LA L. N. 210/1992 NELLA GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE:
RECENTI ORIENTAMENTI
di MARTA PICCHI
Sommario: 1. Premessa. - 2. Il fondamento dell’equo ristoro nella giurisprudenza della Corte
costituzionale. - 3. Il quantum della prestazione indennitaria nella giurisprudenza della Corte
costituzionale. - 4. Valutazioni di sintesi. - 5. Nota bibliografica.
1. Premessa.
L’Italia è fra gli ultimi Paesi dell’Unione Europea ad aver previsto un’indennità a
carico dello Stato per danni derivanti da alcuni tipi di trattamenti sanitari obbligatori, dopo
che la proposta di legge avanzata negli anni ‘50 non ebbe successo per due motivi: il timore
che, in questa maniera, si potesse sortire un effetto contrario a quello perseguito con le
previsioni sull’obbligatorietà dei trattamenti sanitari, nonché il rischio di favorire la
deresponsabilizzazione dei medici ospedalieri.
I principali destinatari dell’indennizzo disciplinato dalla l. n. 210 del 1992 sono coloro
che, a seguito di una vaccinazione obbligatoria per legge o per ordinanza di un’autorità
sanitaria, abbiano riportato, direttamente o indirettamente come conseguenza del contatto con
persona vaccinata, lesioni o infermità dalle quali sia derivata una menomazione permanente
della integrità psico-fisica. Lo stesso indennizzo è previsto a vantaggio di coloro che, a
seguito di somministrazione di sangue e suoi derivati, abbiano riportato un’infezione da HIV
o danni irreversibili da epatiti, mentre per gli operatori sanitari, prima della sent. n. 476/2002
della Corte costituzionale, l’indennità era prevista soltanto nel caso in cui i danni all’integrità
psico-fisica fossero da ricollegare al contagio da infezioni da HIV. Coloro che abbiano
riportato direttamente o indirettamente, a seguito di vaccinazione obbligatoria, una
menomazione permanente della integrità psico-fisica hanno altresì diritto ad un assegno una
tantum per il periodo ricompreso tra il manifestarsi dell’evento dannoso e l’ottenimento
dell’indennizzo.
Partendo da una ricostruzione della giurisprudenza costituzionale in ordine al
fondamento dell’equo ristoro riconosciuto dalla l. n. 210/1992 e alla definizione del quantum
di indennizzo, sarà possibile verificare se, nelle ultime pronunce della Corte costituzionale, vi
siano o meno delle aperture per il futuro o nuove indicazioni per il legislatore.
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2. Il fondamento dell’equo ristoro nella giurisprudenza della Corte costituzionale.
Il primo intervento della Corte costituzionale si ha con la sent. n. 307/1990 con la
quale viene dichiarata la illegittimità costituzionale della l. n. 51/1966, che ha introdotto
l’obbligatorietà del vaccino antipoliomielite, nella parte in cui non prevedeva alcuna indennità
per il caso di danno derivante da contagio o da altra apprezzabile malattia causalmente
riconducibili alla vaccinazione obbligatoria antipoliomielitica, riportato dal bambino
vaccinato o da altro soggetto a causa dell’assistenza personale diretta prestata.
In questa pronuncia, il giudice costituzionale così ricostruisce il contenuto dell’art. 32
della Costituzione: la salute è un fondamentale diritto dell’individuo e un interesse della
collettività; ne consegue che la legge che impone un trattamento sanitario è compatibile con la
previsione costituzionale quando il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare
lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri:
proprio la salute come interesse della collettività giustifica la compressione di quella
autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto
fondamentale. Quindi in nome della solidarietà verso gli altri, ciascuno può essere obbligato a
un dato trattamento sanitario anche se questo importi un rischio specifico; tuttavia, in ragione
del beneficio a favore della collettività, su quest’ultima incombe lo stesso principio di
solidarietà e, perciò, nel caso in cui il rischio si verifichi, l’obbligo di una protezione ulteriore
a favore del soggetto passivo del trattamento: il contenuto minimale del diritto alla salute del
singolo sarebbe sacrificato se non fosse posto a carico della collettività il rimedio di un equo
ristoro del danno patito da chi è stato sottoposto a vaccino obbligatorio o da colui che ha
subito un pregiudizio indiretto per aver prestato assistenza personale diretta alla persona
vaccinata in ragione della sua non autosufficienza fisica.
