Istituto di Studi Comunisti - Digilander

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La rivoluzione borghese in Italia:
1544 – 1660
Masaniello
" Bollon rabbie assassine
in proditorie calme. "
[G.
Lubrano, poeta napoletano del Seicento]
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Introduzione
A partire dal XVII secolo lo sviluppo dell’Italia viene a dipendere strettamente dal
più complessivo processo di transizione alla società borghese che investe l’Europa e le sue forme
concrete: Europa occidentale continentale: Spagna, Francia, Olanda; centrale: Germania, Austria;
insulare: Inghilterra, Svezia; orientale: Russia. Gli interessi specifici del loro sviluppo determinano
le scelte che opereranno nella spartizione dell’Italia ed il loro intervento diretto o mediato nelle
scelte che verranno ad articolarsi in Europa, entro cui l’Italia è pezzo di scambio.
E qui dobbiamo distinguere: la casa Savoia, i Medici ed il Granducato di Toscana, la Lombardia, la
repubblica di Venezia e di Genova, l’Italia centrale sotto il Papato, il Regno di Napoli e del Regno
di Napoli la parte continentale da una parte e la Sicilia dall’altra.
Lo sviluppo capitalistico dell’Europa è cioè già il risultato del movimento complessivo del
capitalismo, ove le varie regioni interagiscono tra di loro determinando il movimento generale quale
sintesi dialettica del più complessivo movimento del capitale.
Ci troviamo così nella necessità di partire dalla metà del XVI secolo: la guerra dei contadini in
Germania, passare per la Guerra dei Trent’anni, la decadenza spagnola e dentro questa il
movimento rivoluzionario nell’Italia meridionale: i moti in Sicilia e nel regno di Napoli del 16461648, che si inquadrano dentro il processo rivoluzionario inglese, olandese, catalano, portoghese;
incapacità di sfruttare da parte della borghesia italiana la decadenza spagnola e la lotta tra Francia,
Austria, Inghilterra per la successione al dominio spagnolo, e sua decisiva decadenza, dalla quale
non si rialzerà mai più, giacché tale assenza determinerà l’abbandono del controllo reale sul
Mediterraneo all’Inghilterra ed alla Francia e quindi loro insediamenti nei porti e sulle coste italiane
al fine di dominare il Mediterraneo e controbilanciarsi.
Veniamo così a leggere l’intera transizione alla società borghese da una particolare angolazione, che
per certi aspetti risulterà un’angolazione privilegiata, di tutto rispetto, che ci consentirà di leggere e
capire meglio il più complessivo movimento della transizione. Ci consentirà di comprendere
importanti passaggi, e zigzag, configurazioni specifiche della classe borghese, del suo reale
carattere di classe ed il carattere di classe del suo dominio e del rapporto che tende a costruire con le
classi subalterne ed il movimento di unità e lotta che la lega alle vecchie classi feudali e quindi i
limiti teorici, concettuali della sua natura di classe. Questi elementi ci erano in verità già noti, Marx
ed Engels li avevano ben tracciati, ci erano già noti dal Movimento dei Ciompi, ma li leggevamo
come tratto secondario, non ci davamo il giusto risalto, che invece ci consente questa angolazione
privilegiata di lettura.
Per fissare le incapacità di sfruttare la decadenza spagnola, dobbiamo fermare l’attenzione sulla
composizione organica ( classi, movimenti di capitali e processo produttivo, sistema economico e
sistema politico ) della società meridionale nell’epoca spagnola, ossia nel Seicento.
La storia del popolo e della società meridionali nel periodo preso in esame: 1540-1660 è
caratterizzato dalla lotta contro il dominio straniero, ossia nella condizione di uno Stato e di un
paese sottoposto allo sfruttamento ed all’oppressione di Stati stranieri e quindi in una condizione
coloniale e nella fase della nascita e formazione degli stati capitalistici.
Entro questi esatti e precisi ambiti si sviluppa la storia e la lotta del popolo meridionale, non
dissimile da quella del resto d’Italia.
E’ entro questo quadro di forte condizionamento e di più forze: Spagna, Francia, Inghilterra,
Austria, agenti sul terreno del meridione, che viene a snodarsi il periodo storico che abbiamo preso
in considerazione: 1540-1660.
Dopo aver assistito al consolidamento della forza spagnola: dalla sua unificazione fino alla
costituzione del vasto impero, che caratterizza il periodo 1440-1540, il periodo in esame vede il
consolidamento di questa forza e l’inizio del suo declino, che caratterizza tutta la seconda metà del
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XVI secolo. Il XVII secolo vede il suo declino e l’ascesa di nuove forze: la Francia, l’Inghilterra,
l’Olanda e l’affacciarsi dell’Austria che proromperà verso la fine del XVII secolo. Il XVII secolo
vede l’affermazione forte del dominio inglese sull’Olanda, in quanto protettorato, sul Portogallo e
l’ingerenza nel regno di Napoli ed il controllo sostanziale della Sicilia e quindi il dominio del
Mediterraneo, ove la politica piratesca vede l’Inghilterra tirarne le fila ai danni della debole marina
napolitana; accanto a questa ed in lotta la forza francese con il dominio francese sulla Spagna e sul
Mediterraneo attraverso il controllo della casa Savoia e l’isola della Sardegna, dove il controllo
britannico del Portogallo è in funzione del bloccare l’affacciarsi della Francia sull’Atlantico e lo
sviluppo dell’Austria in funzione del blocco francese verso l’Europa continentale e dell’Olanda in
funzione antifrancese ed antiaustriaca e della Francia in funzione antiolandese; quello russo in
funzione dello sviluppo austriaco sui Balcani; mentre il controllo della Turchia ha la funzione di
rafforzare la presenza, l’egemonia ed il controllo del Mediterraneo e arginare il ruolo in questo
bacino del regno di Napoli. Questo dal lato dell’Inghilterra, mutas mutandis gli altri Stati: Olanda,
Francia, Russia, Austria. Il XVII secolo vede così queste due forze contendersi il Mediterraneo e
l’egemonia sull’Europa. Il periodo in esame quindi vede nella prima parte: 1540-1600 l’ascesa e
consolidamento della forza spagnola; nella seconda parte 1600-1650 il declino di questa forza e
l’ascesa di Francia, Inghilterra ed Olanda; il terzo periodo 1650-1799 l’affermazione incontrastata
di queste due nazioni e la costruzione dell’equilibrio europeo più complessivo. La fase chiave da
tenere saldamente in pugno, da comprendere bene in tutti i suoi zigzag come ben si vede è proprio il
periodo 1600-1650.
Il periodo preso in esame è cioè quello di genesi e formazione degli stati borghesi europei e
dell’Europa borghese più in generale ed in quanto tale consente di comprendere le più generali linee
di sviluppo non solo dell’Europa, ma degli stessi suoi singoli Stati: Italia, Francia,, Germania,
Inghilterra, Olanda, Spagna, Portogallo, Russia.
Le condizioni generali entro cui si sviluppa il processo rivoluzionario borghese in Italia sono
similari più a quelle olandesi, che a quelle francesi ed inglesi. Sono cioè più similari a quelle
dell’indipendenza nazionale, ossia alle condizioni della lotta che si identifica con l’indipendenza e
l’unità nazionali. Le condizioni generali sono rapportabili alle più generali condizioni di una
colonia. La differenza sostanziale è nella presenza e formazione di una borghesia compradora,
legata cioè allo sfruttamento e l’oppressione del proprio paese, che vive di quelle rendite e di quella
espoliazione. Questa classe non è la classe nobiliare-feudale, ma non è neppure la borghesia
nazionale, ha interessi che la legano alla borghesia nazionale ed in quanto tale è per una autonomia
maggiore dallo Stato colonizzatore, ma ha interessi anche con questo Stato, per cui è interessata ad
un rafforzamento ed estensione di questa situazione coloniale dalla quale trae guadagni, potere e
prestigio sociale ed economico.
Questo è il dato più generale.
Nel tratto specifico: c’erano settori della classe borghese italiana, in modo particolare quella avente
origine dai “ Comuni”, ossia quella mercantile-finanziaria, e quindi di Firenze, Pisa, Genova,
Venezia, Siena, che dopo la grave crisi di sovrapproduzione della metà del XIV secolo, che
determina lo sviluppo del Comune nella Signoria e poi nel Principato, sposta sempre più parti
consistenti dei suoi capitali dalle operazioni mercantili e produttive a quelle speculativo-finanziarie,
sovvenzionando cioè la formazione degli Stati nazionali: Francia, Spagna, Inghilterra e che diverrà
l’asse strategico di azione a partire dalla Pace di Lodi del 1454. Questa agisce da forte ostacolo a
qualsiasi azione di unificazione nazionale o di unità tattica per far fronte al comune pericolo,
sosterrà invece ora questo ora quello Stato straniero a seconda di quale casa regnante; questo o quel
“ Comune”, questa o quella famiglia, ne sovvenzionerà gli ambiziosi progetti di sviluppo ed
egemonia.
. Questo periodo evidenzia un dato: la sconfitta ed il decadimento generale della società
meridionale, da cui essa non si riavrà più – e tale per l’intera fase storica della proprietà borghese
dei mezzi di produzione – si coniuga saldamente con il più generale decadimento prima e ruolo
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comunque e sempre subalterno della stessa Italia nel quadro delle società capitalistiche, dell’Italia
nella società borghese mondialmente intesa.
Svela i reali rapporti dell’intero processo di formazione degli stati nazionali, dell’intero processo
rivoluzionario borghese che trova nel Mezzogiorno un decisivo nodo di svincolo, un decisivo
crocevia.
Svela i rapporti che storicamente si sono venuti formando, e quindi ne stabilisce l’equilibrio ed il
movimento complessivo, tra la Francia, l’Inghilterra, la Spagna, il Portogallo, l’Olanda, l’Austria, la
Germania, l’Italia, la Russia.
Svela cioè essere il Meridione d’Italia, ancora qui ed ora, tutto dentro questo processo, e questo
equilibrio, dentro questo movimento complessivo, che determina il più complessivo sviluppo
dell’intera Europa in esame. Svela, cioè, che lo status del Meridione d’Italia è funzionale, è
condizione decisiva, dell’equilibrio e quindi della stabilità dei singoli Stati e della complessiva
Europa presa in esame. Svela, ancora, il ruolo della Sicilia nel mantenimento di questo status
meridionale. Questo l’intreccio complessivo di nessi ed interdipendenze relazionali, questo il
quadro complessivo entro cui va ad inscriversi l’intero movimento causa-effetto della storia
europea. Punto chiave del periodo preso in esame è la Rivoluzione Napoletana del 1646-1648,
nota anche come “ rivolta di Masaniello” o, più correttamente “ rivoluzione antispagnola”, ma la
cui esatta definizione è
“ Rivoluzione borghese nel Regno di Napoli “.
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Capitolo Primo,
Il dominio Spagnolo
Introduzione
Il periodo in esame è il periodo della lotta del popolo meridionale contro l’oppressione e lo
sfruttamento straniero, dominazione spagnola, e contro il regime feudale.
