Tai Chi come armonia Recentemente, durante la lezione, ho dovuto fermarmi a causa del mio mal di schiena. Uscito dal gruppo e seduto sulla sella di una delle due “cyclettes” che si trovano in palestra, ho avuto modo di osservare l’esecuzione della “forma”. La musica di sottofondo, la concentrazione, il ritmo e l’accordo nei movimenti creavano un equilibrio, un’armonia che m’incantavano. Mi sembrava di essere ad un concerto con la differenza che la maestra non stava sul podio ma fra gli allievi e le allieve, punto di riferimento prezioso per superare eventuali dubbi ed incertezze. Era la stessa percezione che provo davanti ad un camino acceso: non riesco a staccare gli occhi dal fuoco, dai suoi colori e dal suo calore, dall’ondeggiare delle fiamme così cangianti e così vive. Dentro di me nascevano alcune riflessioni. Di quell’armonia facevo parte anch’io e tuttavia, stando all’interno del gruppo, non la percepivo nel suo insieme. Sentivo la presenza e il sostegno di chi mi stava accanto, cercavo di non perdere di vista la maestra e di eseguire al meglio la “forma” con la massima concentrazione, tuttavia non coglievo questa silenziosa coralità. A volte durante la lezione, in genere nella parte finale, riesco a trovare un buon equilibrio dentro di me e l’energia che si sprigiona mi spinge ad interpretare la “forma” a modo mio, a seguire i miei tempi e a dare ai movimenti un’espressione personale di una mia m usica interiore. Quando eseguiamo la “forma” con la sciabola, queste mie fughe sono più frequenti e, soprattutto, più intense. A fatica rientro nei ranghi. L’eleganza del riccio Paloma è la figlia dodicenne di un ministro ottuso; vive in un elegante palazzo d’epoca di Parigi, abitato da famiglie dell’alta borghesia. Ragazza geniale, brillante e fin troppo lucida, stanca di vivere, ha deciso di farla finita (il 16 giugno, giorno del suo tredicesimo compleanno, per l’esattezza). Fino ad allora continuerà a fingere di essere una ragazzina mediocre e imbevuta di sottocultura esistenziale come tutte le altre. Ama rifugiarsi in nascondigli nella grande casa per avere un suo spazio e il silenzio necessario per elaborare i suoi Pensieri profondi e scrivere un Diario del movimento del mondo, di cui fa parte il brano che segue. Che bello, un coro Nel pomeriggio c’era il coro della scuola. Noi dei quartieri chic a scuola abbiamo un coro. Nessuno lo considera una cosa antiquata, tutti fanno a pugni per partecipare, ma è superselettivo: Trianon, il prof di musica, sceglie con estrema cura i coristi. La ragione del successo del coro è proprio monsieur Trianon. Lui è giovane, bello e fa cantare sia i vecchi classici jazz sia le ultime hit, arrangiati con stile. Tutti si mettono in ghingheri, e il coro canta davanti agli altri alunni della scuola. Sono invitati solo i genitori dei coristi, altrimenti ci sarebbe troppa gente. La palestra è piena zeppa così e c’è un’atmosfera fantastica. E quindi ieri, destinazione palestra, di corsa, accompagnati da madame Maigre, visto che di solito alla prima ora dl martedì pomeriggio, abbiamo francese. Accompagnati da madame Maigre è una parola grossa: ha fatto del suo meglio per starci dietro, sbuffando come un mantice, insomma, alla fine siamo arrivati in palestra, bene o male ci siamo sistemati, mi sono dovuta sorbire davanti, dietro, di fianco, di sopra (sulle gradinate) delle conversazioni idiote in stereofonia (telefonino, moda, chi sta con chi, telefonino, i prof che fanno schifo, telefonino, la serata di Cannelle), e poi tra le acclamazioni sono entrati i coristi, vestiti di bianco e rosso, papillon per i maschi e scamiciati lunghi per le ragazze. Monsieur Trianon si è accomodato su un panchetto, spalle al pubblico, ha sollevato una specie di bacchetta con una lucina rossa lampeggiante in cima, è sceso il silenzio, ed ecco l’a ttacco. Ogni volta è un miracolo. Tutta questa gente, tutte le preoccupazioni, tutti gli odi e i desideri, tutti i turbamenti, tutto l’anno scolastico con le sue volgarità, gli avvenimenti più o meno importanti, i prof, gli alunni così diversi, tutta questa vita in cui ci trasciniamo fatta di grida, lacrime, risate, lotte, rotture, speranze deluse e possibilità inaspettate: tutto questo scompare di colpo quando i coristi si mettono a cantare. Il corso della vita è sommerso dal canto, d’improvviso c’è una sensazione di fratellanza, di profonda solidarietà, persino d’amore, e le brutture quotidiane si stemperano in una comunione perfetta. Anche i visi dei coristi sono trasfigurati: non vedo più Achille Grand- Fernet (che ha una bellissima voce da tenore) né Deborah Lemeur né Ségolène Racket né Charles Saint-Sauveur. Vedo degli esseri umani votati al canto. Ogni volta è la stessa storia, mi viene da piangere, ho un nodo alla gola e faccio di tutto per controllarmi, ma quando è troppo è troppo: a stento riesco a trattenermi dal singhiozzare. E quando c’è un canone, guardo per terra perché l’emozione è troppa tutta in una volta: è troppo bello, solidale, troppo meravigliosamente condiviso. Io non sono più me stessa, sono parte di un tutto sublime al quale appartengono anche gli altri, e in quei momenti mi chiedo sempre perché questa non possa essere la regola quotidiana, invece di un momento eccezionale del coro. Quando il coro s’interrompe tutti quanti, con i volti illuminati, applaudono i coristi raggianti. E’ così bello. In fondo, mi chiedo se il vero movimento del mondo non sia proprio il canto. Muriel Barbery Dal volume “L’eleganza del riccio”, edizioni e/o, 2008.