In quest’occasione la Corte costituzionale ha modo di precisare che l’equo indennizzo
è dovuto comunque, indipendentemente dall’esistenza dei presupposti di un danno ulteriore
cagionato a seguito di un comportamento colposo o doloso nella materiale esecuzione del
trattamento, ex art. 2043 c.c. La Corte costituzionale è particolarmente attenta a sottolineare
che il rimedio risarcitorio trova applicazione ogni qualvolta le concrete forme di attuazione
della legge impositiva di un trattamento sanitario o di esecuzione materiale del trattamento
non siano accompagnate dalle cautele o condotte rispettose delle modalità che lo stato delle
conoscenze scientifiche e l’arte prescrivono in relazione alla sua natura. La responsabilità
civile opera sul piano della tutela della salute di ciascuno contro l’illecito patito sulla base dei
titoli soggettivi di imputazione, mentre l’indennizzo è destinato ad operare a fronte del danno
riconducibile sotto l’aspetto oggettivo al trattamento sanitario obbligatorio e giustificato,
perciò, dal corretto bilanciamento dei valori espressi dall’art. 32 della Costituzione e dalle
ragioni di solidarietà nei rapporti fra l’individuo e la collettività che sono alla base
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dell’imposizione del trattamento sanitario.
La Corte costituzionale, dunque, ha riconosciuto l’incostituzionalità di una norma in
quanto omissiva, stabilendo un principio non sufficientemente preciso da attuare, ricavato dai
parametri costituzionali, del quale si è limitata a tracciare gli ambiti di operatività, rinviando
alla discrezionalità del legislatore il compito di quantificare l’equo indennizzo e di precisare le
modalità per far valere la relativa pretesa, ovvero la gestione concreta del principio di diritto
affermato, di per sé privo di autoapplicatività. È sulla base di questa sentenza additiva di
principio che è stata adottata la l. n. 210/1992.
La giurisprudenza costituzionale successiva, oltre a precisare che, nei trattamenti
sanitari obbligatori, il legislatore deve prevedere tutte le cautele preventive possibili atte ad
evitare il rischio di complicanze (sent. n. 258/1994), ha confermato la ricostruzione fatta in
merito al fondamento dell’indennizzo (sent. n. 118/1996 che, fra l’altro, ha dichiarato la
illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 3 della l. n. 210/1992 nella parte in cui non
prevedevano alcun diritto all’indennità, in caso di vaccinazione obbligatoria, per il periodo
ricompreso tra il manifestarsi dell’evento dannoso prima dell’entrata in vigore della legge e
l’ottenimento della prestazione. Successivamente, il legislatore ha recepito tale pronuncia con
la l. n. 238/1997). Richiamando la giurisprudenza precedente, la Corte costituzionale osserva
come nella coesistenza della dimensione individuale del diritto alla salute con quella collettiva
e con il dovere di solidarietà del singolo verso la collettività, ma anche viceversa, è imposto
un equo ristoro a vantaggio di chi abbia ricevuto un danno poiché, in quell’occasione, la
collettività nel suo complesso trae un beneficio. L’indennizzo differisce perciò dal
risarcimento ex art. 2043 c. c. perché la tutela contro l’illecito ha necessariamente effetti
risarcitori pieni anche del danno alla salute in quanto tale, mentre l’indennizzo, prescindendo
dalla colpa, è comunque dovuto in ragione dell’inderogabile dovere di solidarietà che grava
sull’intera collettività. Si tratta di un vero e proprio obbligo cui corrisponde una pretesa
protetta direttamente dalla Costituzione che distingue questa prestazione da tutte le altre a
carattere assistenziale (ex artt. 2 e 38 della Costituzione) che il legislatore nella sua
discrezionalità e dopo ragionevole ponderazione con altri interessi può disporre; ma si tratta,
comunque, di una misura che, pur non potendo essere irrisoria e pur dovendo tenere conto di
tutte le componenti del danno, ha natura equitativa.