Sostanzialmente essa è una lotta per l’indipendenza nazionale e per la rivoluzione borghese. Si
caratterizza quindi per una lotta economica, politica, culturale, militare ed elabora risposte
economiche, politiche, culturali, militari.
Il meridione d’Italia, e l’Italia intera, sono ridotti ad una colonia spagnola. Le antiche città marinare
sono solo un lontano ricordo. La Toscana come Genova, i ducati di Modena e Parma, Urbino, ecc.
sono appendici della politica e degli interessi della corona di Spagna. Solo Venezia mantiene una
sua autonomia ed una opposizione alla dominazione spagnola in Italia. Singole famiglie affariste:
Medici, Spinola, Doria riescono, all’inizio del Seicento, a mantenere ancora una discreto decoro di
autonomia, in quanto finanziatori della corona spagnola o francese, ma esse stesse non sono che il
pallido ricordo, i simulacri, degli antichi splendori. La borghesia italiana di queste singole realtà,
antichi Comuni di un tempo, non ha una sufficiente base territoriale per attuare una riproduzione
allargata e quanto all’accumulazione originaria ha sperperato tutto in speculazione finanziari nel
Quattrocento e Cinquecento per finanziare e sovvenzionare, con manovre speculative, la nascita
degli stati spagnolo, francese, portoghese, inglese. Ma ora la ristretta base del suo mercato nazionale
non le consente un’accumulazione allargata tale da poter far fronte alle sempre più imponenti
esigenze finanziarie che i nuovi stati nazionali pongono. Finiscono così per occupare sempre più
ruoli marginali. In questa nuova realtà finiscono per divenire sempre più dipendenti, appendici,
della corona di Spagna. Questa borghesia, è incapace per limiti territoriali di estendere i nuovi
rapporti di produzione e per mettere al riparo la massa monetaria in suo possesso: insufficiente per
le nuove esigenze ma considerevole come patrimonio personale, attua un processo di
aristocratizzazione, per cui acquista titoli e rendite e feudi, continuando così per questa via, ma
ormai da una posizione subalterna, la finanziarizzazione della corona di Spagna Questo processo è
stato presente in tutti i paesi e per l’intera fase di ascesa della borghesia, basti pensare che un
racconto di Voltaire si basa appunto nel narrare di due famiglie borghesi di cui una si era infeudata.
Il tratto decisivo della borghesia italiana è, invece, la sua natura compradora, in queste esatte
condizioni il processo di transizione di fasce ricche di borghesi che transitano nella classe nobiliare
costituisce la decapitazione dell’intera classe borghese, giacché l’arricchimento dei primi avviene
immiserendo e depauperando l’economia e l’intera classe borghese, non avendosi un processo di
riproduzione allargato in grado di produrre una massa sempre maggiore di ricchezza nazionale, il
processo di arricchimento avviene attraverso l’inaridimento delle fonti della ricchezza ed attraverso
una diversa ridistribuzione della ricchezza esistente.
Ora è proprio questo esatto, preciso, tratto di colonia della corona di Spagna e di borghesia
compradora che la storiografia borghese italiana ed europea ha rimosso: l’italiana si è messa i
vestiti della festa, dandosi ben altra genealogia e quella europea per non urtare suscettibilità
altrui; in verità già la romana, riscrisse la sua storia, rimuovendo la fase del dominio etrusco,
come aveva fatto l’ateniese: pratica consueta, insomma. Ma se è pratica consueta sul piano
dell’ideologia, non lo può essere sul piano della ricerca scientifica storica. Ed invece gli storiografi
borghesi hanno finito per leggere per dato scientifico proprio ed esattamente quell’operazione
ideologica; certo è dura dire al divenuto signore il suo essere stato servo. Dice il Manzoni nei suoi
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" Promessi Sposi", allorquando parla del padre di fra’ Cristoforo, più di quanto crede. Ma poi, ed
in verità, quell’operazione ideologica ha trovato vesti con cui coprire le sue nudità. Croce è cioè
proprio ed esattamente quella ‘ raffinata’ operazione ideologico-culturale, che già era stata
impostata dal De Sanctis, tramite la quale viene imbellettata la miseria, la povertà, morale, prima
che intellettuale, della borghesia meridionale ed italiana con le auliche parole di “ Spirito”, “
Idea”.
§ 1. La Spagna
La stessa Spagna basava le ragioni della sua esistenza sul mantenimento di un regime
semifeudale, aristocratico-nobiliare, soffocando la sua stessa borghesia e favorendo l’aristocrazia
nobiliare. Lo stato spagnolo era cioè il comitato d’affari dell’aristocrazia nobiliare. Al contrario
della maggior parte delle monarchie europee, affermatesi appoggiandosi sulle forze borghesi della
città per piegare o almeno ridurre il potere feudale, la monarchia spagnola aveva rafforzato il suo
assolutismo non con l’aiuto della borghesia, ma combattendo e schiacciando questa, rappresentata
dai " comuneros", sconfitti definitivamente e sanguinosamente nella battaglia di Villabar, il 23.
aprile. 1521. I " comuneros", appoggiati dalle plebi, avevano sollevato intere città con a capo
Toledo, unitesi in una Lega diretta da una "junta", che era in effetti il governo rivoluzionario. Per
mesi era durata la sollevazione, che aveva visto borghesi e popolani uniti. I nobili castigliani ed i
loro seguaci sconfiggendo e sterminandoli a Villabar, sconfissero le città che rappresentavano il
movimento borghese spagnolo, sconfitto il quale fu sconfitta la Spagna, la sua parte più vitale.
Nonostante il 1559, che segnò l’apogeo della Spagna feudale, quel seme di sangue che era stato
Villabar, diede i suoi frutti amari, portando la Spagna alla decadenza, venendo meno la classe
borghese, l’unica in grado di dirigere i nuovi processi e condurre così la Spagna sulla strada del
progresso. Ed è proprio Carlo V, tanto decantato dalla storiografia meridionale, il boia di
Villabar. La struttura feudale spagnola era stata fissata in maniera definitiva, incementando la
società spagnola e condannandola alla decadenza, da Carlo V con un decreto specifico fin dal
1520.
In questo processo di stabilizzazione nobiliare si salda, e salda a sé, le proprietà e le rendite della
curia romana e quindi la stessa Curia, che si troverà schierata a tutto campo, da lì a poco, contro la
Riforma protestante. Trascina così nella decadenza le stesse classi dello stato romano, inchiodate
irreversibilmente ad un ruolo di retroguardia, di braccio armato ideologico e culturale delle
posizioni più arretrate della società. Sarà dalla corona di Spagna che gran parte della curia romana e
del suo governo, il sinodo, che trarrà le sue ricchezze: rendite e feudi e che troverà nelle armi
spagnole le ragioni della sua ricchezza. In sostanza la decadenza della curia romana si manifesta da
qui, quale controfigura spettrale delle ragioni della potenza mondialmente dominante. Sarà cioè la
controfigura spettrale delle ragioni della corona di Spagna, allora potenza mondiale, e
l’Inquisizione, e tutto il suo apparato truce e folle, lo strumento per l’affermazione delle ragioni
della corona di Spagna.
Merita qui di fermare questo elemento di subalternità della curia romana agli interessi della
potenza dominante che di volta in volta nel corso della storia si affermerà.
Stritolerà la Spagna, nella disperata lotta contro la decadenza, l’Italia tutta e quindi anche il
Mezzogiorno, trascinandoli con sé nella decadenza e ad un ruolo di subalternità, che caratterizzerà
tutto il corso borghese della storia di questi paesi, giacché, in una realtà borghese, diversamente
nelle precedenti società, meridione ed Italia tutta sono intimamente saldati: la decadenza dell’uno
comporta, in modi e forme diversi, sempre la decadenza del tutto. Questo è determinato dalla
configurazione geografica di questo territorio e dal ruolo che storicamente è venuto a determinarsi
del commercio e della proprietà.
Il periodo preso in esame mostrerà bene, ed in maniera forte, questo legame inscindibile.
§ 2. La dominazione spagnola.
Con la " scoperta" delle Americhe il Mediterraneo viene a perdere la sua centralità,
determinandosi uno spostamento dell’asse commerciale e viario dal Mediterraneo all’Atlantico.
Consequenzialmente ciò comporterà la centralità di quei territori che si affacciano sull’Atlantico:
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Portogallo, Spagna, Inghilterra, Francia, Olanda ed una decadenza per quelli più distanti, quali i
paesi rivieraschi afro-asiatici mediterranei, di qui poi la decadenza della stessa cultura araba. La
particolare configurazione geografica dell’Italia ne fa retrovia centrale, decisiva del più
complessivo schieramento avanzato dell’impero spagnolo. Il controllo del Mediterraneo resta un
momento centrale, la perdita di questa comporta un più generale indebolimento e di questa retrovia
è il mezzogiorno d’Italia il punto nevralgico assieme al territorio di Milano, che viene a trovarsi sul
fronte di guerra, di quella guerra che vide appunto le forze borghesi in lotta tra loro per il
controllo dell’Europa continentale, la Guerra dei Trent’anni ( 1618-1648). Il territorio di Milano
fu più retrovia militare del teatro di guerra e Genova porto di appoggio, ma il meridione ne era la
riserva forte e decisiva.
Quando si studia il meridione d’Italia lo si legge nella sua staticità e non dentro questo più
complesso rapporto di nessi ed interrelazioni, fuori cioè da più complessivi equilibri europei che
nel Mediterraneo trovano un loro equilibrio e consequenzialmente si riflettono sul territorio
meridionale. Vedremo nel corso di questo lavoro come si vengono strategicamente a definire tali
equilibri e come essi si riflettono su questo territorio e come movimenti e mutamenti di equilibri su
questo territorio si ripercuotono e ridisegnano altri equilibri, consentendoci così di intelligere i più
complessivi movimenti delle classi della società meridionale e quindi la sua sessa storia.
Occorre sempre tenere ben ferme le caratteristiche del sistema di produzione capitalistica, che lo
differenziano dai precedenti sistemi di produzione. La peculiarità, come si sa, è la produzione di
merci al fine dello scambio ed è questo che, nel suo sviluppo salda l’intero globo terrestre in un
unico grande mercato, in un unico grande movimento. Questo significa che mentre nella società
schiavista e feudale poteva aversi una lettura di singole aree, con il sistema di produzione
capitalistico questo non è più possibile. Occorre, cioè, intelligere il movimento complessivo, che si
esalterà nei punti nodali dello scambio e della produzione e stempererà gli altri. La storiografia
borghese, anche nei sui punti alti, stenta ad abbracciare questa visione d’insieme dei processi
storici, attenendosi sostanzialmente ancora al lavoro monumentale di Pierre Renouvin, ‘ Storia
delle relazioni internazionali’. Ma anche in questo campo, ed è quello più inamovibile e statico,
iniziano a svilupparsi nuovi correnti di pensiero storiche, che tendono a leggere il movimento
complessivo. Approdano così, per vie tortuose a quella visione dialettica della storia che già Marx
ed Engels avevano tracciato. E’ questa ancora una storiografia materialista che si vergogna e che
non sa trattenersi dal fare piedino alle categorie crociane della storia ed in questo processo
contraddittorio si fa strada. Da questo punto di vista un buon lavoro è il lavoro di Bonanate ed
altri, ‘ Le relazioni internazionali’, ai quali occorrerebbe chiedere più audacia di pensiero.
