica, ma rappresenta il dialogo tra indumento ed un linguaggio di vasto significato. La Griffe sancisce non solo valore di mercato, ma identifica un valore simbolico che definisce l’intero stile del corpo rivestito. Dire per esempio “Veste Chanel” è un indice inconfondibile che riassume un intero discorso. Il marchio o la “firma” sono icone, immagini “recall” nel mondo della comunicazione (soprattutto nella forma pubblicitaria), che rappresentano elementi di linguaggio capaci di narrarsi attraverso il simbolo, di raccontare una intera storia, di inventare mondi, di scegliere di apparire riassunti in una firma. La forza evocatrice e simbolica del marchio viene quasi vista come fiore all’occhiello con cui fregiare la nostra appartenenza, la nostra identità, quasi una forma feticistica ad interpretazione freudiana, che consiste nell’attribuire ad un oggetto un valore enorme, magico, totemico, di smisurato potere; quasi una fagocitosi, un inghiottimento che si estende anche a gesti, all’ ostentazione del dettaglio, alla ricerca della rassomiglianza fisica con l’immagine dello stereotipo. Le riviste di settore e non di meno il fenomeno mediatico, dettano un rigoroso codice d’immagine che in maniera quasi epidemica, si esprime non soltanto attraverso l’abito, ma anche nei movimenti stereotipati, nella ricerca esasperata della somiglianza attraverso il taglio dei capelli validato dal colore di “tendenza”, fino all’invasiva e non poco costosa chirurgia plastica; la compulsione maniacale di appartenenza ad uno stile, o nel volersi riconoscere come sosia di un’immagine ideale, stereotipizza e condiziona l’espressività del linguaggio con frasi fatte e ridondanti, imprime una gestualità comune, nonché la rivalutazione dei modelli etici ed estetici e non ulti- Mass moda, strumento di comunicazione di massa 116 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) mi i valori morali. La firma non solo riveste il corpo in maniera iperbolica, ma sembra volere inghiottire totalmente l’individuo che concepisce la Moda come rapporto di somiglianza e paradossalmente di distinta individualità. In conclusione la Moda del corpo rivestito sembra esprimere un solenne significato, ma la coerenza e l’abilità nel sapere utilizzare la Moda come strumento funzionale, che trascende da ogni forma di stereotipo, è riconoscerne la significatività, ma attribuendo il giusto valore di ciò che è significato. issn 2035-584x Bibliografia R. Barthes, Le bruissement de la langue. Essais critiques IV; Paris, 1984: Id. Il brusio della lingua; Saggi critici IV, trad. B. Bellotto Torino, 1988 P. Calefato, Mass Moda. Linguaggio e immaginario del corpo rivestito; Roma, 2007 J. Laver, Histoire de la Mode et du Costume, Paris, 1990 S. Segre Reinach , Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda; Roma, 2006 G. Simmel, :”Zur psychologie der Mode”, «Die Zeit», 1895, 5, trad. it. La Moda; Roma,1985 Raffaella Fiormaria Marin, psicologa, è professore a contratto presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trieste; come libera professionista è impegnata presso il Centro di Ricerca “Fondazione I.D.E. A.” della Clinica Psichiatrica di Trieste; collabora inoltre, con l’associazione “A.MA.RE il rene” nell’assistenza psicologica dei pazienti nefropatici ed ai loro famigliari. Mass moda, strumento di comunicazione di massa 117 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Dipendenze e rischio nelle dinamiche dei New Media Pierpaolo Martucci Abstract Dopo la nascita del linguaggio e la scoperta della stampa, la terza grande rivoluzione della comunicazione nella storia dell’umanità è segnata dall’avvento dei cosiddetti New Media, in primo luogo Internet, frutto dell’incontro delle più moderne tecnologie. Tali strumenti sono caratterizzati dal coesistere della diffusività di massa con la capacità di fornire a ciascun utente un accesso interattivo e personalizzato. Fra le innumerevoli conseguenze di questo sviluppo epocale, si è riscontrato l’emergere di forme specifiche di tecnodipendenza, soprattutto nei confronti dell’uso della Rete (Internet Addiction Disorder). In tale contesto le condotte problematiche di gioco risultano fortemente incentivate dal facile accesso a innumerevoli giochi, lotterie e scommesse on line (new gambling) e dalla loro pressante sovraesposizione me- 1. Introduzione. Le dipendenze da Internet L a natura essenzialmente sociale dell’essere umano è sempre stata strettamente legata alla comunicazione, intesa come processo di trasmissione di significati tra individui, alla base dei gruppi che creano l’organizzazione sociale dell’esistenza e quindi fondamentale per la loro sopravvivenza1 Nella storia dell’umanità l’evoluzione della comunicazione si è sviluppata attraverso fasi successive: dopo l’età dei segni e dei segnali, propria dei primi ominidi, dopo l’età della parola e del 1 La stessa etimologia della parola pone in evidenza la stretta connessione con gli aspetti basilari della vita associata: “comunicazione” deriva dal latino “communis”, sostantivo dato da cum (con) e dal tema munia (doveri, vincoli) e significa “relazione, rapporto, condivisione di un contratto”. diatica. Se i costi economici e sociali delle varie forme (legali e illegali) di azzardo incidono in misura crescente sulla popolazione italiana, appare particolarmente preoccupante la forza attrattiva del gambling rispetto alle fasce vulnerabili dei giovanissimi. Le opportune strategie di prevenzione e contenimento del fenomeno debbono peraltro confrontarsi con l’ambiguità dello Stato e, più in generale, con un costume culturale che promuove la sorte (e quindi il caso) come elemento determinante nella corsa al successo. Parole chiave New Media; Internet; dipendenza; gambling; gioco d’azzardo; giocatore patologico. linguaggio, conquista dell’homo sapiens, la prima grande rivoluzione fu segnata dal passaggio all’età della scrittura, le cui potenzialità vennero enormemente amplificate con l’introduzione della stampa. È relativamente recente –riferibile alla prima metà del XIX secolo, con la nascita dei giornali quotidianila diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, caratterizzati da un’elevata tecnicità: dopo la stampa, la radio e la televisione. Nel terzo grande mutamento, tuttora in corso con l’avvento dell’elettronica nella tecnica della strumentazione, si è giunti ad una comunicazione che ha perso i suoi tratti prettamente verbali per divenire tecnotronica. Essa si caratterizza per la crescente interazione tra elaboratori e telecomunicazioni e la conseguente nascita di nuovi servizi, vale a dire delle NTC (Nuove Tecnologie di Comunicazione), Dipendenze e rischio nelle dinamiche dei New Media 118 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) dove le diverse tecnologie elettriche ed elettroniche (i satelliti per le telecomunicazioni, i computer, i telefoni cellulari) si integrano tra loro2. Si è fatta strada la multimedialità, dove per multimediale intendiamo un medium che su un unico supporto utilizzi diversi linguaggi e che sia interattivo. Nel linguaggio corrente con questo termine si descrivono sia gli strumenti che consentono la fruizione e la produzione di messaggi con testi, suoni, immagini e dotati di ipertesti, sia gli strumenti di connessione con le reti (Internet). A proposito delle differenze fra mass media tradizionali (radiotelevisione, stampa) e i cosiddetti new media (Internet in primo luogo), occorre dire che mentre i primi, tramite un supporto tecnologico, consentono ad un emittente centrale di distribuire messaggi a destinatari anonimi, stabilendo sia il tempo che il contenuto del messaggio veicolato, nel caso dei secondi il ricevente può essere predefinito e non riveste un ruolo passivo ma è in grado di interagire con l’emittente3. Coesistono così due aspetti in precedenza antinomici: la diffusività di massa su molti milioni di utenti e la capacità di fornire a ciascun navigatore un accesso interattivo e personalizzato. Fra le innumerevoli conseguenze di questo sviluppo epocale, si è riscontrato l’emergere di forme specifiche di dipendenza nei confronti dell’uso della Rete, un fenomeno definito Internet Addiction Disorder4, a proposito del quale, peraltro, nella comunità scientifica non vi è accordo su di una definizione univoca e neppure su un quadro condiviso di criteri diagnostici, prognostici e terapeutici. Si tratta di una patologia non ancora introdotta nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali - DSM IV (quasi certamente lo sarà nel DSM V), attinente perlopiù ai Disturbi del Controllo degli Impulsi e che per taluni andrebbe collocata tra i “Disturbi del Controllo 2 Cfr. D. McQuail D., Sociologia dei media, Bologna, 2001, p. 43. 3 D. McQuail, Le comunicazioni di massa, Bologna, 1989, p. 18. 4 K. Young, Internet Addiction: The Emergence of a New Disorder, Paper presented at the American Psychological Association annual conference, Toronto, 1996. issn 2035-584x degli impulsi non classificati altrove”, come il gioco d’azzardo patologico. Si ritiene Internet–dipendente colui il quale fa uso della Rete non per motivi professionali, di ricerca o svago nel tempo libero, ma perché costretto da “un irrefrenabile impulso di utilizzo” della stessa per il maggior tempo possibile5. Per quanto concerne l’Italia, nel 1997 è stata introdotta l’espressione “Internet related Psychopathology”, che ricomprende differenti quadri di addiction, quali quelle: - da gioco d’azzardo patologico on line; - da cyber-relazioni. Si tratta della Cyber Relationship Addiction, caratterizzata da una irrefrenabile spinta ad instaurare relazioni affettivo/ amicali sui luoghi virtuali, nella convinzione di poter conoscere molte più persone on line (e in modo più profondo) che nella realtà fisica. In questo contesto si manifestano le condotte di cyber-anonimous e cyber-travestitismo, in cui i protagonisti abusano delle possibilità offerte dall’anonimato in Rete, assumendo innumerevoli identità fittizie, anche in rapporto all’età ed al sesso; - da cyber-sesso; le pratiche di cyber sex sono incentivate dal carattere immediato e anonimo delle comunicazioni, dalla disponibilità alla trasgressione e disinibizione favorite dai servizi offerti da Internet (chat, posta elettronica, video-conferenze); - da giochi di ruolo on line (MUDA o Muds Addiction). È una forma di dipendenza dovuta all’abuso di giuochi di ruolo in Rete e da ultimo anche alla condivisione sul Web di realtà virtuali e parallele quali Second Life; - da eccesso di informazioni o Information Overload Addiction, che si manifesta con la ricerca esasperata, continua ed inutile di informazioni attraverso Internet. Queste diverse forme di dipendenza – a proposito delle quali viene anche usato il termine “tecno-dipendenze” - presentano tratti comuni e si ritiene che usualmente si possano distinguere due fasi, nel percorso che conduce a svi5 T. Cantelmi, C. Del Miglio, M. Talli, A. D’ Andrea, Internet Related Psychopathology: primi dati sperimentali, aspetti clinici e note critiche in http://www.gipsicopatol. it/italiano/rivista/2000/vol6_1/cantelmi.htm – sito consultato il 12 mggio 2011 Dipendenze e rischio nelle dinamiche dei New Media 119 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) luppare una vera e propria patologia. La “fase tossicofilica” è contraddistinta dall’aumento dai tempi di collegamento alla Rete, con conseguente perdita di ore di sonno, da controllo ripetuto di e-mail e siti preferiti, elevata frequentazione di chat e newsgroup, idee e fantasie ricorrenti su Internet anche se si è scollegati, accompagnati da malessere generale. Nella “fase tossicomanica” si manifestano collegamenti assai prolungati, al punto da compromettere la vita socio-affettiva, relazionale, lavorativa o di studio del soggetto. L’utilizzo smisurato degli strumenti telematici “determina un’alienazione dalla realtà, conduce al sentirsi outgroup dalla realtà sociale tradizionale e ingroup soltanto nella società virtuale (la c.d. «e-life»)”6. In definitiva, il “tossicomane da Rete” pensa di non aver bisogno degli altri, poiché è certo di poter contattare tutti in tutto il mondo. Tali forme di dipendenze presentano analogie con quelle da sostanze: la realtà virtuale offre una fonte di gratificazione immediatamente e continuamente accessibile ad individui che nella realtà fisica presentano problemi di isolamento, solitudine, difficoltà nelle relazioni interpersonali. Si ritiene che i soggetti maggiormente a rischio siano adolescenti e giovani adulti (fascia di età compresa fra i 15 e i 40 anni), preparati dal punto di vista informatico, isolati per ragioni lavorative o geografiche, con preesistenti problemi familiari, psicologici e psichiatrici. Tra di essi ricorrono personalità caratterizzate da tratti ossessivo-compulsivi e solitudine sociale. Tra le varie forme di addiction quella che qui interessa approfondire per le sue peculiari implicazioni sociali è relativa al gioco d’azzardo. 2. La dipendenza da gioco d’azzardo patologico La figura del giocatore patologico (pathological gambler) non costituisce certamente una novità e, prima ancora che nella clinica, è stata descritta nella letteratura, che ne ha dipinto i tratti – per così dire – quasi demoniaci: val6 F. Marcellino, Il Cybersex, in P. Cendon (a cura di), Il diritto delle relazioni affettive, Padova., 2005, vol.III, p. 2548 issn 2035-584x gano per tutte le magistrali pagine di Fiodor Dostoevskij nel Giocatore, ma anche quelle di Edgar Allan Poe in William Wilson e di Arthur Schnitzler in Gioco all’alba. Naturalmente, anche per evitare generalizzazioni moralistiche, è opportuno precisare subito che vi è una grande differenza fra il caso di chi tenta saltuariamente la sorte e quello dell’individuo che non riesce a sottrarsi al desiderio di giocare d’azzardo. Come osservano Colombo e Merzagora: se più dell’ 80% della popolazione dei paesi occidentali ha la probabilità di giocare almeno una volta nel corso della vita, appena il 2-3% di costoro diventerà un giocatore patologico (…) Tutto ciò, evidentemente, non è riservato solo ai giochi illegali (…) Questo significa altresì che le notevolmente aumentate possibilità di gioco legale producono un altrettanto significativo incremento delle probabilità che un soggetto a rischio per gioco patologico possa ritrovarsi «favorito» nella pratica del gioco in generale7. È anche doveroso precisare che non tutti i giochi possono definirsi d’azzardo ma solo quelli in cui il ruolo del caso è assolutamente determinante rispetto all’abilità del giocatore e nei quali la ripetizione del comportamento non consente di apprendere indicazioni utili per vincere. Ai fini penalistici, perché si configuri la fattispecie di reato, l’art. 721 c.p. (Elementi essenziali del giuoco d’azzardo) richiede inoltre la presenza dello scopo di lucro. Tuttavia non è sempre agevole tracciare un confine netto, come, ad esempio, per il caso del poker, senza dubbio un gioco d’abilità ma nel quale la fortuna ha comunque un suo peso, come del resto avviene in altri giochi di carte. 8 Le forme di gioco patologico sono state da più di cento anni oggetto di studio da parte di psichiatri, psicologi e psicoanalisti. Attualmente il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM IV-TR) inserisce il Gioco d’Azzardo Patologico fra 7 C.A. Colombo, I. Merzagora Betsos, Il gioco d’azzardo: profili psichiatrici, sociologici, criminologici, in P. Cendon (a cura di), Il diritto delle relazioni affettive, cit., p. 1613. 8 In effetti la giurisprudenza della Cassazione tende a non attribuire al poker la natura di gioco d’azzardo, proprio in quanto si tratterebbe di gioco di merito più che di alea. Dipendenze e rischio nelle dinamiche dei New Media 120 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) i Disturbi del Controllo degli Impulsi Non Classificati Altrove (quando non sia meglio attribuibile ad un Episodio Maniacale). Viene definito come “Persistente e ricorrente comportamento di gioco d’azzardo maladattivo”, quello indicato dalla compresenza di cinque (o più) di determinati tratti. 9 In sintesi, si deve manifestare una sorta di “capitolazione al gioco con l’illusione, per di più, di averne il controllo”10. Le analogie con la dipendenze da sostanze sono evidentemente molteplici, anche dal punto di vista dei criteri diagnostici. In particolare la dipendenza dal gioco viene assimilata a quella da cocaina e crack per la necessità di assunzione ripetuta in tempi brevi: Il giocatore patologico non è attratto dal possibile guadagno, ma dal piacere che ricava dall’emozione del gioco stesso, dal brivido del rischio nell’alternanza tra vincite e perdite (c.d. sensation seeking), in un meccanismo che stimola la produzione di dopamine a livello cerebrale. Il denaro non è il fine, ma il mezzo per continuare il gioco stesso. Come per l’accostamento a molti stupefacenti, il fenomeno del gioco d’azzardo segue un percorso progressivo che parte da un approccio inoffensivo (gioco occasionale) per giungere 9 Il soggetto è eccessivamente assorbito dal gioco d’azzardo (ad es. è troppo assorbito nel rivivere esperienze passate di gioco, nel soppesare o programmare la successiva avventura, o nel pensare ai modi per procurarsi denaro con cui giocare);ha bisogno di giocare d’azzardo con quantità crescenti di denaro per raggiungere l’eccitazione desiderata;ha più volte tentato invano di controllare, ridurre o interrompere il gioco;è irrequieto o irritabile quando tenta di ridurre o interrompere il gioco d’azzardo;gioca d’azzardo per sfuggire problemi o per alleviare un umore disforico (ad es. sentimenti di colpa, impotenza, ansia, depressione);dopo aver perso, spesso torna un altro giorno per giocare ancora (rincorrendo le proprie perdite);mente ai membri della famiglia, al terapeuta, o ad altri per occultare l’entità del proprio coinvolgimento nel gioco d’azzardo;ha messo a repentaglio o ha perso una relazione significativa, il lavoro, oppure opportunità scolastiche o di carriera per il gioco d’azzardo;ha commesso azioni illegali come falsificazione, frode, furto o appropriazione indebita per finanziare il gioco d’azzardo; fa affidamento su altri per reperire il denaro per alleviare una situazione finanziaria disperata causata dal gioco di azzardo. 10 C.A. Colombo, I. Merzagora Betsos, Il gioco d’azzardo: profili psichiatrici, sociologici, criminologici, cit.,p..1613. issn 2035-584x ad un atteggiamento abusante (gioco abituale, poi gioco problematico) che può arrivare (gioco patologico) a compromettere profondamente la qualità dell’esistenza della persona. In analogia a quanto avviene per altre forme di dipendenza da situazioni o da sostanze, anche per il gioco d’azzardo patologico esistono strutture di personalità e stili di vita a rischio, per i quali il pericolo di avviare dinamiche patologiche è amplificato dall’incontro con stimolazioni ed occasioni favorenti. Questo ci conduce ad affrontare il punto centrale di queste riflessioni ed a riprendere il discorso sul ruolo attribuibile ad Internet. 3. La diffusione attuale dei giochi d’azzardo e l’avvento del new gambling Gli ultimi decenni, in Italia come altrove, si sono contraddistinti negativamente per il grande incremento dei fattori di rischio legati alla diffusione e promozione capillare di svariate forme di gioco d’azzardo (off e on line), che si sono aggiunte alle già numerose possibilità preesistenti. Soltanto le forme tradizionali (off line) comprendono le scommesse sui risultati sportivi (quali Totocalcio, Totogol, Totosei) ed i giochi di lotteria, i preferiti dagli italiani: Lotto, Enalotto, Superenalotto e Lotterie nazionali. Apro qui una breve parentesi per sottolineare lo stretto legame che in tutto il mondo si è venuto a creare fra diffusione degli eventi sportivi, aumento esponenziale della loro rappresentazione mediatica (in primo luogo televisiva) ed incremento delle forme di azzardo. Pronosticare il risultato di uno specifico evento e scommettere sul suo esito è la struttura di base di tutte le scommesse, da quelle ippiche a quelle calcistiche ed è una pratica che senza dubbio è divenuta sempre più importante e frequente a seguito della crescente popolarità degli sport nel loro complesso. Le occasioni per puntare danaro sono divenute tantissime, anche perché è sempre più elevata la quantità di avvenimenti sportivi organizzati. Si calcola che oggi in Italia quasi il 60% della popolazione gioca regolarmente – seppure in modo moderato – con una spesa globale in costante au- Dipendenze e rischio nelle dinamiche dei New Media 121 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) mento. Secondo dati forniti dal Codacons, che ha avviato studi al fine di tutelare i giocatori d’azzardo e per il quale la spesa media annua pro capite per i vari tipi di lotterie sarebbe di ben 890 euro, nel 2009 il comparto del gioco pubblico ha registrato incassi pari a 53,4 miliardi di euro. I giocatori sarebbero circa 28 milioni, quelli abituali sfiorerebbero i 7 milioni e di questi circa 750.000 presenterebbero patologie legate al gioco e circa 80.000 vere e proprie forme gravi di dipendenza. Per l’Eurispes addirittura il 3% del PIL in Italia verrebbe bruciato in scommesse e giochi d’azzardo e se si dovessero considerare entrambi i mercati, quello legale e quello sommerso, ci si troverebbe di fronte ad un giro d’affari di 80 miliardi di euro l’anno, che corrispondono a circa il 5,1% del Pil nominale atteso per il 201011. Si tratta di una questione sociale di grandi dimensioni che è peraltro direttamente legata all’ambivalenza dello Stato, che vieta il gioco d’azzardo in quanto immorale ma nel contempo se ne fa monopolista e massimo promotore, in ragione dei forti introiti fiscali che ne ricava, oltretutto traendoli in buona parte dalle fasce più disagiate. Il gioco legale infatti è stato definito “una tassa sulla povertà”, per l’impatto che ha sugli strati più poveri della popolazione, come è dimostrato pure dalle rilevazioni ufficiali12. Su questa già massiccia offerta legale tradizionale, negli ultimi anni si sono inserite ulteriori, molteplici modalità di azzardo, accessibili soprattutto on line, ma anche off line, tanto da indurre a parlare di nuovi giochi d’azzardo (new gambling). Frutto di una vera e propria rivoluzione tecnologica, essi propongono un nuovo modo di giocare: solitario, decontestualizzato (a ogni ora e in ogni luogo), globalizzato, con regole semplici e universalmente valide, pertanto a bassa soglia di accesso. Destinatari di questa offerta di consumo sono fasce sociali che un 11 Eurispes, Il gioco in Italia: da fenomeno di costume a colosso industriale, dicembre 2009. 12 M. Fiasco, Aspetti sociologici, economici e rischio di criminalità, in M. Croce, R. Zerbetto (a cura di), Il gioco e l’azzardo, Milano, 2001, p. 331. issn 2035-584x tempo si tenevano generalmente lontane dai luoghi tradizionali dell’azzardo: adolescenti, pensionati, interi nuclei familiari con i loro bambini popolano le sale da gioco, attrezzate da slot machine e video poker o stazionano nelle affollate sale del bingo. In un certo senso si può parlare di “democratizzazione” dell’azzardo, rispetto a certi antichi modelli vagamente decadenti e aristocratici, ma il timore è che tutto ciò possa suscitare nuove e pericolose forme di dipendenza. Ci riferiamo in particolare alle lotterie “istantanee” (le tante modalità della formula “gratta e vinci”), a quelle telematiche, ai casinò on line, alle scommesse sportive in rete, al videopoker ed alle slot machines collocate in innumerevoli locali pubblici. In particolare, uno dei fattori cui in Italia è possibile ricondurre la crescita di circa 20 miliardi di euro riscontrata dal settore dei giochi tra il 2003 e il 2006 (da 15,49 miliardi a 35,24 miliardi!), accompagnata da quella di 3 miliardi di euro di entrate erariali (da 3,5 a 6,7 miliardi) è stata l’introduzione, nel 2003, di norme che hanno disciplinato il fruttuoso mercato delle c.d. NewSlot. Gli apparecchi elettronici per i videogiochi sono progressivamente diventati la tipologia principale per raccolta di denaro, arrivando nel 2008 a rappresentare il 45,6% delle entrate complessive del settore. Tutte queste “offerte di gioco” presentano dei tratti comuni, che le differenziano da quelle tradizionali, rendendole potenzialmente molto più pericolose per i soggetti a rischio (soprattutto per i minorenni), e precisamente: - il carattere di disponibilità immediata e capillare sul territorio (si pensi ai video poker, alle sale “bingo”), a prescindere da limitazioni derivanti da orari e distanze geografiche; - la grande semplicità di accesso e di partecipazione ai meccanismi dei giochi; - l’assenza di aspetti relazionali di mediazione interpersonale, con la proposta di partite veloci, in cui si assiste al trionfo della ripetizione e alla perdita del controllo temporale e monetario con il rischio di alienare il soggetto dalla realtà.; - il carattere automatico e spesso anticipato dell’esborso finanziario; Dipendenze e rischio nelle dinamiche dei New Media 122 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) - la forte attrazione psicologica determinata dal grande spazio pubblicitario riservato su tutti i media, con una sponsorizzazione che le altre fonti potenziali di dipendenza non hanno mai avuto. In questo senso, le strategie di comunicazione rivestono un peso determinante. In particolare per quanto riguarda le formule on line, la disponibilità di un computer e di una connessione a Internet garantisce a chiunque l’accesso a centinaia di casinò virtuali i quali, 24 ore su 24, simulano la seduttiva e realistica esperienza dei casinò tradizionali che può essere condivisa ogni anno da milioni di nuovi utenti, molti dei quali nella realtà fisica non avrebbero mai la possibilità di entrare in una casa da gioco. I siti dei cybercasinò sono costruiti con interfacce amichevoli e accattivanti e generalmente offrono dei cospicui bonus di ingresso (centinaia di euro) per incoraggiare i neofiti. Questi canali d’accesso rendono particolarmente esposte all’invischiamento le fasce degli adolescenti e dei giovani adulti, prevalentemente maschi, che già risultavano statisticamente più soggetti a tale rischio. A proposito del sesso dei giocatori, sembra che proprio la fascinazione delle proposte telematiche colpisca in misura crescente le donne, forse in conseguenza del maggior tempo trascorso in casa e al computer e del facile accesso alle carte di credito. Nel 2008 si è affermata anche la versione on line di molti giochi tradizionali (la più apprezzata è quella relativa alle varie forme di “Gratta e Vinci”) aprendo nuove fette di mercato e sono stati introdotti i giochi di abilità che hanno subito registrato una raccolta considerevole. Gli esperti del settore hanno individuato nel 2009 l’anno di svolta dei giochi “a distanza” con la definitiva affermazione del poker e, più in generale, dei giochi di abilità, con la conferma del loro grande successo, insieme a quello delle scommesse (sportive e ippiche). Basti pensare che nei primi nove mesi del 2009 la raccolta complessiva dei giochi on line è stata di 2,6 miliardi di euro, con un incremento superiore all’80% rispetto a quella ottenuta nel 2008. Le cifre riportate sono riferite al solo circuito dei giochi legali, autorizzati dall’ Aams (Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato), in particolare poker, scommesse, Lotto issn 2035-584x e SuperEnalotto, lotterie istantanee e bingo. Tuttavia, esistono in Rete migliaia di siti i quali, pur non autorizzati, offrono la possibilità di accedere anche alle modalità di azzardo vietate in Italia (casinò e slot machine). Questo avviene soprattutto per quei siti i cui server sono ospitati in Stati esteri, come l’Olanda, l’Austria, l’Inghilterra o anche Gibilterra e paesi off-shore. L’Eurispes stima che le offerte di gioco illegale su Internet raggiungano un volume d’affari di circa 5 miliardi di euro. 4. La diffusione dei giochi on line e le caratteristiche degli utenti. I rischi per i più giovani In generale i dati disponibili sulla diffusione delle condotte di gioco on line sono ancora piuttosto scarsi ma quelli noti appaiono senza dubbio preoccupanti. In base ad una indagine condotta nel 2009 dall’Eurispes su di un campione di oltre 1.000 cittadini italiani, il 13,7% dei giocatori nutre una vera e propria passione per i giochi on line. Sono gli uomini (15,4%), rispetto alle donne (11,8%) ad aver maggiormente sperimentato il gioco on line. I giocatori hanno nel 17,9% dei casi un’età compresa tra i 35 e i 44 anni, seguiti dai giovani tra i 18 e i 24 anni (16%). Solo il 12,6% dei 45-64enni e il 12,3% degli ultra 65enni, invece, ha provato l’ebbrezza di sfidare la sorte per via telematica. 13. Sempre in base all’indagine Eurispes, i giocatori utilizzano Internet per dedicarsi al poker (64,3%) e fare scommesse (50,4%), molti invece giocano al casinò (30,2%), mentre le lotterie tradizionali raccolgono percentuali contenute (15,5%) indicando che per queste tipologie di giochi continua a prevalere l’abitudine alla fruizione “fisica”. Per quanto riguarda il sesso le donne, in misura maggiore rispetto agli uomini, preferiscono la modalità telematica per partecipare a tornei di poker (69,8% vs 60,5%). Esse, inoltre, sfidano più frequentemente la sorte nei casinò virtuali di quanto facciano i giocatori del sesso opposto (41,5% vs 22,4%), mentre le scommesse vengono effettuate da donne e uomini in misura equivalente. 13 Eurispes, Il gioco in Italia: da fenomeno di costume a colosso industriale, cit. Dipendenze e rischio nelle dinamiche dei New Media 123 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) Secondo informazioni raccolte dall’ Agicos (un’organizzazione di tutela dei consumatori), nel corso dell’intero 2009 sui tavoli verdi virtuali sarebbero stati giocati dagli italiani oltre 2,3 miliardi di euro, dato che conferma il poker come il gioco in denaro in assoluto più praticato nella Rete. La maggior parte dei giocatori on line pratica tale forma di intrattenimento occasionalmente (69%), mentre il 24,8% ha con esso un rapporto più assiduo. Minore appare, invece, la percentuale di quanti dichiarano di nutrire una vera e propria passione per l’on line, al punto da giocarci sempre (4,7%). L’8,9% degli intervistati dai ricercatori Eurispes rivela di aver chiesto soldi in prestito per giocare, a fronte di un 91,1% che afferma di non averlo mai fatto. Per quanto concerne le motivazioni, la maggioranza (51,9%) dei partecipanti ai giochi on line preferisce questa modalità di fruizione in ragione della semplicità di accesso al canale di gioco. A tale valore si aggiunge il 9,3% di quanti scelgono di giocare on line in quanto si possono fare puntate da qualsiasi personal computer che sia connesso alla Rete. Meno consistente appare la percentuale di coloro che preferiscono il gioco “virtuale” perché ritengono sia più facile concentrarsi davanti a un computer (12,4%) piuttosto che in una sala giochi o in un centro scommesse. Inoltre, secondo il parere del 6,2% del campione che preferisce questa forma di intrattenimento, il computer permette di essere al riparo da sguardi indiscreti. Un aspetto molto significativo riguarda il ruolo della televisione e di Internet, che sono indicate come i principali canali di diffusione delle notizie sulle molteplici offerte di lotterie, scommesse e giochi. Dati più precisi sono disponibili per una realtà nazionale a noi vicina, quella Svizzera, dove la Commissione federale delle case da gioco, nel rapporto finale pubblicato nell’aprile 2009, ha tentato di monitorare il numero delle persone con diversi tipi di comportamento da gioco presenti nel 200714. Su di un campione di 14.393 svizzeri interpellati, si evince che 14 Commissione federale delle case da gioco, Gioco d’azzardo: comportamento e problematica in Svizzera, Rapporto finale, Ginevra, aprile 2009. issn 2035-584x il 3,4 % praticava il gioco d’azzardo on line, l’8,3% sfruttava altri giochi offerti in Internet (senza poste in danaro) e lo 0,4% giochi illegali. L’estrapolazione di queste cifre consente di ipotizzare che oltre 250.000 persone della popolazione svizzera sperimentavano il gambling on line, quasi 600.000 partecipavano ad altri giochi offerti in Rete e fra le 30.000 e 35.000 persone praticavano giochi illegali. Questo enorme giro d’affari che ha ormai assunto una dimensione sovra nazionale si intreccia da tempo con i canali della finanza illegale. Nei cybercasinò, le cui società di gestione riescono ad eludere i vincoli delle normative nazionali, si è inserita la criminalità organizzata, che utilizza per il riciclaggio i pagamenti delle vincite che sono effettuati attraverso società off shore. Indagini condotte in differenti contesti nazionali hanno ribadito la pericolosità che il new gambling può rivestire all’interno del mondo adolescenziale. In particolare, sono state indicate quattro variabili principali che sembrano aver contribuito all’aumento del gioco d’azzardo tra le fasce giovanili della popolazione: la crescente liberalizzazione e la maggiore tolleranza sviluppatesi in questi ultimi anni, verso l’azzardo, percepito come innocuo e addirittura incoraggiato a livello pubblicitario; la ritardata consapevolezza del problema; la scarsa attenzione nei confronti di programmi per la formazione di una coscienza collettiva sui problemi legati al gioco; la familiarità e prossimità tecnologica delle nuove generazioni con il Web, per quanto riguarda i giochi on line. È evidente che nel caso di soggetti adolescenti e giovanissimi si sovrappongono e interagiscono le dinamiche attrattive del gioco d’azzardo e quelle dei new media, che nel loro insieme si rivelano particolarmente pericolose nel contesto di fasce di età caratterizzate dalla presenza di molteplici fattori di vulnerabilità e fragilità, individuali e sociali. Infatti è proprio nell’adolescenza (che oltretutto tende oggi ad allungarsi anche di molto, la cosiddetta “adolescenza protratta” dei 25/30enni) che i comportamenti a rischio svolgono una funzione centrale rispetto all’accettazione nel gruppo dei pari, al sentirsi più grande e libero dal controllo degli adulti, in Dipendenze e rischio nelle dinamiche dei New Media 124 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x grado di fronteggiare l›ansia e la frustrazione e di definire una propria identità. Nella letteratura scientifica numerosi studi concordano nell’evidenziare la comorbilità di varie turbe comportamentali con condotte di gioco patologico conclamate o potenziali. Negli adolescenti con problemi di gioco d’azzardo emerge un’elevata frequenza di disagi di carattere familiare, scolastico, legale e relazionale, spesso associati all’uso di alcool e droga, alle assenze a scuola, a preesistenti problemi di gioco in famiglia e alle attività illegali, finalizzate a finanziare il gioco stesso. In queste situazioni non è raro che gli stessi genitori presentino aspetti di gioco patologico15. Secondo alcune fonti, in Italia almeno 7 adolescenti su 10 giocano e scommettono: va detto che a tale stima si giunge considerando i diffusissimi “gratta e vinci” cartacei ed anche la partecipazione a modalità – come il poker on line giocato su facebook - che prevedono puntate e vincite meramente virtuali e simboliche, quindi non reali. In questi ultimi casi tuttavia, si tratta comunque di un approccio non privo di rischi psicologici per la familiarizzazione culturale ed un possibile passaggio a forme monetarie effettive. La pratica dell’azzardo sarebbe più diffusa tra gli adolescenti del Sud Italia, in primo luogo della Campania, circostanza che sembra avvalorare la lettura del gambling come forma di fuga da realtà problematiche ed illusoria scorciatoia per risolvere frustrazioni e realizzare rapidi guadagni. È utile richiamare nuovamente i risultati dell’indagine realizzata nel 2009 dall’Eurispes su un campione di 1.007 cittadini, stratificato per quote proporzionali della popolazione italiana secondo le seguenti variabili: sesso, classi d’età, area territoriale (Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud e Isole) ed ampiezza demografica del comune di residenza (piccolo, medio e grande). Secondo tale ricerca il 39% degli Italiani ha investito per la prima volta dei soldi per giocare tra i 18 e i 25 anni, mentre il 38,4% lo ha fatto tra i 13 e i 17 anni. Se si rapporta la percentuale degli italiani che sostengono di aver giocato per la prima volta in un’età compresa tra 13 e 17 anni (38,4%) al numero totale degli adolescenti (13-17 anni) nel 2008, è possibile ipotizzare che nel nostro Paese i teen-players siano ben oltre il milione. In effetti, sembra che quanto prima gli individui iniziano a giocare tanto più facilmente essi maturano una relazione problematica con il gioco: alcune ricerche hanno evidenziato che il 48% dei giovani giocatori d’azzardo problematici si sarebbe accostato alle varie forme di gambling circa dieci anni prima di manifestare aspetti patologici16. 