Con la pronuncia n. 27/1998, la Corte costituzionale ha esteso l’indennità anche ai casi
di vaccinazione antipoliomielite compiuti prima del 1966, sotto la vigenza della l. n.
695/1959, quando ancora non era obbligatoria, ma comunque era programmata e incentivata
attraverso una diffusa campagna pubblica di sensibilizzazione e persuasione. Anche in questo
caso si rileva che, nonostante il trattamento non fosse obbligatorio, tuttavia era incentivato
sempre in funzione dell’interesse della collettività e, quindi, su quest’ultima grava, di
conseguenza, l’obbligo di solidarietà nei confronti di coloro che, a seguito della vaccinazione,
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abbiano riportato direttamente o indirettamente un danno: una diversa soluzione si
risolverebbe in un’irrazionalità della legge perché verrebbe riservato a coloro che sono stati
indotti a tenere un comportamento di utilità generale per ragioni di solidarietà sociale un
trattamento deteriore rispetto a coloro che hanno agito sotto la minaccia di una sanzione. Con
un successivo intervento (l. n. 362/1999) il legislatore ha recepito l’indicazione impartita dalla
Corte costituzionale.
Seguendo la stessa ratio, con la sent. n. 423/2000, l’equo ristoro viene esteso a
vantaggio di chi si è sottoposto a vaccinazione antiepatite B non obbligatoria appartenendo a
una categoria di persone considerate a rischio e, perciò, incentivate a sottoporsi alla
vaccinazione stessa nell’ambito di una campagna promossa dall’autorità sanitaria in un’opera
di responsabilizzazione e sensibilizzazione ai rischi che l’epatite di tipo B comporta per sé e
per gli altri e, innanzitutto, per i bambini.
Infine, di recente, con la sent. n. 476/2002 è stato esteso il diritto all’equo indennizzo
anche a vantaggio degli operatori sanitari che abbiano contratto un’epatite a seguito di
contatto con sangue e suoi derivati infetti, superando così la discrasia presente nella l. n.
210/1992 che riconosceva tale beneficio a vantaggio del personale sanitario nei casi di
infezioni da HIV, ma non anche nel caso in cui avesse contratto un’epatite, sebbene lo stesso
legislatore, nel valutare i due tipi di patologia, li abbia considerati equivalenti ai fini
dell’indennizzo nel caso siano stati contratti come conseguenza della somministrazione o
trasfusione di sangue.
Individuando il fondamento dell’equo indennizzo nel principio di solidarietà, la Corte
costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale in ordine alla
previsione che esclude il diritto all’assegno una tantum per il periodo compreso tra il
manifestarsi dell’evento dannoso e l’ottenimento dell’indennizzo per quei soggetti che
abbiano subito danni irreversibili da infezioni HIV e da epatiti post-trasfusionali,
riconoscendolo perciò soltanto a vantaggio di chi si è sottoposto a vaccinazione obbligatoria o
incentivata. Difatti, secondo la Corte costituzionale, posto che è costituzionalmente necessario
che la collettività assuma su di sé una partecipazione alle difficoltà nelle quali può venire a
trovarsi il singolo che ha cooperato al perseguimento dell’interesse generale, l’obbligatorietà
del trattamento o l’incentivazione nell’ambito di una politica sanitaria pubblica, sulla base
dell’ampliamento compiuto con la sent. n. 27/1998, sono soltanto lo strumento atto a
perseguire tale finalità e non ne costituiscono anche la base fondante. L’assimilazione tra la
situazione di chi si è sottoposto a un trattamento sanitario imposto per legge o incentivato e la
situazione di chi sia ricorso a un trattamento terapeutico di emotrasfusione reso necessario da
una malattia (come ad esempio gli emofilici) non è sostenibile in forza del principio di
ragionevolezza, poiché ciò che rileva è l’esistenza di un interesse pubblico alla promozione
della salute collettiva tramite il trattamento sanitario, il quale viene perciò assunto a oggetto di
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un obbligo legale o di una politica pubblica di diffusione: è questo interesse generale che
impone costituzionalmente alla collettività di assumere la partecipazione alle difficoltà del
singolo (sentt. n. 226, 423 del 2000 e ord. n. 522/2000).