Stritolerà la Spagna e l’Italia tutta, si diceva, vediamo come.
La dominazione spagnola in Italia aveva nell’Italia Meridionale il suo punto di forza, costituiva
la sua riserva. Tutta la strategia tendente a far ruotare attorno agli Asburgo i principi e ducati
italiani aveva a base, perno e riserva proprio ed esattamente il regno di Napoli. Assieme alla Sicilia
costituiva la grande piazzaforte nel Mediterraneo e retrovia salda della marina spagnola oltre
Atlantico.
L’esigenza spagnola era quella di stabilire un ferreo controllo sul Regno e dall’altra non impegnare
troppe forze, avendole dislocate in varie parti del mondo.
La storia del regno di Napoli del Tre-Quattrocento dimostrava abbondantemente come del popolo
meridionale ci si poteva fidare ben poco ed ancora meno dei baroni, sempre pronti a dar di piglio tra
di loro e contro tutti, infidi, “ infedelissimi”. Ma era tramite loro che la corona spagnola poteva
controllare e dominare la massa del popolo meridionale. Se la Chiesa era un baluardo della
dominazione, assai poco ci si poteva fidare del basso clero, sempre pronto a brigare con popolani,
contadini e briganti. Il dominio spagnolo nel Cinquecento si caratterizzava per la lotta contro la
Riforma e la Controriforma consequenziale, che non sarà indolore nel regno, che già a partire dal
1545 si opporrà all’introduzione dell’Inquisizione e successivamente sosterrà i dominicani di san
Domenico Maggiore, san Pietro Martire ed altri conventi nella loro resistenza alle direttive di
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Trento, trovano nella borghesia cittadina e delle campagne e nel popolo meridionale valido
sostegno politico e militare.
Il problema della stabilizzazione della realtà meridionale è l’asse centrale della politica asburgica:
stabilizzare il regno di Napoli per rendere più salda, forte, la retrovia ed essere così in grado di
estendere e rafforzare l’egemonia ed il controllo su tutta la penisola posta ben al centro del
Mediterraneo, rafforzando così la più complessiva retrovia dell’impero asburgico.
Si trattava di coniugare due elementi:
a. saldare l’aristocrazia nobiliare meridionale agli interessi strategici spagnoli,
b. saldare alla corona asburgica le varie case e principati e ducati italiani.
Per fare questo la corona spagnola sviluppa la politica della concessione delle onorificenze, titoli
nobiliari legati a concessioni di feudi, pensioni, che gravavano tutti sul Regno di Napoli. Questo
consente nel contempo di spezzare quell’unità eversiva del baronaggio meridionale, e così parte di
questi, spodestati, ridimensionati sono spinti in quel magma di opposizione e lotta, tra quegli “
eretici” di cui parla Villari. In queste condizioni la realtà economica, civile, sociale meridionale è
proprio ed esattamente “ riserva”.
Il dominio spagnolo in Italia si attua in due stati: il regno di Napoli ed il ducato di Milano, tra i due
vi sono: lo stato della Chiesa, il ducato di Urbino, il granducato di Toscana. il ducato di Modena e
Reggio, il ducato di Parma, il ducato di Mantova, le Marche di Monferrato, la repubblica di
Genova, la repubblica di Venezia, il ducato di Savoia ed infine gli stati di Monaco, Finale,
Sabbioneta ( posto tra Parma e Mantova), Correggio, Piombino, Portolongone. In questo quadro
assumono un ruolo decisivo per la posizione militare: Sabbioneta, oltre Piombino e Portolongone
sul Tirreno e il ducato di Monaco dei principi Grimaldi. La politica della corona spagnola è quella
di legare a sé questi principati e ducati, in modo da estendere la sua presenza su tutta la penisola. E’
evidente la necessità di coprire il punto più avanzato: Milano, congiungendolo con il meridione,
rafforzando così la posizione di Milano quale punto di collegamento con l’Europa continentale e
tramite Milano avere un punto di collegamento con il dominio nelle Fiandre, ossia sullo sbocco
sull’Atlantico ed il controllo della Lega Anseatica. La politica spagnola consiste, per mantenere la
fitta rete di alleanze, amicizia, presenza militare: guarnigioni, presidi, ecc. nell’elargizione di feudi,
pensioni, collari ed onorificenze cavalleresche. Tutte queste hanno però alla base la concessione
di un feudo, di una pensione, di un titolo poi da mettere in vendita che afferisce sempre al Regno
di Napoli.
Il Regno di Napoli costituisce cioè la grande retrovia finanziaria e feudale della politica di alleanze
ed elargizioni reali della Corona Spagnola. La politica spagnola mira inoltre ad una intelligente e
sagace azione di assorbimento degli strati più ricchi borghesi proprio attraverso questa politica di
concessione/vendita di titoli e feudi, consentendo così di accostare ai mercanti ed ai banchieri
acquirenti di feudi nei domini meridionali anche i signori ed i principi d’Italia ed ottenere infine di
legare alle proprie sorti proprio quelle forze finanziarie in grado di soccorrere le fallimentari casse
spagnole.
Duchi, marchesi, principi e baroni meridionali, ma anche genovesi, fiorentini, veneziani, del
principato di Monaco, famiglia Grimaldi, dei Savoia, dei Gonzaga, ecc. in un intreccio con le casate
baronali meridionali: tutti hanno interessi precisi, esatti, materiali, nel regno di Napoli e quindi
interessati al mantenimento dello status quo, ossia al dominio spagnolo nel Regno di Napoli. Si
assiste così a forme di integrazione dei principi e dei signori italiani all’interno del complesso
dinastico, la circolarità delle carriere di magistrati e di uomini di governo, le strategie di
acquisizione degli onori da parte delle famiglie aristocratiche, il movimento di uomini e capitali,
oltre che di idee e progetti politici, attraverso uno spazio unitario che comprendeva Madrid, Roma,
Napoli, Palermo, Milano, Genova, Firenze, e le capitali dei piccoli ducati padani: Monaco,
Finale, Sabbioneta, Correggio, Piombino, Portolongone ed inoltre: Marche di Monferrato,
Ducato di Parma, Ducato di Mantova, Ducato di Urbino, Ducato di Savoia. L’integrazione
dinastica vede innumerevoli famiglie italiane avvicinarsi nel XVII secolo ai re Cattolici per
conseguire titoli, croci cavalleresche pensioni feudi, insomma tutti quegli onori di cui dispone
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il sistema imperiale asburgico. Gran parte di questa disponibilità viene ad essere ritagliata
all’interno di quella che è la riserva umana, finanziaria e feudale della monarchia: il Regno di
Napoli.
I magnifici signori di Lucca, gli Este duchi di Modena ed i Farnese di Parma, i Gonzaga di
Mantova, i Cybo di Massa e Carrara, i duchi di Correggio, della Mirandola ed i Malaspina, i
Valditaro, precari signori dei feudi imperiali sparsi tra l’appennino ligure e quello parmense, si
inchinano tutti alla suprema autorità del re, ricevendone in cambio onorificenze, mercedi e pensioni
oltre che numerosi feudi e doviziose rendite nel Regno di Napoli.
Se i Medici acquistano Firenze e Siena, se Genova riprende il controllo della Corsica, se i
Savoia si sono insignoriti di Asti ciò è avvenuto essenzialmente per merito della Spagna, che
non solo ha favorito l’espansione territoriale degli stati suoi alleati, ma è spesso intervenuta in
aiuto dei loro reggitori.
Questa politica trae profitto dalle difficoltà finanziarie che travagliano i principi ed attua una
politica di sostegno nei loro confronti, che dirotta, soprattutto verso le corti padane, aiuti economici
sotto forma di sussidi e pensioni oltre che risorse di altro segno quali onori, dignità ed uffici. In
questo modo si legano vieppiù i principi ai destini ed alle strategie della corona attraverso risorse
quali onori, dignità ed uffici, titoli, feudi, pensioni; attuando così un elevato grado di integrazione
dei signori italiani: Francesco Maria II della Rovere, duca di Urbino, è fedele cliente specie da
quando aveva ricevuto una pensione di 3000 scudi. Ranucci I Farnese, duca di Parma, si
dimostra vassallo ideale. Vincenzo I Gonzaga, duca di Mantova. Cesare d’Este, duca di
Modena Duca della Mirandola, si era messo al servizio del re permettendo arruolamenti, transiti e
raccolti di viveri nei suoi feudi ricevendone pensione di 6000 ducati, tratti sempre dal Regno di
Napoli.
La politica matrimoniale asburgica è un altro elemento per legare alle proprie sorti principi e
duchi: Cosimo de’ Medici, Francesco Gonzaga, Alfonso III d’Este, Francesco de’ Medici, Carlo
Emanuele di Savoia. Il duca di Savoia Carlo Emanuele contrae con Caterina, figlia di Federico II,
un matrimonio, benedetto da “ molti annui redditi assignati.. nel Regno di Napoli, oltre grosse
pensioni che prima del matrimonio gli si pagava nello stato di Milano, per tenerlo maggiormente
nella conservazione di quegli stati interessato”.
La piccola repubblica di Lucca è filospagnola per i cospicui traffici con Napoli, che interessano
soprattutto le sue famiglie patrizie oltre che per i benefici ecclesiastici che il re Cattolico, grazie
all’autorità di cui gode in Roma, riesce ad ottenere per quelle; il duca di Massa è nella clientela del
re e percepisce una pensione di 3000 scudi; a 12.000 scudi ascende la pensione corrisposta al duca
di Modena ed a 16.000 a quello di Parma, provenienti sempre da feudi e risorse del Regno di
Napoli.
Questi principi e nobili sono pervasi da una mentalità di redditieri più che di principi.
La repubblica di Genova i cui nobili possiedono innumerevoli beni, feudi e titoli nel regno di
Napoli sono legati alla monarchia da questi possedimenti e da ben precisi rapporti di ordine
finanziario, che avremo modo di vedere meglio nel corso di questa disamina. Emblematico per
comprendere bene il legame che salda questi principi alla corona di Spagna, tramite esattamente
l’utilizzo di quella che era la riserva materiale, ossia il regno di Napoli, è il caso di Sabbioneta.
Traiano Boccalini ricordava come la monarchia cattolica, dopo aver allungato la catena con la
quale teneva avvinta l’Italia con cinque anelli ( Piombino, Finale, Correggio, Porto Longone,
Monaco) si apprestava a forgiare un sesto anello impadronendosi di Sabbioneta. Per il matrimonio
di Anna de Medici con Medina, fortemente voluto anche dalla madre e dal fratello, il cardinale
Ippolito, si muove tutta la famiglia Aldobrandini a superare l’opposizione di Isabella di Gonzaga.