15 cfr. R.Tulelli, Gioco d’azzardo e minori: le nuove forme della dipendenza, http://universominori.myblog.it/gioco-dazzardo-e-minori - sito consultato il 12 maggio 2011. 16 Ibidem. 17 In realtà il nostro ordinamento ha riconosciuto i rischi derivanti da un prematuro e non consapevole avvi- 6. Conclusioni Il coinvolgimento dei più giovani nelle varie forme d’azzardo e particolarmente in quelle accessibili sul Web costituisce un aspetto particolarmente delicato e preoccupante del più generale problema della diffusione del gioco e delle tecno-dipendenze nella società globale. Rispetto ad esso si evidenzia la necessità inderogabile di impostare adeguate strategie di prevenzione e di educazione. Nella prevenzione, accanto all’individuazione precoce dei contesti e dei soggetti a rischio, rientra sicuramente una più rigorosa disciplina normativa delle offerte di lotterie e giochi, per rendere effettiva l’inibizione dell’accesso ai minorenni. In effetti, per poter operare nel mercato italiano con la licenza della AAMS (Amministrazione Autonoma Monopoli di Stato) i siti web di giochi e scommesse debbono soddisfare ad alcuni requisiti fondamentali, primi fra i quali la promozione al gioco responsabile e sicuro, nonché il divieto ai minori di scommettere ed il divieto assoluto di proporre giochi di casinò, poker e slot machine. Tuttavia le precauzioni adottate si rivelano spesso insufficienti, senza dimenticare la costante disponibilità di siti esteri o comunque illegali che trascurano queste garanzie. Appare egualmente difficile assicurare l’interdizione ai minori nelle innumerevoli modalità off line, specialmente in quelle automatizzate17. Dipendenze e rischio nelle dinamiche dei New Media 125 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) È dunque evidente il ruolo centrale che viene ad assumere l’educazione dei più giovani ad un corretto approccio alle nuove tecnologie ed alle possibilità potenzialmente pericolose che esse offrono, un compito che spetta in primo luogo alla famiglia ed alla scuola, oltre che alla società nel suo complesso. Non si possono tuttavia ignorare certi aspetti culturali fortemente contraddittori che, nel caso specifico dei giochi d’azzardo, rendono questo compito particolarmente problematico. Bisogna ribadire che la crescente liberalizzazione e disponibilità, la maggiore tolleranza e addirittura l’incoraggiamento pubblicitario verso ogni sorta di lotterie e scommesse hanno senza dubbio contribuito a diffonderle anche presso gli adolescenti e a far percepire queste attività come prevalentemente innocue. Un esempio emblematico di queste ambiguità si rinviene nelle dichiarazioni del presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara, il quale – commentando i dati della ricerca in precedenza richiamata – ha affermato che quella dei giochi è «la terza industria del Paese» e che «la Aams ha ancora molto da fare per contrastare il sommerso e che dal settore giochi si possono produrre ancora molte entrate per lo Stato». In sostanza, emerge con chiarezza l’idea di un fenomeno da incoraggiare nelle sue forme legali, in quanto si dimostra una delle più preziose fonti di introiti per la Pubblica Amministrazione. cinamento dei giovani ai giochi d’azzardo, introducendo con l’articolo 22 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, che modifica l’articolo 110 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (T.U.L.P.S), il divieto, per i minori di 18 anni dell’utilizzo di congegni e apparecchi automatici, semiautomatici ed elettronici da intrattenimento o da gioco di abilità che si attivano con l’introduzione di moneta metallica. Tale divieto, il più delle volte eluso, non include tuttavia i giochi d’azzardo quali giochi a pronostico, lotterie, riffe e scommesse che attualmente vedono la partecipazione di un pubblico sempre più vasto. Ricordiamo inoltre che con una circolare del 23 marzo 2010 l’AAMS ha informato i gestori e i rivenditori dei prodotti «gratta e vinci» del divieto di vendita dei medium ai minori di 18 anni e della nuova normativa che prevede chiaramente di inserire sui biglietti del gratta e vinci sia nelle versioni online che in quelle offline la scritta 18+. Tuttavia sono molteplici ed evidenti le difficoltà applicative che si prospettano, specialmente per le vendite on line e nei distributori automatici diffusi in tutto il Paese. issn 2035-584x Sono già state richiamate le dinamiche e le motivazioni che rendono l’intreccio fra new media e gioco d’azzardo particolarmente invischiante e pericoloso per una fascia fisiologicamente a rischio come quella degli adolescenti e dei post-adolescenti (e non solo per loro). Questi fenomeni vanno anche collegati con la precocizzazione dei comportamenti che è una caratteristica dell’accelerazione straordinaria che viviamo e riguarda molti ambiti, come ad esempio quello della sessualità, nonché con l’affermarsi di meccanismi di apprendimento cosiddetto “digitale”, in cui emerge il primato del “sapere visuale” veicolato dai mezzi elettronici rispetto alle forme tradizionali basate sull’intermediazione dell’autorità di figure adulte18. Tuttavia, nella proliferazione di giochi e scommesse cui assistiamo c’è forse qualcosa di più e di diverso, che riguarda direttamente i modelli esistenziali che la società ostentatamente propone, alimentando la convinzione che attraverso strumenti semplici, privi di impegno, totalmente scollegati da ogni merito, sia possibile cambiare la vita ed è emblematico il nome della più recente lotteria istantanea: Win for Life. Nel venir meno di ogni metasignificato valoriale rimane il caso a dettare il senso (o la mancanza di senso) dei percorsi individuali e collettivi, a somiglianza della lotteria narrata da Jorge Luis Borges: «poiché Babilonia, essa stessa, non è altro che un infinito gioco d’azzardo»19. Pierpaolo Martucci, criminologo, Ricercatore, Docente di Antropologia Criminale e Criminologia nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Trieste [email protected] 18 Sul tema si veda L.Leone, Apprendimento digitale e comportamenti violenti, in “Rassegna Italiana di Criminologia”, 2008, 3, pp. 525-545. 19 J.L. Borges, La lotteria a Babilonia, in Finzioni, Milano, 1974, p..53. Dipendenze e rischio nelle dinamiche dei New Media 126 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Lo switch off del digitale televisivo terrestre in Friuli Venezia Giulia: un’applicazione della risk theory Eugenio Ambrosi Abstract Entro il 2012 l’intera Italia sarà passata al digitale televisivo terrestre, il Friuli Venezia Giulia è digitale dal dicembre 2010. Il sistema televisivo preesistente era detto analogico in virtù di un segnale trasmesso attraverso onde elettromagnetiche; la televisione digitale terrestre impiega, invece, segnali simili a quelli di Internet e della telefonia mobile. “Nulla sarà più come prima” è stato lo slogan che ci ha inseguiti per tutto il periodo di transizione al nuovo sistema di fruizione, per il cittadino, della televisione. Tra i tanti soggetti, pubblici e privati, istituzionali ed economici che sono stati coinvolti in questo passaggio, ve ne è stato uno, il Comitato regionale per le comunicazioni – CORECOM FVG, che ha fortemente voluto rita- gliarsi uno spazio da protagonista nella progettazione e realizzazione dell’intervento regionale. Si è trattato di un’esperienza unica in Italia, che è parso interessante riportare all’attenzione degli esperti di comunicazione in virtù del ruolo svolto dal CORECOM FVG, che ha seguito nel suo intervento lo schema operativo della “teoria del rischio”: dall’analisi alla gestione alla comunicazione. A Paesi con il progetto Extra-Large/XL, che ci ha permesso, partendo dall’esperienza EURO, di portare all’approvazione della Commissione europea un progetto di analisi, gestione e comunicazione del rischio–allargamento 2004 come vissuto sul confine italo/sloveno nella prospettiva di fungere da laboratorio per l’allargamento 2007 sul confine greco-bulgaro e per quello in fieri sul confine italo/sloveno/croato. L’ampliamento dell’esperienza ha permesso di dare forma e sostanza all’idea originaria: si è così sviluppata l’analisi del rischio/ risk theory tecnico e socio-economico per il FVG come pure delle aspettative dell’opinione pubblica regionale alle porte dello switch off, contribuendo alla definizione del quadro di riferimento per una legge regionale di gestione del rischio/risk management con l’assistenza ad alcune categorie maggiormente a rischio (operatori televisivi e cittadini) ed intervenendo poi con una manovra a cascata di comuni- ncora una volta, nell’ambito dell’attività dell’Amministrazione regionale, la teoria del rischio/risk theory è stata applicata ad un evento che appariva, a priori, capace di spezzare l’equilibrio in un settore delicato della vita quotidiana dei cittadini della regione Friuli Venezia Giulia; questa volta si sono utilizzate tali tecniche per gestire al meglio la transizione dall’analogico al digitale televisivo terrestre, concretamente conclusa nel dicembre 2010. È nella medesima chiave interpretativa con cui abbiamo vissuto l’avvento dell’euro nel 2001, con un progetto articolato di informazione istituzionale e comunicazione pubblica che non solo ha destato l’apprezzamento dell’opinione pubblica locale ma è stato portato ad esempio dagli organismi comunitari e inserito, quale best practice italiana, in una specifica pubblicazione del Comitato delle Regioni. Un paio d’anni dopo abbiamo vissuto l’ingresso nella UE di Slovenia, Ungheria ed altri Un'applicazione della risk theory Parole chiave Teoria del rischio; Risk theory; Risk communication; Risk management; Digitale televisivo; Switch off; CORECOM FVG. 127 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) cazione del rischio/risk communication verso stakeholder privilegiati (giornalisti, antennisti, amministratori locali) ma anche, direttamente, verso categorie target: opinione pubblica, studenti, anziani. Per fare ciò ed arrivare puntuale all’appuntamento, il CORECOM FVG ha iniziato a muoversi già nella primavera 2009, attraverso un progetto di ampio respiro, denominato “DI.TE. CORECOM”, volto proprio ad agevolare la transizione al digitale terrestre nella regione Friuli Venezia Giulia. Il sistema televisivo preesistente era detto analogico in virtù di un segnale trasmesso attraverso onde elettromagnetiche. La televisione digitale terrestre impiega invece segnali simili a quelli di Internet e della telefonia mobile. Una rete (digitale o analogica) è costituita da un insieme di trasmettitori, ognuno dei quali utilizza una frequenza dello spettro disponibile: nel caso della televisione analogica, ciascuna rete è in grado di trasportare un solo programma (o canale); nel caso della televisione digitale, una rete trasporta bit e quindi, potenzialmente, più canali contemporaneamente. Una emittente locale che oggi è in grado di trasmettere un solo programma, in virtù del digitale terrestre può quindi trasmettere contenuti diversi su quattro o più canali distinti. Lo switch off comporta lo spegnimento irreversibile del segnale analogico, il che rende obbligatoria l’adozione di un decoder (o di un televisore con decoder incorporato) per chiunque intenda continuare a usufruire di un apparecchio televisivo. È facile comprendere, di conseguenza, l’impatto del cambiamento, sia in termini tecnologici e sia economici, non solo per le emittenti locali (che avrebbero dovuto adeguare impianti e software) ma anche per le circa 480.000 famiglie della regione che sono state interessate dal fenomeno. Sulla base di queste premesse, e dei risultati della ricerca messi a disposizione a fine dicembre 2009, nel marzo successivo al CORECOM FVG, che si era mosso per tempo nella sua funzione di organo di vigilanza e garanzia dei cittadini e degli operatori del sistema ed i media, si è affiancato un apposito Gruppo di lavoro costituito presso l’Ufficio stampa della Presidenza della Giunta regionale. Un'applicazione della risk theory issn 2035-584x Risk theory In previsione dello switch off per il passaggio della programmazione televisiva dal sistema analogico a quello digitale terrestre, originariamente previsto per ottobre 2010, il CORECOM nel corso del 2009, per anticipare l’analisi delle problematiche tecniche sottese a tale evento, aveva dunque avviato il progetto “DI.TE. CORECOM” allo scopo di agevolare la transizione al digitale terrestre nella regione. Gli interventi previsti si rivolgevano a due macrosettori: - il primo si rivolgeva ad un’area “tecnica”, comprendente le emittenti televisive locali, gli impianti di diffusione e ripetizione del segnale, i tecnici antennisti/installatori ed i rivenditori di apparecchiature televisive; - il secondo rivolto ai cittadini che avrebbero dovuto adeguare le proprie apparecchiature alla ricezione del segnale digitale, con una particolare attenzione a quelle categorie che avrebbero potuto incontrare maggiori difficoltà, quali gli anziani. Lo studio “La qualità della TV locale: le aspettative dei telespettatori e degli operatori televisivi locali sui cambiamenti derivati dall’introduzione del digitale terrestre in Friuli Venezia Giulia” ha permesso di fotografare il livello di preparazione delle emittenti allo switch off, i loro progetti di televisione digitale, nonché di raccogliere alcune criticità segnalate dagli operatori. In particolare, erano stati intervistati individualmente i responsabili delle sette emittenti televisive con sede legale in Friuli Venezia Giulia (Telequattro Srl, Canale 6 TVM Srl, Telefriuli Spa, Radio Tele Pordenone Srl, Video Pordenone Srl, GSG Telemare Srl, Associazione Tele Alto But), che avevano poi compilato un articolato questionario, dopodiché una riunione presso la sede del CORECOM servì per discutere dei primi risultati con i referenti di tutte le emittenti televisive locali. Furono quindi intervistati i responsabili delle principali associazioni di categoria degli operatori televisivi (FRT, Aeranti-Corallo, REA e CNT); si riuscì così ad elaborare e sintetizzare i dati complessivamente acquisiti ed a proporre una serie di interventi e provvedimenti da 128 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) sottoporre alla Regione a sostegno degli operatori televisivi locali in vista del passaggio al digitale terrestre. È grazie a tale studio che è stato così possibile individuare quelli che sarebbero stati i principali problemi da affrontarsi a livello locale per garantire la comunità regionale dal “rischio digitale terrestre” per agevolare tale transizione attraverso la predisposizione degli interventi tecnici necessari e la contestuale, intensa attività di informazione/comunicazione, l’una e l’altra necessarie per affiancare e rafforzare l’efficacia delle attività decise a livello nazionale dal Dipartimento per le Comunicazioni - Ministero dello Sviluppo Economico e dall’AGCOM - Autorità per le Garanzie nella Comunicazione, mettendo a disposizione la propria conoscenza delle realtà e delle problematiche locali. Lo studio del CORECOM FVG “La qualità della TV locale” Lo studio “La qualità della TV locale: le aspettative dei telespettatori e degli operatori televisivi locali sui cambiamenti derivati dall’introduzione del digitale terrestre in Friuli Venezia Giulia“, realizzato nella seconda metà del 2009 per agevolare la delicata fase di transizione al digitale terrestre, ha fatto emergere che: - complessivamente il comparto regionale occupa circa 140 persone (indotto escluso), sebbene i dipendenti siano meno della metà; - il valore della produzione medio per emittente era di 0,68 M€; solo tre emittenti su sette superavano 1M€; le restanti si attestano sotto i 250.000€ annui; - la raccolta pubblicitaria complessiva era di circa 3,4 M€, ma solo due emittenti su sette superavano 1M€; tre emittenti non dichiaravano introiti pubblicitari. Altre inserzioni pubblicitarie, quantitativamente ed economicamente non determinate, venivano raccolte e gestite sul territorio regionale da emittenti venete. Il valore complessivo della pubblicità televisiva disponibile in Friuli Venezia Giulia oscillava quindi fra i 4,2e i 5 M€ ed appariva poco probabile un qualche allargamento del bacino pubblicitario con l’avvento del DTT (Digital Terrestrial Television); Un'applicazione della risk theory issn 2035-584x - da tutti gli operatori regionali il passaggio al digitale terrestre veniva giudicato come una “opportunità irrinunciabile”, seppure non priva di insidie. Esisteva un diffuso auspicio affinché le istituzioni regionali sostenessero economicamente questa delicata fase di transizione, in carenza di un sostegno pubblico il rischio di cessazione delle attività, per le emittenti più deboli, era reale; - dopo lo switch off, Telequattro dichiarava che avrebbe avuto una copertura pari al 100% del territorio regionale e così Telefriuli, peraltro alle prese con un complesso processo di adeguamento impiantistico; Canale 6 TVM pensava di servire le province di Trieste, Udine e Gorizia e, parzialmente, quella di Pordenone; Video Pordenone e Radio Tele Pordenone intendevano coprire le province di Udine e Pordenone. Tele Alto Bût intendeva raggiungere 13.000 utenti nella Valle del Bût e nel comune di Tolmezzo. Telemare, che all’epoca copriva con il segnale analogico il comune di Gorizia e le aree limitrofe e parte delle province di Udine e Trieste, si dichiarava non in grado di fare previsioni per il post switch off; - le risorse necessarie al completamento della fase di adeguamento impiantistico variavano - a seconda delle emittenti - da un minimo di 200.000 € a un massimo di circa 1M€ ciascuna, per una stima complessiva superiore ai 3 M€; - l’utenza regionale delle emittenti locali (potenzialmente attratta dai nuovi contenuti e dalla interattività della tecnologia) poteva aumentare di circa il 4-5%. Benefici e criticità A parere dei gestori e degli operatori televisivi, i benefici del digitale terrestre si potevano così sintetizzare: - possibilità di ampliare l’offerta dei contenuti, anche interattivi; - possibilità di trasmettere programmi a pagamento; - possibilità di affittare canali a produttori di contenuti o ad altri soggetti terzi; - possibilità di attivare nuove forme di business. Sul fronte degli utenti, i potenziali vantaggi potevano essere così riassunti: 129 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) - maggior numero di canali disponibili; - maggiore offerta di contenuti; - migliore qualità dell’immagine e del segnale audio; - possibilità di fruire di servizi interattivi e informativi (T-government, T-banking, T-learning, ecc.); - accesso a servizi istituzionali e di pubblica utilità. Il DTT, tecnologia relativamente giovane, necessita di una progressiva messa a punto. I problemi manifestatisi in alcune delle aree dove lo switch off era già avvenuto hanno permesso di individuare le criticità con le quali anche il Friuli Venezia Giulia avrebbe dovuto/ potuto confrontarsi: - limitata disponibilità di frequenze: delle 54 frequenze disponibili, una volta assegnata una parte consistente alle emittenti nazionali, le restanti sarebbero state suddivise tra gli operatori locali. Non parevano sussistere problemi di carenza, sebbene la presenza delle emittenti venete e di quelle slovene e croate avrebbe potuto saturare la disponibilità delle frequenze; - pre-sintonizzazione automatica (LCN - Logical Channel Numbers): il posizionamento dei canali sul telecomando rappresentava uno dei problemi maggiormente percepiti dalle emittenti locali. È evidente che, per un operatore locale, sintonizzarsi nelle vicinanze degli operatori nazionali (o comunque in corrispondenza di numerazioni basse) non è come posizionarsi su numerazioni elevate, di fatto anonime e difficilmente raggiungibili. La questione dell’ LCN potrebbe incidere in maniera non marginale sull’appetibilità delle emittenti da parte degli inserzionisti pubblicitari, con importanti ripercussioni commerciali. Lo stato di confusione pareva destinato a crescere ulteriormente a causa di quei modelli di decoder e televisori integrati che non mantengono la sintonizzazione dell’utente, poiché durante la notte, automaticamente, operano il cosiddetto refresh (o riposizionamento dei canali in base a criteri stabiliti dal produttore dei decoder); - adeguamento degli impianti e delle tecnologie: emerse chiaramente che la vetustà di molte strutture che ospitavano i ripetitori o sostenevano le antenne avrebbe costretto Un'applicazione della risk theory issn 2035-584x gli operatori a notevoli investimenti. Anche l’aggiornamento delle apparecchiature, dei software e dei ponti di trasmissione avrebbe avuto un impatto economico rilevante, specie sugli operatori minori; - orografia e conflitti SFN: SFN è l’acronimo di single frequency network e prevede che tutti i trasmettitori di una rete usino la medesima frequenza. Criticità marcate erano già emerse in tutte quelle aree dove l’orografia del territorio ha reso valli e zone montane difficilmente raggiungibili dal segnale digitale, oppure dove i segnali SFN confliggono e mandano in tilt i decoder degli utenti. Criticità dovute all’orografia del territorio e alla vetustà degli impianti erano verosimilmente prevedibili anche in alcune valli e fasce montane; - adeguamento delle antenne di ricezione: le antenne usate dagli utenti per la ricezione del segnale analogico avrebbero dovuto funzionare anche dopo la transizione al digitale terrestre, tuttavia problemi di vario tipo potevano presentarsi in presenza di impianti vecchi o carenti di manutenzione. All’atto dello switch off avrebbero potuto inoltre verificarsi variazioni nelle frequenze utilizzate per la trasmissione dei programmi. Con il senno di poi, è stata la criticità più sottovalutata e più foriera di disservizi tecnici e malumori tra gli utenti finali. Proposte di intervento a sostegno degli operatori televisivi locali da parte della Regione FVG Dall’indagine emergeva che, nonostante le scarse competenze settoriali, si attribuiva alla Regione un buon margine di intervento in vista dello switch off. Cinque le azioni individuate: a) Un’azione politica di lobbying La Regione poteva attuare interventi di carattere politico sul Governo e sull’Autorità competente in materia di LCN e di assegnazione delle frequenze. Pareva auspicabile che la Regione partecipasse ai vari tavoli tecnici per evitare scelte penalizzanti per gli operatori locali. Veniva altresì ritenuto essenziale che la Regione si attivasse presso il Ministero e l’AGCOM per l’istituzione di un tavolo con 130 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) Slovenia, Austria e Croazia per evitare sovrapposizioni e interferenze allo switch over; b) un’azione di carattere normativo A sostegno delle emittenti locali con sede legale in regione, come già in altre Regioni (Lazio, Campania, Piemonte) e nel rispetto del regime de minimis, era auspicato: - un provvedimento (da attuare in Finanziaria) a copertura parziale dei futuri investimenti, in particolare un contributo a ciascuna emittente di 200.000€ a fondo perduto, per agevolare l’adeguamento organizzativo, degli impianti e dei software; nonché, eventualmente, un prestito pluriennale da restituire a tasso 0; - in alternativa, un’azione correttiva della Legge regionale 4 marzo 2005, n. 4, “Interventi per il sostegno e lo sviluppo competitivo delle piccole e medie imprese del Friuli Venezia Giulia”; c) un’azione di sostegno alla comunicazione istituzionale Per l’implementazione e la sperimentazione di piattaforme di T-government, per la comunicazione relativa al digitale terrestre e alle attività degli Organi istituzionali della Regione e degli Enti locali si proponeva di stanziare 1M€ per acquistare spazi di comunicazione istituzionale sui media locali per informare l’utenza sulle opportunità e l’uso della nuova tecnologia e sostenere un comparto da tempo in profonda crisi; d) un’azione a sostegno della formazione degli operatori televisivi e degli utenti Si proponeva di destinare un importo di 350.000€, a valere sul Fondo Sociale Europeo, per sistemi, campagne e corsi di formazione, riqualificazione e informazione per gli utenti e gli operatori televisivi, atteso che analisi accademiche e le stesse associazioni di categoria segnalavano come il digitale terrestre avrebbe indotto lo sviluppo di nuove professionalità e competenze nel settore. e) un’azione a sostegno dell’attività di comunicazione del CORECOM FVG Per realizzare campagne, studi e progetti di comunicazione, informazione e formazione in vista dello switch over (anche a sostegno delle fasce più deboli di utenza), si proponeUn'applicazione della risk theory issn 2035-584x va di destinare al CORECOM FVG un fondo di 250.000€ pro 2010. Risk management Come detto, la Regione si è trovata, ad inizio gennaio 2010, coinvolta attorno a diversi tavoli di lavoro operanti a diverso livello territoriale, sedi ove era possibile individuare i problemi, confrontarsi con gli stakeholder, definire le soluzioni tecniche ed amministrative. Un “Gruppo di lavoro interregionale sul tema del passaggio al digitale terrestre” si è così riunito per la prima volta il 15 gennaio a Milano, auspice il vice ministro Romani, che ne aveva affidato il coordinamento alla Regione Lombardia, e vedeva non solo il coinvolgimento delle Regioni del nord interessate dal passaggio al digitale terrestre nel 2010, Friuli, Veneto, Piemonte orientale, Liguria, Emilia Romagna ma intendeva anche fare il punto sui problemi riscontrati dai territori nei quali era stato già effettuato il passaggio, Piemonte occidentale e le Provincie di Trento e Bolzano in particolare. In sintesi, i principali temi emersi in quel consesso in occasione degli incontri svoltisi sino ad autunno inoltrato, sono stati: - Tempistica dello switch off/switch over - Quanti MUX ( acronimo di Multiplex ) avrà la Rai, quanti Mediaset, come saranno divisi? - Cosa è previsto per le lingue minoritarie del Friuli Venezia Giulia (sloveno e friulano)? - Quale è il ruolo della Rai nei Tavoli tecnici? E quale delle Regioni? - Le iniziative di supporto alle fasce deboli - La comunicazione nazionale e regionale - Localizzazione e interventi di manutenzione su impianti che non dipendono dai gestori televisivi principali - Sovrapposizione di segnali sui territori di confine tra regioni e gli altri stati - Rapporti con gli antennisti, loro formazione, definizione di albi ed eventuali tariffari - coinvolgimento della grande distribuzione - Ruolo delle associazioni dei consumatori - Eventuali finanziamenti alle emittenti locali - Accelerazione sulle assegnazioni delle frequenze da parte dell’AGCOM 131 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) - Modalità di finanziamento - Definizione delle date Switch over e Switch off - LCN Temi, questi, che sarebbero poi stati ripresi ad un altro tavolo, questa volta a respiro nazionale, promosso a Roma dal CNID – Comitato Nazionale Italia Digitale, composto dai rappresentanti delle Autorità per le Garanzie delle Comunicazioni, delle Regioni, delle associazioni di TV locali e delle emittenti nazionali, dei produttori e distributori, dei consumatori e presieduto dal vice ministro allo Sviluppo Economico con delega alle Comunicazioni, il cui primo incontro con il coinvolgimento della Regione Friuli Venezia Giulia ha avuto luogo di lì a poco, il 21 gennaio, presenti il Ministero e l’ AGCOM. In quella sede fu deciso che lo switch off digitale terrestre nel bacino Nord da 23 milioni di abitanti sarebbe partito dal 15 settembre (con Lombardia e Piemonte orientale) e si sarebbe concluso il 20 dicembre (con la Liguria). Al FVG sarebbe toccato ad ottobre. Al momento sembrava che i tavoli tecnici congiunti tra Agcom e il Ministero per lo Sviluppo Economico (MSE-Com) per l’assegnazione condivisa delle risorse radioelettriche disponibili sarebbero stati fissati entro febbraio, per procedere poi, dopo la pubblicazione della delibera Agcom recante i piani di assegnazione, al rilascio dei provvedimenti di attribuzione dei diritti d’uso delle nuove frequenze digitali entro marzo. Certo è che a favore di uno start-up DTT tranquillo non giocavano le decine di ricorsi al TAR già promossi dalle emittenti contro i provvedimenti dell’Ispettorato territoriale per la Lombardia del MSE-Com: al momento. il rischio che il masterplan che la Direzione Generale del MSE-Com doveva predisporre in vista della migrazione s’intoppasse a causa dell’accoglimento anche solo di un ricorso giudiziario non pareva affatto remoto. In quella sede era stata posta con decisione la questione degli impianti ex art. 30 D. Lgs. 177/2005 (Testo unico della radio-televisione), cioè degli impianti delle Comunità montane e degli Enti locali atti a servire aree disagiate dal punto di vista radioelettrico, dove generalmente gli operatori non hanno particolare interesse Un'applicazione della risk theory issn 2035-584x a giungere, stante la scarsa rilevanza demografica e la limitata appetibilità commerciale. Mentre ovviamente rimaneva confermato l’obbligo di disattivare alla data dello switch off gli impianti analogici o digitali attivati ex art. 30 D. Lgs. 177/2005, era ormai assodata la conferma della possibilità per Comuni e Comunità montane di inoltrare agli Ispettorati territoriali competenti “apposite istanze per la riattivazione dei microdiffusori su base non interferenziale col nuovo quadro elettrico definito dopo lo switch off”. Per quanto attiene, invece, alle domande ex novo degli enti locali, il MSE-Com non pareva avere preclusioni per l’immediato rilascio dei titoli all’esercizio, a switch off avvenuto, ovviamente valutata l’assenza di pregiudizi interferenziali per i terzi e, soprattutto, la reale esigenza di copertura, in