3. Il quantum della prestazione indennitaria nella giurisprudenza della Corte costituzionale.
Relativamente alla definizione del quantum della prestazione indennitaria, nella sent.
n. 27/1998, la Corte costituzionale ha affermato di non poter sindacare l’entità dell’equo
ristoro, ritenendo di non poter sovrapporre le proprie valutazioni di merito a quelle che
spettano e sono riservate al legislatore nelle determinazioni volte a predisporre i mezzi
necessari a far fronte alle obbligazioni dello Stato nella materia dei cosiddetti diritti sociali,
posto che il diritto all’indennizzo è stabilito nell’an, dal punto di vista costituzionale, ma non
nel quantum. Soltanto il legislatore è dunque abilitato a compiere gli apprezzamenti necessari
a comporre, nell’equilibrio del bilancio, le scelte di compatibilità e di relativa priorità nelle
quali si sostanziano le politiche sociali dello Stato.
Il giudice costituzionale ha, peraltro, sottolineato come, trattandosi dell’adempimento
di un dovere di solidarietà, è naturale ammettere che tale dovere possa essere avvertito e dal
legislatore tradotto in norma, a seconda dei casi, in maniera e misura variabile in rapporto alle
circostanze in cui il danno alla salute si è determinato e che, quindi, anche le conseguenti
misure indennitarie possono differenziarsi le une dalle altre (sent. n. 38/2002 con la quale è
stata dichiarata l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale che era stata
sollevata sostenendo, fra l’altro, che l’intervento indennitario dello Stato deve essere
commisurato esclusivamente al danno effettivamente subito dal soggetto che, anche
nell’interesse della collettività, si è esposto al rischio conseguente al trattamento sanitario, di
modo che sarebbe irrilevante la diversa tipologia delle cause e dell’incidenza statistica del
danno alla salute e vi sarebbe la necessità di una disciplina che non distingua, quanto
all’applicazione della tabella E di “superinvalidità”, i soggetti la cui salute ha subito danno in
conseguenza di un trattamento sanitario obbligatorio dai soggetti che il danno hanno subito
per eventi bellici. La Corte costituzionale ha comunque concluso ribadendo l’invito al
legislatore, già formulato nella sentenza n. 423/2000, di porre una nuova disciplina,
specificamente determinata in relazione alle esigenze di normazione proprie di questa delicata
materia).
Alla Corte costituzionale compete, invece, di garantire la misura minima essenziale di
protezione delle situazioni soggettive che la Costituzione qualifica come diritti, misura
minima al di sotto della quale si determinerebbe, con l’elusione dei precetti costituzionali, la
violazione di tali diritti poiché verrebbe annullato l’an della prestazione. Inoltre, la Corte
costituzionale osserva che, nella valutazione di legittimità costituzionale, occorre tener conto
del fatto che l’assegno una tantum previsto dalla legge assume il significato di misura di
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solidarietà sociale, cui non necessariamente si accompagna anche una funzione assistenziale.
L’equo indennizzo è dovuto indipendentemente dalle condizioni economiche dell’avente
diritto e non mira di per sé agli scopi per i quali l’art. 38 della Costituzione è stato dettato,
aggiungendosi perciò agli altri emolumenti corrisposti anche in funzione propriamente
assistenziale.