Alla morte di Anna, Sabbioneta passa alla discendenza ispano napoletana dei Gonzaga, che viene
foraggiata economicamente con pensioni imposte su alcune fonti di entrata collocate nel Regno
di Napoli Oltre all’avere Isabella Gonzaga 30.000 ducati di entrata nel Regno di Napoli in tanti
stati suoi patrimoniali; il figlio Antonio, principe di Mondragone, sposa Elena Aldobrandini, nipote
di Clemente VIII; la nipote Anna – per la morte dei genitori e del fratello Giuseppe – si trova erede
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della casa Carafa, ricchi di stati e di titoli. Mentre Filippo IV spinge perché Anna Carafa vada in
sposa a Giovan Carlo de’ Medici, fratello del granduca di Toscana.
Quello che qui va fermato è il rapporto: Sabbioneta-Gonzaga-Aldobrandini- Clemente VIII- CarafaDe Medici alla carica di viceré a Napoli. Va cioè fermato l’intreccio tra alcune grandi casate feudali
attorno a Sabbioneta: nodo militare nevralgico. Il dato elementare in sé getta un fascio di luce
decisivo sul più complessivo rapporto che univa le varie casate e che agivano sul territorio del
regno di Napoli, e che agirà sulla vita più complessiva del regno e quindi delle classi, del
movimento delle classi e quindi della storia meridionale ed italiana Ossia: guarnigioni, matrimoni,
titoli, onori e pensioni, costituiscono, in un intreccio inestricabile il complesso e solido fondamento
dell’egemonia della grande monarchia sulla penisola. Di eccezionale rilievo sono i legami di
dipendenza di tipo feudale e finanziario con il Regno di Napoli, essi costituiscono il tramite
attraverso il quale numerosi principi, a cominciare da Isabella e Anna, " doveranno dipendere
sempre dalla volontà de’ spagnoli per ogni ragione."
Il patronato regio viene così a configurarsi come lo strumento più idoneo a realizzare un
collegamento tra gli apparati del governo centrale ed i ceti dirigenti territoriali, che se lascia loro le
tradizionali forme di controllo sui quadri e sulle forme locali del potere, anzi ne potenzia l’àmbito, li
inserisce in un circuito imperiale, che prevede per i servitori della corona una serie di ricompense
e di gratificazioni, che hanno una valenza extra locale, extra italiana addirittura, circuito imperiale,
appunto!. La duplice funzione di quel patronato emerge così chiaramente: causa ed effetto
dell’indebitamento nobiliare e della debolezza statuale.
Ancora una volta il Regno di Napoli, con i suoi feudi e con i titoli nobiliari su quelli appuntati,
si presenta ai nostri occhi come la principale destinazione di coloro che, provenienti
dall’intera area italiana, aspiravano ad inserirsi nel sistema degli onori asburgici e per questa
via, miravano a sancire un’ascesa sociale o a consolidare la propria posizione all’interno delle
élites aristocratiche.
La Spagna ha bisogno del sostegno di questi principi “ indipendenti” e lo acquista facendo piovere
su di essi onori e pensioni; i principi, a loro volta, si servono della monarchia per creare e sostenere
proprie clientele oltre che per rafforzare una legittimità dinastica sottoposta, a volte, a contestazioni
della più varia natura. Il flusso di denaro che la Spagna indirizza verso i forzieri dei principi e delle
famiglie italiane più ragguardevoli - ossia pensioni, rendite, ecc. che ha elargito ad esse - è tale da
impegnare quasi totalmente i 400. mila scudi che annualmente ricava dai domini in Italia; alle
pensioni che vengono corrisposte ai principi indipendenti al fine di trattenerli nella clientela ed
incoraggiarli alla fedeltà, se ne aggiungono numerose altre destinate a potenti famiglie
aristocratiche, quelle romane degli Orsini, Caetani, Colonna, tutte suddite spagnole per i
numerosi feudi posseduti nel Regno di Napoli.
La notevole disponibilità di risorse in denaro ed onori, in gran parte concentrate nel Mezzogiorno di
“ rifeudalizzazione”, facilita enormemente il compito di coloro che da Madrid dirigono la politica
italiana della grande monarchia visto che molti nobili e cortigiani nutrono il desiderio di diventare
vassalli di Sua maestà come titolari di un feudo nel Regno o di godere di pensioni e rendite
napoletane.
Le risorse materiali che si accompagnano agli onori, provengono non dal cuore della monarchia,
bensì dalla sua grande riserva feudale, il Regno di Napoli.
Milano, Napoli, e la Sicilia diventano il vivaio di cavalieri italiani: famiglie di origine ispaniche,
ma profondamente italianizzate, come quelle dei signori siciliani, si accompagnano
nell’acquisizione del Tosone, ad esponenti del patriziato milanese ed a prestigiosi feudatari
meridionali. Numerosi baroni romani, per il possesso di cariche e di rendite nel Regno sono
perfettamente inseriti nella realtà economica e sociale napoletana e si potevano considerare tra i
vassalli più fedeli della monarchia: i Colonna di Palliano, Caetani di Sermoneta, baroni romani, ma
con forti e radicati interessi nel Regno di Napoli, un ceto nobiliare, questo, che ha distribuito i
propri interessi tra Milano, Roma, Napoli e Palermo. E dove un’accorta politica matrimoniale salda
grandi casate: le relazioni politiche e familiari si estendono anche in direzione delle riviere liguri.
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Federico, fratello di Maria, che ha sposato Ercole Grimaldi di Monaco, era marito di Placida
Spinola; sua figlia, Polissena Maria, era moglie di Giovanni Andrea Doria, “ barone” genovese,
principe di Melfi, protonotario del Regno di Napoli.
Quello che qui conta fermare è il rapporto che viene a costituirsi tra varie grandi casate, che qui
coinvolge i principi di Monaco, Grimaldi- Doria- Spinola ed i Grimaldi per i feudi che
possedevano nell’Italia meridionale, data l’inconsistenza territoriale del principato dei
Grimaldi
Un altro punto da fermare è la trasversalità che unisce il regno di Napoli con il governatore di
Milano. Lo si è visto per i Gonzaga, vi ritorna con … Carlo d’Aragona, duca di Terranova, barone
siciliano, governatore di Milano nel 1588 .. e con Filippo Caetani, principe di Caserta, governatore
di Milano tra il 1660 ed il 1662. Anche qui una casata romana, il regno di Napoli e!! il
governatorato di Milano.
Dietro la presunta spontaneità del gesto del sovrano si nascondono esborsi di denaro, ma anche qui
va operata un’attenta distinzione di periodi, altrimenti si finisce per non cogliere il movimento della
decadenza spagnola ed il lato servile, ottuso, dell’aristocrazia nobiliare e della borghesia
compradora italiane.
Vanno quindi distinti tre periodi del Seicento: 1585-1620, è quello della concessione di.. al fine di
quella strategia di legare le famiglie italiane; 1620-1650 il secondo periodo è quello che vede il
rafforzamento di quella strategia nella fase dell’inizio della decadenza spagnola e dei movimenti
rivoluzionari in Catalogna, Fiandre, Inghilterra, Francia, Portogallo e l’inizio della Guerra dei
Trent’Anni: qui i due momenti strategia politica ed esborsi si intrecciano; 1650-1700 è la fase della
crisi finanziaria e politica ed istituzionale, dell’arroccamento, della difesa chiusa da una parte e
dell’arraffare quanto più è possibile dall’altra;. In questa fase diviene prevalente la vendita dei
Collari, delle pensioni, dei titoli, delle pensioni per far fronte alle necessità dell’impero oramai in
disfacimento.
§ 2.1. Le forme
Le forme attraverso le quali queste casate italiane e meridionali venivano coinvolte erano
quelle delle onorificenze, o ordini cavallereschi ed a questi erano poi legati feudi e possessi feudali.
Ma la corona di Spagna ne seppe fare un uso intelligente ed oculato. Occorre distinguere infatti il
toson d’oro, i vari ordini cavallereschi ed il grandato per le onorificenze; e poi distinguere le
pensioni, gli ayudas de costa. La corona di Spagna seppe cioè ben giocare con gli aspetti più
deleteri del formalismo seicentesco, quello che poi tanto colpirà gli storiografi ufficiali borghesi,
sapendo ben distinguere, dosare, bilanciare incarichi ed onori creando così una schermatura fitta di
divisioni da una parte e di unione dall’altra: sentendosi così tutti dentro il grande onore di titolati di
Spagna, oltreché interessati assai materialmente a questa dominazione, giacché da questi
dipendevano feudi, terre, rendite, pensioni, ecc.
Il grandato di Spagna costituiva la dignità di Grande di Spagna; serviva a definire una gerarchia in
cui ciò che contava non era la funzione di governo svolta o l’esercizio di poteri, ma il possesso di un
onore e di una dignità. Il grandato si accompagnava a non sottovalutabili vantaggi di ordine
materiale. Ne rimasero esclusi quei principi sovrani di area padana e della zona tosco-emiliana,
mentre largo posto nei suoi ranghi venne riservato alla nobiltà dei due regni meridionali ( di Napoli
e di Sicilia ) ed alle potenti casate romane, che confermavano, così, la loro natura di gruppo di
confine a cavallo tra due lealtà e due forme di giurisdizione diverse. E questo ben segna il ruolo
subalterno di questi principi “ indipendenti”. Attorno a quel prestigioso titolo si costruivano
strategie familiari, si allacciavano rapporti matrimoniali.
Ora le funzioni di potere e l’esercizio del potere non sono immediatamente collegabili con il potere.
In generale questi sono quadri organici della classe dominante o alti quadri, che esprimono gli
interessi organici della classe dominante. Il grandato stava ad indicare proprio ed esattamente
l’appartenere non solo e non tanto alla classe nobiliare, quanto di costituirne l’avanguardia di
quella classe, che in quanto tale si rapportava e centralizzava attorno alla massima espressione del
sistema nobiliare-feudale, ossia il re. In quanto tale era quella che esprimeva gli indirizzi generale
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e determinava le scelte, poiché svolgeva funzione di governo od esercizio di poteri provvedeva ad
applicare, elaborare, ecc. I viceré, infatti, con le loro " relazioni" potevano agevolare o ritardare la
concessione del grandato. La " relazione" metteva in evidenza il ruolo che ciascun nobile o alcuni
nobili avevano svolto nella direzione del viceregno e quindi il contributo che essi sono in grado di
dare, la sperimentazione della loro capacità di saper leggere oltre i propri interessi " particulari" e
di porsi come dirigenti più complessivi e quindi di avere una visione generale, organica, di classe
ed in base a questi contribuire alla direzione del viceregno, in questo caso. Ma questo conferma la
natura di Stato maggiore della classe nobiliare-feudale del grandato. Tutta una storiografia ha teso
a presentare i baroni meridionali vassalli a differenza invece dei principi indipendenti italiani, ma
questa lettura non trova substanzialità alcuna. I principi indipendenti, come già da qui si va
profilando, non erano meno vassalli dei baroni e nella misura in cui traevano le loro rendite e feudi
nel Regno di Napoli li rendeva doppiamente vassalli: avevano quei titoli e rendite nel Regno
proprio affinché si legassero come vassalli alla Corona di Spagna ed in quanto meno ricchi erano
meno in grado di opporsi o costituire opposizione, erano cioè pezzenti, che non avevano interesse
alcuno se non di continuare a vivere di quelle rendite e pensioni ed in questa logica rentiers
costituivano la peggiore massa di manovra, la peggiore massa reazionaria, proprio della Corona
di Spagna.