pratica se tali diffusori compensativi non avrebbero operato in stato di ridonanza. È a questo Tavolo che il 13 settembre sarebbe stata decisa la revisione dei tempi dello switch over delle Regioni nord-orientali, che posticipava al 25 ottobre 2010 l’inizio delle operazioni di passaggio inizialmente previsto per il 15 settembre. per cui Friuli Venezia Giulia, Veneto ed Emilia-Romagna sarebbero approdati direttamente allo switch over evitando il periodo di transizione dello switch off. Il tutto, per il Friuli Venezia Giulia, tra il 3 ed il 14 dicembre, a seconda delle fasce territoriali: costiere, urbane, collinari, montane. Il posticipo aveva l’obiettivo di garantire le condizioni necessarie per il passaggio alla nuova tecnologia in un’area tanto vasta e complessa. In quell’occasione lo switch off nella Regione Liguria è stato posticipato al primo semestre del 2011, anche al fine di valutare la compatibilità radioelettrica con l’area tecnica toscana A livello nazionale la governance della transizione al digitale terrestre è stata particolarmente complessa, e lo è tuttora, tenuto conto dei rilevanti interessi strategici, economici, politico-sindacali in gioco, più volte “denunciati” in particolare dalle organizzazioni rappresentative delle emittenti locali, con accuse che spaziano dagli interessi privati in atto d’ufficio alla scarsa trasparenza. Tale complessità è stata discussa anche in diversi incontri 132 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) promossi dall’Agcom e dal Coordinamento nazionale dei CORECOM, spesso in collaborazione con RAI WAY. Proprio quest’ultima si impegnò a luglio ad installare il MUX 1 sugli impianti “ufficiali”, ovvero quelli rientranti negli elenchi pubblicati nelle Gazzette Ufficiali. Non era previsto che gli impianti delle Comunità montane potessero essere attrezzati con impianti Rai, non escludendo, però, la possibilità di giungere ad una specifica convenzione, una forma di comodato che era già stata sperimentata in alcune aree del Lazio. Restando peraltro da definire se seguire questa strada con i singoli Comuni/Comunità montane interessati o con la Regione. Il MUX 1 avrebbe coperto il 99% della popolazione, il che significa che sarebbe rimasto fuori un 1%, circa 12.000 abitanti, non tanti in termini demografici ma verosimilmente distribuiti nell’area montana della regione, tradizionalmente più penalizzata. Riguardo ai MUX della Rai, sarebbero stati 5, i MUX 3 e 4 con 4 canali ciascuno, il 4 in particolare dedicato all’Alta Definizione, mentre il 5 sarebbe stato riservato ai Servizi di mobilità. Lo stesso numero di MUX era riservato a Mediaset. In merito ai problemi di interferenza di segnale con i Paesi confinanti (Slovenia e Croazia), non avrebbero dovuto esserci problemi di interferenze in base al piano di ripartizione delle frequenze deciso in ambito europeo con gli Accordi di Ginevra ed al contestuale riordino delle stesse (area per area), che sta avvenendo in Italia man mano che si procede con la digitalizzazione. Ad ogni buon conto, in merito all’utilizzo del satellite per coprire le aree non raggiunte dal digitale terrestre, attraverso questo mezzo non sarebbe stato possibile trasmettere i programmi delle redazioni regionali (se non a rotazione) né quelli dedicati alle minoranze linguistiche. Per ricevere il segnale dal satellite bisogna infatti munirsi di un apposito decoder (l’unico attualmente esistente è prodotto da TivùSat) e di una parabola, ad un costo complessivo di circa 100 Euro, anche se già esistono in commercio “decoder integrati” in grado di ricevere sia il segnale terrestre che quello satellitare. Un'applicazione della risk theory issn 2035-584x Per ricevere i programmi Rai è inoltre necessaria una tessera, gratuita ed attivabile se si è in regola con il pagamento del canone Rai. Un altro ambito di lavoro nazionale era ed è rappresentato da DGTVi, l’Associazione italiana per lo sviluppo della tv digitale terrestre costituita da Rai, Mediaset, Telecom Italia Media, DFree, FRT e Aeranti-Corallo. L’Associazione ha l’obiettivo di promuovere l’avvio e il pieno sviluppo della televisione digitale terrestre in Italia; promuove iniziative finalizzate ad assicurare all’utente finale la più completa informazione sulle opportunità offerte dalla nuova tecnologia trasmissiva e dalle nuove modalità di fruizione dell’offerta; favorisce l’interoperabilità delle reti e delle applicazioni interattive. Attraverso la consultazione con il Ministero dello Sviluppo EconomicoComunicazioni, l’Autorità per le garanzie nelle Comunicazioni e ogni altro organismo competente DGTVi ha cooperato anche all’attuazione della transizione dal sistema analogico a quello digitale, nei tempi previsti dalle leggi vigenti e in linea con la normativa europea, nel Nord Est. DGTVi pubblica mensilmente la newsletter “DIGITA”, distribuita gratuitamente a mezzo email e contenente informazioni, notizie e dati sulla TV digitale terrestre in Italia e in Europa. Su scala locale, la Regione ha dato vita ad uno specifico “Gruppo di lavoro interdirezionale”, creato dalla Presidenza della Giunta regionale ed affidato, per la conduzione, al direttore dell’Ufficio stampa. Questo Gruppo di Lavoro, costituito con decreto del Presidente della Giunta regionale, si è insediato il successivo 11 marzo ed ha visto la partecipazione di funzionari dell’Ufficio stampa, delle Direzioni centrali mobilità e infrastrutture di trasporto, Pianificazione territoriale, Welfare, Protezione civile nonché del CORECOM FVG, in virtù della sua funzione di garanzia verso il sistema dei media regionali e dei cittadini. Finalità dichiarate: - identificare i reali bisogni del cittadino, in termini di informazione e di servizi alla persona; - raggiungere tutti gli strati di popolazione della realtà territoriale, sia a livello geografico che demografico; 133 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) - vigilare sui bisogni e sulle necessità delle fasce più deboli della popolazione Questo Gruppo di lavoro si è dato un insieme di compiti così riassumibili, puntualmente perseguiti nel corso dell’anno: - individuazione delle zone d’ombra dove presumibilmente il segnale digitale sarebbe rimasto coperto e modalità per garantire al maggior numero possibile di utenti la visione del segnale, incluso quello di RAI TRE regionale, atteso che portare TV SAT nelle aree di montagna dove il segnale del digitale non sarebbe arrivato non avrebbe risolto il problema, poiché tale servizio non sarebbe riuscito a garantire la visione dei programmi RAI regionali, telegiornali in primis; - coinvolgimento della Protezione Civile: da subito i volontari della Protezione civile sono stati individuati come possibili soggetti da utilizzare, specie nei territori disagiati, a favore della popolazione civile per un’azione di informazione e supporto tecnico; - piano di comunicazione: a rinforzo della comunicazione ministeriale la Regione avrebbe curato la predisposizione di una website dedicata sul proprio sito istituzionale con link a quello del CORECOM; la predisposizione di una brochure informativa da recapitare a domicilio di tutte le famiglie alla vigilia dello switch off di dicembre; una serie di conferenze stampa nei momenti topici della transizione al digitale; - rapporti con gli stakeholders tecnici: gli operatori televisivi locali e la RAI/Rai Way FVG; - rapporti con i rivenditori dei decoder, che avrebbero dovuto fare da tramite con il Ministero nell’erogazione dei contributi ministeriale. Per quanto riguarda i decoder, si poteva scegliere tra quelli interattivi (set top box) e quelli che si limitano a convertire il segnale digitale (zapper), laddove i primi, se da un lato erano più costosi (dai 70 Euro in su rispetto ai 30 Euro di un zapper) dall’altro erano dotati di un software più elaborato; - rapporti con gli antennisti, per definire un Codice etico per la trasparenza dei servizi e dei relativi costi, un tariffario calmierato, le liste di coloro che vi avrebbero aderito. Da subito era evidente che i problemi principali avrebbero potuto riguardare le antenne di ricezioUn'applicazione della risk theory issn 2035-584x ne, in particolare quelle più obsolete o quelle degli impianti condominiali dotati di filtri e canalizzati. Il problema della qualità del segnale diventa infatti più stringente in ambito digitale rispetto all’analogico: trattandosi sostanzialmente di una “trasmissione-dati”, una cattiva qualità comporta l’oscuramento totale del canale, con il risultato che un segnale già debole o disturbato in ambito analogico non sarà più visibile con il digitale; - problematiche delle Comunità Montane: in particolare, soluzione del problema legato alla proprietà degli impianti, atteso che talune Comunità risultavano possedere i tralicci ma non erano proprietarie dei trasmettitori e quindi non potevano agire in prima persona. Le Comunità montane e lo switch off/ switch over Proprio i problemi delle Comunità montane si sono rivelate, nel corso dell’anno, quelli più complessi e gravosi da risolvere. Riunione dopo riunione si è andato infatti definendo un quadro che, a luglio, da un puntuale raffronto tra gli elenchi degli impianti regolarmente autorizzati di proprietà dei comuni e delle Comunità montane fornito dall’Ispettorato regionale delle comunicazioni, quello degli impianti di proprietà di Rai Way e dagli elenchi inviati dalle Comunità montane faceva emergere un quadro estremamente complesso e di difficile lettura. Tale situazione rendeva impossibile una puntuale individuazione degli interventi necessari ad ogni singolo impianto, al punto che si convenne di procedere ad una valutazione complessiva per singola comunità, che fornì questo quadro d’insieme: 1. Comunità del Friuli occidentale: secondo Rai Way in questa area non avrebbero dovuto esserci particolari problemi, tranne per i ponti di Erto e Casso. In tal senso risultava opportuno un intervento economico per l’adeguamento di tali ponti (S. Osvaldo e S. Floriano), dal costo complessivo di circa 15-20 mila euro. 2. Comunità della Carnia: qui l’intervento sembrava riguardare gli impianti di Cabia e Piedim, i cui costi erano al momento indefini134 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) ti, e parevano poterci essere difficoltà di tipo burocratico in merito alle procedure autorizzative. Vi era inoltre incertezza sullo status di alcuni impianti di proprietà del Comune di Forni Avoltri (Val Degano su traliccio e Collinetta, su palo, forse superfluo con il DTT). 3. Comunità del Gemonese: in questa area era concentrato il maggior numero di impianti (18), apparentemente tutti regolarmente autorizzati alla trasmissione in analogico; e proprio l’alto numero di impianti su cui si doveva intervenire poneva un problema di natura economica. 4. Comunità delle Valli del Natisone: la Comunità non era proprietaria di impianti, pertanto non vi era necessità di alcun intervento. Proprio grazie a questi continui e pressanti contatti ed approfondimenti, a luglio nell’ambito del Gruppo di lavoro si registrò la necessità di un provvedimento normativo d’urgenza da chiedere al Consiglio regionale per il tramite della Giunta e dell’assessore competente. Fu così contattato il Servizio Infrastrutture della Direzione centrale Infrastrutture, mobilità, pianificazione territoriale e lavori pubblici, insieme al quale si contribuì ad inserire un Capo Terzo in un d.d.l.r che alla fine assunse il titolo di “Norme urgenti in materia di personale e di organizzazione nonché in materia di passaggio al digitale terrestre” inserendovi nell’articolato un articolo in grado di garantire la possibilità di utilizzare l’autocertificazione non solo per gli adeguamenti ma anche per le nuove attivazioni impiantistiche. In breve, il 29 luglio il Consiglio regionale ha così approvato la legge che al Capo Terzo, art. 10, ora recita: Norme urgenti in materia di passaggio al digitale terrestre Art. 10 (Norme urgenti in materia di passaggio al digitale terrestre) 1. Al fine di agevolare e consentire nel territorio regionale il passaggio della radiodiffusione televisiva terrestre dal sistema analogico a quello digitale, le autorizzazioni amministrative per l’installazione di nuovi impianti per la Un'applicazione della risk theory issn 2035-584x radiodiffusione televisiva in tecnica digitale, nonché per le modifiche agli impianti esistenti che necessitano di essere adeguati, sono disciplinate dalle disposizioni che seguono. 2. I nuovi impianti previsti dai piani nazionali di assegnazione delle frequenze per la radiodiffusione televisiva in tecnica digitale, e fermo restando quanto previsto dagli indirizzi dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni in merito a possibili localizzazioni fuori dagli stessi piani nazionali, sono soggetti ad autorizzazione unica, rilasciata da parte del Comune interessato ai soggetti abilitati, a conclusione di un procedimento unificato, nel rispetto dei principi di semplificazione e con le modalità e nei termini di cui alle vigenti norme previste per l’istituto della conferenza di servizi. 3. L’autorizzazione di cui al comma 2 è rilasciata anche in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici comunali vigenti, fatte salve le vigenti norme in materia di tutela della salute, del territorio, dell’ambiente, del paesaggio e dei beni culturali, nel rispetto dei principi di non discriminazione, proporzionalità e obiettività, e sulla base del parere favorevole di ARPA che accerti il rispetto dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità relativi alle emissioni elettromagnetiche di cui alla legge 22 febbraio 2001, n. 36 (Legge quadro sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici) e successive modifiche. 4. Per gli impianti esistenti che necessitano di essere adeguati per il passaggio alla tecnica digitale, qualora le modifiche non comportino in alcun punto del territorio un aumento dei livelli di campo elettromagnetico, il titolare dell’impianto invia una comunicazione ad ARPA e al Comune interessato, contenente una autocertificazione corredata di una relazione tecnica con i dati radioelettrici aggiornati sottoscritta da un tecnico qualificato. La comunicazione è soggetta in ogni tempo a successiva verifica da parte del Comune con il supporto di ARPA. 5. Qualora le modifiche agli impianti esistenti di cui al comma 4 comportino un aumento dei livelli di campo elettromagnetico, 135 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) o comunque comportino modifiche ai volumi edilizi e alla sagoma dell’impianto, si applica il procedimento di cui ai commi 2 e 3. Risolto così positivamente il problema della semplificazione delle procedure autorizzatorie a capo dell’ARPA, rimaneva insoluta la risposta ai problemi tecnico-finanziari evidenziati dalle Comunità montane. Di concerto con il Gruppo di lavoro è stata così definito un ulteriore intervento legislativo, che mettesse l’Amministrazione in grado di intervenire anche finanziariamente a sostegno delle Comunità montane. Contemporaneamente, alla luce delle problematiche segnalate dalle Comunità in merito alla necessità di adeguare alla nuova tecnologia gli impianti di ripetizione, anche al fine di consentire anche alle popolazioni dei Comuni montani di continuare a ricevere i programmi televisivi, altrimenti irricevibili, le stesse Comunità hanno provveduto a stilare l’elenco dettagliato dei fondi già destinati dalle Comunità ad altri interventi non ancora impegnati perché non più rientranti nei loro interessi prioritari. L’Ufficio stampa e il Servizio coordinamento delle politiche per la montagna, di concerto con la Ragioneria centrale ed il CORECOM, hanno così individuato un meccanismo per la ri-assegnazione di tali finanziamenti residui al fine dell’adeguamento degli impianti di ripetizione del segnale radiotelevisivo dei Comuni e delle Comunità montane (ex art. 30 co.1 del D.lgs 177/05) in vista del passaggio alla televisione digitale terrestre. La legge regionale 18/2010 “Norme urgenti in materia di servizio pubblico televisivo”, approvata il 29 ottobre, ha così autorizzato l’Amministrazione regionale a erogare un contributo alla RAI al fine di consentire la realizzazione di interventi atti a garantire la copertura del segnale del servizio pubblico televisivo in determinate aree del territorio regionale che attualmente rimangono prive di segnale nel passaggio dal sistema di trasmissione analogico a quello digitale terrestre. Intervento preferibilmente rivolto alle zone montane e, comunque, nell’ambito di una equilibrata ripartizione territoriale, con modalità’ di erogaUn'applicazione della risk theory issn 2035-584x zione del contributo determinate dalla Giunta regionale, sentito il CORECOM, per una spesa complessiva di 700.000 euro per l’anno 2010 L’Ufficio stampa si è mosso con grande velocità ed in breve tempo ha portato all’approvazione della Giunta la relativa delibera per garantire il puntuale utilizzo di tali fondi, individuando lo strumento giuridico nella concessione alla RAI - Radiotelevisione italiana S.p.A., previa apposita istanza, del contributo disponibile. La RAI avrebbe dovuto individuare ed indicare le localizzazioni, le tipologie di intervento ed i costi presunti degli interventi su impianti e/o strutture di proprietà delle Comunità Montane e/o di singoli Comuni, seguendo un ordine di priorità definito in accordo con le amministrazioni locali proprietarie. E così è stato, quantomeno nella fase delicata post switch over. Tutte queste attività, dalla frequentazione di tavoli di lavoro, fiere digitali e seminari conoscitivi, all’analisi e ricerca dei problemi, alla partecipazione ai tavoli di lavoro, facevano emergere chiaramente che uno dei snodi fondamentali dell’intera vicenda sarebbe stato l’impatto che lo switch over avrebbe avuto sugli utenti. Da qui l’esigenza di articolare per tempo una sorta di piano di comunicazione che, in sinergia con quanto a livello nazionale si andava preparando, mettesse in condizione l’Amministrazione di essere protagonista attiva di questa specifica attività. E qui il corecom è stato in prima linea per l’intera transizione al digitale. Era abbastanza evidente che il contatto con la popolazione locale avrebbe potuto essere semplificato se le Amministrazioni comunali avessero accettato di essere coinvolte in un articolato programma di informazione che il CORECOM si era dichiarato disponibile a svolgere sulla base di un paio di incontri sperimentali avviati a primavera. Così il CORECOM, nell’ambito di quanto previsto dall’art. 3 dei Protocolli d’intesa sottoscritti con ANCI e UP l’anno precedente, a metà maggio 2010 ha concordato ad Udine iniziative comuni da sviluppare nel corso dell’anno, della cui utilità aveva avuto conferma nel corso di un incontro “pilota” appena organizzato in Friuli. In particolare in quella sede si è condivisa l’op136 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) portunità di collaborazione delle autonomie locali alle attività promosse dal Gruppo di lavoro interdirezionale e dal CORECOM per affrontare la transizione al digitale terrestre, in particolare il coinvolgimento nella realizzazione di una campagna di sensibilizzazione e supporto alle fasce più deboli della popolazione ed ai territori più svantaggiati che avrebbero potuto insorgere in sede di switch off d’autunno. Ne era venuto fuori, pur nella sua informale definizione, un vero e proprio Piano di comunicazione. risk communication Nell’ambito del Gruppo di lavoro interdisciplinare, proprio la definizione di tale Piano fu l’azione che sin dall’inizio procedette con maggiore speditezza. Innanzitutto, fu condivisa l’esigenza di chiarire che nell’ideazione della campagna promozionale per il passaggio al digitale terrestre doveva essere chiaro che l’avvento del DTT era un’azione di carattere privatistico e che l’intervento dello Stato e della Regione avveniva unicamente a causa degli impatti e delle ricadute sociali che esso avrebbe avuto sulla popolazione del territorio regionale. Il contributo informativo dello Stato, anche per il tramite di CNID e DGTVi, può essere così riassunto: - campagna informativa sulle emittenti televisive pubblica e private, televisive e radiofoniche: - campagna informativa sui media a stampa; - produzione di brochure informative; - progetto scolastico sul Digitale Terrestre coinvolgente RAI WAY, Eurosatellite, il Ministero della Pubblica Istruzione Direzione Generale Ordinamenti Scolastici. Accanto dunque a questa massiccia campagna “generalista” nazionale, il piano di comunicazione, che nei documenti risulta come campagna promozionale, prevedeva un’organica promozione del digitale terrestre declinata attraverso i più importanti canali mediatici regionali, ovvero: - Affissioni: manifesti 6x3 (da utilizzare solo se necessari), locandine, leaflet in precisi Un'applicazione della risk theory issn 2035-584x punti di distribuzione anche presso i venditori di decoder); - Pagine Bianche; - Quotidiani: annunci formato piedi di pagina e pagine intere (grande impatto); - Settimanali: annunci su Il Friuli, Vita Cattolica, Il Sole 24 ore Nord Est, Mercatino, Bancarella; - Radio: campagna articolata su circuito Media 90 e Vivaradio e tutti il circuito di radio locali a target di età più elevata. Spot da 30’’; - Depliant: opuscolo informativo da veicolare alla cittadinanza puntualmente arrivato agli utenti alla fine di novembre in allegato alle Pagine Bianche; COSTO TOTALE PRESUNTO: € 200.000 più € 50.000 per la distribuzione in allegato alle Pagine Bianche - Pagina web sulla home page regionale: http://www.regione.fvg.it/rafvg/utility/ areaArgomento.act?dir=/rafvg/cms/RAFVG/ GEN/DIGITALE_TERRESTRE/ COSTO TOTALE: la progettazione e l’implementazione sarebbero state eseguite con risorse interne, pertanto senza costi aggiuntivi . A queste attività istituzionali, il CORECOM ha contribuito con una serie di iniziative autonomamente gestite, per quanto sempre in coordinamento con l’Ufficio stampa della Regione: - trasmissioni dell’Accesso: il CORECOM ha autonomamente realizzato una serie di cinque trasmissioni nell’ambito dei programmi dell’accesso con la sede regionale RAI FVG, alle quali ha di volta in volta fatto partecipare i principali stakeholder del digitale televisivo; - partecipazione a programmi televisivi, quando richiesto, proposti dalle emittenti pubblica e private del FVG ma anche in due occasioni da Telecapodistria; - collaborazione con i quotidiani e periodici regionali impagnati a “parlare” ai cittadini del digitale terrestre; - incontri con la Protezione Civile per la formazione-informazione dei loro volontari - incontri informativi con le Associazioni degli antennisti - incontri con i Comuni (ai quali hanno partecipato almeno un migliaio di persone): - 18 marzo 2010 Tricesimo - 24 giugno 2010 Pradamano 137 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) - 7 ottobre 2010 Fogliano Redipuglia - 19 ottobre 2010 Savogna d’Isonzo - 3 novembre 2010 Maniago - 8 novembre 2010 Claut-Cimolais-Erto e Casso - 10 novembre 2010 Romans d’Isonzo - 12 novembre 2010 Montereale Valcellina - 16 novembre 2010 Frisanco - 17 novembre 2010 Doberdò - 18 novembre 2010 Capriva del Friuli - 19 novembre 2010 Pavia di Udine - 22 novembre 2010 Mossa-S.Lorenzo Ison tino-Moraro - 24 novembre 2010 Dolegna del Collio - 25 novembre 2010 Andreis-Barcis - 26 novembre 2010 Cordenons - 1 dicembre 2010 San Pietro al Natisone e Staranzano - 9 dicembre 2010 Resia - conferenze stampa: il 6 agosto ed il 23 novembre - convegno “Digitale terrestre: istruzioni per l’uso”, tenutosi martedì 30 novembre a Trieste ed organizzato in collaborazione con la Regione, la Sede RAI FVG e RAI WAY. Il convegno ha suggellato l’impegno profuso dal CORECOM FVG in oltre un anno di attività, alla presenza di un pubblico che ha dimostrato di apprezzare lo sforzo profuso dalle strutture regionali per essere vicine ai cittadini in un non facile momento di cambiamento di usi e costumi televisivi più che consolidati. Un impegno che non ha avuto al momento analoghi esempi tra i CORECOM italiani e che è auspicabile proprio gli altri CORECOM italiani prendano ad esempio per incentivare l’attenzione degli operatori televisivi e degli utenti del territorio sulle opportunità offerte dalla televisione digitale terrestre, attraverso incontri, convegni, progetti, eventi. Lo switch off è una vera e propria rivoluzione tecnologica, di portata non trascurabile. Esso può rivelarsi una fabbrica e un contenitore di idee e di business alla pari di Internet e questo deve essere quanto prima compreso e metabolizzato da tutti gli operatori coinvolti. Può inoltre rappresentare un’occasione importante per strutturare nuove reti di conoscenza e sviluppare nuove professionalità e prospettive occupazionali. Un'applicazione della risk theory issn 2035-584x Conclusioni Sono trascorsi ormai sei mesi dallo switch over in Friuli Venezia Giulia: le proteste degli utenti arrabbiati, specie con la RAI, per la mancata visione dei programmi sono praticamente sparite. Ma non sono spariti i disservizi, più probabilmente la gente se ne è fatta una ragione: la Televisione non sarà più come prima, proprio come recitava lo spot promozionale di DIG.TV un anno fa. Nel frattempo la Regione sta trattando ancora con RAI WAY su come risolvere i problemi delle zone disagiate, gli antennisti non hanno ancora esaurito le liste di attesa ed altre Regioni si preparano al loro switch over. Ma questa è già un'altra storia, per nostra fortuna! Eugenio Ambrosi è docente di Comunicazione pubblica al Master in analisi e gestione della comunicazione, Università di Trieste, facoltà di Scienze della Formazione - direttore Servizio CORECOM FVG Bibliografia U. Beck, La società globale del rischio, Trieste, 2001 M. De Vincentiis, Comunicare l’emergenza, Roma, 2010 P. Feltrin, C. Moretto (a cura di), L’evoluzione dell’informazione televisiva locale, Venezia, 2010 M. Lombardi, Rischio ambientale e comunicazione, Milano, 1997 M. Lombardi , Comunicare nell’emergenza, Milano, 2005 T. D. Valentini, Analisi e comunicazione del rischio tecnologico Napoli, 1992 Sitografia http://www.corecomfvg.it/opencms/opencms/corecom/progetti_speciali/digitale_ terrestre.html http://decoder.comunicazioni.it/ http://www.dgtvi.it/index.php http://www.digitaleterrestre.it/scuola/ http://www.regione.fvg.it/rafvg/utility/ areaArgomento.act?dir=/rafvg/cms/RAFVG/ GEN/DIGITALE_TERRESTRE/ 138 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x I giovani e la Costituzione. Scuola e fenomeno migratorio Liviana Micheli Abstract parole chiave Lo scritto prende lo spunto dalla partecipazione di un gruppo di docenti dell’ITC “ Da Vinci-Carli-de Sandrinelli “ di Trieste ad un Concorso a livello nazionale sul tema della Costituzione per analizzare il rapporto che gli studenti hanno con i valori fondamentali della Carta costituzionale e in particolare con il recente fenomeno dell’immigrazione. costituzione; media; immigrazione; Migranti; scuola; accoglienza; interculturale; esperienza personale. 1. Partecipazione al concorso della “Fondazione per la Scuola, Compagnia San Paolo” “I media parlano di Costituzione”, Edizione 2009 D al 2010 l’Educazione Civica intesa come analisi della Carta Costituzionale e dei principi fondamentali in essa contenuti è entrata di diritto nella scuola pubblica come materia curricolare, una delle pochissime iniziative del Ministro Gelmini da salutare con favore. Parlando con i docenti di diritto è emersa una opinione comune: “distanza e senso d’estraneità” sembrano caratterizzare l’atteggiamento degli studenti nei confronti della nostra Carta Costituzionale considerata qualcosa da ricordare solamente per l’eventuale verifica in classe e da dimenticare subito dopo, con principi non sempre riconosciuti come tali e vissuti come molto teorici e non realizzati o realizzabili. Sulla base di questa considerazione alcuni docenti hanno accolto con favore la proposta di partecipare nel 2009 al concorso indetto dalla “Fondazione per la Scuola – Compagnia I giovani e la Costituzione San Paolo” con il progetto “I media parlano di Costituzione “ che è stato fra i 50 progetti vincitori a livello nazionale e che ha avuto anche il sostegno della Provincia di Trieste. L’obiettivo, molto ambizioso, era quello di avvicinare i nostri studenti a questo fondamentale strumento utilizzando un approccio diverso, cercando di farli diventare, contemporaneamente, protagonisti e ricercatori tramite uno strumento a loro molto più familiare dei libri: “I media”. La modalità di lavoro scelta è stata quella laboratoriale, che non prevede la cosiddetta - e ormai obsoleta - “lezione frontale“, sostituita da interventi di esperti che hanno fornito input e utili provocazioni. Ancora più ambizioso si è dimostrato l’obiettivo di far riflettere gli studenti sui principi fondamentali della Carta costituzionale considerandoli come propri e riconoscendoli come tali. 2. Feed back Come feed back del lavoro svolto i docenti hanno osservato quanto segue: nell’affrontare la ricerca tramite la consultazione di siti Internet, quotidiani, video, trasmissioni te139 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) levisive o radiofoniche gli studenti hanno dimostrato abilità, competenza e autonomia realizzando come documenti finali video, power point, brevi dizionari di consultazione inseriti nel CD rom che raccoglie i lavori e che è consultabile nel sito dell’istituto http://www. davincits.it/default.php. Molto più difficile è stato affrontare i vari temi cercando di sviluppare una coscienza civica o, nella nell’idea più ottimista, di potenziare una coscienza già esistente. La consapevolezza, che la quasi totalità ha maturato, è di avere un futuro fatto di precarietà, dove i diritti, soprattutto nel mondo del lavoro, sono un optional di cui loro stessi spesso non sono consapevoli. Sono a tutti gli effetti la generazione 1000 euro, con un’età che va dai 16 ai 20 anni ,una generazione educata dalla televisione, che si riconosce nei modelli presentati dal “ Grande Fratello” e da trasmissioni come “Amici”,, che crede nei casting e nell’immagine, che non ha sviluppato una capacità critica ma ha fatto suo il messaggio dominante. Nel analizzare principi quali pari opportunità, diritto al lavoro, pari dignità, solidarietà , accoglienza l’atteggiamento diffuso è stato di sfiducia, di distanza, di non riconoscimento della loro realizzazione. Va anche detto che questo atteggiamento è meno diffuso fra gli studenti più giovani e fra gli studenti stranieri che dimostrano maggiore fiducia nel futuro, maggiore disponibilità ad impegnarsi e disponibilità ad acquisire maggiori competenze spendibili nel mondo del lavoro e anche maggiore riconoscimento dello Stato. Tratto comune di questo campione di studenti, rilevato da quasi tutti i docenti e anche dagli esperti esterni coinvolti, è il non riconoscimento della Istituzione come categoria, l’assenza di contestazione e il vivere la vita come un “ gratta e vinci “, basata sul momento, sulla fortuna e sulla casualità. 3. scuola come spazio interculturale Uno dei laboratori attivati nell’ambito del progetto è stato il Laboratorio Immigrazione, al quale è stata data particolare attenzione in considerazione della composizione fortemenI giovani e la Costituzione issn 2035-584x te multietnica dell’Istituto nel quale sono rappresentate 30 etnie e una percentuale di studenti stranieri superiore al 25%. Considerando la scuola italiana uno spazio interculturale che cerca di creare gruppi solidali e aperti, il Laboratorio Immigrazione ha permesso, da un lato, di riflettere sul lavoro costante che viene portato avanti dall’Istituto nell’ambito interculturale e di integrazione e, dall’altro, sulla forza e capacità di influenza degli stereotipi e dei luoghi comuni, dei modelli che giornalmente, a ondate alterne condizionate dal momento elettorale o meno, vengono proposti dai media, dalla televisione, da Internet, dai giornali, dai blog. Sono emersi atteggiamenti, opinioni, contraddizioni che rappresentano uno specchio della realtà italiana odierna e dell’atteggiamento schizofrenico degli italiani nei confronti dei molti cittadini extracomunitari che vivono e lavorano nel nostro paese. Non solo, sono emerse, con una certa difficoltà, anche le contraddizioni, i disagi iniziali degli studenti stranieri nei confronti dei loro compagni e del paese in cui, molto spesso, non hanno scelto di vivere. 4. compagni immigrati, migranti, stranieri La difficoltà iniziale, ma non secondaria, è stata nella definizione di questi studenti, definiti: - “non italofoni”, considerando la lingua madre ma non la competenza linguistica acquisita; - “migranti”, considerando la situazione di viaggio e di movimento che caratterizza il loro percorso; - “stranieri”, nel senso della cittadinanza, ma improprio perché molti hanno una seconda cittadinanza italiana e sono nati in Italia. Molti studenti stranieri sono giovani immigrati di seconda generazione che come afferma Tahar Ben Jelloun rappresentano “una generazione destinata a incassare i colpi , questi giovani non sono immigrati nella società, lo sono nella vita. Essi sono lì senza averlo voluto, senza aver nulla deciso e devono adattarsi alla situazione in cui i genitori sono logorati dal lavoro e dall’esilio, così devono strappare i 140 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) giorni ad un avvenire indefinito, obbligati ad inventarselo invece di viverlo”. La ricerca di una definizione univoca (impossibile ) è emersa come una esigenza molto forte espressa dagli studenti italiani, quasi a voler incasellare, inquadrare entro termini definiti un fenomeno che è in continuo movimento, per prenderne in qualche modo le distanze. 