Nonostante la Corte costituzionale non abbia verificato la ragionevolezza del quantum
di indennizzo, tuttavia occorre notare come in questa pronuncia abbia richiamato parametri di
giudizio non particolarmente stringenti rispetto all’evoluzione profilatasi, in generale, nella
giurisprudenza costituzionale in materia di diritti sociali. Come sappiamo, la tutela dei diritti
sociali, ovvero le prestazioni pubbliche di notevole impegno finanziario sono condizionate dal
contesto politico ed economico. La giurisprudenza costituzionale ha elaborato il principio di
gradualità (si veda in merito la sent. n. 57/1973 in materia previdenziale) nell’apprestamento
dei necessari mezzi finanziari pubblici secondo un giudizio che, mutuato dal modello tedesco,
si è ispirato alla proporzionalità (Verhältnismäßigkeitsgrundsatz) e alla adeguatezza o non
eccessività (Übermaßverbot): vale a dire, fermo restando che i diritti sociali sono comunque
diritti soggettivi e non mere previsioni a carattere programmatico, tuttavia la loro attuazione,
sotto i profili del quid e del quando, può avvenire gradualmente, a seguito di un ragionevole
bilanciamento con altri interessi o beni che godono di pari tutela costituzionale, rapportato
alla disponibilità delle risorse necessarie per la medesima attuazione. Nella valutazione da
compiere in ordine alle discipline attuative dei diritti sociali occorre perciò, perché vi sia una
dichiarazione di illegittimità costituzionale, dimostrare l’irragionevolezza della loro mancanza
di completezza. Negli ultimi anni, però, relativamente alla tutela dei diritti sociali, questo
schema sembra abbandonato: al valore del diritto soggettivo si è affiancato il valore
dell’interesse oggettivo alla salvaguardia delle compatibilità finanziarie (si veda al riguardo la
sent. n. 119/1991, sempre in materia previdenziale). Quindi, oggi, nella ricostruzione del
contenuto essenziale dei diritti sociali, sebbene per quanto riguarda la giurisprudenza sul
diritto alla salute le elaborazioni compiute siano più articolate che per gli altri diritti e
nonostante che ogni aspetto di ciascun diritto sociale sia destinatario di forme di protezione
differenziate, sembra che, nel bilanciamento che deve essere compiuto fra tutti gli interessi
presenti, si debba tener conto anche delle risorse finanziarie disponibili. In questo modo, è
mutata la struttura del giudizio costituzionale, nel senso che nel bilanciamento, adesso, si
tiene conto anche del valore dell’interesse oggettivo e di conseguenza si è abbassato il livello
di protezione del diritto soggettivo.
Nella sentenza da ultimo richiamata (n. 27/1998), la Corte costituzionale sembra
invece ritenere che il valore sotteso all’equilibrio di bilancio non partecipi al bilanciamento
legislativo, bensì ne costituisca il limite esterno: difatti, argomentando la non irragionevolezza
della decurtazione subita dalla misura indennitaria sostiene che il contenuto minimo
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essenziale della prestazione non è stato intaccato. La Corte costituzionale non muove dalla
volontà di accertare la lesione o meno del contenuto essenziale del diritto valutando il
quantum della prestazione secondo il principio di ragionevolezza, ma ritiene ragionevole
l’entità fissata dal legislatore, dopo aver constatato che la misura minima essenziale del diritto
non ha subito pregiudizi anche tenendo conto del significato di misura di solidarietà sociale
che l’indennizzo ha e del fatto che ad esso non si accompagna alcuna funzione assistenziale.
Quindi nel bilanciamento compiuto dalla Corte costituzionale non viene adoperato l’elemento
oggettivo delle esigenze di bilancio, oppure il principio di equilibrio o le compatibilità
economico-finanziarie. Nello stesso senso si pone la sent. n. 226/2000 dove espressamente si
richiama il principio di gradualità; occorre precisare che sia per quanto riguarda il principio di
gradualità che per la definizione del contenuto minimo essenziale dei diritti sociali mancano
decisioni leading case attraverso le quali sia possibile darne una definizione in grado di
segnarne i confini.