§ 3. Centralità del Regno di Napoli.
Viene qui profilandosi, in concreto, allora la centralità del regno di Napoli nella più
complessiva strategia politica, economica e militare dell’Impero spagnolo; un ruolo, cioè, non
marginale o settoriale ma centrale nella più generale strategia dell’Impero spagnolo. Su tutti gli stati
italiani emergeva il regno di Napoli, il cui contributo alle sorti della dinastia era stato sin dai primi
anni del Cinquecento, e tuttora continuava ad esserlo, di eccezionale rilievo, come è testimoniato
dalla lettera di confidenza scritta dal re Cattolico, Filippo IV, al viceré di Napoli, conte di Onate,
intorno al buon governo di quel regno, maggio-giugno 1648: “ Quel gran paese era infatti -–
sempre quella viva miniera che ci provvide così d’Esercito, per far le guerre, come dei Tesori per
mantenerle. Privi di questo Regno, siamo più che sicuri di non poter né difendere, né sostenere;
l’armi nostre non riportano giammai vittoria, che il ferro Napolitano non mietesse le palme; la
stima che fanno della Nostra Corona tutti i Potentati d’Europa e la riverenza che ci portano i
Principi Italiani ci proviene dal solo regno di Napoli, lo riconosciamo.” Il possesso del Napoletano,
“ la più nobil parte d’Italia”, è tassello di fondamentale importanza ai fini del controllo di tutta la
penisola da parte della Spagna.
Il regno di Napoli con le sue dodici province, ciascuna delle quali superava in estensione ed in
ricchezza molti principati indipendenti italiani, era così diventato per gli Asburgo il grande
serbatoio feudale dell’intera penisola. Le vicende dei primi decenni del Cinquecento, i processi di
mercantilizzazione del feudo, la rifeudalizzazione e l’unificazione degli stati della penisola
all’interno del sistema imperiale asburgico avevano consentito a Carlo V ed ai suoi successori di
svolgere una politica che mirava non solo a garantire la coesione e la fedeltà delle aristocrazie
meridionali, ma ad incasellare entro una gerarchia riconoscibile di onori – ancora la lettura del lato
formale! – quelle famiglie di signori italiani che l’angustia dei loro possessi territoriali, “oscurità” o
l’origine cittadina dei loro titoli nobiliari rendevano difficilmente identificabili.
I Farnese, i Medici, i Cybo, i Ludovisi, i Colonna, gli Orsini, i Gonzaga, i Doria, gli Spinola, i
Savelli, per citare solo alcune tra le famiglie più eminenti, occupavano innumerevoli principati e
baronie nel regno di Napoli, partecipavano al grande banchetto delle clientele che ruotavano
attorno alla monarchia iberica ed alle sue inesauribili risorse.
Queste famiglie si intrecciavano ed interagivano con la nobiltà meridionale costituendo diversi e
sovrapposti circuiti, tessendo così in tutto il regno di Napoli una fitta rete di clientele, interesse di
famiglie nobiliari di tutta Italia. Ora è proprio ed esattamente questo complesso intreccio che
bisogna sempre considerare quando si esaminano le vicende del meridione d’Italia. Questo
elemento va coniugato con un altro, di cui poi nessuno parla, perché non visto e questo anche da
autori intelligenti: la centralità mediterranea entro cui iscrivere tutto il movimento
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contraddittorio che vede opposte Italia, Francia, Inghilterra e di riflesso queste tre e la
Germania e queste quattro ed i Balcani e la costa adriatica dei Balcani e le colonie afroasiatiche rivierasche del Mediterraneo. Se noi leggiamo il meridione d’Italia come parte
mediterranea d’Europa i processi e la storia più complessiva del processo borghese europeo
ed italiano appaiono molto più semplici e di chiara intellezione.
Ma fra tutte per quantità e qualità della loro presenza emergevano le famiglie genovesi alle quali
erano intestati innumerevoli feudi nel regno. I baroni genovesi avevano una non trascurabile
dimestichezza con il sistema feudale dal momento che possedevano feudi nell’Oltregiogo ed in
quella zona che vedeva quasi incrociarsi i confini del Milanese, della Toscana granducale e della
loro stessa repubblica. I Doria, a cominciare dal grande ammiraglio, erano conosciuti nelle corti e
nella corrispondenza come Principi di Melfi; i Grimaldi furono prima marchesi di Campagna e
poi principi di Monaco. Tutti i genovesi possessori di titoli e feudi nel regno entravano in un
circuito nobiliare ben più autorevole di quello che faceva riferimento alla loro qualità di “
magnifici” della repubblica di san Giorgio. Un titolo feudale meridionale consentiva di “ avere
seggia a palazzo”. Il desiderio di realizzare un più redditizio investimento dei propri capitali
muoveva i patrizi genovesi, i baroni romani e gli stessi principi indipendenti italiani ad intessere
strategie politiche, matrimoniali, finanziarie, che avessero come destinazione ultima l’acquisizione
di feudi nel regno meridionale. Senza trascurare gli aspetti più squisitamente economici della
questione: si pensi alle numerose concessioni di tratte di esportazione di cereali, soprattutto dai porti
e dai caricatori siciliani e pugliesi; il possesso di titoli e baronie serviva anche a rafforzare posizioni
di potere nell’ambito dello stato-metropoli, a coagulare risorse umane ed economiche che potevano
essere utilizzate in patria od a strutturare clientele alle quali si prospettavano carriere negli apparati
burocratico-amministrativi attraverso i quali si esercitava il governo dei feudi nel regno. Si veniva
così a chiudere il cerchio del controllo e della speculazione sulle ricchezze del regno.
Si può qui annotare che nel 1643 il granduca Ferdinando II chiede al viceré il permesso di
promuovere nel suo feudo abruzzese di Capestrano una leva di 500 uomini da trasferire in Toscana,
e che lo stesso granduca era signore feudale di Policastro, località distante quindici miglia dal porto
di Crotone, ove solevano fare scalo le galere medicee
Parimenti. I Serenissimi duchi di Parma e Piacenza nel 1565 prelevavano dai numerosi e popolosi
feudi che possedevano nel regno il 3,2% delle loro entrate e nel 1593 il 18,25% destinando a quei
luoghi appena l’1,8%. In concreto prelevavano da Parma e Piacenza nel 1565 101 mila scudi e nel
Regno di Napoli appena 5.040 scudi e nel 1593, trent’anni dopo, 141 mila scudi da Parma e
Piacenza e 61.256 scudi dal regno di Napoli. Essi in questo modo, si facevano promotori di una
politica che mediante un travaso di ricchezza dai feudi al ducato, dalla periferia al centro, dal sud al
nord della penisola tendeva a mantenere inalterata la pressione fiscale sui contribuenti di Parma e
Piacenza. Serenissimi duchi che a loro volta si legavano a famiglie baronali meridionali, come i
baroni Paolo di Sangro, principe di Sansevero, Cicco Loffredo marchese di Trevico, Mario del Tufo
marchese di Lavello venivano definiti nell’elenco dei feudatari meridionali servitori del “
serenissimo gran duca” di Parma e Piacenza. Ed era questa possibilità di travaso e di rapina – che la
corona consentiva al fine di legare queste famiglie e città al carro della sua politica - che spingeva
molti nobili forniti di considerevoli ricchezze ad acquistare titoli dal re di Spagna, fra costoro si
distinguevano i genovesi, ai quali la corona aveva venduto innumerevoli feudi nel Mezzogiorno.
Pure i nipoti dei pontefici erano molto interessati ai feudi meridionali: i Colonna e gli Orsini erano
da tempo fedeli casate, servitrici e parziales del re, i Barberini, i Pamphili, i Ludovisi, gli
Aldobrandini, famiglie pervenute tutte a grandi ricchezze, avevano acquistato innumerevoli beni
immobili, feudi e rendite nel regno di Napoli. Signori genovesi e baroni romani, il principe di
Monaco, il duca di Parma ed il granduca di Toscana, il signore del minuscolo ducato di Massa – i
Cybo- ed il principe di Piombino si muovevano tutti sugli immensi spazi feudali del
Mezzogiorno, essi legavano in questo modo, consapevolmente o inconsapevolmente, le sorti dei
propri paesi di origine a quelli della monarchia iberica
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I vantaggi per gli Asburgo erano molteplici: ricavavano molto denaro vendendo a quelli titoli e
feudi; in secondo luogo giungevano a disporre di " multos homines opulentos", che oramai,
ridotti a sudditi, potevano mungere a loro piacimento; in terzo luogo i possessi nel regno
obbligavano questi a seguire le direttive generali della politica degli Asburgo, a rispondere
sempre positivamente alle richieste di nuove contribuzioni finanziarie avanzate dal re. La
contropartita dell’essere diventati " sovranetti" era quindi data da una più soffocante tutela della
Spagna.
Le catene d’oro che tenevano avvinta Genova, gli interessi e benefici che spingevano principi e
signori italiani verso il regno di Napoli, non disgiunti dalla minaccia di sequestro spesso
spregiudicatamente in atto, dei beni feudali posseduti dai baroni forestieri al minimo segno di
divergenza della politica dei loro stati d’origine da quella di Spagna, definivano un complesso
pericoloso di relazioni che partivano da un centro che dispensava onori, riconosceva gerarchie, - e
queste appoggiate da rendite, feudi, pensioni, ecc. !! -.. Queste da parte loro coinvolgevano con i
titolari di feudi extraregnicoli, le realtà statuali dalle quali essi provenivano. Il possesso di feudi nel
regno non poteva che rendere devoti alla monarchia i nobili genovesi e romani, anzi la presenza a
Napoli di numerosi baroni “ nuovi” fece sì che i titolari meridionali “ non cospirare possint,
numquam enim inter antiquos et novos.”.
Ma, e questo è l’altro aspetto del problema, ed è, poi, quello più grave, è che questi singoli baroni,
principi indipendenti, queste singole casate che rastrellavano onorificenza e titoli e castella e “
seggia a palazzo”, tramite i quali si legavano alla corona spagnola, a quelle condizioni capestro che
si è visto, lo facevano pagando e quindi sostenendo e finanziando proprio ed esattamente quella
corona in caduta libera e pagando la aiutavano a mantenersi e nel mantenersi e per mantenersi
saldavano quelle catene di cui si è detto. In altre parole questi imbelli pagavano per essere tenuti
alla catena e per avere essi privilegi, per mettere essi al riparo i loro averi si stringevano e saldavano
da se stessi le catene con le quali stringevano le loro stesse casate ed i loro stessi paesi d’origine.
L’intero sistema degli onori edificato dalla Spagna attingendo dalla riserva feudale meridionale
rispondeva anche ad esigenze di controllo sul regno.