5. quando gli albanesi eravamo noi Il tema è stato introdotto da Melita Richter che partendo dal libro di Gian Antonio Stella “Quando gli albanesi eravamo noi“ ha presentato alcuni stereotipi riferiti agli italiani che sono stati disconosciuti dalla maggior parte degli studenti come privi di fondamento sottolineando, in modo lapidario, che l’emigrazione italiana è stata “ un’altra cosa”, ma, in che senso, nessuno ha saputo definirlo, senza utilizzare dichiarazioni banali e scontate. La discussione è stata molto accesa ed ha fatto emergere una sorta di real politik da parte degli studenti stranieri, consapevoli di trovarsi in una determinata situazione ma anche pronti a giocare le loro carte nel mercato del lavoro, nel senso di essere maggiormente motivati e di avere un bagaglio linguistico superiore (la percentuale è fatta da studenti provenienti da paesi balcanici che parlano serbo, comprendono lo sloveno, qualche volta il russo, oltre all’italiano inglese, francese o tedesco). Per mettere, ulteriormente, gli studenti di fronte alle loro contraddizioni è stato analizzato un test, somministrato da un istituto di Udine, relativo al rapporto con compagni “stranieri :con alcuni distinguo relativi al tema della religione praticata, tema meno sentito, anche gli studenti di Trieste hanno dato risposte analoghe; più del 50% conferma di avere amici stranieri, di frequentarli regolarmente, di riconoscere agli stranieri gli stessi diritti degli italiani, ma, ugualmente, più del 50% ha manifestato apertamente le paure relative al lavoro(“ci rubano il lavoro”), stereotipi relativi alle etnie (i rumeni rubano, gli albanesi sono pericolosi) , ma rifiutando di essere definiti razzisti. I giovani e la Costituzione issn 2035-584x 6. la vita come una corsa ad ostacoli Diverso è stato l’atteggiamento nell’esame della normativa, molto ampia, in materia di immigrazione e dei vari decreti relativi al regolamento dei flussi migratori . Molti studenti, pur vivendo giornalmente con i loro compagni stranieri, non conoscono l’iter burocratico e normativo che uno straniero deve rispettare sul territorio nazionale .Questa analisi ha fatto in qualche modo riflettere sulla dicotomia fra l’esigenza di favorire l’integrazione, l’accoglienza e le continue, sempre nuove, richieste di carattere normativo e burocratico che rendono, qualche volta, la vita degli stranieri, che vivono sul territorio italiano, una corsa ad ostacoli. 7. due esperienze personali.: albione e jonida Due testimonianze personali di due studentesse, una kossovara, una albanese, sulla loro esperienza in Italia - albione : nuove radici «Mi chiamo Albione e nelle prossime righe cercherò di raccontare una parte della mia vita, cioè il periodo dal mio arrivo a Trieste fino ad oggi. Sono nata in un villaggio del Kosovo, Belanic, dove ho vissuto con la mia famiglia fino all’età di 11 anni, ma senza mio padre che viveva all’estero. Nell’estate del 2005, l’11 luglio, mi sono imbarcata su una nave, destinazione Trieste, con la mia famiglia, mia madre, mio padre i miei due fratelli e mia sorella. Avevo 10,11 anni. È stato uno di quei giorni che non si dimenticano mai, il mio cuore sentiva nel medesimo momento tristezza e felicità, tristezza perché lasciavo persone care che avrei rivisto una volta all’anno, lasciavo i miei amici, la mia terra, dove sono nata, dove ho provato per la prima volta felicità e paura, dove ho capito l’importanza della vita. Per dirla in modo semplice, lasciavo le mie prime radici per andare in un paese che avevo visto solo in televisione. Ma ero anche felice perché, finalmente, sarei stata vicina a mio padre non solo una volta 141 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) all’anno ma ogni giorno. Il 12 luglio, alle 12 e 30 ho visto le coste di Trieste, è stato un momento sconvolgente, un momento nel quale ho realizzato che era la realtà, che da quel giorno avevo “un vaso nuovo” o delle “nuove radici”. Arrivata a Trieste non sapevo neanche dire ciao e, in verità, non mi interessava neanche impararlo, non mi piaceva niente. Ricordo il primo giorno di scuola, in prima media, mi ha accompagnato mio padre, fino in classe, ero entrata per ultima e guardavo i miei nuovi compagni come se fossi su un altro pianeta. Nella mia classe c’erano altri compagni che non erano italiani, ma loro almeno sapevano parlare. Stavo da sola, non mi avvicinavo a nessuno. Ricordo il primo intervallo a scuola, ero seduta in classe, persa nei miei pensieri, non volevo conoscere nessuno, quando alcuni compagni di classe si sono avvicinati per presentarsi e conoscerci. Mi ha fatto molto piacere questo gesto, perché pensavo, di essermi creata, da sola, un piccolo muro fra me e gli altri e, invece, è successo il contrario. Ho trascorso tre anni fantastici, sia i compagni che i professori mi hanno sempre aiutato, mai nessuno mi ha discriminato perché vengo da un altro paese. I compagni mi hanno sempre accettata, i professori non mi hanno fatto mai sentire diversa dagli altri e, questa, è la cosa che ho apprezzato di più. Arrivata alle superiori, tre anni fa, ho una visone della vita molto diversa, nel senso che non vivo in una bolla” ma mi avvicino agli altri e permetto agli altri di avvicinarsi. Ho fatto molte amicizie, alcune con la A maiuscola. Anche alle superiori, al Sandrinelli, ho avuto fortuna e non ho avuto situazioni di discriminazione, né da parte dei compagni, né da parte di professori. Adesso sono felice di essere venuta a Trieste, ho imparato molto e vedo le cose da più punti di vista. Probabilmente crescendo sarei cambiata comunque ma, pensandoci bene, credo che il cambiamento radicale che ho avuto mi abbia dato una marcia in più. Se potessi ricominciare sceglierei lo stesso percorso di vita. Per concludere, mi sento di dire un mio pensiero ai molti stranieri che vengono in Italia e che si lamentano delle condizioni di vita ma che rimangono. I giovani e la Costituzione issn 2035-584x Io sono, ormai, da sei anni in Italia e non mi permetterei mai di lamentarmi, principalmente perché mio padre in Italia ha trovato un lavoro, migliorando, così, la mia vita e quella dei miei familiari in Kosovo. Sono felice di essere in Italia, ma spero, finita la scuola, di poter tornare nel mio Kosovo.» - Jonida: Trieste come New York «Era la prima volta che viaggiavo, avevo 9 anni ed ero contenta di venire in Italia. Quando arrivammo era una sera d’aprile, c’erano tantissime luci e dei palazzi enormi per me, era come nei film, sembrava New York. I giorni passarono e per me si trasformò in una tragedia, non avevo amici, non conoscevo nessun mio coetaneo, non conoscevo la lingua e non ero abituata a passare così tanto tempo chiusa in casa. Da li mi sono attaccata alla televisione che prima non guardavo proprio. Mi ha aiutato ad imparare la lingua e a trascorrere il tempo intanto che aspettavo l’inizio della scuola. E finalmente settembre! Ero molto spaventata perché entravo a far parte di una classe dove tutti erano già amici da anni e, in più, io non riuscivo a parlare nonostante capissi bene quello che mi dicevano. Fortunatamente sono stati tutti molto carini e gentili con me, sono contenta di aver ritrovato alcuni di quei bambini alle scuole medie e anche alle superiori. Da quel momento in poi il mio percorso in Italia è sempre stato in discesa, ho conosciuto persone che provenivano da ogni parte del mondo, ho conosciuto insegnanti che per me sono stati un ispirazione e che mi hanno indirizzata verso nuovi punti di vista. Qui in Italia sono entrata in contatto con moltissime altre realtà, che non credo avrei mai conosciuto in Albania, sono felice che la mia vita si sia svolta verso questo senso. Si sente parlare ogni giorno sempre più di razzismo, di immigrati, alla televisione mostrano un Italia così tanto intollerante verso lo straniero da far paura ma io, nella realtà, questa cosa non l’ho riscontrata. Ho sempre avuto esperienze positive. Anche quei vari personaggi che si ritenevano fascisti, che io 142 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) ho conosciuto, in fondo non prendevano posizione di superiorità contro lo straniero ma volevano che l’identità italiana fosse, diciamo, salvaguardata da una fantomatica occupazione delle altre culture. Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa sulla mia esperienza in Italia e la prima cosa che mi è venuta in mente è stata che non avrei fatto fatica a buttar giù due parole, in fondo avrei solamente dovuto parlare della mia vita! Perché l’Italia ormai per me questo è, non solo un esperienza, ma la mia vita!» 8. Jonida, Albione e Ivan, Esefa e tutti gli altri Leggendo queste due testimonianze, molto sincere e immediate, due cose fanno riflettere: la paura iniziale, il senso di inadeguatezza, le difficoltà linguistiche, che hanno contraddistinto le due esperienze, sono stati superati grazie all’accoglienza da parte dei compagni italiani e al lavoro dei docenti, nelle scuole elementari, medie e superiori che hanno frequentato e stanno frequentando. Si avverte anche un senso di gratitudine e di rispetto verso il paese in cui si trovano a vivere (non per scelta personale) e, nonostante i messaggi dei media, gli stereotipi verso gli albanesi e kossovari, nessuna delle due parla di razzismo, al contrario le esperienze sono state positive. Se il loro sentire è questo forse possiamo dire che “uguaglianza, pari dignità, accoglienza, solidarietà”, i valori della nostra Costituzione, fanno parte, ormai, del patrimonio dei nostri studenti, senza che ne siano consapevoli razionalmente. I giovani e la Costituzione issn 2035-584x Liviana Micheli, docente di inglese all’ITC Da Vinci-Carli-De Sandrinelli “ di Trieste. Da anni si occupa di intercultura e di fenomeni migratori. È referente dell’Intercultura dell’Istituto partecipando a ricerche promosse dalla Provincia di Trieste sui percorsi dei migranti e dal Ministero della Gioventù. Ha coordinato i laboratori inseriti nel CD Rom “I media parlano di Costituzione” che raccoglie i lavori del progetto scelto dalla “Fondazione per la Scuola – Compagnia San Paolo” curando personalmente il laboratorio Immigrazione e il laboratorio Pari Opportunità. Segue tematiche relative alla Civic Education ed ha partecipato alle ultime Accademie organizzate dalla “Fondazione per la Scuola – Compagnia San Paolo” a Ventotene e all’Isola di San Servolo a Venezia. 143 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Comunicazione e informazione: nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa. Un Corso a Trieste Eugenio Ambrosi Abstract La religione oltre ad essere conosciuta deve anche farsi conoscere presso nuovi fedeli e, per farlo, deve anche avere il coraggio di uscire dai suoi contesti tradizionali. Grazie dapprima all’oralità e poi alla scrittura i testi sacri sono giunti fino ai giorni nostri, dando origine alla comunicazione religiosa. Poi con i secoli, e con le invenzioni che hanno caratterizzato il sistema dei mezzi di comunicazione, anche la Chiesa cattolica ne ha ovviamente fatto uso: l’editoria (non a caso la Bibbia fu il primo libro stampato da Gutenberg), quotidiani e periodici la radio, il cinema, la televisione, internet. La comunicazione religiosa “ T rieste. Corso di comunicazione. Ha preso avvio presso il Centro Culturale Veritas di Trieste il corso di Comunicazione e informazione: nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa, a cura di Eugenio Ambrosi, docente al Corso di laurea di comunicazione dell’Università di Trieste. Il corso è rivolto a quanti, a vario titolo impegnati nel mondo religioso, ecclesiale ed associativo, sono coinvolti in attività di comunicazione e informazione. I direttori delle principali testate saranno presenti e come loro hanno dato disponibilità a confrontarsi con i partecipanti i responsabili dei principali uffici stampa attivi a Trieste.” Dal sito www.gesuiti.it, ottobre 2010 Potenza della rete: un piccolo corso di comunicazione organizzato presso il Centro culturale Veritas di Trieste è diventato una notizia che nella sua dimensione locale ha assunto un carattere globale, leggibile dall’altra parte del mondo, in Nuova Zelanda da qualsiasi conoscitore della nostra lingua. Senza dimenticare che con la funzioNuovi scenari e forme di presenza della Chiesa Presso il Centro Veritas di Trieste nell’a.a. 2010/11 si è tenuto il corso sperimentale “Comunicazione e informazione: nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa” di cui le note che seguono sono traccia libera ma puntuale. Parole chiave informazione religiosa; comunicazione religiosa; chiesa italiana; Diocesi di Trieste; Centro Veritas. ne-traduttore chiunque potrebbe avvicinarsi al contenuto della notizia, per quanto maccheronico (ovvero: pidgin English) possa essere il risultato. Ma procediamo con ordine. Con la trasformazione dei mass media, l’avvento di internet e dei social network è cambiata anche la comunicazione religiosa: è diventata in qualche modo più banale. Gli elementi costanti del modo di pensare un fatto religioso sui giornali e televisioni sono la sua spettacolarità o grandiosità; la sua capacità di stupire, di divertire, di sbalordire; i contrasti: quelli veri o presunti, che si crede di percepire specialmente in quel mondo, sempre un po’ “misterioso” agli occhi degli osservatori esterni, che è la Chiesa, soprattutto nel suo vertice: papa, curia, cardinali.1 Il meccanismo d’interesse non cambia anche se tutti questi elementi vengono presentati uniti o separati. I mass media non sono particolarmente interessati ai temi religiosi. Quando i mass media si trovano a parlare delle religioni nuove o poco conosciute come Scientology, i Testimoni 1 I. Siggillino, I media e l’ Islam, Bologna, 2001, p. 17. 144 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) di Geova e delle fedi o pseudo-religioni di origini orientali, essi hanno un atteggiamento di curiosità, vogliono esaltare le cose bizarre e tutto ciò abbelliscono con una quantità di scetticismo. Con l’eccezione di pochi casi, come per esempio il buddhismo, verso i quali i mass media nutrono delle simpatie perchè ritengono questa fede estremamente tollerante e aperta. Al contrario, l’Islam viene legato quasi sempre ai pregiudizi e viene visto come una religione non pacifica. Con gli anni e l’influenza delle nuove ICT la comunicazione ha cambiato volto: in quest’epoca della globalizzazione siamo tutti fruitori ed operatori di comunicazioni sociali. Pensiamo ad internet, alla televisione, alla telefonia, ma non solo: pensiamo a come il microfono sull'altare ha spostato l'attenzione dal contesto liturgico in cui parlava il sacerdote, lontano dai fedeli, alle sue parole, percepite ora con chiarezza, abbassando la soglia dell'attenzione visiva e sovraccaricando il canale sensoriale uditivo2. La comunicazione non è una novità per l’umanità nè per la Chiesa, che fin dai suoi inizi aveva comunicato il suo messaggio, la Buona novella cioè il Cristo risorto, usando i mezzi che erano disponibili. La comunicazione è importante per la Chiesa: - la comunicazione offre alla Chiesa il supporto per la comprensione della cultura contemporanea e della situazione della Chiesa all’interno di questa cultura. Si può ritenere che lo sviluppo continuo delle modalità comunicative influisce profondamente sulla trasformazione della cultura stessa; - tramite la comunicazione si aiuta a diffondere e moltiplicare la diffusione dei messaggi delle varie religioni; - la Chiesa, come istituzione, ha una presenza sociale che si manifesta anche attraverso i media: i rappresentanti della Chiesa, i suoi messaggi, i credenti sono sempre presenti nei media, nelle notizie diffuse di cui a volte sono anche l’oggetto principale; - i media hanno un ruolo fondamentale nella socializzazione delle nuove generazioni e sono diventati in qualche maniera dei maestri, degli educatori perchè divengono un punto di 2 Cfr. A. Spadaro S.I., Liturgia e Tecnologia, La Civiltà Cattolica, n. 3860/2011, pagg. 107 e segg. Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x riferimento per la presa di coscienza e l’apertura degli adolescenti alla società; anche se a volte mettono invece in discussione l’autorità morale dei genitori, dei docenti, dei valori che questi cercano di trasmettere ai giovani. Anche la Chiesa cattolica, sin dai suoi primi passi, ha saputo come divulgare i messaggi e la Parola, adattandosi di volta in volta ai nuovi linguaggi ed ai nuovi mezzi di comunicazione. L’idea del Corso è nata nell’ambito del Corso di comunicazione pubblica al Master di analisi e gestione della comunicazione dell’Università di Trieste, ha preso corpo nella supervisione ad una Tesi di laurea3 ed ha tratto definitivo conforto dalle ricorrenti vicissitudini che a livello globale (le radici cristiane dell’Europa, la pedofilia nella Chiesa, il crocifisso nei luoghi pubblici) e locale (le polemiche nella Chiesa triestina e le ricadute negli articoli di cronaca) hanno evidenziato la delicatezza e la strategicità del rapporto Chiesa – comunicazione. La comunicazione religiosa e l’arte sacra Certo, anche l’arte può venir vista come strumento di linguaggio. Essa provoca sempre una qualche sensazione, anche mistica, in colui che ne ammira il prodotto. L’arte è rivelazione dell’uomo all’uomo, nel bene e nel male, l’artista beneficia di uno spirito profetico, di uno sguardo penetrante, l’artista vede ciò che gli altri possono soltanto sentire o intravvedere ma non possono vedere. La creazione compete unicamente a Dio ma si può riconoscere che l’arte viene da un atto “creativo” dell’uomo, che lo rende un po’ simile a Dio perchè egli crea dei mondi nuovi, nei quali la realtà naturale e culturale viene interpretata, trasformata e trasferita in un significato nuovo4 . 3 cfr. al riguardo Lea Mahronic, La comunicazione della Chiesa cattolica a Trieste, Tesi di laurea, Facoltà di Scienze della Formazione - Corso di Scienze della Comunicazione - Laurea Specialistica in Pubblicità e comunicazione d’ impresa, a.a. 2009/10, alla quale si rimanda in particolare per l’ampia analisi dell’uso da parte della Chiesa italiana e triestina degli specifici strumenti e canali di comunicazione. 4 cfr. Via verità e vita. Comunicare la fede, numero 6, novembre-dicembre 2008, Roma, p. 50. 145 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) Religione ed arte procedono sempre di pari passo, è anche attraverso l’arte che la religione cerca di trasmettere dei messaggi ai propri fedeli. Gli artisti sono così dei comunicatori della bellezza e della libertà, l’arte fa incontrare l’uomo con il suo creatore. L’arte può influire profondamente sulla costruzione o sulla distruzione di una comunità, consolida la persona singola e realizza una comunione condivisa tra le persone. Anche di questi linguaggi e strumenti si è parlato al Corso, ma solo introducendoli per sommi capi, l’artista come comunicatore, perchè quando egli realizza un’opera d’arte chiama in vita la sua opera e per suo tramite svela anche la propria personalità e la propria crescita spirituale. L’artista, con il suo lavoro, parla e comunica con gli altri, le opere d’arte parlano dei propri autori, introducono alla conoscenza del loro intimo e profondo e rivelano anche l’originale contributo che essi offrono alla storia della cultura. Ma l’arte è anche una espressione di bellezza ed è proprio qui che anche il brutto entra nel campo estetico, così come il male entra nel campo etico: il male e il brutto sono idee negative, connotano la privazione del bene e del bello. L’arte cristiana è un fatto espressivo di un bello sublime, di un bello che deve misurarsi con il brutto: nell’arte cristiana è più importante la verità che la bellezza. Bisogna quindi distinguere un’arte cristiana sacra o di culto dall’arte religiosa o di devozione. L’arte cristiana esprime ciò che le sacre Scritture e i testi liturgici annunciano con parole e lo rende presente per l’azione sacramentale della Chiesa. L’arte di devozione esprime la fede personale dell’ artista. L’ arte sacra nasce dalla fede della Chiesa, espressa e celebrata nell’azione liturgica, e vive per essa, mentre l’arte religiosa nasce dalla fede di un singolo credente e ne immortala, in qualche modo, la sua personale testimonianza. Naturalmente, tutta l’arte sacra è anche religiosa, mentre non vale il contrario. La comunicazione religiosa e la musica “Chi canta prega due volte”: affermava così Sant’Agostino la centralità del canto per il criNuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x stianesimo e quindi della musica in ambito sacro e in relazione al dialogo tra la persona o una comunità di persone e Dio. Ed anche Papa Giovanni Paolo II ammoniva i giovani che cantando facevano opera di apostolato. Il canto sacro diventa un dialogo con Dio, una testimonianza di fede cristiana; non a caso la centralità del canto e della musica impone nella strutturazione fisica delle chiese uno spazio dedicato alla preghera cantata ed in musica, dai cori delle chiese romaniche e gotiche alle cantorie barocche per i grandi organi, nell’architettura di ieri come in quella di oggi. Non a caso il giovane Davide placava gli umori di re Saul con la lira ed ancora oggi canto e musica sacra hanno uno spazio di elezione nel luogo di culto, dove il presentarsi a Dio avviene sempre innalzando “canti di gioia”. La musica sacra è dunque importante per la Chiesa cattolica: l’arte musicale serve per contribuire a creare la giusta, raccolta atmosfera nel rendere onore a Dio in chiesa nel corso dei riti sacri. Certo, l’artista sente il bisogno di esprimere liberamente il senso del sacro con la grammatica stilistica della sua epoca e del luogo in cui vive, ma i fedeli devono essere in grado di riconoscere l’autenticità e l’originalità del suo messaggio, lasciandosi coinvolgere e trasportare dalle bellezze che l’orecchio sa cogliere. Il Concilio Vaticano II aveva cercato di riformare anche i canti liturgici, cercando di superare la tradizione tonale grazie alle opportunità offerte dai nuovi linguaggi, ma non è mai riuscito a completare questo suo intento e i tempi da allora sono cambiati parecchio. Certo, dopo il Concilio vi era stata la tentazione di colmare l’assenza di repertorio facendo il verso alla musica leggera del tempo, la cosiddetta “Messa beat”, che ha comportato un certo cambiamento ma anche, talora, un certo declino del livello artistico della liturgia, con l’utilizzo di stilemi spesso inadeguati, con l’apertura ad una “contaminazione” non sempre lineare. Ed allora che la musica in chiesa venga eseguita nel modo migliore possibile, secondo i modelli d’interpretazione propri del tempo: che sia gregoriana, polifonica, espressionistica oppure elettronica non importa, è la qualità che fa la differenza e non le regole interne al linguaggio che viene usato. 146 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) Qualità, qualità, qualità, ovunque si trovi: il resto è silenzio, anche quando sembra musica.5 La comunicazione religiosa e l’architettura Né ci si può dimenticare del ruolo dell’architettura come canale di comunicazione della spiritualità religiosa, anche se spesso si guarda alla Chiesa ed alle sue strutture come se queste non avessero a che fare con la vita degli uomini. Un esempio per tutti, quanto avvenne con il passaggio dallo stile romanico a quello gotico nell’Ile de France in seguito all’insorgere e all’affermarsi della cultura teologica scolastica al tempo delle famose cattedrali. Il periodo romanico, nel quale vigeva la cultura monastica, rispettava il mistero e univa la teologia alla vita: le sue chiese, se viste dall’esterno, non fanno capire cosa vi sia dentro, dalle piccole finestre penetra poca luce, dentro ci si trova in un ambiente raccolto e poco illuminato. Il periodo gotico, invece, ha ampie finestre e dall’esterno si può intravvedere la struttura interna della chiesa: è il trionfo della cultura scolastica, che vuole illuminare tutto e catalogare con precisione ogni cosa, che nelle nervature dei pilastri che si slanciano verso l’alto fa emergere lo sforzo intellettuale che l’uomo dell’epoca compie per inserire in categorie razionali i misteri e la teologia cristiana. Il credente che ancor oggi si affaccia all’interno di un’antica basilica si trova davanti ad un cammino che dal battistero porta all’abside: il primo simboleggia lo stadio esistenziale di chi si avvicina per la prima volta al cristianesimo, tant’è che chi attendeva di essere battezzato sostava nell’area accanto alla porta d’ingresso; il secondo, luogo dov’è posto l’altare e si celebra l’Eucarestia, rappresenta il luogo della visione, il luogo in cui la luce di Dio giunge agli uomini per illuminarli e non a caso la maggioranza delle chiese antiche sono rivolte con l’abside a est, luogo dove sorge il sole. Lo splendido mosaico, benedetto a Pasqua 2011 nella chiesa di S. Teresa del Bambin Gesù a Trieste, realizzato dal gesuita p. Marko Rup5 cfr F. Gaffucci, P. Poponessi, Il marketing dei luoghi e delle emozioni, Milano, 2008. Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x nik, autorità mondiale del mosaico religioso, nel nuovo battistero arricchito da un altrettanto affascinante fonte battesimale, va proprio in questa direzione: il credente ritrova se stesso davanti a Dio, che si rivela nel suo cuore e nella sua mente, ed è lì che l’uomo può imparare a scoprirlo, dove il significato dei simboli facilita la comunicazione tra l’uomo e Dio, la partecipazione dell’uomo alla comunità ecclesiale, da dove la comunicazione della Parola esce all’esterno della comunità ecclesiale di riferimento. In questo contesto anche la struttura della chiesa ha un valore sacro, perché racchiude in sé un universo simbolico che intende, tra l’altro, comunicare. Certo, oggi la situazione è diversa, la cultura moderna ha in buona misura perso di vista il concetto di sacro, ha perso spesso di vista la realtà di Dio ed interpreta con nuove chiavi di lettura il mistero ed il senso della vita umana: ma il sacro per se stesso, staccato da qualsiasi relazione con i credenti, non ha senso. Il sacro ha il suo senso quando è posto in relazione con la persona, quando interagisce con il credente: quando comunica ed è comunicato. La comunicazione religiosa e il media system Durante il XIX e il XX secolo il contesto sociale e culturale nel quale operano e realizzano le varie Chiese è profondamente mutato ed è indubbio che a loro volta le Chiese sono state influenzate profondamente dallo sviluppo straordinario dei mass media. Col tempo, l’attenzione della Chiesa verso i media si è fatta sempre più intensa, quasi un’idea fissa. Il mondo giovanile è sempre più attratto e sempre più a suo agio con i nuovi media, recentissime indagini fanno emergere che il 76 % dei giovani dialogano all’interno di un social network, Facebook in primis. I valori che attraversano il mondo giovanile, a cominciare dall’amicizia e da una nuova rete di relazioni, sono imbevuti e resi possibili dalle nuove tecnologie. Oggi i media sono diventati uno degli elementi principali che formano la cultura e temporaneamente diffondono atteg147 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) giamenti e modelli relativistici e chiusi alla trascendenza. Le varie Chiese hanno comunicato nel tempo i propri messaggi usando i mezzi che a quel tempo erano a loro disposizione. La grandezza della chiesa è sempre stata quella di saper leggere “i segni dei tempi”… e il nostro tempo è certamente quello della comunicazione. 6 Nell’ultimo secolo, infatti, sono cambiati molto i mezzi di comunicazione ed è aumentata la consapevolezza dell’importanza della comunicazione e del ruolo che ha nei cambiamenti ai quali si sta assistendo. Le riflessioni per l’approfondimento dei temi come quelle per la preghiera possono venire proposte sia a viva voce che per mezzo del libro stampato oppure quello elettronico, tramite le riviste digitali, CD o DVD, Facebook, blog oppure siti web. I new media hanno instaurato un nuovo modo di pensare, di relazionarsi, di operare e di leggere la realtà. Le religioni comunicano con un intreccio articolato composto sia dalle nuove che vecchie tecnologie o meglio dire tecnologie tradizionali come le lettere e nuove come il telefono cellulare. Questo insieme di comunicazioni tradizionali e non costituisce i presupposti per un vero e proprio mondo comunicativo. Una lettura tecnologica della comunicazione ed una sua rivisitazione al servizio della “fisicità” della comunicazione religiosa potrebbe restituire ai media d’area una nuova centralità, che fornirebbe loro una funzione “tipo cassetta degli attrezzi” che potrebbero venire usati consapevolmente, mescolati a seconda dei bisogni e in grado di essere utilizzati per la diffusione dei contenuti informativi anche presso quelle fasce della popolazione del Terzo Mondo di fatto escluse. Con questo tipo di strutturazione dei media si potrebbe consentire un “ritorno a Babele”, un luogo mitico dell’originaria armonia tra la tecnologia e le varie comunità. La Chiesa ritiene necessario leggere e comunicare la parola di Dio, mossa dalle domande dei credenti di oggi, ritiene necessario parlare la loro lingua, entrare e confrontarsi per quanto necessario con la nuova cultura che determina così pesantemente lo sviluppo 6 G. Mazza, G. Perego, Paolo una strategia di annuncio, Milano, 2009, p.148. Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x degli atteggiamenti sociali e culturali del nostro tempo. Anche comunicando la parola di Dio la Chiesa intende aiutare ad interpretare il cambiamento che sta avvenendo e ad accogliere i messaggi che possono perfino determinare pesanti cambiamenti soggettivi nella vita dei singoli. La parola di Dio non è un tema facile da affrontare, perchè si rischia di cadere nella retorica. La tecnologia può contribuire a creare la miscela giusta per far sì che il messaggio della Chiesa possa oggi raggiungere i credenti residenti in tutte le parti del mondo. Un giusto utilizzo delle nuove tecnologie potrebbe formare idee e società migliori di quelle che attualmente dominano il nostro mondo. In tutto il mondo i media si fanno vieppiù pervasivi, entrano in tutti i settori e in tutti i paesi, superando lingue, culture e religioni diverse, a una velocità largamente superiore a quella necessaria per produrne dei fruitori consapevoli7. Internet è oggi lo strumento più capillare per raggiungere il maggior numero di persone nel villaggio globale mondiale, togliendo senso alle preeesistenti divisioni nazionali. Quando si naviga in Internet ci si può facilmente imbattere in milioni di “voci” legate alla religione e al sacro. I temi religiosi conquistano ampio spazio nel Web anche attraverso reti tematiche che esprimono interazioni bidirezionali o multidirezionali. In entrambi i casi la Rete svolge il proprio compito, cioè connette e permette gli scambi reciproci tra le persone in maniera interattiva con un coinvolgimento costante. In questo caso la comunicazione può essere di due tipi: sincrona e asincrona. La comunicazione è sincrona quando avviene simultaneamente, ad esempio per l’insegnamento/catechesi a distanza, per incontri di gruppo o per momenti di preghiera tra persone dislocate in diverse parti del pianta e che magari professano fedi differenti. 8 Al contrario, la comunicazione è asincrona quando avviene in momenti diversi, cioè tramite la posta 7 I. Siggillino, I media e l’ Islam, Bologna, 2001, p. 74. 8 Per un’interessante sintesi sulle modalità di navigazione in internet dei pellegrini cfr. A. Silvestri, La luce e la rete, Comunicare la fede nel Web, Torino, 2010, p. 20-21. 148 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) elettronica, le mailing list, i newsgroup e i forum. Quasi tutte le chiese, le pseudo-religioni, i gruppi o i singoli credenti e i movimenti religiosi hanno i propri siti o almeno una piccola e semplice presenza. L’uso di Internet per scopi religiosi è ogni giorno in continua crescita, soprattutto tra i giovani. Vi sono religioni sorte grazie al web, le online-religion, che vi offrono opportunità di partecipazione, formano gruppi di preghiera e gruppi di discussione su temi religiosi. Nel Web la gente può soddisfare la propria ricerca, trovare risposte alle domande, il senso per il proprio vivere, degli ideali da perseguire. Internet consente la diffusione di qualunque idea o credo praticamente a costo zero, perchè non ha limiti come nemmeno – salvo il caso cinese- censure ideologiche, ma esso è anche il luogo dove domina il soggettivismo e dove si può anche criticare o sostenere qualsiasi discorso religioso, senza l’obbligo apparente di validare il proprio pensiero con delle motivazioni fondate. Nel 2008 è stato scoperto dall’universo religioso anche il fenomeno Facebook: le varie religioni ne hanno subito approffitato per comunicare con i propri fedeli, al punto che anche il Vaticano, dopo YouTube e Facebook, ha aperto un suo canale anche su Twitter, il secondo social network in ordine di importanza, almeno in Italia, dopo Facebook. Ci sono canali in più lingue: l’italiano, l’inglese, lo spagnolo, il francese e il portoghese. Questi canali vengono usati dalla Radio Vaticana e da altri media cattolici per la diffusione ufficiale di notizie della Santa Sede anche sul web 2.0, attraverso i famosi “tweets”, cioè i messaggi di 140 caratteri, che però possono contenere link ad altri siti ufficiali del Vaticano. La Chiesa vuole essere presente ovunque e dappertutto usando sempre di più anche i social network disponibili. Nel 2009 è stato dato vita ad un nuovo proggetto: “Pope2You”, un portale disponibile in cinque lingue per mettere in comunicazione il Papa con tutti i giovani del mondo. Attraverso questo portale si può anche accedere a Facebook ed inviare delle cartoline virtuali contenenti le parole del Papa, i suoi messaggi augurali e anche gli altri contenuti. Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x Il Web ha abituato i giovani ad una comunicazione interattiva, proprio per questo restare fuori dalla rete significherebbe rompere i ponti con le nuove generazioni; proprio per questo alcuni insegnanti hanno persino aperto un loro blog educativo, dedicato agli alunni, per fare informazione, e poi ci sono degli altri ancora che animano i social network con una presenza costante e affidabile. Anche gli insegnanti di religione hanno un loro piccolo social network dove possono scambiarsi i materiali, le idee e i suggerimenti. È questo un modo per potersi ritrovare alla fine della giornata e poter condividere le gioie e i problemi, con le persone che vivono la stessa esperienza tutti i giorni e con le quali possono capirsi nel profondo. Un’imporante distinzione si deve fare anche tra la multimedialità e la crossmedialità. La multimedialità prevede l’accostamento di contenuti mediali a posteriori e ciò può avvenire quando, ad esempio, un giornalista scrive un articolo per la carta stampata e poi un altro giornalista vi aggiunge la foto oppure il filmato per la versione internet. La crossmedialità è una versione 2.0 della multimedialità: un soggetto è in grado di pensare e realizzare dei prodotti che sono adeguati a più media o a più canali comunicativi. L’uso del podcast (Personal Option Digital Casting) nell’era crossmediale è senz’altro una forma di comunicazione diretta, orizzontale e veloce. Il podcast, formato da brevi trasmissioni audio di commento o lettura di brani, costituisce uno degli esempi più evidenti di quello che è stato chiamato in linguaggio 2.0 User Generated Content (contenuti generati dagli utenti). Il podcast ha avuto i suoi inizi con i primi iPod, perchè esso ha fornito la possibilità di portare sempre con sè le trasmissioni o i file audio, da ascoltare in macchina, in autobus, in treno. Uno dei primi podcast del mondo cattolico è stato quello antelitteram del Card. Arinze, che già nel 2007 aveva realizzato il suo blog con la possibilità di ascoltare e scaricare le omelie che aveva tenuto la domenica. Negli ultimi anni i podcast cattolici sono cresciuti di numero e di qualità, tanto che oggi sul più popolare programma di iscrizione ai podcast, iTunes, si trovano quelli 149 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) di sacerdoti, di movimenti giovanili, persino la Radio Vaticana ha il suo podcast. Nell’ultimo tempo il podcast è diventato uno strumento e un linguaggio familiare a livello di parrocchie, movimenti e associazioni ma anche tra i singoli credenti che vogliono far sentire la propria voce. I ragazzi e i gruppi giovanili possono essere gli autori di podcast, leggendo e raccontando le loro esperienze formative, il loro punto di vista su quello che avviene nel mondo. Proprio per la sua economicità, non costa nulla, e per la sua praticità, è facile da usare, il podcast può essere usato in parrocchia o in diocesi al posto o a integrazione della classica radio. Il podcast permette di mettere online le notizie di eventi sia parrocchiali che diocesani, può sostituire, almeno per quanto riguarda l’utenza giovanile, il vecchio giornalino/depliant di carta che veniva distribuito in chiesa la domenica mattina. I giovani possono portarsi nel loro lettore Mp3 le omelie del Vescovo come le letture della settimana: così accade ad esempio sul podcast del sito della Diocesi di Milano come anche su quello delle Edizioni Paoline. Come strumento prevalentemente audio, viene usato per creare audiolibri letti dagli stessi ragazzi, per creare radio-giornali di classe e come un ottimo strumento per cimentarsi con le lingue. Il podcast è uno strumento semplice ed affidabile e per questo motivo avvicina l’insegnante agli alunni e gli alunni tra di loro. Per poter realizzare un podcast ci deve essere un vero lavoro d’equipe: ci deve essere qualcuno che si occuperà di preparare i dialoghi, qualcuno che poi li leggerà ed infine qualcuno che lo inserisca online. Così facendo i ragazzi entrano nel processo di apprendimento guidati dal loro insegnante. Esso costituisce una nuova forma di comunicazione, che trova nei giovani dei possibili autori e anche fruitori. La Chiesa e la Scuola stanno andando volentieri incontro a questi nuovi linguaggi e modalità di trasmissione dei dati. Oggi acquisire la mentalità di rete diventa una sfida del futuro, una grande scommessa, un’esercitazione di una efficente ed efficace comunità religiosa, reale sulla terra e virtuale online. Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x Informazione e comunicazione religiosa Cristo e la buona novella, gli evangelisti, San Paolo, sant’Agostino: sin dai primordi, la Chiesa cattolica si è trovata impegnata in un’opera di evangelizzazione, catechesi e formazione che negli strumenti della comunicazione ha trovato un sostegno prezioso per diffondere i propri valori e principi, promuovere il dialogo ecumenico e interreligioso, edificare una società rispettosa della dignità della persona umana. Nel Corso del Veritas ci si è piuttosto orientati ad interagire con la cronaca più che a confrontarsi con la storia, facendo emergere subito da un rapido esame della cronaca il perché dell’importanza della comunicazione per la Chiesa del Terzo Millennio: perché è diventata un supporto insostituibile per la comprensione della cultura contemporanea, un aiuto indispensabile nella missione di evangelizzazione propria della Chiesa, la cui presenza sociale si manifesta alla comunità sempre più attraverso i media. Studiare la comunicazione nei suoi meccanismi verso l’interno e l’esterno è oggi una sfida reale per la Chiesa, a livello globale come locale, la cui opera di educazione delle nuove generazioni si deve necessariamente confrontare con la nuova cultura generata proprio dai media. Per fare ciò chi lavora per la Chiesa nei media deve approfondire il legame tra fede e professione e riscoprire la responsabilità del cristiano come parte della società globalizzata. Deve anche confrontarsi con i luoghi comuni che caratterizzano questo rapporto: - quelli relativi al porsi dei media nei confronti della Chiesa, che per molti pecca di riservatezza, manca di esperienza e di conoscenza delle regole professionali del media system, ed è fonte, insieme alla sua religione, di dissidi e polemiche che dividono l’opinione pubblica; - quelli relativi all’atteggiamento dei media nei confronti della Chiesa, tipo la considerazione che la stampa ha difficoltà a cogliere la dimensione spirituale del fatto religioso, è ostile alla religione, la sua indipendenza è solo apparente. Attraversata da queste contraddizioni, la comunicazione religiosa ha diversi scopi: co150 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) municare il Vangelo, informare i fedeli, rafforzare l’identità e l’appartenenza religiosa, avvicinarsi alle nuove generazioni, aprire il dialogo tra le persone. Per fare tutto ciò, per dare vita ad un’informazione religiosa che documenta le attività delle diverse comunità di fede presenti in Italia, ci vogliono professionalità attente e preparate, conoscitrici della realtà ecclesiale: la tipica figura italiana del settore è il vaticanista, qualificato professionista il cui settore di competenza si esaurisce nell’ambito dell’attenzione al mondo cattolico sotto la particolare luce dell’ufficialità della Curia romana o della Chiesa cattolica italiana, figura che ha cominciato ad affermarsi ai tempi del Concilio e della “invenzione” della Sala stampa vaticana da parte di Paolo VI. È indubbio che la Chiesa cattolica nel nostro paese fa notizia, il più delle volte snaturandosi, parlando di politica, economia, morale per interessare i media; anche se la sua missione è di parlare di Dio, di comunicare per evangelizzare spesso lo fa anche per ottenere ascolto nella società e nei media, magari per sostenere un disegno di legge in discussione al Parlamento o per promuovere la raccolta di sottoscrizioni per l’8 per mille fiscale. Nello sviluppo delle undici lezioni del Corso, partendo dalla credibilità come relazione sociale, come risorsa, mezzo per ottenere risultati; come perseguimento degli scopi, mezzo per ottenere scopi ma anche scopo essa stessa; come integrazione, fattore di integrazione/ divisione sociale; come latenza, condizione latente ed intrinseca di ogni relazione, si è giunti a parlare della dimensione etica della comunicazione e del suo valore tanto in politica che in ambito economico-finanziario che in quello culturale-educativo, sia che si operi per la promozione umana che per la realizzazione della giustizia che per la ricerca della verità. Si sono tratteggiate così le linee guida per l’intervento comunicativo a livello locale, diocesano come parrocchiale: e quindi si è ripercorso il processo fondativo della comunicazione: si è partiti dall’analisi dello status quo per focalizzare i destinatari dell’intervento, per individuare gli obiettivi, i possibili contenuti e Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x le modalità di comunicazione e gli strumenti; si è quindi definito il disegno organizzativo, le modalità di pubblicità e formazione chiudendo il cerchio con le necessarie attività di monitoraggio, verifica e valutazione. Entrando anche nel dettaglio dei singoli argomenti: ad esempio, a chi pensiamo quando parliamo di destinatari per la comunicazione interna alla Chiesa? A che serve? Di chi si deve tener conto? Quali strumenti sono disponibili? Quali le metodologie? E vi è un disegno organizzativo e strategico complessivo? Tra le tante annotazioni emerse, fondamentale quella relativa alla condivisione dell’importanza della funzione dell’ascolto, momento qualificante quand’anche spesso trascurato di qualsiasi processo comunicativo. Ascoltare significa attivare processi che consentano di comprendere i bisogni, i problemi e più in generale le varie esigenze di comunicazione della comunità di riferimento. Vi è l’ascolto di uno e quello di tanti, le modalità di realizzazione sono quindi diverse e numerose, l’ascolto permette di “indagare”: - la qualità della circolazione delle informazioni - le tipologie di contenuti, la loro ideale circolazione/fruizione - le modalità e gli strumenti di comunicazione da formalizzare - gli spazi e le modalità di comunicazione informale - la struttura organizzativa a supporto della circolazione informativa - le competenze del personale coinvolto (competenze specifiche e competenze diffuse). Si sono passati in rassegna strumenti e modalità comunicative avvalendosi anche del contributo dei principali operatori del settore: i direttori del quotidiano locale, della principale tv privata, della sede RAI FVG; i responsabili degli uffici stampa del Comune di Trieste, della Regione e della diocesi triestina; i direttore del settimanale diocesano, di Radio Nuova Trieste e della newsletter della Caritas; il presidente del CORECOM FVG; il responsabile diocesano per le comunicazioni sociali e la vicepresidente dell’Ordine regionale dei giornalisti: ne è emerso un quadro con luci ed ombre, proietta151 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) to con la testa verso il futuro tecnologico della comunicazione ma con i piedi spesso impantanati nell’argilla di un presente complesso, difficile, di modesto profilo. Quali che siano gli strumenti utilizzati: di trasmissione (info unidirezionali, stampa, radio, cinema, tv), di elaborazione (per la gestione di dati informativi), di memorizzazione (banche dati, cataloghi, guide), di generazione (facilitano processi comunicativi, telefono, teleconferenza, reti telematiche), emerge la necessità di una strategia, la definizione di un adeguato supporto organizzativo agli obiettivi di comunicazione interna ed esterna definiti. In particolare per guidare l’istituzione e farla funzionare bene; per farne conoscere l’identità, i valori, gli obiettivi, i servizi, l’organizzazione, le procedure; per cambiarne il modo di essere, l’organizzazione; intervenendo nell’insieme delle occasioni in cui i membri hanno la possibilità di esprimere il proprio parere. Si è giunti così a prendere coscienza della nuova sfida che pone la comunicazione organizzativa, quell’insieme dei processi strategici ed operativi, di creazione, di scambio e condivisione di messaggi informativi e valoriali all’interno delle reti di relazione che costituiscono l’essenza dell’organizzazione, coinvolgendo i membri interni della comunità, i collaboratori interno-esterni ed i potenziali soggetti esterni coinvolti/interessati. In questo senso la comunicazione organizzativa rappresenta la comunicazione interna concepita in modo integrato con quella esterna, rispetto agli ambiti ed agli strumenti di comunicazione istituzionale tout court. La comunicazione diventa quindi una leva essenziale per lo sviluppo ed il funzionamento dell’organizzazione, persegue la trasparenza per fare conoscere ciò che realmente la comunità ecclesiale è (l’identità, non l’immagine) ed offre l’opportunità di progettare non riferendosi ai pubblici target ma ai propri obiettivi comunitari. La comunicazione organizzativa comprende così: - le iniziative di comunicazione attivate nelle diverse linee e funzioni della comunità, gestite da soggetti competenti e rivolte verso Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x l’interno e l’esterno - le iniziative di comunicazione in senso stretto realizzate per gestire e diffondere le attività e gli strumenti di comunicazione - le iniziative insite nell’attività gestionale e nelle iniziative manageriali della organizzazione della comunità. È in questo contesto che si è andato a ragionare sul bollettino parrocchiale, visto come stimolo, in quanto ogni notizia non deve essere letta in maniera passiva ma anche come arricchimento, in quanto ciò che si scrive deve farci riflettere; condivisione, nella comunità e nella famiglia, per comunicare con le famiglie e per formare, creare spazi di riflessione, porre e porsi degli interrogativi. Così come si è ragionato sul settimanale diocesano, che dovrebbe essere voce del popolo, fonte di spunti e stimoli per il dialogo, promotore di una rete di relazioni e strumento di informazione e di formazione, sfruttando al meglio la dimensione settimanale della riflessione e quella dell’apprendimento. Web e newsletter e social forum sono stati altri momenti di forte interesse ed interazione, le nuove tecnologie a livello diocesano permettono anche l’allargamento del livello del confronto su quel piano “glocale” che contraddistingue la comunicazione del nostro tempo. Ragionando sull’insieme di prodotti editoriali locali e nazionali, tradizionali e tecnologici, sono emersi alcuni auspici sul ruolo dei media cattolici, che non dovrebbero appiattirsi sull’agenda laica della società, non dovrebbero essere autolesionisti e non dovrebbero mancare di dare una risposta alle difficoltà che sono sotto gli occhi di tutti. I media cattolici dovrebbero quindi essere attenti alle novità ed alla formazione continua, dovrebbero riuscire a fare conoscere l’identità dell’istituzione Chiesa trasmettendo punti di vista istituzionali; a fornire dati e contesto su questioni di rilevanza pubblica, offrendo elementi per la comprensione, discussione, il dialogo sociale. Insomma, operare per dare senso alla presenza della Chiesa, facendo emergere che la Chiesa come organizzazione fa del bene all’umanità e come realtà spirituale e umana 152 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) agisce onestamente e si sforza di mantenere la continuità con la dottrina di Cristo. E facendo superare quella visione distorta per cui la Chiesa come istituzione non è o non è stata ciò che dice di essere; come struttura evidenzia aspetti incompatibili con la società moderna e democratica, con il progresso e la tolleranza; come istituzione religiosa accoglie membri che hanno comportamenti poco evangelici. I media cattolici dovrebbero essere anche attenti al linguaggio che adoperano: non sempre si può ricorrere all’escamotage ideato dai responsabili del sito dei Gesuiti italiani, che vi hanno inserito un vero e proprio “glossario” dei termini nei quali il navigatore potrebbe imbattersi: da “Ad maiorem Dei gloriam” letteralmente «Alla maggior gloria di Dio», motto della Compagnia di Gesù, a “Compagnia militante”, i gesuiti viventi, e “Compagnia trionfante”, i gesuiti defunti; da “Mese ignaziano”, periodo di quattro settimane in cui si fanno gli Esercizi Spirituali di S. Ignazio ad “Operarius”, il gesuita professo disposto a qualsiasi attività apostolica; da “Spesiere”, il novizio incaricato di uscire per le compere a “Voti solenni”, i voti emessi alla fine della formazione. Gesù, la parola, in principio era il Lógos e all’inizio c’è la dimensione orale, perché Cristo parlava e solo qualche decennio più tardi la buona novella venne fissata in scrittura. Oggi, però, proprio Benedetto XVI ha ritenuto necessario, nell’autunno 2008, convocare un Sinodo dei vescovi dedicata alla “Parola di Dio”, dal quale è nato un “direttorio sull’ omelia”, affinchè i predicatori possano trovarvi un aiuto utile, elencando alcune indicazioni pratiche: individuazione di un tema principale, raccomandazione di non superare gli otto minuti, tempo medio di concentrazione degli uditori, evitando così la fuga, sintesi e semplicità. Come nel Vangelo di Luca, ove troviamo l’ omelia probabilmente più breve della storia: nella sinagoga di Nazaret, dopo che ebbe letto un brano di Isaia («Lo Spirito del Signore è sopra di me...») e chiuso il rotolo, disse: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. Punto9. 9 cfr. G.G.Vecchi, Predicatori Non più di 8 minuti per raccontare la fede, in “Corriere della Serra”, 5 dicembre 2010. Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x Lo scorso autunno una stagiaire della Facoltà di Scienze della Formazione ha sviluppato presso il CORECOM FVG un’analisi della leggibilità del testo, applicandola ad alcuni numeri di luglio del settimanale diocesano di Trieste “Vita Nuova”10. Per leggibilità si intende ovviamente la condizione per cui un testo è comprensibile e facile da leggere e si calcola tramite delle formule che, fondandosi su determinati criteri, forniscono risultati rapportabili ad una scala di valori di riferimento. Nell’occasione è stato utilizzato l’Indice Gulpease, una delle cinque formule realizzate nel 1988 nell’ambito delle ricerche del Gruppo Universitario Linguistico Pedagogico (GULP), presso il Seminario di Scienze dell’Educazione dell’Università di Roma. Ne è emerso che il 71% degli articoli presi in considerazione sono risultati “quasi incomprensibili” per persone in possesso della sola licenza elementare, mentre per chi ha la licenza media e il diploma superiore nessun articolo è risultato “quasi incomprensibile”, anche se per chi possedeva la licenza media nessun articolo è risultato “molto facile” mentre per chi aveva il diploma superiore solo un articolo sui 64 analizzati è risultato “molto facile”. Una breve verifica effettuata a settembre su ulteriori 33 articoli ha portato sostanzialmente alla conferma del trend, dati rispetto ai quali la direzione di testata si è poi dichiarata interessata ad un intervento redazionale in grado di facilitarne la lettura. In particolare, l’87% degli articoli presi in considerazione sono risultati “quasi incomprensibili” per persone in possesso della sola licenza elementare, mentre per coloro che hanno acquisito la licenza media e il diploma superiore nessun articolo è risultato “quasi incomprensibile”, anche se per chi possedeva la licenza media nessun articolo è risultato “molto facile” mentre per chi aveva il diploma superiore tutti gli articoli sono risultati di lettura “facile”. In pratica, pur tenendo conto della limitata durata temporale della ricerca e quindi del 10 per verificare il contesto in cui il lavoro della dott.ssa Giulia Agnola, che si ringrazia, è stato effettuato, cfr. la Relazione 2010 sull’attività svolta dal CORECOM FVG sul sito www.corecomfvg.it 153 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) campione analizzato, per capire interamente i contenuti del settimanale non parrebbe sufficiente l’aver frequentato la scuola dell’obbligo, ci vorrebbero le superiori. Peraltro, la ricerca di un linguaggio adeguato non è cosa d’oggi: La Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti italiani che si vanta di essere la più antica rivista italiana, già in un numero del 1855 scriveva: ”A gente di piccola levatura un trattato conciso, serrato, stringente genera noia, e non lascia traccia di sé pel suo corere inosservato o non inteso. Per questa generazione di persone, che con una sola voce diciamo volgo, richiedesi qualche cosa di sensibile, di dilettoso, di commovente che entri pei sensi e per la fantasia e così giunga all’intelletto siccome meglio è possibile”11. Di tutti questi aspetti vi è ampia traccia nei documenti della Chiesa cattolica sulle comunicazioni sociali. I documenti della Chiesa cattolica sulle comunicazioni sociali I principi costitutivi del Magistero della Chiesa relativi al mondo delle comunicazioni, sono stati riassunti in cinque punti12 : - il progresso nelle comunicazioni è una manifestazione della partecipazione degli uomini al potere creativo di Dio e rende più facili la comunione tra le persone - il mondo delle comunicazioni ha leggi e metodi propri ed autonomi - la comunicazione intra-trinitaria è la sorgente e il modello per la comunicazione umana, che è rivolta alla comunione - la Chiesa ha il diritto di possedere mass media, necessari per l’evangelizzazione contemporanea che, proprio attraverso i media richiede fedeltà al Vangelo e formazione professionale nelle tecniche e nel linguaggio delle comunicazioni moderne 11 cfr G. Costa, Editoria, media e religione, Città del Vaticano, 2009, pag. 83-84. 12 l’autore riprende questa sintesi al termine di un’ampia disamina dei principali documenti contemporanei della Chiesa sulle comunicazioni sociali, cfr. M. Fazio, Inter mirifica, in J.M. La Porte, Introduzione alla Comunicazione Istituzionale della Chiesa, Roma, 2009, pag. 35. Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x - la Chiesa esprime il suo rammarico per la degenerazione nell’uso dei mass media, che ha dato luogo a pornografia, edonismo, relativismo, falsità, sensazionalismo. La comunicazione della Chiesa si è evoluta insieme alla comprensione del suo rapporto con i media: se in passato il principale problema erano l’adattamento del contenuto ai principi morali e la concezione dei media come meri strumenti al servizio del Vangelo, oggi è prevalsa una visione più profonda della realtà del media system, che forma la vita delle persone e delle comunità ed utilizza i media come agenti di e per l’evangelizzazione. Ne consegue che la comunicazione deve essere integrata nelle attività della Chiesa e nei programmi pastorali; l’approccio pragmatico dei suoi referenti ha portato a reinventare la visione delle relazioni della Chiesa con i media. Come ha affermato Giovanni Paolo II, il più grande interprete di questo rinnovamento pastorale, nella Redemptoris Missio: “Il primo areopago del tempo moderno è il mondo delle comunicazioni, che sta unificando l’umanità rendendola un villaggio globale ... l’impegno nei mass media non ha solo lo scopo di moltiplicare l’annuncio ... non basta usarli per diffondere il messaggio cristiano ed il magistero della Chiesa, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa nuova cultura creata dalla comunicazione moderna”. Il quadro di riferimento normativo è dunque particolarmente ampio ed articolato. I documenti ecclesiali sono riconducibili a quattro gruppi: - documenti fondamentali sui mezzi di comunicazione, con dichiarazioni di principio - documenti connessi agli aspetti etici dei mass media - il gruppo più numeroso, ovviamente, è quello dei documenti relativi ad aspetti specifici dei mass media diversi dall’etica - documenti che si occupano di aspetti vari della vita ecclesiale e, necessarimente, propongono elementi di comunicazione. Un aspetto di cui tener conto è la fonte della norma, essendo ovviamente un documento prodotto direttamente dal Concilio di ben altra caratura rispetto, ad esempio, all’annuale 154 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) discorso del Pontefice per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, ed è in questa prospettiva che si ricostruisce e parzialmente riassume il quadro di riferimento normativo, peraltro non esaustivo: Concilio ecumenico vaticano ii 1963, Inter Mirifica (decreto del Concilio Vaticano II sugli strumenti della comunicazione sociale): è diventato nel tempo il punto di riferimento per i documenti della Chiesa in materia di media e comunicazioni sociali; articolato in due capitoli, uno dedicato all’uso dei media e l’altro ai media come mezzi di comunicazione sociale al servizio dell’apostolato; il Decreto ha previsto la costituzione degli Uffici nazionali per la stampa, il cinema, la radio e la televisione per aiutare i fedeli a formarsi una retta coscienza sul loro uso; Documenti della santa sede: 1957, Papa Pio XII, Lettera enciclica Miranda prorsus (su cinema, radio e televisione): dimostra il grande interesse di papa Pio Xii per i mass media, che considerava come “doni di Dio”, validi strumenti “per servire la verità ed il bene”, per la diffusione del Vangelo ed esempio di partecipazione degli uomini al lavoro creativo di Dio; 1971, Pontificia Commissione per le comunicazioni sociali, Communio et Progressio (Istruzione pastorale sugli strumenti della comunicazione sociale): ha sviluppato il tema delle principali finalità dei mass media per la Chiesa ovvero la comunione ed il progresso umano, evidenziando il carattere educativo dei media, il loro valore culturale e di svago; 1985, Penitenzieria Apostolica, Indulgenza plenaria via etere; 1986, Congregazione per l’educazione cattolica, Orientamenti per la formazione dei futuri sacerdoti circa gli strumenti della comunicazione sociale: visti i ritardi nello sviluppo di programmi sulle comunciazioni sociali nella formazione dei sacerdoti, il documento individua tre livelli di prepaparazione mediatica: un livello di base per un corretto uso personale dei media; un livello pastorale per preparare i sacerdoti a Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x formare altri all’uso dei media; un livello specialistico per chi avrebbe operato nel settore; 1989, Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, Pornografia e violenza nei mezzi di comunicazione sociale (Una risposta pastorale): individua cause ed effetti della diffusione della pornografia e della violenza offrendo anche possibili soluzioni; 1989, Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, Criteri di collaborazione ecumenica e interreligiosa nel campo delle comunicazioni sociali: propone linee guida per la collaborazione interreligiosa; 1992, Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, Aetatis novae (Istruzione pastorale sulle comunicazioni sociali): il documento affronta il tema delle conseguenze pastorali che la rivoluzione della comunicazione può determinare, atteso che la rivoluzione mediatica influisce anche sulla percezione che si può avere della Chiesa e può causare modifiche nelle sue strutture e nel funzionamento di queste. L’istruzione pastorale ha anche proposto uno schema di piano pastorale per le comunicazioni sociali, una sorta di piano di comunicazione ante litteram, con tanto di indicazioni per reperire risorse finanziarie per la pastorale; 1992, Congregazione per la dottrina della fede, Istruzione circa alcuni aspetti dell’uso degli strumenti di Comunicazione Sociale nella promozione della dottrina della fede: ripropone in forma organica la legislazione della Chiesa, individua le responsabilità pastorali dei vescovi e, in campo editoriale, quelle dei superiori religiosi, delle organizzazioni cattoliche e dei singoli fedeli; 1995/6, Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, 100 anni di cinema: si tratta di uno strumento volto ad incoraggiare i cattolici a fruire in maniera critica e non essere spetatori passivi dei film; 1997, Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, Etica nella pubblicità: il documento presenta i vantaggi della pubblicità e ne denuncia i danni causati da questa; propone strutture e regole per un esercizio responsabile della pubblicità, l’attuazione di codici deontologici volontari, l’intervento dell’autorità per evitare abusi e risarcire i danni provocati; 155 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) 1999, Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti; 1999, Pontificio consiglio per la cultura, Per una pastorale della Cultura; 2000, Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, Etica nelle comunicazioni sociali: i mezzi di comunicazione sociale non fanno nulla da soli, sono strumenti utilizzati nel modo in cui le persone decidono di farlo. Non c’è bisogno di una nuova etica per i diversi mass media, bisogna invece applicare i “principi stabiliti” anche alle nuove circostanze; 2002, Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, Etica in internet: anche per la valutazione etica di internet la persona e la comunità rimangono elementi centrali, sottolinea il documento, che è ben conscio di come le nuove tecnologie informatiche trasmettano ed inculchino nuovi valori culturali che possono stritolare le culture tradizionali. Non a caso ricorda i problemi etici che internet può aprire: riservatezza e sicurezza dei dati, proprietà intellettuale, pornografia, incitamento all’odio ed al razzismo, gossip e diffamazione; 2004, Congregazione per i Vescovi, Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi Apostolorum successores; 2005, Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Il Rapido Sviluppo: è considerata in qualche modo il documento di sintesi del rapporto del papa con i media, per il quale “anche il mondo dei media abbisogna della redenzione di Cristo”. Per il Papa i media creano nuovi orizzonti culturali e valori che coinvolgono i giovani e l’intera comunità e la catechesi non può prescindere dal fatto di rivolgersi a soggetti che risentono dei linguaggi e della cultura contemporanei; inoltre, l’accesso ai media da parte della Chiesa dovrebbe essere incoraggiato attraverso una “partecipazione corresponsabile alla loro gestione”; 2009, Istruzione circa alcuni aspetti dell’uso degli strumenti di comunicazione sociale nella promozione della dottrina della fede. issn 2035-584x fronti dei mass media: 12 messaggi di Paolo VI, 27 di Giovanni Paolo II e 6 a tutt’oggi di Benedetto XVI. Se il primo è intervenuto in maniera ricorrente sulla supremazia dell’ordine morale, della responsabilità dei cristiani nel sistema mediatico e del diritto della Chiesa di possedere propri mass media, il secondo ha insistito molto sugli sviluppi tecnologici delle comunicazioni, parlando già nel 1990 di computer e nel 2001 di internet; il terzo ha proposto le sue riflessioni sui media come rete che facilita la comunione, la cooperazione e la ricerca della verità. Documenti della cei sulle comunicazioni sociali: 1973, Norme per la trasmissione televisiva della Messa 1982, Le sale cinematografiche parrocchiali 1985, Nota a vent’anni dal Decreto conciliare “Inter Mirifica”. Il dovere pastorale della Comunicazione Sociale 1999, La sala della comunità: un servizio pastorale e culturale 1999, CELombardia, Una sfida educativa. La Comunicazione nella prospettiva dell’anno 2000 2001: Orientamenti pastorali Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia 2004, Direttorio sulle comunicazioni sociali nella missione della Chiesa Le comunicazioni sociali in altri documenti: 1975, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi 1981, Esortazione apostolica Familiaris consortio 1990, Lettera enciclica Redemptoris missio 1995, Esortazione apostolica Ecclesia in Africa 2003, Esortazione apostolica Ecclesia in Europa Messaggi del Papa per la “Giornata delle comunicazioni sociali”, dal 1967 ad oggi L’organizzazione della Chiesa cattolica italiana nel campo della comunicazione e dell’informazione Forniscono, nel tempo, una panoramica completa dell’approccio che il Papa ha nei con- Per definizione, la Chiesa è maestra della comunicazione verbale. Essa conosce la pa- Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa 156 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) rola come simbolo di Dio (Gv 1,1) ed accetta il linguaggio come il mezzo con il quale Dio si rivela (Gv 1,14). Il Grande Giubileo del 2000 è stato vissuto da molti quasi simultaneamente grazie al villaggio globale mass-mediatico molto più di quanto non abbia potuto il Concilio ecumenico Vaticano II. Come aveva profetizzato Giovanni XXIII, la Chiesa del post-Concilio non è più un museo da custodire ma un giardino da coltivare, essa non può essere raccontata soltanto dentro “le mura”, oggi esistono anche altri strumenti per divulgare la parola di Dio. La situazione era cambiata profondamente con Papa Giovanni XXIII. Egli volle dedicare una delle sue prime udienze ai giornalisti che il Concilio aveva attirato a Roma, in buona parte sino ad allora poco attenti alle questioni religiose. I temi che venivano discussi come pure la vivacità di alcuni confronti su questioni concrete e pratiche per la vita della Chiesa e dei credenti avevano suscitato un enorme interesse tra i lettori. Nel 1966 era stata aperta la Sala stampa vaticana. In essa venivano svolte le conferenze stampa, offrendo in questo modo le informazioni dirette ai fedeli. La Sala stampa aveva attirato moltissimi giornalisti da tutte le parti del mondo. L’informazione vaticana rientrava nell’ambito del giornalismo d’inchiesta fondato sul confronto, la verifica delle fonti e l’interrogazione esplicita. Proprio in questo modo era nato il “vaticanismo” come specializzazione professionale e poi affermatasi fino ai nostri giorni. I cosidetti “vaticanisti” sono giornalisti che hanno il compito primario di seguire il Papa nei suoi viaggi, di aggiornare i lettori sugli equilibri della Curia, di seguire le dinamiche teologiche e politiche delle Conferenze episcopali, di prevedere la nomina pontificia e di dare voce alle personalità cattoliche che dimostrano di saper fare un uso intelligente dei media; un ulteriore compito dei “vaticanisti” italiani è quello di informare i fedeli sulle attività del presidente della CEI, sugli impegni del Segretario di Stato vaticano, sui Sinodi e sugli appuntamenti particolari della Chiesa cattolica quale opinion maker italiano. Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x Il tentativo postconciliare della Chiesa cattolica è stato quello di entrare in dialogo e confronto con le altre realtà religiose, negli anni ’80 e ’90 Papa Giovanni Paolo II aveva portato avanti la riflessione sul ruolo e sull’uso conseguente della comunicazione, approfondendo il rapporto dei media nei confronti di categorie deboli, quali i popoli in guerra, gli anziani, i bambini, le famiglie. In Italia l’informazione cattolica è migliorata molto negli ultimi anni, sia in qualità che in quantità. Naturalmente, a ciò hanno contribuito anche certi fattori, quali ad esempio il vuoto creato dalla caduta delle ideologie, il ruolo che la Chiesa esercita sempre di più nell’ambito civile dopo il crollo della Dc, la vitalità della comunità cristiana, la diffusione del fenomeno del volontario animato dalla Chiesa cattolica, l’affacciarsi con maggiore visibilità delle altre religioni, ecc... Tutto ciò ha contribuito a far crescere l’attenzione dei mass media sulla religione cattolica e sulla presenza cattolica nella nostra società, giunta probabilmente al culmine nell’anno giubilare. L’Anno Santo a Roma, il Giubileo, è stato spettacolarizzato dai vari mezzi di informazione ed ha costituito l’occasione, per il Papa, di usare i media come nessun altro dei suoi predecessori. Dopo pagine e pagine, e tante ore dedicate a questo grandissimo evento, stava sopravvenendo una certa stanchezza da sovraesposizione agli eventi più affascinanti del Giubileo ed è stata allora la Giornata Mondiale della Gioventù a creare l’opportunità di un cambio di marcia, proponendo ai media l’occasione di scoprire una realtà umana e religiosa concreta, i ragazzi giunti a Roma ed accolti nella loro moltitudine con grande stupore. Il responsabile principale di questa mediaticità è stato senz’altro il papa, in tutta la storia dell’umanità mai nessun uomo era stato probabilmente ascoltato e visto come papa Giovanni Paolo II. Il sistema dell’informazione è cambiato perchè il processo riguardante l’informazione religiosa è andato passo a passo con la trasformazione dei mass media, sempre più pronti a cogliere lo sviluppo di certi fatti e sempre meno interessati a cercare le ragioni e i motivi lonta157 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) ni e complessi. Quando un fatto religioso viene presentato sui giornali oppure alla televisione, gli elementi che spiccano di più sono la sua spettacolarità o grandiosità, la capacità di stupire, di sbalordire o di divertire, l’importanza dei protagonisti: il Papa, la Curia e i cardinali. Dalla fondazione in poi la Chiesa cattolica ha comunicato e comunica la verità del Cristo. Lo fa attraverso la liturgia, la catechesi, la scuola, l’arte, la famiglia e il personale dinamismo e la testimonianza di ciascun cristiano nella sua dimensione sociale e lavorativa. La Chiesa, istituzione inserita nella società, ha di volta in volta adattata la propria comunicazione all’ambiente in cui vive ed ha dovuto adattare pure il linguaggio del suo messaggio alle mentalità e ai mezzi correnti. La Chiesa e la sua storia sono stati sempre collegati alle varie fasi dello sviluppo della comunicazione orale, scritta, stampata, elettronica e digitale. Essa ha sempre cercato di integrare i mass media nelle sue attività comunicative, sia come soggetto attivo della comunicazione, ad esempio attraverso la proprietà dei mezzi d’informazione cattolica, sia come oggetto stesso di comunicazione, pensiamo alla copertura mediatica della Chiesa. Nonostante le difficoltà la Chiesa ha cercato di comprendere e di guardare nel mondo dei media. L’interesse e l’attenzione che la Chiesa cattolica ha rivolto alle comunicazioni sono evoluti negli anni con lo sviluppo dei media e la formazione della cultura mediatica, che ha avuto i suoi inizi nella prima metà del Novecento. Il Magistero della Chiesa ha dovuto riflettere su come rispondere alle nuove sfide poste dal mondo della comunicazione e dall’importanza crescente che i mass media avevano acquisito. Quando il Magistero si è accorto della grande influenza che questi avevano avuto sulla cultura, esso ha subito spostato l’attenzione e l’interesse su questo argomento. Non a caso esistono più documenti sulla comunicazione verso la fine del Novecento piuttosto che agli inizi dello stesso secolo: dal Papa Pio XI in poi tutti i Papi avevano proposto moltissimi messaggi sui mass media, soprattutto papa Giovanni Paolo II. Siccome il messaggio della Chiesa tratta di tutte le questioni della vita quotidiaNuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x na e dell’intera società, è logico che si trovino moltissimi riferimenti ai problemi della comunicazione nei documenti relativi ad altri aspetti della vita ecclesiale quale la liturgia, la catechesi, l’ecumenismo. Il Magistero di Giovanni Paolo II aveva dimostrato che i mass media devono essere usati per l’evangelizzazione del mondo e che devono essere il primo ambito in cui il Vangelo deve essere annunciato. Cristianizzare la società d’oggi significa anche cristianizzare i media, che sono divenuti un elemento essenziale che da un lato forma la cultura mentre dall’altro lato diffonde i modelli e gli atteggiamenti relativistici e chiusi alla trascendenza. La comunicazione e l’informazione della Chiesa italiana La Conferenza Episcopale Italiana - CEI è l’unione permanente dei Vescovi delle Chiese italiane, è legalmente rappresentata dal proprio Presidente ed ha la sede a Roma. Per promuovere la vita della Chiesa, sostenerne la missione evangelizzatrice e svilupparne il servizio per il bene dell’Italia i vescovi esercitano congiuntamente funzioni pastorali e, a norma del diritto, assumono deliberazioni legislative.13 La personalità giuridica della Conferenza è civilmente riconosciuta in Italia in forza delle vigenti norme concordatarie. Per quanto riguarda la propria organizzazione nel campo della comunicazione e informazione la Chiesa cattolica italiana si è data una solida organizzazione: l’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali, alcune case editrici, l’agenzia di informazione SIR – Servizio Informazione Religiosa, il quotidiano “Avvenire”, il mensile “Famiglia Cristiana”, un sito ufficiale ( www.chiesacattolica.it ); si avvale, inoltre, della Radio Vaticana e del Centro televisivo Vaticano (CTV), organizza periodicamente convegni nazionali ed ogni anno celebra la festa del patrono dei giornalisti San Francesco da Sales (23 gennaio) e partecipa alla giornata mondiale delle comu13 cfr. http://www.chiesacattolica.it/cci_new_v3/allegati/8163/statuto_CEI.pdf. Al riguardo, cfr anche la disamina sviluppata da A. Spadaro S.I., op.cit., pp.112-116. 158 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) nicazioni sociali (16 maggio, giunta alla 45.a edizione nel 2011). L’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali L’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali (UCS) della CEI è costituito presso la Segreteria della Conferenza e si occupa dell’espressione dell’azione pastorale della Chiesa italiana in questo settore attraverso gli strumenti a disposizione: la stampa, il cinema, la radio, la tv, internet. L’Ufficio coordina e collega tutti gli organismi e servizi ecclesiali che lavorano nel settore, cercando di approfondire e svolgere ricerche sui temi relativi all’ontologia ed all’etica della comunicazione sociale. L’attività può essere ricondotta a due filoni principali: quella dei servizi e dei rapporti che si svolgono all’interno del mondo ecclesiale e quella che si occupa dei rapporti che si svolgono all’esterno del mondo ecclesiale. La comunicazione interna riguarda la gestione e la cura delle dinamiche di comunicazione e di informazione tra la Segreteria Generale della CEI e gli Uffici, i Servizi e gli Organismi collegati (Caritas Italiana, Fondazione Migrantes, Fondazione Missio) e tra gli stessi Uffici ed i Servizi pastorali. Tra i compiti principali: - produzione di una Rassegna stampa quotidiana cartacea che deve venire distribuita al Presidente della CEI, al Segretario Generale della CEI, ai Sottosegretari, ai direttori e ai vice direttori degli Uffici CEI, ai responsabili e ai vice responsabili dei Servizi CEI e tramite l’intranet a Vescovi ed agli Uffici diocesani per le comunicazioni sociali, alle diocesi e ai vaticanisti accreditati permanentemente presso l’Ufficio stampa della CEI e sul sito internet; - produzione settimanale della InfoCEI, foglio di informazione sugli eventi, sulle celebrazioni, sulle tavole rotonde, sui convegni e sui seminari che richiedono la presenza, la partecipazione e/o l’intervento del Presidente e/o del Segretario Generale della CEI, dei direttori e dei responsabili degli Uffici e dei Servizi pastorali e degli Organismi collegati. Le notizie dell’InfoCei sono poi inserite a cura dell’UCS nell’area news del sito www.chiesacattolica.it; Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x - funzione di coordinamento delle attività degli Uffici regionali e diocesani per le comunicazioni sociali attraverso incontri periodici di studio e di programmazione, convegni nazionali, giornate di studio e momenti di riflessione; fornisce anche il supporto organizzativo per gli incontri e le iniziative della Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali. La comunicazione esterna si occupa dei rapporti con la stampa “laica” e dei rapporti con i giornalisti dei vari media televisivi e radiofonici e della carta stampata. Tra i suoi compiti: - l’Ufficio Stampa si occupa dei rapporti con i mass media e i vaticanisti accreditati permanentemente presso la CEI, di redigere comunicati stampa, di organizzare le conferenze stampa, le interviste al Presidente della CEI, al Segretario Generale della CEI e ai direttori e/o responsabili degli Uffici e dei Servizi pastorali con gli operatori dell’informazione. L’Ufficio stampa si occupa anche del monitoraggio delle Agenzie di Stampa. Al direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali fa capo il compito di occuparsi della teletrasmissione della Santa Messa, ovviamente coadiuvato da esperti: un aiutante di studio ed un regista per predisporre gli aspetti organizzativi, logistici e tecnici. La Santa Messa va in onda ogni domenica mattina su RaiUno dal 1954 e, dal 2007, può essere seguita anche dai non udenti attraverso la pagina 777 di TelevideoRai e resta un servizio importante per gli ammalati e quanti non possono partecipare alla celebrazione eucaristica domenicale. Al riguardo va ricordato che per la natura e le esigenze dell’atto sacramentale non è possibile sostituire con gli strumenti della comunicazione sociale la partecipazione mediata e virtuale a quella diretta e reale, anche se questa rappresenta una forma valida di aiuto nella preghiera in quanto offre “la possibilità di unirsi ad una Celebrazione eucaristica nel momento in cui essa si svolge in un luogo sacro”14; - la Sezione Cinema e Spettacolo dell’UCS si ripropone di sviluppare dei punti d’incontro significativi tra la cultura “laica” e la fede cattoli14 Cfr. http://www.chiesacattolica.it/cci_new_v3/s2magazine/index1.jsp. Al riguardo, cfr. anche la diamina sfruttata da A. Spadaro S.I., op. cit, pp 112-116 159 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) ca e quello della cultura cinematografica in tutte le sue manifestazioni: dalle opere filmiche agli studi sul cinema e l’audiovisivo alle pubblicazioni periodiche specializzate, alle pubblicazioni in volume. A tal fine lavora principalmente lungo due direttrici: da un lato essa ha progettato e sviluppato il coordinamento delle associazioni cattoliche, spesso provvedendo a raccoglierle attorno a dei progetti ben definiti quali gli eventi, le manifestazioni culturali, le rassegne stampa ed i convegni, in moda da fare emergere i problemi cruciali sui quali è possibile sviluppare un confronto, approfondito, tra la fede e i media audiovisivi; dall’altro essa tenta di valorizzare le sale della comunità, che ormai da tempo vivono una fase di crescita sia sociale che culturale ma anche tecnologica. Accanto a questa Sezione opera anche la Commissione Nazionale Valutazione Film, a sua volta dipendente dalla Presidenza della CEI. Le case editrici Le case editrici e le librerie cattoliche sono riunite dal 1944 nell’Unione editori e librai cattolici italiani (UELCI). Attualmente ne fanno parte sessanta case editrici, diciotto singole librerie e sei catene per un totale di circa 300 librerie sul territorio nazionale. Un terzo delle case editrici è impegnato nel settore scolastico. I campi d’interesse di questi editori vanno dalla saggistica filosofica e teologica alla spiritualità, dalla tematica biblica a quella più genericamente religiosa, dalla letteratura per ragazzi all’attualità. Non solo libri, ovviamente, la produzione comprende anche periodici, audiovisivi e sussidi didattici. Attualmente si pubblicano oltre 3.500 nuovi libri all’anno, un buon giro d’affari complessivo realizzato dall’editoria cattolica (un fatturato di 386 miliardi nel 1998). In quest’ultimo settore esiste il problema dell’impatto delle nuove tecnologie, determinante a diversi livelli, particolarmente per semplificare, accelerare e rendere più efficaci i vari processi, dalla fase di scrittura a quella di stampa, risparmiare sui costi, realizzare nuovi strumenti, prodotti e servizi, ampliando i canali distributivi e commerciali e creando una nuova politica dell’inNuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x formazione libraria. Il pubblico al quale si rivolgono le case editrici cattoliche è variegato: dalle persone di chiesa (laici e religiosi impegnati) ai militanti di movimenti sociali e gruppi alternativi, dal mondo della cultura a quello della scuola, dal contesto missionario a quello dell’impegno sociale, dal laico al politico. Le principali case editrici che si occupano dei temi religiosi sono: - “Libreria Editrice Vaticana” (LEV), questa casa editrice è nata il 27 aprile 1587 grazie al papa Sisto V, che fu anche il fondatore della Tipografia Vaticana da cui la libreria fu scorporata nel 1926. Pubblica opere legate al mondo ecclesiastico e cattolico come anche gli atti ed i documenti ufficiali della Chiesa cattolica; - “Editrice missionaria italiana” (EMI): è’ una casa editrice missionaria di proprietà di quindici istituti italiani che svolgono attività anche all’estero. Propone temi svariati, dal racconto della missione fatto dai suoi protagonisti allo sforzo di dar voce alle giovani chiese; dai temi della giustizia e della pace a quelli dell’intercultura, dal rapporto tra paesi e popoli ai nuovi stili di vita. Senza dimenticare la dimensione biblica, la spiritualità missionaria, gli aspetti teologici della missione, si occupa anche dei temi del dialogo interreligioso, dell’ecumenismo, dell’incontro con il diverso; dei temi ambientali; di solidarietà tra i popoli e cooperazione internazionale; - “Edizioni San Paolo – Paoline”, si ispirano all’Apostolo delle Genti, il primo grande propagandista del messaggio di Cristo, che trasmise sulla terra a viva voce e scrivendo ed inviando le “lettere”. Le Edizioni San Paolo e le Paoline sono impegnate per lo più nell’apostolato librario proprio perchè vogliono incarnare l’ideale paolino; - “Àncora”, il suo logo è un’ancora blu su cui sono aggrappate delle persone, a significare curiosità per la vita e passione per i libri. Pubblica testi di spiritualità cristiana destinati non solo ai religiosi desiderosi di approfondire la propria fede ma anche ai laici; - “Vita e Pensiero”, nata nel 1918, è la casa editrice dell’Università Cattolica di Milano, ne è proprietario l’Istituto Giuseppe Toniolo. In catalogo oltre 800 titoli, articolati in tre sezioni: la prima destinata al pubblico delle librerie 160 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) e tratta della saggistica non specialistica, in particolare nell’ambito delle scienze umane e degli studi religiosi; la sezione “Università” costituisce il nucleo universitario del catalogo ed è suddivisa per aree disciplinari; la terza sezione, “Strumenti”, propone materiali didattici e monografie di giovani studiosi; - “Cittadella Editrice”, emanazione della Pro Civitate Christiana, associazione di laici fondata ad Assisi nel 1939, si ripropone di far riflettere l’uomo di oggi sui problemi fondamentali della vita e della storia, per far comprendere il significato e l’impegno che derivano da una scelta per Cristo e per l’uomo; - “Don Bosco-Elledici”, casa editrice fondata a Torino nel novembre 1944, si sviluppò al punto da necessitare di una propria rete commerciale in Italia: oggi esistono quattordici librerie, presenti in tredici città, che offrono oltre 130.000 titoli. Questa catena è fra le prime nel mercato religioso e la quinta in assoluto nel mercato italiano. Propone un nuovo modello di libreria religiosa, che si apre al mondo laico offrendo servizi diversificati, dalla prenotazione dei testi alla consegna a domicilio, dall’oggettistica religiosa all’accesso alla banca dati Alice dei libri in commercio con un assortimento più ampio di quello tradizionale. issn 2035-584x alle esigenze di una società che sta evolvendo sempre di più. La CEI ha il compito principale di promuovere la diffusione del giornale nelle diocesi raccogliendo i fondi necessari per riuscire a mantenerlo in vita. Ed ha ovviamente il diritto di indicare la politica editoriale del giornale, considerandolo come uno strumento di comunicazione sociale “aperta”, attento ai segni dei tempi. L’intenzione dei fondatori di questo quotidiano era quella di non farlo sembrare un quotidiano ufficiale della Chiesa, perchè un quotidiano simile esisteva già: l’“Osservatore Romano”. Anche “Avvenire” offre ai propri lettori un insieme di servizi diversificati, in particolare inserti giornalieri, settimanali e mensili. Dal 1998 si può leggere il quotidiano anche su Internet ed in occasione del quarantesimo compleanno, nel 2008, è stato rinnovato il sito. Poichè la CEI è giuridicamente una fondazione, il quotidiano beneficia dei finanziamenti pubblici all’editoria (L. 250/1990): nel 2007 il quotidiano ha ricevuto 6.174.758,70 Euro. Secondo Accertamenti Diffusione Stampa (ADS)15 i dati di vendita 2007 sono i seguenti: copie vendute: 104.163/copie diffuse: 105.874/copie stampate: 137.807. Il quotidiano “Avvenire” Il settimanale “Famiglia Cristiana” Negli anni Sessanta esistevano in Italia diversi quotidiani cattolici regionali o locali. I principali erano “L’Italia”, pubblicata a Milano, e “L’Avvenire d’Italia”, pubblicato a Bologna. Nel 1967 la CEI si pronunciò a favore della fusione delle due storiche testate e predispose le linee d’indirizzo del nuovo giornale, che nasce a Milano il 4 dicembre 1968. Esso è dunque il quotidiano della CEI, un quotidiano quindi di ispirazione cattolica, un giornale fatto da cristiani che vuole essere anche interessante per tutti coloro che non sono credenti. L’idea primigenia di questo quotidiano era stata del papa Paolo VI, che aveva pensato ad uno strumento culturale comune per i cattolici d’Italia. Il quotidiano “Avvenire”, fin dalla sua nascita, ha continuato a concretizzare questa specificità, pur nell’adeguamento Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa “Famiglia Cristiana” è un settimanale, in edicola da ormai ottanta anni, di ispirazione cattolica e con una media di tre milioni di lettori a settimana. Le prime mille copie del nuovo settimanale “Famiglia Cristiana” furono stampate ad Alba, nella notte di Natale del 1931, per volontà di Don Giacomo Alberione. Ai suoi esordi non esisteva alcuna promozione, soprattutto perchè non c’erano i mezzi neccessari: la prima propaganda veniva così fatta con le copie del primo numero in mano, venduto per 20 cen15 L’ADS (Accertamenti Diffusione Stampa, Istituto di certificazione) è un’associazione che si occupa di certificare i dati di diffusione e di tiratura della stampa quotidiana e periodica che viene pubblicata in Italia;analoga funzione viene svolta da Audiradio per l’ascolto radiofonico e da Auditel per quello televisivo. 161 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) tesimi. Il settimanale conteneva dodici pagine in bianco e nero, salite ben presto a sedici, un’immagine natalizia in copertina e il sottotitolo “Per le donne e per le figlie”. Questo settimanale raccoglieva di fatto la grossa eredità di quasi cinquecento testate settimanali, quindicinali e mensili che la San Paolo stampava allora per conto di altrettante parrocchie. Nel 1932 la prima copertina a colori e la testata qualificata come un settimanale religioso morale con lo scopo preciso di diventare sempre di più uno strumento d’informazione al servizio di tutte le famiglie. Grazie alla rete delle rivendite parrocchiali questo settimanale si affermò in breve tempo su tutto il territorio nazionale e, a partire dal 1937, la tiratura cominciò ad aumentare. Nel 1944, nonostante le difficoltà del periodo bellico, ne venivano vendute 100.000 copie. Da allora in poi la diffusione divenne inarrestabile. Anche la redazione cresceva rapidamente e si dotava sempre più di mezzi e tecnologie d’avanguardia per confezionare un prodotto sempre più ricco di servizi, di rubriche e di informazioni. Proprio in questo modo era divenuto il più venduto settimanale italiano, il terzo nella classifica europea. Nel 1981, l’anno del cinquantenario, la “parrocchia” di “Famiglia Cristiana” contava quasi 6 milioni di lettori e una tiratura di un milione e duecentomila copie. In questo periodo il mensile si rafforza come rivista di servizio della famiglia e news magazine. La diffusione si è consolidata con delle iniziative editoriali (come la nuova Bibbia per la famiglia, i romanzi e i saggi e nel tempo i cd musicali ed i dvd). Dal 2001 il settimanale propone alcuni supplementi dedicati alla casa e all’automobile e viene pubblicato anche sul web. Una delle rubriche più note è senz’altro “Colloqui col Padre”, attraverso la quale i lettori inviano le lettere al direttore del settimanale. Le lettere riguardano temi vari: attualità, il costume, le opinioni dei lettori sugli articoli, questioni che riguardano la fede ed il ruolo che essa ha nella vita, ecc… Il settimanale da sempre ha avuto un dialogo diretto e sincero con i propri lettori e ancora oggi riesce a rappresentare lo spazio virtuale di una comunità Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x che condivide gli stessi valori umani, familiari e cristiani. Il sito ufficiale della Chiesa cattolica italiana e i siti delle altre chiese italiane Il rapporto tra Chiesa e Internet oggi vive una nuova fase: il messaggio evangelico, dopo duemila anni di storia in cui si è sempre incarnato nelle società del tempo, entra in uno spazio di condivisione, partecipazione e convergenza grazie al Web 2.0 e alle sue opportunità di interazione on line attraverso i social network.16 La comunicazione tramite Internet necessita di un servizio di qualità confacente e congruo rispetto alla propria identità. La Chiesa cattolica italiana ha cercato di cogliere ed usare bene questi due elementi. Il 22 novembre 2001, papa Giovanni Paolo II è stato il primo pontefice nella storia ad inviare dal suo computer portatile un messaggio ai vescovi della regione asiatica, un vero e proprio giro del mondo on line. La Chiesa si è ormai convinta che Internet è cultura e che esso stesso produca cultura. I vescovi argomentano che la rete sta diventando lo spazio principale dove avviene la formazione umana, morale e conoscitiva dei giovani. La Chiesa ha bisogno di Internet perché è proprio su esso che si sta costruendo il modello antropologico dell’uomo di domani. Un sito Internet cattolico può essere letto da tutti e per questo motivo deve occuparsi del mondo e non estraniarsi dal mondo. E deve assolutamente evitare il gergo liturgico, il “liturgichese”, spesso inavvertitamente utilizzato per imporre la propria verità. La Chiesa cattolica italiana ha dunque un proprio sito web e un po’ alla volta tutte le diocesi italiane, da Torino a Bari, da Palermo a Trieste stanno sviluppando il proprio sito su Internet, strutturando talora un vero e proprio portale su di regionale. Il sito della Chiesa cattolica italiana ( www. chiesacattolica.it ) è attivo già da 14 anni ed è una sorta di annuario web della Chiesa, in gra16 cfr. http://www.chiesacattolica.it/pls/cci_new/consultazione.mostra_pagina 162 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) do di fornire le informazioni, i documenti, le segnalazioni di eventi ma soprattutto di indirizzare il navigatore attraverso un’articolata rete di link e con l’aiuto di mappe geografiche di agile utilizzo nei “luoghi” (e nei relativi siti, qualora esistano) più consoni ai suoi interessi: dalle Chiese degli altri Paesi alle singole diocesi o parrocchie italiane, che sono anche facilmente raggiungibili attraverso un database degli svariati media cattolici: i quotidiani, le agenzie, le radio e le televisioni, i molteplici uffici e organismi in cui si articola la CEI quali il Progetto culturale, il Migrantes, il Sovvenire, ecc... Il motore di ricerca è stato aggiornato nel 2008 e si può incrociare con la sezione “archivio” per il reperimento dei documenti ufficiali ed anche di alcuni video diffusi dai vescovi e con i “percorsi tematici” per effettuare ricerche a oggetto. La tipologia del sito non è adatta a un suo utilizzo interattivo e infatti, a eccezione di un’area “forum”, non paiono previste modalità di partecipazione per gli utenti. La Chiesa cattolica e i social network Il 24 gennaio 2010 la Santa Sede ha aperto il canale di comunicazione multilingue YouTube ( www.you tube.com/vatican ), la più grande comunità mondiale di condivisione in rete di filmati, per fornire videonews quotidiane sulle varie attività del Papa e le attualità vaticane. Molti altri arcivescovi d’Italia fanno buon uso dei new media: così il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, usa la piattaforma YouTube per le sue catechesi quaresimali, mentre l’arcivescovo di Napoli Crescenzio Sepe dialoga con i fedeli su Facebook, la più diffusa rete di social network. La Chiesa cattolica ha saputo rispondere prontamente agli sviluppi di Internet nell’era delle tecnologie web 2.0 e delle comunità virtuali quali Facebook, MySpace, Twitter e Second Life, tutte piattaforme in cui la dimensione relazionale e partecipativa ha preso il sopravvento rispetto alle modalità più statiche della “navigazione” in rete del recente passato. Si tratta di trasformazioni che hanno aperto anche delle nuove sfide etiche Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x e dei nuovi interrogativi rispetto a quelli evidenziati nel 2002 dal Pontificio consiglio delle comunicazioni sociali nei documenti La Chiesa e Internet ed Etica in Internet. Accanto alle opportunità offerte esiste il serio rischio che il web stia creando un circuito di solitudini di tastiera, di gente che s’illude che per comunicare davvero basti usare il mouse, come dimostrano i sempre più frequenti casi di dipendenza e di nevrosi da Internet. 17. in occasione del “Messaggio per la XLIII Giornata mondiale delle comunicazioni sociali” (2009), papa Benedetto XVI ha definito le nuove tecnologie digitali come un dono per l’umanità se utilizzate in modo opportuno, insistendo quindi sulle potenzialità della rete. Lo ha fatto parlando del “desiderio di connessione” e dell’”istinto di comunicazione” della cosiddetta “generazione digitale” come di “manifestazioni moderne della fondamentale e costante propensione degli esseri umani ad andare oltre se stessi per entrare in rapporto con gli altri”, invitando la Chiesa a rispondere adeguatamente a tali istanze. E la Chiesa non sta a guardare. Tutt’altro: nell’aprile 2010 con il convegno nazionale “Testimoni digitali” la CEI ha fatto il punto su informazione e comunicazione nell’era digitale. Il convegno ha visto la partecipazione di oltre 1200 esperti provenienti da tutta Italia: operatori del mondo della comunicazione, insegnanti, educatori, sacerdoti, vescovi e religiosi. Se “Parabole mediatiche”18, che si era tenuto nel 2002, aveva dato modo di prendere coscienza dello scenario in cui la Chiesa italiana rinnovava il suo impegno nel mondo della comunicazione alla luce degli orientamenti pastorali per il decennio, il 17 D. Viganò., prefazione di V. Grienti, Chiesa e web 2.0. Pericoli e opportunità in rete, Torino, 2009, p. 9. 18 Il convegno “Parabole mediatiche” si è tenuto a Roma nel novembre 2002, anch’esso promosso dalla Commissione Episcopale per la cultura e le comunicaziono sociali della Cei ed organizzato dal Servizio Nazionale per il Proggetto Culturale e dall’Ufficio Nazionale per le Comunicazioni Sociali. Il convegno, primo su scala nazionale, servì per sviluppare le indicazioni degli Orientamenti pastorali per il primo decennio del nuovo secolo cioè come comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. 