4. Valutazioni di sintesi.
Nella sentenza più recente (n. 476/2002) la Corte costituzionale non prende in esame
tutti i parametri richiamati dal giudice a quo e compie l’estensione dell’indennizzo a
vantaggio degli operatori sanitari che abbiano contratto un’epatite per contatto con sangue e
suoi derivati in base al solo art. 3 della Costituzione, osservando che soltanto una
dimenticanza del legislatore può spiegare la ragione per la quale il personale sanitario, nei casi
indicati, sia ammesso al beneficio quando si abbia a che fare con infezioni da HIV ma non con
epatiti. In particolare, a differenza delle precedenti pronunce, la Corte costituzionale omette di
richiamare o precisare il principio di solidarietà sociale e non si esprime sulla prospettazione
fatta dal giudice rimettente secondo il quale vi sarebbe una violazione di questo principio in
presenza di una situazione in cui la lesione al bene primario della salute deriva, senza alcun
colpevole concorso della parte lesa, dall’espletamento di pratiche inerenti all’adempimento
dei doveri professionali, che dovrebbero essere immuni da pericoli dal momento che la
circolazione del sangue e degli emoderivati è sotto il diretto controllo pubblico. La Corte
costituzionale ha però osservato che le misure poste a vantaggio di certe categorie individuate
dal legislatore hanno come esplicito fondamento l’insufficienza dei controlli sanitari
predisposti; quindi, secondo la Corte costituzionale, occorre distinguere due categorie di
soggetti beneficiarie dell’equo ristoro: innanzitutto, coloro che si sono sottoposti a trattamenti
sanitari preventivi e obbligatori o incentivati, per i quali lo stato dello sviluppo scientifico non
è ancora in grado di eliminare i possibili rischi di eventi dannosi e su tale presupposto si
giustifica l’imposizione di un obbligo riparatorio sulla collettività consistente nell’erogare una
somma di danaro. Vi sono, poi, coloro che, a seguito di emotrasfusioni, o in ragione della
professione svolta, oppure per contatto con soggetti o sangue infetti hanno riportato danni, per
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i quali il presupposto del diritto all’indennizzo non riposa sul limitato grado di conoscenza
scientifica, ma sull’insufficienza dei controlli sanitari.
Le conseguenze, implicanti effetti di ordine economico, che possono discendere da
vaccinazioni, trasfusioni e somministrazione di emoderivati possono così essere riassunte: a)
il caso in cui a seguito della vaccinazione, trasfusione e somministrazione di emoderivati vi
sia stato un danno diretto o indiretto tale da determinare un’inabilità al lavoro; b) il caso in cui
dalla vaccinazione, trasfusione e somministrazione di emoderivati sia derivato un danno
diretto o indiretto imputabile a dolo o colpa di coloro che hanno praticato il trattamento
sanitario; c) il caso in cui dalla vaccinazione, obbligatoria o incentivata, consegua un danno
oggettivamente riconducibile alla terapia prestata, ma non imputabile a titolo di dolo o colpa a
coloro che l’abbiano praticata; d) il caso in cui dalla trasfusione o somministrazione di
emoderivati o per contatto con soggetti o sangue infetti sia derivato un danno imputabile
all’inadeguatezza dei controlli sanitari.
Per la prima ipotesi, la Corte costituzionale ha chiarito che le provvidenze a favore del
danneggiato in relazione all’inabilità al lavoro che ne è conseguita sono quelle prestazioni a
carattere assistenziale di cui all’art. 38 della Costituzione. Nel secondo caso sorge (e si
aggiunge all’indennità della terza o quarta ipotesi) la responsabilità civile, ex art. 2043 c.c., di
colui che ha praticato il trattamento sanitario e/o della struttura presso la quale il trattamento
sia stato eseguito. Nel terzo caso si è riconosciuto il diritto all’equo ristoro in ragione del
principio di solidarietà gravante sulla collettività nel cui interesse il trattamento sanitario è
stato compiuto: è una di quelle ipotesi in cui un diritto soggettivo viene leso a seguito dello
svolgimento da parte del soggetto pubblico di un’attività perfettamente lecita e finalizzata al
soddisfacimento di un interesse pubblico. Si versa in uno di quei casi di cosiddetta
responsabilità da atto lecito che niente ha a che vedere con la responsabilità civile, perché è
assente l’elemento soggettivo del dolo o della colpa in relazione al pregiudizio che si è
verificato. In questi casi, cioè, il sistema pubblico interviene per tutelare situazioni di danno
che altrimenti rimarrebbero senza alcuna possibilità di ristoro e, difatti, si parla di indennità
anziché di risarcimento del danno: mentre quest’ultimo è uno strumento volto alla
reintegrazione completa della sfera giuridica violata, l’indennizzo si fonda su un’esigenza di
equità ed è un mezzo volto a realizzare un riequilibrio parziale, anche se non meramente
simbolico, del pregiudizio subito.