La strada praticata dalla Spagna per porre sotto tutela le casate aristocratiche meridionali: dalla
disgregazione dei grandi stati feudali, all’ampliamento dei gradi di trasmissione del feudo, alla
stessa mercantilizzazione, tutto fu messo in atto per ridimensionare la funzione politica del
baronaggio. Come affermava Doria: la formazione di una “ colonia di Baroni forestieri” composta
da romani, genovesi, spagnoli e principi d’Italia aveva anche lo scopo di “ creare un ordine opposto
a quello Napolitano” per “ opporlo alla potenza dei Baroni del Regno et impedire le Unioni.”.
L’ambasciatore veneto sosteneva che con l’introduzione di forestieri si manteneva “ sempre più
viva la disunione nel regno fra questi e quelli del paese.”.
Le forme economiche attraverso le quali la corona di Spagna si comprava i principi indipendenti e
la borghesia compradora italiana erano le pensioni e le ayudas de costa, acquisizioni di feudi e
città. Entrambi pesavano sostanzialmente sul regno di Napoli.
Militari spagnoli chiudevano la loro carriera con pensioni napoletane e duchi, principi chiedevano
pensioni napoletane come il re di Polonia e l’Elettorato palatino, eredi di Bona Sforza,
riscuotevano vitalizi sulle rendite della Dogana di Foggia.
Anche qui quello che conta fermare è ancora la presenza del re di Polonia insistente sul regno di
Napoli ed il nesso: re di Polonia - Sforza, Elettorato palatino - Sforza
In sostanza si ha un proliferare indiscriminato che portò il carico delle pensioni su Napoli da
70.000 ducati del 1609 agli oltre 157.000 del 1626.
§ 3.1 Acquisizione di feudi e di città.
Ma il punto che questa elargizione di titoli pone è da dove venivano ritagliati questi titoli e feudi. In
Villari viene data la notizia che questo viene reso possibile dalla contrazione delle terre demaniale
ed estensione di quelle baronali con l’investimento anche di città con casali come Napoli, ecc.
Villari scrive: “ alla fine del Cinquecento su 1875 comuni soltanto 76 erano ancora demaniali, ossia
appartenevano alla corona. In realtà in questi 76 comuni si concentrava almeno un quarto della
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popolazione complessiva. Ad essi erano aggregati casali ( Napoli ne aveva 43, Capua 33, Cosenza
85) che con il tempo diventarono comuni indipendenti. I centri più importanti e popolosi del regno
ed i casali delle città furono la cospicua riserva di vendita di feudi alla quale attinse il sovrano
durante il Seicento.”. Sono ancora gli onnipresenti genovesi a rastrellare assieme alla curia romana:
il cardinale Aldobrandini che nel 1607 comunicò al re che avrebbe voluto impiegare 600. mila
ducati nel regno per integrare totalmente al suo servizio e per fare della propria casa e dei propri
parenti perpetui vassalli della corona; il cardinale Ottavio Bandini che desiderava “ vasallar su casa
y familia en el Reyno de Naples”.
Nel 1638 Andrea Gonzaga, che si era fatto “ vassallo volontario di SM possedendo alcuni luoghi
nel Regno di Napoli “, ora pieno di acciacchi, di figli e di debiti chiedeva in feudo la popolosa città
di Bitonto, il titolo di principe, la carica perpetua di capitano a guerra di quella città ed una
commenda per un figlio.
I titoli feudali napoletani costituivano una sorta di assicurazione nei confronti di eventi che
potevano spezzare la continuità della famiglia e delle fortune, rappresentavano quel prezioso
legame con la monarchia che consentiva un servizio più autorevole ed apriva la strada a
richieste per ulteriori gratificazioni. Si ha così quella gravitazione verso il regno meridionale
di tante famiglie nobili italiane. Era tutto un sistema in movimento, politico, dinastico,
diplomatico ed economico che individuava qui, nei feudi e nei titoli che esso poteva offrire il
suo principale punto di riferimento.
Alla vedova da Iacopo V fu proposto lo scambio di Piombino con un feudo napoletano, ai Carafa
nel 1556 fu offerto il principato di Salerno; Andrea Sforza del Carretto, precario signore del Finale,
devolse il suo stato in cambio di 24 mila ducati annui di rendita nel regno di Napoli e del possesso
della città calabrese di Rossano.
Al regno di Napoli si guardava anche per ricompensare o per attrarre nell’orbita asburgica principi
non italiani come Enrico di Montmorency con promesse di proprietà e giurisdizioni nel regno di
Napoli al fine del suo distacco dal Enrico III di Valois.
A questo occorre aggiungere le relazioni matrimoniali che si venivano ad intessere tra le famiglie
dei principi “ assoluti” italiani e quelle dei grandi baroni del tempo. Si vengono così a costituire
quei " circuiti" dinastici e baronali di cui si è detto. Ancora. Tra i più attivi acquirenti di feudi,
per sé e per i propri parenti e clienti, vi erano i cardinali di santa Romana Chiesa. In questo modo,
attraverso questi, la corona spagnola legava a sé la curia romana, trasformandola in una sua
appendice, di cui seppe ben servirsi, poi, nella disperata lotta per ostacolare l’ascesa della classe
borghese in quegli stati nazionali in formazione, che avrebbero ostacolato, contrastato, l’egemonia
spagnola: Inghilterra, Francia, Olanda, Catalogna, Portogallo.
L’Inquisizione in realtà fu proprio ed esattamente la lotta disperata dell’impero spagnolo di
contrastare quelle forze e la formazione e nascita di quegli stati, borghesi, che potevano
contrastare il suo dominio ed in questo trovò valido appoggio e sostegno proprio in quei cardinali
che nella curia romana, in stragrande maggioranza, si erano legati alle sorti spagnole e che
vedevano quindi nel predominio di forze avverse alla spagnola la perdita dei loro possessi e
rendite. Essi quindi furono i tranquilli esecutori di una difesa più complessiva di un sistema che
trovava nella corona spagnola il centro ed il baluardo ed a nome e per conto di questa scesero in
campo, scatenando una battaglia di una ferocia senza pari ed imponendo il più bieco ed ottuso
oscurantismo: ma a nome e per conto di terzi, ossia della corona spagnola. Questo consentiva così
alla corte spagnola di esercitare un controllo sulla curia e disporre di ben precisi ed esatti canali
fidati, onde poter manovrare e consentire che questa forza si disponesse secondo i desideri, gli
intenti, i disegni i voleri spagnoli.
Era tale politica espressione di un indirizzo che individuava nel collegio cardinalizio possibili fedeli
sostenitori della politica italiana della monarchia e nel regno di Napoli la base territoriale e
finanziaria sulla quale gran parte di tale politica poggiava.
La politica spagnola saldava così in un unico fronte: l’avanguardia della classe aristocratica,
organizzata nel “ grandato di Spagna”, baroni e signori e principi indipendenti vari, ricchi borghesi:
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mercanti e banchieri e curia romana, il cui cemento era proprio quella politica di concessione di
feudi, pensioni, e ayudas de costa.
I cardinali, da parte loro, rivolgevano alle terre napoletane ed ai titoli che su quelle si appuntavano
le proprie aspirazioni e la corona spagnola ben sapendo, sapeva ben soddisfare le istanze dei suoi
aspiranti servitori.
E’ bene il caso di dire qui con Sallustio: “ avaro del suo, prodigo dell’altrui”.
§ 3.2 Le ayudas de costa
Erano queste particolari concessioni della corona spagnola: il re concedeva titoli affinché il
ricevente potesse venderli e da questi ricavarne rendite. Quello che il re concedeva erano titoli e
legati a questi possessi feudali di terre, città, ecc. Attorno a questo autentico mercato fiorirono
grosse speculazioni e si arricchirono grossi speculatori, e prima fra tutti i banchieri genovesi,
fiorentini e castigliani. Costituiva una forma della corona per fare incetta di denaro per
sovvenzionare le ormai disperate campagne militari, che inchiodavano la Spagna alla sua
emarginazione ed alla sua inarrestabile decadenza: l’ombra di Villabar incombeva oramai gigante
e potente sullo scheletro e le proiezioni mitiche di uno splendore e di una ricchezza castigliana. E
quella sconfitta del movimento rivoluzionario borghese si presentava oramai a riscuotere il suo
contributo ad una classe nobiliare inetta, che nel suo tracollo trascinava anche la più inetta e
accattona aristocrazia e borghesia compradora italiane. Queste nella loro assoluta cecità non
seppero trovare rimedio che abbarbicarsi al possesso feudale e quindi a sovraccaricarsi di titoli e
terre e castella e " seggia a palazzo", tutte protese a salvaguardare l’immediato, senza alcuna
visione neppure di breve periodo, che non sia l’immediato. Non seppero neppure tentare, o
immaginarsi di tentare, un investimento arrischiato, preferendo il bottegaio certo quotidiano. E sarà
questa, " il certo bottegaio quotidiano" l’essenza della concezione, della cultura, e della mentalità di
una borghesia, quella italiana, che la caratterizzerà per accattona. Sempre pronta a fuggire
allorquando si profilano i più timidi problemi, abbandonando tutto e tutti e provvedendo a mettere i
salvo i pochi spiccioli che questa o quella potenza ora, in questo esatto e preciso istante, promette o
fa balenare. Già dagli anni Trenta non aveva più alcun senso legarsi alla corona di Spagna, essa era
già irrimediabilmente perduta, puntare su questa e peggio farle da scudo era la cosa più suicida ed
antieconomica che poteva pensarsi e la si poteva pensare solo con l’ottica del " bottegaio certo
quotidiano".
In una fase di crollo generale e totale, in una fase in cui le altre grandi potenze affilavano i ferri per
spartirsi il dominio spagnolo e quindi in una fase in cui liberarsi della presenza spagnola non
richiedeva poi granché di sacrificio anche personale e nella prospettiva di partecipare al bottino
della spartizione dell’immenso Impero Spagnolo, che invece si divisero Inghilterra, Francia ed in
subordine l’Olanda, ebbene in questa fase solo l’ottica del " bottegaio certo quotidiano" poteva far
scegliere di fare da scudo alla corona spagnola.
Per tornare adesso alle ayudas de costa – non troviamo un termine italiano che riesca a renderlo:
per far fronte alle sempre maggiori esigenze finanziarie la corona di Spagna non seppe trovare di
meglio che aumentare a dismisura il numero di principi, duchi, marchesi e ad attuare una
spregiudicata, quanta assurda, politica di vendita di città, anche di importanti città costiere e di
confine.
I titoli posseduti, avevano anche un prezzo e prendevano il posto delle pensioni.
Enorme era il numero di richieste provenienti da enti pii spagnoli che chiedevano titoli in Italia, e
meglio nel regno di Napoli.
Il monastero di cappuccini di Madrid nel 1614, il convento di Nuestras Senora di Guadalupe
affidavano ai titoli appuntati sulle terre del Regno di Napoli.
Tutto questo determinava un drenaggio di ricchezze napoletane in direzione di enti e personaggi che
con la realtà meridionale avevano poco a che fare.