163 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) convegno “Testimoni digitali” ha permesso di verificare come oggi il contesto culturale e mediatico sia cambiato, vi sono elementi nuovi che incidono sugli stili di vita di ciascun individuo, gli strumenti a disposizione della persona e degli operatori delle comunicazioni sociali si sono moltiplicati, ma accanto ai social network si affianca comunque lo sviluppo di media “tradizionali” quali la stampa e gli audiovisivi. La Radio Vaticana e le altre emittenti radio della Chiesa cattolica italiana Nel 1980 papa Giovanni Paolo II sottolineava come attraverso la radio si edifica ogni giorno la Chiesa, uno strumento di rilevante importanza per l’evangelizzazione, la comunione ecclesiale, la comprensione e solidarietà tra i popoli. Il papa Giovanni Paolo II pensava alla Radio Vaticana ma è evidente che tali parole possono essere estese ad ogni radio cattolica operante in Italia (e nel mondo). La Radio Vaticana fu inaugurata il 12 febbraio 1931 da papa Pio XI con il radio messaggio “Qui arcano Dei”. Inizialmente la realizzazione della struttura radiofonica vaticana era stata affidata a Guglielmo Marconi e poi ai Gesuiti, che ancora oggi ne curano la gestione. Uno dei primi programmi svolti era in lingua latina, “Scientiarum Nuncius Radiophonicus”, ed era una rassegna dell’attività della Pontificia Accademia delle Scienze. Nel 1933 venne inaugurata la Stazione Radio a onde medie mentre nel 1939, dopo la morte del papa Pio XI, la Radio seguì il conclave e poi la cerimonia di insediamento del nuovo pontefice Pio XII. Durante la Seconda guerra mondiale la Radio si rivelò (nonostante il tentativo di ridurla in silenzio da parte del ministro tedesco della propaganda, Joseph Goebbels) un importante strumento d’informazione. Dopo la fine del conflitto e l’inizio della guerra fredda vennero inaugurati i programmi che venivano trasmessi anche in altre lingue. Nel 1957 il papa Pio XII inaugurò il Centro Trasmittente di Santa Maria di Galeria, che è ancora oggi in funzione ed è di proprietà della Santa Sede. Si potenziarono le trasmissioni Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x rivolte verso l’Africa, l’Asia e l’America Latina. Dopo l’elezione di papa Giovanni XXIII la Radio dedicò le proprie trasmissioni ai lavori del Concilio Vaticano II in trenta lingue. Nel 1964 la Radio Vaticana seguì Paolo VI in Terra Santa, primo viaggio di un Papa all’estero. Nel 1970 la Radio Vaticana mandò in onda alcuni brani di Fabrizio De Andrè e di altri cantautori, all’epoca vietati e banditi dai programmi RAI: il primo brano di musica leggera in assoluto trasmesso era stato, nel 1966, “Ragazzo triste” di Patty Pravo. Durante gli anni Novanta iniziarono le trasmissioni satellitari e quelle via Internet. Molte emittenti di vario genere e dimensione ritrasmettono i programmi della Radio Vaticana, per la quale lavorano quattrocento persone di varie nazionalità, che trasmettono trasmissioni autonome in trentotto lingue diverse. Nel luglio 2009 è stata introdotta anche la pubblicità, per la storia il primo inserzionista è stato l’Enel. La Radio Vaticana offre ai suoi ascoltatori le proprie trasmissioni anche in versione pod-cast, che permette di ascoltare la radio e di costruire il proprio palinsesto personalizzato selezionando le trasmissioni a propria scelta. In Italia, oltre alla Radio Vaticana, esistono numerose emittenti radio cattoliche; tra le tante: - “InBlu” è un network di oltre 200 emittenti diocesane o di ispirazione cattolica. Questa iniziativa è nata il 26 gennaio 1998 ed è stata promossa dalla Fondazione Comunicazione e Cultura collegata alla CEI. Il network InBlu aiuta le piccole emittenti del network a integrare i notiziari nazionali con approfondimenti e punti di vista locali. La redazione fa parte dello stesso gruppo editoriale dell’emittente televisiva satellitare SAT2000 e del quotidiano “Avvenire”. Nel corso della giornata ad ogni ora, dalle 7.00 alle 20.00, vengono trasmessi i radiogiornali realizzati con il contributo dell’agenzia giornalistica News Press. Nel programma “Pomeriggio inBlu” la radio effettua anche dei collegamenti con le radio del circuito, attuando uno scambio reciproco di contributi e servizi. - “Radio Maria” in Italia è proprietà dell’Associazione Radio Maria, trasmette dal 1987, at164 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) tualmente in tutta Europa via satellite digitale Eutelsat e Hotbird e in tutto il mondo anche via internet. Si stima che vi siano quasi 1.650.000 ascoltatori al giorno. I costi di gestione vengono coperti principalmente dalle offerte degli ascoltatori, talora anche dai contributi pubblici, fruisce ora dei proventi del 5permille sulla dichiarazione dei redditi ma non ha introiti pubblicitari. Il denaro che riceve, oltre a finanziare l’apparato tecnico, viene utilizzato per creare nuove emittenti nel mondo. Radio Maria si affida all’opera di moltissimi tecnici volontari che operano sia in sede sia in tutta Italia. La finalità principale di questa emittente è la “nuova evangelizzazione”, far crescere i cristiani nella fede e nel cammino di santità. La programmazione comprende trasmissioni che trattano principalmente argomenti di teologia, catechesi, le attualità ecclesiali, le letture della Bibbia, i corsi di spiritualità, di liturgia, di mariologia, di storia della Chiesa, le biografie dei santi come anche i chiarimenti sulla dottrina del Magistero. Giornalmente vengono dedicate otto ore alla preghiera, da sedi e con modalità diverse e nel palinsesto sono inserite anche alcune trasmissioni di servizio, che riguardano le discipline umane però affrontate nella prospettiva della fede. Il Centro Televisivo Vaticano e le altre emittenti cattoliche Da circa 10 anni il numero di radio e tv cattoliche e la loro audience sono in costante crescita, specie tra i giovani. Prima della nascita del Centro Televisivo Vaticano (CTV) tutti gli eventi importanti che riguardavano la Chiesa cattolica venivano trasmessi dalla RAI: gli eventi del Concilio, i conclavi, i viaggi di Paolo VI, i Messaggi di Natale e di Pasqua. Siccome esisteva un pubblico interessato anche ad eventi di minor risonanza, fu valutata in Vaticano l’opportunità di dotarsi di una capacità autonoma di ripresa televisiva, al fine di documentare e rendere disponibili le immagini delle attività papali o degli eventi vaticani più interessanti. Il dinamismo del pontificato di Giovanni Paolo II ha accelerato le decisioni in questa direzione. Oltre ad essere un’emitNuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x tente ufficiale del Vaticano, il Centro Televisivo Vaticano serve tutte le televisioni ed istituzioni televisive, tra i suoi clienti annovera le grandi agenzie televisive e le televisioni nazionali e private di ogni parte del mondo, alle quali fornisce le immagini necessarie per poter dare la più ampia diffusione alle informazioni sulla realtà della Chiesa Cattolica e dell’attività del Papa. Nello Statuto del Centro Televisivo Vaticano si legge: “Particolare impegno è richiesto al CTV nella collaborazione con le Conferenze Episcopali e con le emittenti cattoliche”: uno dei suoi compiti principali è proprio quello di servire le altre televisioni cattoliche, per cui il servizio del CTV alle televisioni cattoliche è andato sviluppandosi con gli anni e si è creata in questo modo una piccola rete di rapporti regolari fra l’emittente vaticana e un certo numero di televisioni cattoliche sparse in tutte le parti del mondo. Inoltre il CTV offre agli inviati che si trovano in Vaticano l’assistenza e facilities come la troupe, l’assistenza per il video e per l’audio, i lanci satellitari, il montaggio. - L’emittente televisiva ufficiale della Chiesa cattolica italiana è TV2000, nata nel 1998, di proprietà della CEI. Fino al 2009 il nome era Sat e faceva riferimento al fatto che trasmetteva soltanto via satellite. La sede principale dell’emittente è a Roma, una redazione è a Milano. Trasmette 24 ore su 24 ed è visibile gratuitamente con diverse tecnologie, incluso il digitale terrestre e lo streaming nel sito web ufficiale. Anche le altre emittenti televisive locali cattoliche utilizzano e trasmettono i programmi di TV2000 sia in analogico che in digitale terrestre. In questo caso, durante la ri-trasmissione di programmi della Tv2000 scorre sempre il logo della tv locale accanto a quello della TV2000. Il palinsesto è vario: le news, il meteo, i talk show, l’intrattenimento, i programmi culturali, lo sport, la musica, i film, le fiction, ecc… La pubblicità è scarsa, quasi nulla, però l’emittente trasmette molte comunicazioni sociali che publicizzano associazioni di volontariato e senza fini di lucro; gli spazi pubblicitari vengono gestiti dalla Sipra. Tra le emittenti che ri-trasmettono il palinsesto TV2000: - “Telepace”, via satellite, è stata la prima ad aprire la strada della evangelizzazione elettro165 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) nica. Questa emittente privata veneta venne inaugurata nel 1979. Dal 1985 Telepace ha ricevuto la concessione della Santa Sede a seguire il pontefice delle sue trasferte e in collaborazione con il CTV ha cominciato a diffondere le dirette dell’Angelus e le udienze ai fedeli del mercoledì mattina. Nel 1990 aveva aperto la sua sede a Roma ed aveva iniziato a seguire anche le altre realtà locali italiane come Agrigento, il Trentino e la Liguria. Telepace trasmette via satellite dal 1993 in tutta Europa tramite Hot Bird programmi autoprodotti. - “PaterTV” è il centro di produzione audiovisivo di tv cattolica e viene trasmessa tramite il web. Opera in Italia per la produzione e la diffusione di servizi, programmi tv cattolici, strumenti multimediali ed inoltre offre e permette il libero accesso e visione ad alcuni video sul Papa, alle preghiere e ai numerosi messaggi del pontefice. È nato dall’appello del pontefice alla “nuova evangelizzazione” basata sui media e i nuovi mezzi di comunicazione ed è parte di un progetto internazionale di cooperazione tra emittenti televisive cattoliche con la comune missione di diffondere i valori cristiani e cattolici a tutti. - “Family Life TV” è un’emittente attiva dal 2004, con sede a Milano. I programmi di Family Life Tv coprono argomenti quali l’attualità e la tecnologia, l’economia, il territorio e l’utilità, la musica e il tempo libero, il sociale e lo spettacolo lasciando ampi spazi per il commerciale. Una best practice comunicativa: la campagna per l’Otto per mille Con la firma del nuovo Concordato, avvenuta il 18 febbraio 1984, fu stabilito che il sostegno dello Stato alla Chiesa avvenga nel quadro della devoluzione di una frazione del gettito totale IRPEF, chiamato anche l’otto per mille, da parte dello Stato alla Chiesa cattolica e alle altre confessioni da usare per scopi religiosi o caritativi. Per donare l’otto per mille i contribuenti devono esprimersi nelle opzioni sulla dichiarazione dei redditi. Lo Stato italiano ha firmato nel tempo intese analoghe a quella con la Chiesa cattolica: nel 1986 con le Assemblee di Dio, nel 1993 con gli Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x Avventisti e con l’Unione delle Chiese Metodiste e Valesi, nel 1995 con i Luterani, nel 1996 con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane - UCEI. Sono sei le confessioni religiose destinatarie dell’otto per mille: i Battisti hanno firmato un’intesa con lo stato nel 1993 ma rifiutano di ricevere tale obolo. La legge prevede che l’otto per mille dell’IRPEF viene versato dallo Stato alla CEI sulla base delle dichiarazioni annuali del reddito e secondo l’espressa volontà dei cittadini contribuenti, per esigenze di culto, sostentamento del clero e interventi caritativi in Italia e nel Terzo Mondo19. Le quote così devolute alle comunità religiose vengono utilizzate per: - interventi assistenziali e umanitari, ad esempio dalla Chiesa cattolica e da quella Valdese; - interventi sociali e culturali quali quelli della Chiesa cattolica, dell’UCEI, della Chiesa Valdese; - interventi caritativi, finalità religiose ed esigenze di culto perseguiti dalla Chiesa cattolica; - il sostentamento del clero, dalla Chiesa cattolica e dalla Chiesa luterana; - la tutela degli interessi religiosi degli Ebrei in Italia, la tutela delle minoranze contro l’antisemitismo e il razzismo soltanto da parte dell’UCEI. Per le Chiese, quella cattolica nello specifico, nel corso degli anni si è trattato di un grande impegno di informazione, comunicazione, marketing, che nel tempo ha dovuto sempre più confrontarsi con un’allargata platea di concorrenti. L’importanza di tale impegno è confermata dalle cifre dell’evoluzione del gettito garantito dall’otto per mille alla Chiesa cattolica dal 1990 al 2007: 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 398 mln di euro 446 mln di euro 529 mln di euro 573 mln di euro 569 mln di euro 590 mln di euro 653 mln di euro 680 mln di euro 756 mln di euro 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 839 mln di euro 904 mln di euro 897 mln di euro 961 mln di euro 1016 mln di euro 937 mln di euro 984 mln di euro 930 mln di euro 991 mln di euro 19 Blasi S., Gannon M., Viaggio nell’8xmille alla Chiesa Cattolica, 2009, p. 32. 166 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) Un grande impegno che si sviluppa a tutto campo, dai vertici della CEI all’ultima delle parrocchie, coinvolgendo media, agenzie pubblicitarie, testimonial, parroci e laici. La comunicazione ecclesiale trova nei media un campo d’espressione privilegiato. La Chiesa cattolica italiana comunica con i suoi fedeli, laici inclusi, attraverso tutti i canali mediatici per poter raggiungere così il maggior numero di persone e informarle sugli avvenimenti ecclesiali, dimostrando come sempre un grande sforzo per riuscire a tenere il passo dei tempi. Nella primavera del 2010 la cronaca ha messo a dura prova questa capacità di comunicare e informare: lo scandalo della pedofilia ha “sbattuto” la Chiesa e le sue gerarchie più elevate in prima pagina da Roma a Glasgow, da Monaco a Vienna, da Sidney a Malta a New York. In Austria e Germania le ripercussioni negative per la Chiesa sono state immediate, in Italia si attendono con preoccupazione gli esiti della “campagna 2011”. La comunicazione nella diocesi di Trieste Ufficio pastorale per le comunicazioni sociali Fa capo al Vicario episcopale per la Pastorale ed ha un responsabile laico. Coordina le varie attività nel settore, dall’Ufficio stampa al sito, dal settimanale Vita Nuova al Novi Glas sloveno in collaborazione con la diocesi di Gorizia, dalla Radio Nuova Trieste al Bollettino diocesano alla nuova Agenda Pastorale. Coordina altresì la presenza settimanale su Radio Rai 1 FVG (Incontri dello spirito, sabato ore 18.15 e la celebrazione eucaristica della domenica mattina, in lingua italiana e slovena), sugli schermi di Telequattro (Fede perché no?, giovedì ore 19.00 e repliche nel fine settimana) e di Telecapodistria (Vangelo della domenica, sabato ore 19.30). L’Ufficio stampa Ne è responsabile il Vicario del Vescovo, che si avvale di un’addetta stampa; ha il doppio compito di tenere i contatti con gli uffici dioNuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x cesani –comunicazione interna- e con i media locali e non –comunicazione esterna. Produce i comunicati stampa, notizie sugli appuntamenti ai quali il vescovo è presente, collabora, alla redazione di documenti del vescovo, “filtra” anche le richieste di interviste che vengono fatte dai media al vescovo ed ai chierici. L’Ufficio ha anche il compito di monitorare i giornali, per controllare come le notizie relative alla chiesa vengono pubblicate. Se necessario, ravvisando notizie errate o imprecise relative alla diocesi triestina, contatta la redazione oppure direttamente l’articolista, chiedendo le correzioni del caso comunque segnalandone l’opportunità. Consci del fatto che la terminologia liturgica è diversa da quella dei laici e più in generale dell’opinione pubblica, si sforza di avvicinare i giornalisti a tale linguaggio . Se necessario, funge anche da ghost writer del vescovo, nel caso questi non riesca a stare dietro a tutti gli impegni, preparandogli le bozze dei discorsi sulla base degli spunti forniti dal vescovo stesso. Si occupa pure degli aggiornamenti del sito della diocesi (www.diocesi.trieste.it), un mezzo di comunicazione che deve funzionare sempre e deve essere aggiornato continuamente: l'ultima volta nel maggio 2011. Il sito della diocesi di Trieste Il sito della diocesi di Trieste, creato nel 2000, è stato uno dei siti pionieri della Chiesa italiana. Il supporto del sito, creato dai tecnici della CEI, è fornito dalla Conferenza episcopale italiana, gratuitamente come per tutte le diocesi italiane. Dalla sua nascita il sito diocesano è gestito, come detto, dall’addetta all’Ufficio stampa. Il sito fornisce le notizie degli avvenimenti più recenti riguardanti la diocesi e mette a disposizione una varia documentazione: le omelie del vescovo, le preghiere, le letture della domenica, i documenti prodotti dal vescovo, dei quali poi il sito dà notizia nella home page. La notizia nella home page non viene messa per estesa, soltanto un estratto, sotto al quale un apposito link rimanda 167 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) il lettore alla parte del sito dove la notizia viene riportata in modo integrale. Sul sito si possono trovare anche i link esterni, talora a mezzo di password che possiede soltanto l’amministratore, per accedere ai siti cattolici italiani, al quotidiano “Avvenire”, ai siti minori e pure al SIR, l’agenzia informativa che gestisce le notizie della Chiesa. L’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali pubblica giornalmente sul sito della CEI una rassegna stampa di cui i navigatori possono vedere soltanto i titoli mentre gli addetti ai lavori ed i religiosi dotati di user name e password possono accedervi integralmente. Il sito adempie anche a funzioni informative istituzionali, quali gli orari delle messe, i riferimenti dei responsabili episcopali per i vari incarichi, indirizzi, numeri di telefono e informazioni sulle attività che riguardano la diocesi e le sue strutture. Il bollettino della diocesi Il bollettino della diocesi di Trieste viene redatto dall’Ufficio stampa e al momento non si trova online. Il bollettino, le cui pubblicazioni sono riprese di recente ma permangono alquanto saltuarie –nella primavera 2011 è stato distribuito il numero di 12 mesi primacontiene un calendario con gli appuntamenti diocesani, documenti di varia natura quali i rendiconti sull’Otto per Mille e le Comunicazioni della Cancelleria. Nei bollettini vengono pubblicate le omelie, anche quelle in lingua slovena, in tal caso subito seguite dalla traduzione in italiano. Il bollettino si presenta in formato agile, 60 pagine, come detto è curato dall’Ufficio stampa della diocesi ed è ora strutturato in due parti: la prima contiene i testi riguardanti la vita della diocesi mentre la seconda parte contiene principalmente omelie. Le copie dei bollettini sono gratuite, se ne stampano 350 che poi vengono spedite per abbonamento postale ai vescovi italiani, alle parrocchie di Trieste, ai diaconi triestini, agli ordini religiosi, alle associazioni ed agli enti ecclesiali ed a chi che ne fa richiesta. Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x L’Agenda pastorale 2010/2011 Nasce dall’esigenza di rendere disponibile uno strumento di conoscenza e condivisione della struttura dei gruppi d’impegno e delle aggregazioni laicali presenti nella Diocesi in vista del Sinodo diocesano del 2012. La necessità di renderlo disponibile in tempi brevi ha comportato, per ammissione dei responsabili, la pubblicazione di “una bozza incompleta”, in attesa di contributi non pervenuti in tempo utile, che comunque, nonostante i mugugni di chi non vi si è ritrovato, si configura come uno strumento di cui gli addetti ai lavori sentivano la mancanza: l’appuntamento con la seconda edizione, riveduta ed aggiornata, è per settembre 2011. Il settimanale “Vita Nuova” Il settimanale cattolico di Trieste “Vita Nuova” ha la propria sede amministrativa e redazione presso l’ex Seminario, ne è direttore responsabile un laico. “Vita Nuova” è nato il 10 aprile 1920, ha dunque appena compiuto novantuno anni. Il settimanale è nato e si è sviluppato sino a pochi anni fa fondandosi sul puro volontariato dei suoi direttori, redattori e di tutto il personale amministrativo. Il settimanale ha rinnovato nel tempo il proprio impegno a farsi interprete della comunità dei credenti e della intera comunità triestina in uno spirito di dialogo e di disponibilità completi. Con il tempo, necessariamente, il settimanale si è in parte professionalizzato, riuscendo così a garantire la necessaria continuità alla linea editoriale decisa dalla diocesi. Il compito di “Vita Nuova” dovrebbe essere quello di dare una visione più completa e complessa della città di Trieste da una prospettiva cattolica. In primis alle parrocchie ed ai parroci, in prima linea e sempre in ascolto dei bisogni delle persone, che ben conoscono quali sono i problemi della comunità in cui vivono. Il settimanale cerca anche di essere mezzo di comunicazione vicino ai cittadini, cogliendo notizie che gli altri giornalisti non riescono ad intercetta168 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) re. I cittadini hanno bisogno di queste microstorie per non sentirsi soli e “Vita Nuova” cerca di giungere al cuore delle persone, per informarle su alcuni temi di attualità ed allo stesso tempo coinvolgerle, anche ascoltandone le voci e interloquendo con loro attraverso le lettere che giungono alla redazione, un buon modo per far crescere il senso di appartenenza che peraltro negli ultimi tempi è stato al centro di una prova di forza tra la redazione e la nuova curia, culminata con un profondo cambio redazionale. “Vita Nuova” ogni settimana si propone in edicola al prezzo di 1 € (l’abbonamento ne costa 40) con una fogliazione ultimamente ridotta anche alla metà delle 32 tradizionali, d’altronde il conto economico di un settimanale di una piccola diocesi è complesso e sofferto e le scarse 1000 copie complessivamente diffuse, ben al disotto del livello di guardia, non permettono certo il pareggio economico, in queste ultime settimane perseguito con l'obbligo alle parrocchie di acquistarne un certo numero di copie da vendere ovvero regalare nel fine settimana. Né ha aiutato la polemica, insolitamente violenta in una città come Trieste, che ha coinvolto il rapporto tra il nuovo Vescovo e la redazione, buona parte della quale dopo un lungo braccio di ferro, finito impietosamente in cronaca locale, ha abbandonato il settimanale. È stato nominato dal Vescovo un nuovo direttore, che viene da lontano e cerca faticosamente di vivere da vicino una città a lui sostanzialmente estranea, la direttrice precedente è approdata al quotidiano locale, dove forse proprio le “guerriglia” intorno a Vita Nuova ha fatto mauturare la necessità di avere in redazione un proprio esperto di cose ecclesiali, un vaticanista triestino. Il settimanale nella nuova versione propone l’editoriale del direttore in prima pagina ed all’interno si articola in alcune sezioni fisse: attualità, Chiesta di San Giusto, Economia e società, Mondo, Cultura e spettacoli, Approfondimenti: rispetto ad un recente passato, è fortemente aumentata la presenza di contributi provenienti dall’esterno, Veneto in particolare ma non solo. Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x “Radio Nuova Trieste” “Radio Nuova Trieste” (RNT), la radio della Diocesi di Trieste, è nata nell’aprile 1985 da un’idea dell’allora vescovo Mons. Lorenzo Bellomi, che a quei tempi presiedeva la Commissione episcopale triveneta della famiglia e “Giustizia e Pace” ed aveva ritenuto opportuno dotare anche la sua diocesi di una emittente radio. Oggi l’attività dell’emittente dipende dall’Associazione Radio Nuova Trieste, che è stata costituita dieci anni fa con uno statuto apposito ed atto notarile, allo scopo preciso di rendere ancora più agevoli i rapporti con gli enti pubblici con i quali si rapporta la testata giornalistica RNT, così giuridicamente costituita. All’inizio la programmazione proponeva solo musica moderna, cosa forse poco opportuna per una radio cattolica, 24 ore su 24 ore di musica curata dai due tecnici dell’emittente. La radio ha dovuto affrontare e superare nel tempo alcuni problemi. Il primo problema era la cattiva ricezione in alcuni rioni della città del segnale radio, causata dalla sovrapposizione con il segnale di una stazione RAI. Il problema si trascinò nel tempo e fu risolto solo molti anni dopo, spostando la radio nel Seminario di via Besenghi. Nei primi anni vi fu un gran movimento di gente in redazione, furono prodotti molti programmi grazie alla collaborazione di giornalisti ed uomini di cultura, altri venivano ritrasmessi in collegamento con la Radio Vaticana. Nel 1994 emerse il problema della gestione economica: si impose allora una scelta tra una radio a richiamo musicale-commerciale come tante altre, con qualche riferimento religioso, ed autonoma sul piano amministrativo ed una emittente attenta sì alle esigenze di bilancio ma impegnata nel raccogliere i contributi giornalistici e culturali locali su base di volontariato, avendo una linea editoriale attenta alla diffusione del messaggio evangelico inserita in un contesto culturale comprensibile anche da chi non frequenta la chiesa. RNT decise di sperimentare la seconda opzione, iniziando a trasmettere programmi di servizio: ovviamente, ne derivò un disequilibrio economico, per riuscire a colmarlo veniva 169 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) chiesto agli ascoltatori un contributo economico ad integrazione di quello della Diocesi. Negli anni ‘90 RNT si configurava non già come una radio devozionale, che trasmette le celebrazioni religiose con meditazioni, ma come una radio impostata su rubriche parlate o musicali, con sigla iniziale e finale. Le trasmissioni vengono condotte dai singoli redattori, competenti in qualche materia e in possesso di due requisiti: la simpatia e la disponibilità. In quegli anni ci fu anche l’aggiornamento delle attrezzature con il nuovo centralino telefonico, il fax e il computer e poi, alla vigilia del Natale 2004, l’apparato trasmettitore ad alta frequenza fu trasportato nella nuova sede del Seminario di via Besenghi. Da allora la Radio ha consolidato la sua presenza ed il suo ruolo, proponendo programmi molto vari: da quelli d’informazione generalista, i RadioGiornali redatti dalla redazione vaticana e da quella del circuito InBlu, a quelli d’informazione locale, dai programmi d’informazione cattolica a quelli sportivi a programmi di natura varia. La Caritas di Trieste La Caritas Italiana è l’organismo pastorale della CEI per la promozione della carità. Questo organismo pastorale è nato nel 1971, per volere di papa Paolo VI nello spirito del rinnovamento avviato dal Concilio Vaticano II. Svolge una funzione pedagogica, per far crescere nelle persone, nelle famiglie e nelle comunità il senso cristiano di solidarietà. Ogni anno la Caritas Italiana propone un programma articolato di corsi, convegni, seminari di studio e approfondimento per poter perseguire il suo impegno di formazione e di informazione. In Italia esistono 220 Caritas diocesane, che sono impegnate sul territorio nell’animazione della comunità ecclesiale e civile e nella promozione di strumenti pastorali e servizi quali: Centri d’Ascolto, Osservatori delle Povertà e delle Risorse, Caritas parrocchiali, Centri di Accoglienza, ecc… Al proprio finanziamento provvedono con una parte del gettito fiscale derivato dall’Otto per mille, le manifestazioni, i contributi di benefattori e le raccolte di fondi straordinarie. Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x La Caritas della diocesi di Trieste è molto bene organizzata, propone un sito (www.caritastrieste.it) molto bene strutturato, in grado di fornire a tutti gli interessati le notizie necessarie; e diffonde una Newsletter che, incidentalmente, nel 2008 è stata la prima del suo genere in tutta Italia, che si presenta anch’essa in maniera gradevole e professionale, con uno stile di scrittura breve e conciso, che aiuta i lettori nella comprensione degli articoli. La comunicazione parrocchiale: il caso della parrocchia di Santa Teresa del Bambin Gesù In tutte le chiese di Trieste ogni domenica i fedeli hanno la possibilità di trovare una serie di informazioni sulla vita della comunità parrocchiale e diocesana. Così, all’albo trovano notizie sulla vita di tutti i giorni, sui servizi offerti, le pubblicazioni di matrimonio, le convocazioni di riunioni dei vari momenti di aggregazione religiosa; ai piedi dell’albo, solitamente, su apposite superfici trovano il settimanale diocesano, foglietti illustrativi proposti dai vari movimenti, dossier forniti dalla diocesi, il foglietto che aiuta il fedele a seguire la celebrazione della Santa Messa, con le letture della giornata, le preghiere comuni, alcune riflessioni a tema, qualche notizia su fatti, santi e quant’altro della settimana. Nella chiesa di Santa Teresa del Bambino Gesù, sita in via Manzoni 12 a Trieste, i parrocchiani trovano anche un bollettino settimanale. Il bollettino ha il formato di una pagina A4, piegata a metà in modo da ottenere quattro facciate. Il bollettino ha ogni settimana un colore diverso mentre i caratteri sono sempre di color nero. La prima pagina contiene sempre “La parola”, nel quale viene pubblicato il Vangelo della domenica. Subito sotto possono comparire annunci sulla vita della comunità. La seconda pagina contiene una rubrica intitolata “Preghiamo”, che propone una piccola riflessione riguardo ai comandamenti, all’amore, alla pace e ai temi evangelici della domenica. La terza pagina contiene due sezioni: la prima propone il calendario degli incontri comunitari con brevi commenti, spiegazioni ed indicazioni; la seconda parte propone le iniziati170 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) ve di solidarietà parrocchiane. La quarta pagina riporta le date delle Sante Messe con gli orari ed i defunti che vi vengono ricordati nonché i santi della settimana. In occasioni particolari, il bollettino contiene una pagina aggiuntiva. Il bollettino settimanale, anche in virtù della sua puntuale presenza e della sua semplice struttura, è uno strumento utile di informazione e dialogo tra la parrocchia ed i parrocchiani. Ogni tre mesi la parrocchia pubblica anche una rivista patinata, a colori, L’Eco di Santa Teresa, iscritta al registro dei periodici e diretta da una giornalista, affiancata nel lavoro redazionale dal parroco, che ne è vicedirettore, e da alcuni volontari, religiosi e laici. Articoli e fotografie sono tutti frutto di volontariato, così come anche la distribuzione della pubblicazione: le copie vengono messe a disposizione in chiesa, dove chi vuole ne prende un pò di copie per distribuirle nelle cassette postali della propria abitazione e di quelle vicine. “Tele Chiara” “Tele Chiara” è in effetti una emittente pluriregionale, nata nel 1990 a Padova per volere dell’Episcopato triveneto, che trasmette in Veneto e Friuli Venezia Giulia un palinsesto ideato per informare, formare ed intrattenere il pubblico televisivo del Nordest Italia. L’emittente opera nella convinzione che il policentrismo tipico di questa zona d’Italia possa essere fattore di forza ed aggregazione per promuoverne lo sviluppo socio-culturale, in modo coerente con i valori cristiani della sua tradizione storica. “Tele Chiara” vuole valorizzare e promuovere le diverse realtà territoriali, nella convinzione che questo approccio sia la chiave per conquistare localmente una parte del pubblico, intrattenerlo ed informarlo. Questa emittente è così diventata punto di riferimento per i cattolici delle Tre Venezie, raccogliendo apprezzamenti e suscitando interesse presso tutto il pubblico televisivo. “Tele Chiara” è da sempre pronta a rispondere ai cambiamenti del mercato ed alle sfide della tecnologia, atteggiamento indispensabile per rispondere sempre meglio alle richieste di informazione, di servizi, di intrattenimento. Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa issn 2035-584x La collaborazione tra “Tele Chiara” e Sat2000, la televisione satellitare promossa dalla CEI, è strategica per il conseguimento di questo obiettivo, con i suoi programmi di informazione nazionale, con gli eventi in diretta e le rubriche specialistiche quotidianamente proposte. “Tele Chiara” ha un palinsesto estremamente vario, in cui ai programmi strettamente giornalistici si alternano altri di informazione sulle quindici diocesi del Nordest, quindi anche Trieste, di storie di santuari, case di spiritualità, chiese, conventi, centri religiosi delle Tre Venezie, noti o meno noti; di storie di viaggio per il Nord Est raccontandone storia, tradizioni, gastronomia. Oltre, ovviamente, ai programmi sportivi, musicali e di intrattenimento. “Tele Chiara” non vuole essere una trasmittente esclusivamente cattolica e forse per questo motivo essa è molto seguita nel Nordest dell’Italia. Con i suoi palinsesti differenziati è adatta alle persone di tutte le età; cerca di informare in tempo reale sugli avvenimenti di attualità ed è sempre pronta a confrontarsi con l’innovazione tecnologica. Oggi l’emittente ha anche un proprio sito web, nel quale è possibile trovare tutto: dai contatti ai programmi Tv, dal palinsesto in programmazione alle persone che vi lavorano. Conclusioni La Chiesa nella sua opera di evangelizzazione ha sempre investito le proprie risorse da una parte sull’uomo e dall’altra negli strumenti. In questo contributo si è cercato di analizzare il come ed il perché di questa seconda area di intervento, coerentemente al percorso sviluppato in occasione del Corso al Centro Veritas: ma forse la sfida vera nel complesso villaggio globale in cui portare il proprio annuncio e la propria testimonianza, come emerso ancora una volta nel Corso del Veritas, la Chiesa deve affrontarla e vincerla sul primo versante, quello dell’uomo: dell’uomo religioso, del laico, del professionista della comunicazione, dei cattolici praticanti e di quelli che lo sono un pò meno; e, ultimo ma non ultimo, di chi non crede, anch’esso destinatario della nuova evangelizzazione promossa dal Pontefice. 