Nell’ultima ipotesi, invece, in cui il fondamento del beneficio indennitario si fonda
sull’insufficienza dei controlli sanitari non si può sostenere di essere al di fuori della
responsabilità civile: saranno casi in cui per il danneggiato diventa arduo dimostrare il nesso
di causalità o l’elemento soggettivo e, perciò, il legislatore sembra aver ritenuto di dover
proteggere anche queste ipotesi equiparandole alle altre sotto il profilo dell’indennizzo, ad
esclusione dell’assegno una tantum, resta però il fatto che si è in presenza di un illecito e,
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quindi, di una responsabilità civile nei confronti del danneggiato.
La Corte costituzionale, in una precedente sentenza (n. 423/2000), ha avuto modo di
affermare come non sia giustificata la richiesta di inclusione nel beneficio previsto dalla legge
di elementi propri della tutela risarcitoria. In quell’occasione la Corte costituzionale ha
ritenuto di dover tenere nettamente separato il risarcimento del danno dall’indennità prevista
dalla legge, posto che la responsabilità civile presuppone un rapporto tra fatto illecito e danno
risarcibile, mentre il diritto all’indennità sorge per il sol fatto del danno irreversibile derivante
da infezioni post-trasfusionali, in una misura prefissata dalla legge. La misura prevista dal
legislatore è aggiuntiva rispetto al risarcimento ex art. 2043 c. c. e, inoltre, consente agli
interessati, in tempi brevi, una protezione certa nell’an e nel quantum, non subordinata
all’esito di un’azione di risarcimento del danno, all’accertamento dell’entità e, soprattutto, alla
non facile individuazione di un fatto illecito e del responsabile di questo.
Sappiamo, e la pronuncia n. 423/2000 è una conferma, come in materia di servizi
pubblici prestati dalla Pubblica Amministrazione vi sia un’estrema cautela nel consentire la
piena operatività delle regole della responsabilità civile, tanto che si ritengono legittime le
scelte del legislatore consistenti nella tipizzazione del danno risarcibile e/o nella limitazione
dell’importo del risarcimento, purché non si pervenga, in questa maniera, ad attribuire al
soggetto pubblico il privilegio dell’irresponsabilità, dal momento che la P. A. deve pur sempre
ispirare la propria attività al principio del neminem laedere e ai criteri di prudenza, diligenza,
legalità, imparzialità e buon andamento. Tuttavia l’equiparazione dei due casi appare
eccessiva, perché vengono poste sullo stesso piano un’ipotesi di assoluta mancanza di
responsabilità dove si procede secondo i canoni dell’equità e un’ipotesi, invece, di
responsabilità civile; a maggior ragione non pare ragionevole una disciplina che finisce con il
riconoscere un trattamento di miglior favore per i danneggiati da trattamento sanitario
obbligatorio per i quali è riconosciuto anche un assegno una tantum per il periodo compreso
tra il manifestarsi dell’evento dannoso e l’ottenimento dell’indennizzo: come la stessa Corte
costituzionale ha affermato nella sent. n. 118/1996, la tutela contro l’illecito ha
necessariamente effetti risarcitori pieni anche del danno alla salute, mentre l’indennità, pur
dovendo tener conto di tutti gli elementi del danno, prescindendo dall’elemento soggettivo
risponde a criteri di solidarietà ed equità. Da qui la possibilità di sostenere che l’indennizzo,
nel caso di insufficienza dei controlli sanitari, debba essere non solo non irrisorio, ma anche
adeguato al danno patito dal momento che è fondato non su un generico dovere di solidarietà
della collettività per l’evento verificatosi, ma su una responsabilità degli apparati pubblici ai
quali è demandato il compito di vigilare sulla circolazione del sangue e degli emoderivati e
nei confronti dei quali sorge un legittimo affidamento da parte degli emotrasfusi e di coloro
che contraggono un’infezione per contatto con sangue o emoderivati.
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5. Nota bibliografica.
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