Accanto agli istituti religiosi si muoveva una folla di clienti del re, vedove, ambasciatori e residenti
di sovrani stranieri, di gente non pagata o mal pagata per i propri servigi resi alla corona, di soldati
carichi di ferite ma privi di denaro, che avevano speso la loro vita in guerra, figli ed eredi che
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avevano scoperto ampi buchi nell’eredità paterna. Per tutti sussisteva un’unica strada: ottenere la
disponibilità di titoli baronali nel regno di Napoli per venderli su un mercato ove si agitavano
molteplici possibili acquirenti; tutti desiderosi di rafforzare la loro presa su feudi recentemente
acquistati. Questo richiede l’esistenza di una intermediazione in grado di allocare il titolo,
intermediazione che avrà la sua percentuale nell’operazione di allocazione del titolo e di una
transazione finanziaria.
Luigi d’Avalos .. chiese mercé di un titolo di principe o di duca nel regno di Napoli al posto degli
800 ducati di rendita che non gli erano stati pagati dal viceré. Il conte di Monterey, per accudire
alle spese di corte e per trattarsi conforme al suo rango, domandò ed ottenne un titolo di principe
ed uno di duca nel regno. Il viceré Medina de Las Torres aveva una decina di titoli su località del
regno di Napoli. Il titolo di principe concesso ai Grimaldi nel 1619 su una città del regno di Napoli
fu pagato con 16.000 ducati che andarono al segretario George de Tovar per coprire cose segrete
attinenti il servizio del re. Conta qui fermare questo passaggio ove il principe di Monaco, vassallo
della corona spagnola e del re in modo personale, si presta a questi passaggi di mano di denaro;
oggi diremmo " fondi di protezione", o " fondi neri"" dove la sponda è l’eccellentissimo principe di
Monaco.
In questo gioco che riversava sul regno di Napoli gli oneri finanziari della politica di patronato
della monarchia, numerose erogazioni effettuate tramite i segretari del re rivelano aspetti inquietanti
di una politica parallela svolta nella e dalla corte, che mette a nudo una politica di corruzione e di
non controllo e quindi alla fine un’inflazione di titoli e di corsi paralleli, che danno adito a imbrogli,
speculazioni, truffe, ecc. Ma il punto che questa elargizione di titoli pone è da dove veniva ritagliati
questi titoli e feudi. In Villari viene data la notizia, come si è visto, che questo viene reso possibile
dalla contrazione delle terre demaniale ed estensione di quelle baronali con l’investimento anche di
città con casali come Napoli, ecc.
§ 3.3 Transazioni e speculazioni finanziarie nell’allocazione e vendita " ayudas de costa".
Nelle trame che portavano dal gabinetto del re alle università meridionali si stagliavano altri
personaggi diversi dai segretari, ed erano gli esponenti di quei ceti finanziari genovesi così
prepotentemente radicati nel mercato dei feudi e dei capitali all’interno del dei regni di Napoli e di
Sicilia.
Pedro de Contrera ricevette da Paolo ed Agostino Giustiniani i 7.000 mila ducati che Fabio Ricco
aveva sborsato per potersi fregiare del titolo di duca.
Nel 1626 ai medesimi banchieri, Paolo ed Agostino Giustiniani - Cristofaro Apollinari aveva
affidato 100.000 reales, pario al costo di due titoli di marchese: questa somma sarebbe stata poi
girata a tal don Juan de Palafos. Nel 1611 fu Ottavio Centurione ad essere indicato dal re quale
destinatario di 30.000 ducati castigliani ricavati dalla vendita d alcuni titoli d’Italia ( ovvero di
Napoli ); nel 1614 lo stesso Centurione ricevette la somma di 10.000 ducati pagati da don Troiano
Spinelli duca di Acquarico per l’acquisto di titolo di principe assegnato per mercede ai cappuccini
di Madrid.
A questi banchieri furono affidate anche le vendite di terre e villaggi castigliani che la
monarchia effettuò massicciamente tra gli anni venti e trenta del XVII secolo.
L’intervento di banchieri doveva essere certamente orientato anche sul versante locale della
transazione: è probabile, infatti, che i compratori si rivolgessero ad essi per raccogliere le somme di
denaro necessarie ad acquistare il titolo. Occorre qui aggiungere i tassi di interesse per tale
anticipazioni! Lucravano così tre volte: una volta perché ad essi venivano affidati i titoli da porre in
vendita, una seconda volta per l’intermediazione ed una terza volta per l’anticipazione di parte o
tutta a somma. Se poi il titolo non trovava momentanei compratori ed il venditore aveva necessità di
denaro essi vi lucravano una quarta volta acquistando il titolo ad un prezzo inferiore e lucrandoci
sulla differenza; oppure anticipando parte della somma in attesa dell’allocazione e lucrandoci sugli
interessi della somma prestata come anticipo sulla futura vendita. Chi veniva ad acquistare il titolo
cercava quantomeno di rientrare nelle spese, sottoponendo così ad uno sfruttamento intensivo sia la
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terra che la popolazione che su quel feudo vi insisteva; non apportandovi migliorie tecniche, che
nel frattempo nel XVII secolo si andavano introducendo in agricoltura, meno che mai poteva
favorire una produzione manifatturiera ed il processo di separazione agricoltura-industria, agendo
così da freno, ostacolo a tale processo. Dal punto di vista dei beneficiari/venditori la concessione di
uno o più titoli non risolveva automaticamente le difficoltà economiche in cui spesso essi versavano
e che avevano giustificato il provvedimento regio. Bisognava vendere il titolo, trovare acquirenti
che godessero nello stesso tempo della fiducia degli organi di governo della monarchia ai quali
spettava, in ultima istanza,. l’approvazione della transizione e che disponessero di capitali ( o
fossero in grado di farseli anticipare dai banchieri genovesi ) con i quali pagare adeguatamente
il titolo. .. un ruolo di primo piano in tali questioni se lo ritagliato personaggi come i Centurione ed
i Giustiniani in grado di mettere in contatto il venditore e l’acquirente. Le difficoltà nella vendita
potevano risultare insormontabili fino a vanificare la portata stessa della grazia regia, soprattutto se
i beneficiari erano donne o personaggi che non avevano collegamenti diretti con la realtà sociale e
territoriale sulla quale si dovevano appuntare i titoli. L’allocazione del titolo richiedeva inoltre una
valida struttura organizzativa in grado di individuare sia il soggetto disposto all’acquisto e sia i
canali finanziari e quindi la necessita di intermediari locali in grado di selezionare gli acquirenti. Si
viene così ad intessere una fitta rete organizzativa speculativo-parassiataria, che agisce da ulteriore
drenaggio di risorse e ricchezze dal regno di Napoli, che agiva da impoverimento non solo del
popolo classicamente inteso, ma soprattutto, in questa fase, di quelle fasce borghesi che potevano
essere invece momento attivo della trasformazione della società. Una simile politica agiva cioè da
autentico massacro delle forze borghesi nascenti, annientandole, proprio ed esattamente attraverso
questo drenaggio di risorse. Cocente era poi la delusione quando la concessione di titoli ( che spesso
sostituivano vere e proprie pensioni ) si accompagnava quasi immediatamente al divieto di alienarli
prima che fossero stati venduti quelli conferiti in precedenza. Quei titoli non si rapportavano più ad
alcun ufficio, erano in vendita a prezzi che, per la deplorevole frequenza con la quale venivano
concessi, risultavano ridicolmente bassi: nessuno li richiedeva più se non a prezzi minimi.
E’ il caso del giugno 1620 del conte Orso Delchi di Firenze, assegnatario di una pensione di 200
ducati da ricavarsi dalla vendita di due titoli nel regno di Napoli.
E per poter alimentare questa forma di finanziamento, dato alla fine l’esaurimento di titoli da porre
in vendita, la corona spagnola decide di istituire altri titoli nobiliari. E’ del 1627 la decisione regia
di introdurre in Italia altri sette titoli di principi ( diventati poi dieci, nove di duca, sei di
marchese ed uno di conte.) abbiamo così una vera alluvione di titoli come la tabella illustra:
1606 1629 1640
principi 27 57 67
duchi 48 83 107
marchesi 76 121 148
conti 62 73 67
Vera alluvione di titoli si ebbe tra il 1621 ed il 1629 nella sola Sicilia in tale periodo furono venduti
ben nove titoli di principe
… ma il prezzo ridotto dei titoli napoletani invogliava baroni e magistrati a ricorrere al re per
acquisirne uno, che poteva anche non essere il primo.
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Capitolo Secondo
Storia Meridionale 1545-1647
Premessa
Il periodo storico preso in esame dalla storiografia ufficiale italiana è descritto come il periodo
della decadenza, del Seicento, del barocco, del manierismo; un periodo storico: 1547-1700
sostanzialmente piatto.
La realtà storica è invece proprio ed esattamente l’opposto di quella che la tradizione desanctiana e
crociana tende ad accreditare. E’ invece il più fecondo periodo storico, il periodo del più profondo
e sconvolgente processo rivoluzionario, delle più profonde e radicali rotture con le più radicate
convinzioni in tutti i campi. E’ il periodo in cui ci si libera della medicina ippocratica e si gettano le
basi della medicina moderna; è il periodo della ricerca scientifica di Galilei, di Cartesio, di
Torricelli, di..; è il periodo in cui si fa piazza pulita e definitivamente delle teorie cristianee e della
tradizione aristoteliana, quale era stata tramandata dal feudalesimo e dal filtraggio cristianeo. E’ il
periodo in cui giunge a conclusione quel lungo processo di rinnovamento e di profonda
trasformazione, avviato dalla cultura araba. E’ il periodo delle grandi rivoluzioni borghesi: della
rivoluzione inglese, della rivoluzione olandese, della rivoluzione in Catalogna, in Portogallo, in
Boemia. E’ il periodo che segna la transizione borghese della Francia con il cardinale Mazzarino. E’
il periodo del grande pensiero rivoluzionario borghese di Spinoza, Hobbes, Accetto, Boccalini. E’
lo splendido periodo della letteratura e dell’arte, del teatro e della prosa e della poesia:
Shakespeare, Goldoni. E’ cioè il grande periodo rivoluzionario di formazione degli stati borghesi, il
periodo dei titani, che sapevano combattere di spada e di penna, che gettarono le basi del pensiero
rivoluzionario borghese in tutti i campi. Il periodo in cui non c’è settore, campo che non è messo
sottosopra, tutto viene indagato; il periodo ove sboccia il seme del sapere critico gettato dalla
cultura araba e dal suo massimo esponente Averroé.
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E’ esattamente dentro questo eccezionale periodo rivoluzionario, il più alto fino ad allora
raggiunto dall’Uomo, che va iscritta la grande rivoluzione borghese meridionale del 1646-48.