171 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Eugenio Ambrosi è docente di Comunicazione pubblica al Master in analisi e gestione della comunicazione, Università di Trieste, facoltà di Scienze della Formazione - direttore Servizio CORECOM FVG Bibliografia B. Ballardini, Gesù lava più bianco ovvero come la Chiesa inventò il marketing, Roma, 2005. S. Blasi, M. Gannon, Viaggio nell’8xmille alla Chiesa Cattolica, 2009 CEI - Conferenza episcopale italiana (a cura di), Chiesa in rete 2.0, Atti del Convegno Nazionale - Roma, 19-20 gennaio 2009, Cinisello Balsamo (MI), 2010 G. Costa, Editoria, media e religione, Città del Vaticano, 2009 F. Gaffucci, P. Poponessi, Il marketing dei luoghi e delle emozioni, Milano, 2008. J. M. La Porte, Introduzione alla Comunicazione Istituzionale della Chiesa, Roma, 2009 G. Mazza, G. Perego, Paolo, una strategia di annuncio, Cinisello Balsamo (MI), 2009 J. M. Mora, D. Contreras, M. Carroggio (a cura di), Direzione strategica della comunicazione nella Chiesa – Nuove sfide, nuove proposte, Roma, 2007 E. Pace, Raccontare Dio, La religione come comunicazione, Bologna, 2008 A. Silvestri, La luce e la rete, Comunicare la fede nel Web, Torino, 2010 A. Spadaro, Web 2.0 – Reti di relazione, Roma, 2010 A. Spadaro, Liturgia e Tecnologia, in “La Civiltà Cattolica”, n.3860/2011 V. Grienti, Chiesa e web 2.0. Pericoli e opportunità in rete, Torino, 2009, con prefazione di D. Viganò Sitografia http://www.avvenire.it http://www.chiesacattolica.it http://www.corecomfvg.it http://www.famigliacristiana.it http://www.gesuiti.it http://www.radionuovatrieste.it http://www.telechiara.it http://www.vitanuova.it Nuovi scenari e forme di presenza della Chiesa 172 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) issn 2035-584x Ma tu, sei digital literate? Bettina Todisco Abstract Parole chiave Cosa sono i nuovi media sociali che tanta parte hanno nel mondo del Web 2.0? E che cosa significa essere digital literate in questo ecosistema sempre più dinamico? Monica Murero ci introduce ai più recenti fenomeni della Rete nel suo testo Digital literacy. Introduzione ai social media, edito da Libreriauniversitaria.it nel 2010, che in questo articolo vado a presentare, per utilizzare con consapevolezza e senso critico i media digitali e sociali, conoscendone opportunità ma anche rischi per la privacy e la sicurezza dei dati personali. Digital literacy; Web 2.0; User-Generated Content (UGC); Blog; Microblog; Wiki; Vlog; Social network; Geo-tag; Viral marketing; Web 3.0; Web semantico. I variabili, dalle condizioni economiche al livello di istruzione, dalle differenze di età o di sesso alla provenienza geografica, e ancora, in taluni casi, alla qualità delle infrastrutture utilizzate. Mi limito invece ai digital illiterate, passando ad illustrare cos’è la digital literacy che dà il titolo al lavoro della professoressa Monica Murero “Digital literacy. Introduzione ai social media”1 che in questo articolo presento. Per digital literacy, o alfabetizzazione digitale, si intende la capacità di utilizzo dei nuovi media e la conseguente partecipazione attiva a una società, oggi, sempre più digitalizzata. Ma digital literacy non è solo questo. Come suggerisce l’autrice, esperta internazionale di nuovi media e Internet, sociologa e massmediologa, «la digital literacy è la capacità di utilizzare con consapevolezza, disinvoltura e senso “critico” i media digitali e sociali, conoscendone linguaggi, culture, opportunità, i rischi per la privacy e sicurezza dei dati personali». 2 Dove, radicali mutamenti tecnologici dell’ultimo decennio hanno modificato in modo pervasivo, e mai accaduto in precedenza, il modo in cui comunichiamo, gli spazi socio-culturali, le realtà politiche, economiche e psicologiche, nonché il linguaggio, dove le parole di Internet sono state mutuate e assimilate entrando nel parlare quotidiano. Ma il vero problema che dobbiamo porci è l’utilizzo che di queste tecnologie digitali noi facciamo. Apparteniamo forse a quei pochi che con supponenza le snobbano o, ancor peggio, a quella larga fetta di persone che ne fanno un utilizzo assolutamente inconsapevole? Sono questi ultimi i cosiddetti digital illiterate, ovvero gli attuali illetterati digitali in un mondo in repentina trasformazione. Tralascio di proposito in questa trattazione coloro che non hanno accesso alle tecnologie dell’informazione, parte di quel digital divide che è il divario esistente tra chi ha accesso effettivo a tali tecnologie e chi invece ne è escluso, in modo parziale o totale. Dove, va detto, i motivi dell’esclusione comprendono diverse Ma tu, sei digital literate? 1 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media, Padova, 2010. 2 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media, cit., p. 8. 173 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) a titolo puramente esplicativo, se digital ha una traduzione dall’inglese immediata e facilmente intuibile, literacy sin dall’origine si riferisce all’alfabetizzazione del soggetto rispetto alla forma testuale scritta. L’espressione digital literacy si è affermata negli ultimi trenta anni in concomitanza con la diffusione delle nuove tecnologie e dell’uso sempre più assiduo dei computer. Il primo a utilizzarne il termine è Paul Gilster nel 1997, definendo il concetto sostanzialmente un atto cognitivo. Non una semplice acquisizione di abilità tecniche, quanto piuttosto la costruzione di abilità cognitive e culturali tali da permettere l’utilizzo critico delle fonti reperite e la necessaria selezione delle informazioni fornite dalla Rete. Il testo della Murero nasce proprio dalla «consapevolezza che vi è una scarsa o assente digital literacy tra i frequentatori della rete e dei nuovi social media come Facebook, Twitter e YouTube; un problema tutt’altro che risolto, che porrà nuove incognite e sfide soprattutto per le fasce più deboli degli utilizzatori delle nuove tecnologie come i minori e gli anziani, ma anche tra chi possiede un livello culturale elevato rispetto alla media della popolazione, come ad esempio gli studenti universitari»3. Utilizzare i social media consapevolmente è pertanto l’obiettivo che l’autrice si pone con il suo lavoro e, per fornire al lettore gli adeguati strumenti per raggiungerlo, si sofferma sul contesto attuale e delinea con chiarezza che cosa sono i nuovi media sociali, a partire proprio dalle origini del termine Web 2.0. Ripercorriamoli assieme. 1. Web 2.0 «Il termine web 2.0 venne coniato da O’Reilly a una conferenza nel 2004, durante un brainstorming sugli esiti dello “scoppio della bolla tecnologica” in borsa nel 2001. Quell’episodio segnò un crocevia nella storia del web»4. «Per Tim O’Reilly, uno dei guru del Web 2.0, è difficile dare una definizione del nuo3 Ibidem. 4 Ibidem, p. 17. Ma tu, sei digital literate? issn 2035-584x vo Web. Quello che è certo è che al centro del nuovo modo di concepire il Web, e il software, vi è l’idea della Rete come piattaforma di servizi, unita a un forte coinvolgimento sociale degli utenti, quali essi stessi creatori di valore. Un concentrato di servizi on line, database, software sociale e decentramento dell’informazione. Dove il termine imperante è la rete sociale (in inglese, social network), per intendere un qualsiasi gruppo di persone connesse tra loro da diversi legami sociali, dalla conoscenza casuale, ai rapporti di lavoro, ai vincoli familiari»5. È in sintesi la nuova generazione del Web, una nuova forma di interazione sociale abilitata dalla tecnologia, che facilita la condivisione delle informazioni e la collaborazione fra utenti. Nella quale la locuzione utilizzata prende a prestito «il linguaggio delle release di software, che numerano le versioni man mano che vengono migliorate»6 per indicare genericamente il Web di seconda generazione, un’evoluzione di Internet rispetto alla sua precedente versione. Nella nuova versione si diffonde lo UserGenerated Content (UGC)7 tra un numero sempre più crescente di utilizzatori, interessati a produrre, condividere, rielaborare e «consumare» on line contenuti multimediali. Come spiega Murero, la crescita dell’UGC «si sovrappone rapidamente al semplice consumo mediale tradizionale, tanto da poter parlare di prosumerism»8, un termine nato, nell’ambito della cultura di marketing, dalla fusione di produttore (producer) e consumatore (consumer). E utilizzato oggi nelle teorie della comunicazione «per identificare l’accresciuto ruolo della “vecchia” audience: non più solo come 5 B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, in A. Tafuri (a cura di), in/Tigor 1 Annuario 20082009 del corso di master di primo livello in Analisi e gestione della comunicazione, Trieste, 2010, pp. 154-183, http://www. openstarts.units.it/dspace/bitstream/10077/3878/1/ TODISCO.pdf http://www.openstarts.units.it/dspace/ handle/10077/3870. 6 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media, cit., p. 18. 7 Traduzione dall’inglese: “contenuto generato dall’utente”. 8 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media, cit., p. 20. 174 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) semplice consumatore passivo di contenuti – prodotti e servizi – ma anche vero e proprio emittente, o produttore di nuovi significati»9. Sottolinea ancora l’autrice, a titolo esemplificativo, come uno dei fenomeni più interessanti nell’ambito della generazione di nuovi contenuti sia rappresentato proprio dai cable10 pubblicati da WikiLeaks11 a novembre 2010 e che, nella forma originale, non rendevano affatto facile il reperimento delle informazioni in essi contenuti. Finché in pochi giorni gli utenti di Internet, generando nuove possibilità di lettura dello stesso database, hanno reso più semplice la ricerca di quelle informazioni che, veicolate attraverso i social media, hanno generato un passaparola virale via Internet. E hanno riempito successivamente le pagine dei giornali di tutto il mondo. Ma nel panorama del Web 2.0 fin qui illustrato che cosa sono dunque i social media? 2. Social media Il termine social media indica, in maniera generica, tecnologie e pratiche on line che le persone adottano per condividere contenuti testuali, immagini, video e audio. Ci ricorda Murero come i social media «hanno accompagnato la vita sociale della storia dell’umanità da sempre. Il sistema postale diffuso prima dell’anno zero o il telegrafo del Settecento dimostrano che nel tempo ciò che varia non è tanto il bisogno di essere connessi […] quanto i media che sono stati utilizzati per realizzare questo scopo, via via più efficienti, sempre meno costosi e in grado 9 Ibidem. 10 I cable sono dei brevi testi diplomatici, scritti dalle ambasciate degli Stati Uniti alla Segreteria di Stato, che circolano attraverso il segretissimo SIPRNet (Secret Internet Protocol Router Network). […] I cable riservati delle ambasciate riguardano presidenti, personaggi politici ai massimi livelli, questioni strategiche e descrivono le personalità, gli orientamenti politico-militari, le delicate questioni di politica estera americana e i conflitti in corso in un linguaggio variopinto e “non diplomatico”. Cfr. M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media, cit., p. 5. 11 WikiLeaks è il sito di Julian Assange, l’uomo che ha scosso la tranquillità di molti potenti. Ma tu, sei digital literate? issn 2035-584x di raggiungere un crescente numero di persone superando le tradizionali barriere spaziofisico-temporali»12. Nell’ecosistema dei social media l’autrice passa in rassegna, in maniera sintetica eppur esaustiva, una selezione di essi. Dai media per la social productivity13, come ad esempio Google Docs14 che permette ai possessori di account gmail di creare file, caricarli e modificarli in tempo reale insieme a un gruppo di lavoro, ai media per pubblicare blog15, microblog e wiki16 che valorizzano prevalentemente le forme testuali. Oggi il sito di microblogging per eccellenza è «Twitter, che fornisce una pagina personale aggiornabile con messaggi di testo di lunghezza massima di 140 caratteri. Gli eventuali aggiornamenti sono mostrati nella pagina personale dell’utente e comunicati agli utenti registratisi per riceverli. Una formula semplice e intuitiva […] che con i suoi messaggi brevi ha attratto numerosi utenti, interessati a sperimentare un nuovo sistema di comunicazione, conciso e diretto, in Rete»17. E in ambito wiki, che dire di Wikipedia, «la prima enciclopedia multilingue, on line e gratuita, costruita in modo collaborativo dagli stessi utenti»18? Cos’è nel dettaglio un wiki ce lo 12 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media, cit., p. 22. 13 Traduzione dall’inglese: “produttività sociale”. 14 Nella versione italiana di Google, noto motore di ricerca, l’equivalente di Google Docs è Google Documenti. Un servizio che consente di creare documenti, fogli di lavoro e presentazioni on line e di condividerli in tempo reale con altri utenti, ai quali permettere l’eventuale modifica. 15 Un blog è un sito web, generalmente gestito da una persona o da un ente, in cui l’autore pubblica una sorta di diario on line. Il termine nasce dalla contrazione di web-log, diario di bordo su Internet. Cfr. B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p. 162. 16 Un wiki è un sito web aggiornato dai suoi utilizzatori e i cui contenuti sono sviluppati in collaborazione da coloro che vi hanno accesso. Cfr. B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p. 165. 17 B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p. 163. 18 B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p. 165. 175 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) ricorda l’autrice: «uno strumento aperto, un set di documenti accessibili a tutti che intende riunire la saggezza e le conoscenze ed expertize di una comunità. […] una tecnologia che permette di dare vita a pagine web collettive, dove cioè il contenuto è creato socialmente, o a più mani, e i contenuti sono verificati attraverso la “peer revision” – cioè il controllo tra pari». Non mancano fra i social media gli strumenti che consentono di pubblicare facilmente contenuti audiovisivi in Rete, come i vlog (parola formata da video web e log), perché – si sa – un video efficace ha un forte potere di comunicazione. «Come i blog, i vlog raccontano in via audio-visiva storie personali ignorate da altri media, mostrano animali domestici divertenti, insegnano, catturano casualmente un evento eccezionale favorendo il citizen journalism o sostengono una campagna sociale con una mobilitazione che parte dal basso, spesso spontanea»19. Ed ancora il video sharing20 e il photo sharing21, solo per citare alcune delle opportunità offerte oggi dalla Rete. «YouTube, il noto sito di video sharing è una delle comunità più ampie del Web 2.0»22. E «Flickr, per le fotografie, è quello che YouTube è per i filmati. Permette di caricare le proprie fotografie per presentarle a amici, conoscenti o perfetti sconosciuti»23. Per giungere nell’elencazione ai social network che, come Facebook, LinkedIn e MySpace, costituiscono solo una parte – come visto – dei più ampio ecosistema dei social media. Vediamo di capirne un po’ di più, a partire dalla definizione di social network, o rete sociale, e aggiungiamo in tal modo un ulteriore tassello verso la digital literacy. 3. Social network Dalla diffusione dei computer, ogni decennio ha visto una nuova tecnologia cambiare ra19 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media, cit., pp. 34-35. 20 Traduzione dall’inglese: “condivisione di video”. 21 Traduzione dall’inglese: “condivisione di foto”. 22 B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p. 160. 23 B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p. 161. Ma tu, sei digital literate? issn 2035-584x dicalmente lo scenario precedente e la società intera. Oggi sono i contenuti e i network sociali a farla da padroni. Ce lo ricorda Murero definendo il social network «una struttura sociale, una rete creata da “nodi” ovvero individui, organizzazioni o gruppi sociali». Dove ogni nodo è connesso agli altri nodi da «relazioni di interdipendenza di diverso tipo, che vanno dalle relazioni familiari e affettive all’amicizia, dai legami professionali alla condivisione di un interesse comune»24. «La rete sociale di relazioni che si crea sui social network permette di far emergere i contenuti più interessanti e di diffonderli a una velocità impensabile con i tradizionali mezzi di comunicazione. Quando un contenuto, di qualunque tipo esso sia, video, musica o testo, approda su questi siti si diffonde in maniera virale, e veloce, su siti concorrenti, siti personali o blog. E una volta diffuso il contenuto non è praticamente cancellabile, perché scaricato e nuovamente diffuso da altri internauti, senza possibilità di controllo»25. Nell’ambito dei social network è Facebook il leader di mercato. Fondato nel 2004 da Mark Zuckerberg, è utilizzato oggi attivamente da quasi 250 milioni di persone e annovera 600 milioni di utenti che in esso possiedono un profilo, come ci aggiorna sui numeri l’autrice, numeri che non mancano di crescere progressivamente nel tempo. Il nome del sito fa riferimento agli annuari (facebook) con le foto di ogni singolo membro che alcuni college americani pubblicano all’inizio di ogni anno accademico. Ci ricorda Murero come Facebook si basa sul principio di «diventare amico» di qualcuno, perché invitati via mail o perché «accettati» come amici a fronte di una nostra richiesta. «Gli “amici” dei contatti personali e persino “tutti” possono vedere liberamente o in parte le informazioni del nostro account, a seconda di come è stato personalizzato»26. 24 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media, cit., p. 45. 25 B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p. 162. 26 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media, cit., p. 46. 176 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) Se Facebook oggi è il social network più diffuso, fino a non molto tempo fa lo era MySpace, oggi specializzatosi più nel settore musicale e artistico. «Molti scrittori dilettanti», ricorda l’autrice, «postano i loro scritti proprio qui, nella speranza di essere scoperti e di divenire famosi attraverso il “passaparola” virale della rete dei social network. Proprio come un virus, anche un romanzo o una canzone possono diffondersi in rete grazie al gradimento, alle conversazioni, ai blog e alla condivisione di migliaia di persone, così come è già successo»27. Ma pur avendo la comunicazione e l’intrattenimento un ruolo enorme nei social media, e in tal senso si pensi ad esempio all’on line game all’interno dei social network, l’autrice pone l’accento sul fatto che nell’era dell’informazione «le organizzazioni si aspettano che i loro collaboratori abbiano un profilo professionale curato e che siano digital literate». E pur essendo Facebook «sempre più utilizzato per la ricerca di personale – le imprese vogliono conoscere bene i loro futuri collaboratori, attraverso quello che postano, commentano, i loro “amici”», cosa che andrebbe tenuta da tutti nel giusto conto – va sottolineato che oggi il «social network più diffuso tra i professionisti è LinkedIn»28. Un circuito professionale che permette «agli utenti registrati di mantenere una lista di persone conosciute, e ritenute affidabili in ambito lavorativo, definite “connessioni”. L’utilizzo del programma è molteplice e va dall’ottenere di essere presentati a qualcuno che si desidera conoscere, attraverso un contatto mutuo e affidabile, al trovare offerte di lavoro e opportunità di business, con il supporto della propria lista di contatti o del proprio network. La diffusione di LinkedIn è capillare negli Stati Uniti d’America, in crescita in Europa e nel resto del mondo»29. Un mondo, quello dei social network, nel quale diventa molto importante fare attenzione a quello che si dice e a chi lo si dice, soprattutto se ciò avviene in maniera del tutto inconsape27 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media, cit., p. 49. 28 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media, cit., p. 50. 29 B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p. 166. Ma tu, sei digital literate? issn 2035-584x vole delle possibili conseguenze. Essenziale ritorna allora il tema dell’acquisizione personale della digital literacy, ovvero dell’utilizzo consapevole delle risorse offerte oggi dalla Rete. In questo ambito va segnalato ora anche un ulteriore trend innovativo che, grazie agli «aggregatori sociali», ha dato luogo a quella che è chiamata la convergenza dei social media. 4. Convergenza dei social media «La convergenza dei social media, cioè la compresenza delle applicazioni più popolari all’interno dei social media più utilizzati si è rafforzata»30 negli ultimi anni e ha dato luogo a una sempre maggiore diffusione dei cosiddetti «aggregatori sociali». Evidenzia Murero come «un aggregatore sociale molto popolare e recente (2007), FriendFeed, consente appunto di aggregare i contributi postati dai propri contatti via Twitter, LinkedIn, Blogger, Flickr e altri in un’unica webpage»31. Un fenomeno importante e innovativo nell’ambito dei social media che favorisce «una efficiente gestione dei rapporti e delle comunicazioni prodotte dai “nodi” nei diversi social media»32. Scopo infatti di ogni aggregatore sociale è proprio la creazione di un flusso unico di informazioni che riunisca le molteplici attività di uno stesso utente in Rete in un’unica pagina web, facilitandogli in tal modo la consultazione e la gestione. Ricorda poi l’autrice che, se la convergenza è uno degli attuali trend nel mondo dei digital e social media, altre nuove tendenze fino a ieri di sviluppo, sono oggi già realtà. Si tratta della web TV, intesa come integrazione tra web e televisione, del pieno sviluppo della tecnologia touch, si pensi agli schermi sensibili al tatto adottati dagli attuali smartphone33, e del cloud 30 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media, cit., p. 57. 31 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media, cit., p. 43. 32 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media, cit., p. 57. 33 Uno smartphone, o telefonino intelligente, è un dispositivo portatile che abbina funzionalità di telefono cellulare a funzioni di gestione dei dati personali. 177 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) computing, ovvero la nuvola di dati, un insieme di tecnologie informatiche che consentono l’utilizzo di risorse hardware o software distribuite in remoto. Un mondo, quello del Web 2.0 e dei suoi social media, in continua espansione e nel quale, dopo questa carrellata, è giunto il momento di chiederci quali sono le pratiche da adottare per un suo utilizzo consapevole. 5. Social media: pratiche per un uso consapevole Per cogliere tutte le opportunità dei social media oggi a disposizione e fin qui accennati è imprescindibile migliorare la consapevolezza sul rischio legato al loro utilizzo e «adottare strategie correttive pratiche per riconoscere ed evitare comportamenti pericolosi»34, così da migliorare la propria privacy e sicurezza. Murero correda la sua trattazione di istruzioni pratiche, le sole che possono avvicinare gli internauti all’obiettivo di utilizzare con consapevolezza i social media ed essere pertanto dei «letterati digitali». Le buone pratiche menzionate vanno dalla cautela con la quale effettuare registrazioni on line, fornendo informazioni non obbligatorie e che si configurano quali dati sensibili, al consiglio di leggere sempre i termini d’uso prima di registrarsi a un servizio on line o a un social media. In molti casi, tra i termini accettati, è presente la cessione dei propri dati a società terze per utilizzi di marketing. La cosa è assolutamente fattibile, ma sempre se esercitata dal singolo nella sua piena consapevolezza. Buona norma consiste inoltre nel valutare periodicamente la propria lista di contatti sui social network e, al caso, nel procedere alla cancellazione di alcuni di essi. Rileva, infatti, l’autrice che «i social media sono gestiti da società con fini di lucro» e che «le informazioni, foto e tutti i dati che avete inserito possono essere potenzialmente “venduti” a terze parti. Che cosa vale la pena tenere e cosa no?»35. È dunque questa la domanda che dobbiamo por34 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media, cit., p. 54. 35 Ibidem. Ma tu, sei digital literate? issn 2035-584x ci, pensando magari alla fotografia scattata da alcuni amici a una cena e nella quale siamo stati taggati36 su Facebook. Potrebbe crearci qualche imbarazzo? Forse anche l’amico che ci ha taggati non è poi così digital literate da sapere cosa sta facendo? Può darsi. Siamo inoltre a conoscenza del fatto che acconsentire ai servizi di geo-localizzazione, o geo-tagging, offerti da molti social media, equivale a rendere nota la propria ubicazione? Il geo-tagging consiste, infatti, nel fotografare un ambiente, una persona, un ricordo o qualsiasi altra cosa, e inserirli in una mappa, grazie ai dispositivi dotati di GPS37 interno che sfruttano la posizione della longitudine e latitudine per individuare il luogo in cui una fotografia è scattata. Con estrema facilità l’immagine può essere caricata su una mappa (ad esempio, Google Earth38) e con altrettanta semplicità chiunque può risalire al punto in cui la foto è stata taggata. Essere consapevoli di tutto ciò permette di operare scelte oculate, come ad esempio quella di scegliere i livelli di visibilità delle proprie informazioni sui social network, grazie agli opportuni settaggi personali della privacy. Fondamentale è, infatti, a livello individuale la protezione dei propri dati personali che può avvenire, da un lato, migliorando le personali conoscenze informatiche e, dall’altro, acuendo la capacità di utilizzo critico delle nuove tecnologie. Viene da chiederci infine perché le società commerciali siano particolarmente interessate ai social media. E la domanda è piuttosto 36 “Taggare”, dall’inglese tagging, consiste nell’assegnare un’etichetta o tag, o parola chiave, a un’informazione (un’immagine, una mappa geografica, un post, un videoclip, …). Il tag descrive l’oggetto e rende possibile la sua classificazione e la ricerca di informazioni. È generalmente scelto in base a criteri informali dall’autore dell’oggetto dell’indicizzazione. 37 Acronimo di Global Positioning System, è un sistema di posizionamento su base satellitare, a copertura globale e continua, gestito dal Dipartimento della Difesa statunitense. 38 Google Earth è un’applicazione grafica tridimensionale che permette di visualizzare fotografie aeree e satellitari della Terra con un dettaglio molto elevato. Nelle principali città del pianeta il programma (distribuito gratuitamente da Google) è in grado di mostrare immagini con una risoluzione inferiore al metro quadrato. 178 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) retorica, perché ogni giorno i social network coinvolgono milioni di persone che pubblicano circa un miliardo di oggetti e tra esse, ricorda l’autrice «vi sono anche i prodotti, i servizi, i dipendenti e le marche delle imprese. Queste ultime hanno un grande interesse ad essere presenti nei luoghi in cui avvengono le interazioni in stile web 2.0, dove possono venire adulate, criticate o “taggate”. Ciò allo scopo di controllare professionalmente la propria immagine, ma anche per cogliere delle opportunità»39. Un cliente insoddisfatto può parlare male di un prodotto a una decina di persone, ma «con la diffusione dei social media un cliente scontento ne influenzerà almeno 6.000 – secondo Bezos»40, il capo di amazon. com, la società di vendita on line di prodotti editoriali. È il viral marketing, il passaparola informatico, che può favorire il successo o l’insuccesso di un’azienda, un prodotto, una campagna. E il digital literate ne è perfettamente a conoscenza, oltre ad essere informato e interessato sui trend futuri del mondo Web 2.0 che vado a delineare. 6. Verso la digital literacy 3.0 Utilizzare Internet e i social media è oggi una pratica comune a molti e secondo Clara Shih (2009), ci rammenta l’autrice, «ora che tutti i computer, gli apparecchi mobili, le pagine e i contenuti web sono potenzialmente connessi, […], ci troviamo di fronte ad una nuova fase web, la prossima rivoluzione digitale»41. Una rivoluzione che, coniata con l’appellativo intuibile di Web 3.0, «consisterà nel catturare automaticamente attraverso programmi appositi le informazioni che ci riguardano e il sistema delle nostre connessioni con gli altri. In altre parole, la rappresentazione di questo concetto, ovvero il Grafico Sociale Online di Shih, non è nient’altro che una mappa completa di tutte le persone che sono su internet e di come sono interconnesse. Le interconnessioni si costrui39 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media, cit., p. 64. 40 Ibidem. 41 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media, cit., p. 71. Ma tu, sei digital literate? issn 2035-584x scono attraverso i siti per il social networking in primis e attraverso i social media in generale. Il grafico sociale online è per le persone un po’ quello che il World Wide Web è per le pagine web interconnesse attraverso gli hyperlink»42. Ma la prossima rivoluzione è anche un contesto nel quale «si delinea un processo che mette al centro il valore della conoscenza e della collaborazione tra persone e che fa del Web uno strumento di servizio, totalmente integrato con la realtà e le attività dei suoi internauti. Facilitato dall’affermarsi più spinto del wireless43 e dell’intelligenza artificiale che dovrebbero portare sempre più verso l’ubiquità del Web al servizio delle relazioni umane, per moltiplicarle e potenziarle. Secondo quanto emerge dal dibattito in corso, le tappe dell’evoluzione del Web vedono la fase attuale, quella 2.0 fin qui esemplificata, caratterizzata da una partecipazione attiva degli utenti alla costruzione dei contenuti, alla loro classificazione e distribuzione. Alla quale dovrebbe far seguito, nell’evoluzione attesa, la fase del Web 3.044, noto anche come Web semantico45, caratterizzata dal potenziamento delle tecnologie per renderle capaci di contribuire alla costruzione e alla condivisione della conoscenza, mettendo in connessione i contenuti presenti sul Web attraverso ricerche e analisi automatiche basate sul significato. Si parla quindi di ontologie, di agenti intelli42 Ibidem. In informatica, un collegamento ipertestuale (in inglese hyperlink, abbreviato in link) è il rinvio da un’unità informativa a un’altra. È ciò che caratterizza la non linearità dell’informazione, propria di un ipertesto. 43 Il termine wireless (in inglese, senza fili) indica i sistemi di comunicazione tra dispositivi elettronici che non fanno uso di cavi. Cfr. B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p. 179. 44 Ora Lassila, James Handler, Embracing Web 3.0, in mindswap.org, giugno 2007, <http://www.mindswap.org/ papers/2007/90-93.pdf>; Sito consultato il 29/04/2011. Cfr. B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p. 179. 45 Il termine Web semantico, coniato dal suo ideatore Tim Berners-Lee, sta a significare la trasformazione del WWW in un ambiente dove i documenti pubblicati sono associati a informazioni e dati (metadati) che ne specifichino il contesto semantico in un formato adatto all’interrogazione, all’interpretazione e, più in generale, all’elaborazione automatica. Cfr. B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p. 179. 179 Tigor: rivista di scienze della comunicazione - A. III (2011) n.1 (gennaio-giugno) genti e motori di ricerca semantici, basati su un’analisi del significato del testo e degli ambiti tematici cui il testo fa riferimento»46. Un mondo dal fascino assicurato, nel confronto del quale, conclude Murero, è cruciale essere consapevoli «dei modi in cui internet sta cambiando e ha cambiato le nostre connessioni con il mondo reale». E nell’essere consapevoli, percorrendo la strada che conduce alla digital literacy, «non dimentichiamo di riflettere su ciò che è appropriato fare nel ciberspazio e ciò che è importante fare nella vita reale»47, Murero docet. Bettina Todisco è responsabile della comunicazione in un’azienda ICT. Laureata in Matematica presso l’Università di Trieste, specializzata in informatica, lavora prima come analista programmatore nella progettazione di applicazioni software per la pubblica amministrazione, poi come progettista di piani formativi, in ambito informatico, oltre che docente dei corsi inerenti gli strumenti di produttività individuale, le reti e il mondo web, rivolti al personale degli enti pubblici. Giornalista pubblicista si interessa di web writing e comunicazione. Ha conseguito nell’anno accademico 20082009, presso l’Università di Trieste, il master di I livello in Analisi e gestione della comunicazione, indirizzo Comunicazione pubblica e d’impresa issn 2035-584x Bibliografia N. L. Castro, Web 2.0 Ajax. Creare siti di nuova generazione, Cernusco sul Naviglio (MI), 2008. F. Ciotti, G. Roncaglia, Il mondo digitale, 13° edizione, Roma-Bari, 2010. M. Dècina, P. Giacomazzi, Web 2.0: tecnologie abilitanti e nuovi servizi, in “Mondo digitale – Rassegna critica del settore ICT”, 2008, n. 4, pp. 3-16. M. Lyon, K. Holmer, La storia del futuro. Le origini di Internet, Milano, 1998. M. Massarotto, Social network: costruire e comunicare identità in Rete, Milano, 2011. M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media, Padova, 2010. C. Shih, The Facebook era, Boston, Mass, 2009. B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, in A. Tafuri (a cura di), in/Tigor 1 Annuario 2008-2009 del corso di master di primo livello in Analisi e gestione della comunicazione, Trieste, 2010, pp. 154-183, http://www.openstarts.units.it/dspace/bitstream/10077/3878/1/ TODISCO.pdf http://www.openstarts.units.it/ dspace/handle/10077/3870. Siti web consultati http://oreilly.com/ Il sito ufficiale di Tim O’Reilly. www.apogeonline.com La casa editrice Apogeo, redattrice di un’interessante webzine. www.html.it Un sito specializzato sulle tecnologie del Web. www.oneweb20.it Un blog sul Web 2.0, un nuovo modo di intendere e sviluppare la Rete. www.web2summit.com Il Web Summit 2.0, la conferenza annuale sul Web 2.0. www.webnews.it Un sito di informazione su tecnologia e Internet. 46 B. Todisco, Le nuove tecnologie al servizio della comunicazione pubblica, cit., p.179. 47 M. Murero, Digital literacy. Introduzione ai social media, cit., p. 72. Ma tu, sei digital literate? www.wikipedia.org Il sito dell’enciclopedia creata dagli utenti di Internet. 180