La rappresentazione che invece viene data se bene illustra l’asservimento della borghesia alle
camarille aristocratico-nobiliari, il suo servilismo alla corona di Spagna, la cui politica è ben
sintetizzata nell’espressione: " Spagna, Franza, Alemanna basta che se magna"; ben serve la proiezione
ideologica che la borghesia vuole dare di questo periodo: tranquillo, senza scosse, assai male
rappresenta il periodo storico, che, come si è schizzato, è attraversato da un profondo ed
inarrestabile processo rivoluzionario, che tutto attraversa. Saranno i semi gettati qui che poi
saranno a fondamento della stessa cultura e tradizione americana.
Il palese ed inoppugnabile stridere tra il processo reale e la rappresentazione borghese italiana
fissa in maniera inappellabile tutta la povertà morale dei suoi intellettuali, che giungono alle più
plateali mistificazioni, ad obliare, a sublimare, processi storici profondi pur di far coincidere il
servilismo e l’acquiescenza borghese alla realtà, aprendo nel contempo una tra le più laceranti
contraddizioni con il tessuto e la tradizione della stessa cultura italiana, spaccando e lacerando un
tessuto pur vivido e fecondo di pensiero ed azione.
Rosario Villari cerca in qualche modo di salvare tale proiezione mitica, allorquando scrive: "
L’immagine, così largamente diffusa a proposito del XVII secolo, di un mondo intellettuale e
politico privo di eroismo e di slanci ideali è dovuta, almeno in parte, all’insufficiente
comprensione delle vie tortuose e difficili attraverso le quali i tentativi di resistenza e di critica
erano obbligati a passare." Ma il tentativo di attenuare questo stridente contrasto finisce per dire
più di quello che Villari stesso crede, finendo così per trasformarsi in un tremendo affondo proprio
ed esattamente alla classe borghese ed ai suoi intellettuali. E’ un tentativo giacché il periodo in
esame, come si è detto e visto, è un momento alto del processo rivoluzionario, un momento alto
della tempesta rivoluzionaria che si abbatteva sul sistema feudale, spazzandolo via. Ma sia pure
come Villari dice. La comprensione delle vie tortuose attraverso cui si fa un processo rivoluzionario
non si apprende su nessun libro e su nessun banco di scuola. L’unico banco e l’unica scuola è
soltanto la storia. Solo se una classe dominante è passata per quelle vie, se una classe dominante ha
diretto un processo rivoluzionario sa bene gli zigzag, la tortuosità e immani difficoltà che ha dovuto
attraversare e quindi sa leggerli bene quando questi si presentano. E’ la sua cultura, la sua tradizione
di pensiero che ne resta irrimediabilmente segnata e segna irrimediabilmente i suoi stessi
intellettuali. E proprio perché duro, pesante, difficile è stato quel periodo tanto più quella classe lo
difenderà da mistificazioni e minimizzazioni, perché c’è tutta se stessa in quel periodo. E’, cioè, il
prodotto esatto e preciso di quel zigzagare, di quelle tortuosità. Ora il fatto che la storiografia
ufficiale borghese italiana non comprende la dice tutta sulla natura, il carattere, il ruolo e quindi la
formazione, la statura e lo spessore della classe borghese italiana.
Quel modo di leggere la storia, quella proiezione mitica, finisce per dire tutta l’assenza
rivoluzionaria di questa classe, la sua natura ed il suo spessore, che stanno tutti proprio ed
esattamente in quel " insufficiente comprensione delle vie tortuose e difficili attraverso le quali i
tentativi di resistenza e di critica erano obbligati a passare".
Il periodo in esame si apre con l’opposizione forte alla Controriforma, che fa seguito a tutto il possente
movimento riformatore in Germania, Inghilterra, Francia e nella stessa Italia. Nel regno di Napoli il
movimento rivoluzionario vive un punto di svolta caratterizzato proprio dall’opposizione all’introduzione
dell’Inquisizione ed alle regole e dettami del Concilio di Trento. Esso chiude un periodo storico e ne apre un
altro, che culminerà nella grande rivoluzione borghese del 1646-48. In questa fase si vide una unità fra forze
borghesi, nobiltà e popolo che consentì al movimento di raggiungere alcuni risultati, quali quello della non
introduzione dell’Inquisizione in Napoli. In proposito celebre è l’affermazione di Carlo V, che costretto
dall’insurrezione popolare che lo cacciò dalla città, si vide costretto a revocare l’editto circa l’Inquisizione: "
Meglio avere un regno senza Inquisizione, che Inquisizione senza regno". Tale unità fu dovuta al coincidere
di interessi delle tre classi, ma le motivazioni diverse, i programmi delle rispettive classi erano diversi e
questo determinò la rottura del fronte di lotta. Gli interessi nobiliari e borghesi compradori erano legati
unicamente alla non ingerenza della Chiesa a salvaguardia delle proprie prerogative e privilegi. Gli interessi
borghesi e popolari erano invece di ben più ampio respiro e rispondevano ai più generali e strategici
interessi del Paese: ostacolare l’Inquisizione ed il progetto reazionario della corona spagnola. Questo
determinò che il movimento proseguì la sua strada contro regole e dettami che il Concilio di Trento voleva
21
imporre, ma senza, e contro, l’aristocrazia nobiliare ed i borghesi compradori. Si opererà qui, esattamente
qui, quella scissione tra nobiltà, élite borghese e popolo, quella scissione che sarà consumata fino in fondo
nel corso della rivoluzione borghese del 1646-48 e di cui la Repubblica del ’99 ne sarà una tranquilla
conseguenza. Scissione questa, badate bene, tra élite borghese e popolo che attraverserà tutta la storia
meridionale e che sarà ricucita soltanto negli anni 1945-60, ma lo sarà ad opera di un’altra classe: il
proletariato, ad opera della sua avanguardia: i comunisti italiani. Affronteremo nelle conclusioni questo
importante momento di ricomposizione del tessuto sociale, civile, culturale. Borghesi e popolani
intraprendono una battaglia contro spagnoli, chiesa, nobili e ricchi borghesi per la difesa dei punti più alti
della ricerca e del dibattito culturale e scientifico e per la tolleranza.
Possiamo assumere come preciso punto di riferimento, per distinguere due fasi della storia del viceregno e dei
rapporti tra Napoli e la monarchia, la rivolta del 1585. Questo episodio aprì un periodo di agitazione che ebbe il suo
epilogo nel fallimento del tentativo campanelliano, ma diede l’avvio ad un movimento riformatore che mise in
discussione l’ordinamento del regno e la sua tradizione politico-culturale.
§ 1. 1510 - 1547
I tumulti del 1510 e poi quelli del 1547, causati dai tentativi di introdurre a Napoli l’Inquisizione spagnola, furono in
realtà scosse di assestamento dell’equilibrio politico generale, su cui appoggiava il dominio spagnolo nel regno. Le
forze popolari appoggiarono, in posizione subalterna, rivendicazioni maturate in seno allo schieramento politico
aristocratico, il quale, difendendo la tradizionale influenza romana sul regno ( che sarebbe stata ridimensionata
dall’impianto di un organismo inquisitoriale direttamente soggetto alla Corona ) mirava a contenere e limitare la
pressione della monarchia.
Nel 1547, del resto era stato tutt’altro che lineare l’atteggiamento dei nobili " di giorno fraternizzavano coi popolari e di
notte devota al Viceré". Allora vi fu una prima iniziativa autonoma popolare, subito soffocata, con il moto contro
l’Eletto Alberto Terracina. La risposta fu immediata e caratterizza bene la situazione di impatto immediato di qualsiasi
movimento riformatore, di modifica. Nel 1548 il viceré Toledo apportò modifiche negli Eletti del Popolo. Alla fine del
Cinquecento la rappresentanza popolare a Napoli era ormai saldamente nelle mani di gruppi di borghesia privilegiata,
affittuari di rendite, e mercanti di grano. Questi ritocchi ridussero ulteriormente la funzione dell’Eletto e la sua
possibilità di influire e favorirono la contrastata tendenza della borghesia compradora ad assimilarsi all’aristocrazia.
Tutti gli istituti autonomi popolari subirono per contraccolpo una crisi profonda dalla quale non si sarebbero più
risollevati.
La struttura degli Eletti del Popolo era espressione di ben determinati rapporti tra le classi nella società feudale, che non
poteva non entrare in crisi nel momento che la borghesia si presentava sulla scena con ambizioni di direzione ed
egemonia. O si evolveva nella direzione della rappresentanza borghese o veniva di fatto sciolta.
§2
. Il Millecinquecentottantacinque
La rivolta del 1585 rivelò invece la disposizione di alcuni gruppi della borghesia cittadina ad inserirsi nella crisi con
proprie autonome rivendicazioni.
La causa immediata della rivolta del 1585 fu la decisione degli Eletti di aumentare il prezzo del pane nella capitale.
Poco tempo prima l’amministrazione aveva autorizzato l’esportazione di oltre 400.000 tomoli di grano in Spagna.
Alla fine del Cinquecento la rappresentanza popolare a Napoli era ormai saldamente nelle mani di gruppi di borghesia
privilegiata, affittuari di rendite, e mercanti di grano.
L’episodio centrale della rivolta del 1585, il 9 maggio, è il linciaggio dell’Eletto del Popolo Gio. Vincenzo Starace, nel
corso di un’assemblea imposta dalla moltitudine tumultuante. Per alcuni giorni tutta la città stette in armi, "
dubitandosi il peggio, perché li altri popoli dimostravano di voler imitare l’esempio di Napoli". Figlio di un ricco
mercante di seta che era stato membro della corporazione, lo Starace, accumulate notevoli ricchezze, aveva
abbandonato la professione paterna per " vivere nobilmente". Esponente tipico della borghesia compradora che aveva
il monopolio della rappresentanza popolare nel comune, egli aveva tenuto più volte la carica di Eletto. Era accusato di
aver favorito la manovra speculativa d’accordo con i mercanti di grano, che avevano contratti di approvvigionamento
con la città. Si diede la caccia anche all’arrendatore del vino Leonardo Andrea de Lione, ai mercanti di grano Pietro
Aniello, Cimmino Solaro ed altri. Il primo era ritenuto responsabile di " aver messa la carestia del vino per tutto il
Regno, introducendo, e massimamente in Napoli, il venderlo a minuto ne’ magazzini; uso ancorché comodo a molti,
dannosissimo nondimeno all’universale e di gran detrimento alla povertà ". Il Cimmino aveva fatto un " partito" per
l’importazione di 40.000 tomoli di grano nella città. Si corse alle armi, si saccheggiarono le botteghe di armaioli. Fu
ucciso lo Starace con strascinamento e mutilazione ed evirazione del cadavere, saccheggio della casa: i beni asportati
furono distribuiti ai conventi Nell’uccisione dell’Eletto vi era il segnale preciso della ribellione, della perdita di rispetto
e di" riverenza al padrone", motivo di angoscia e di paura per tutti i ricchi.
" A tutte le persone agiate e ricche dispiacque oltremodo non tanto la sciagura dell’Eletto Starace, quanto il
sollevamento del popolo e d quella plebe irragionevole e disperata, la cui rabbia dubitavano essi, che non si avesse
tosto a volgere contro di loro e dei loro beni."[ Capaccio, Il Forestiero ]
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Riapparve minacciosa la richiesta di parificazione dei voti tra rappresentanti nobili e popolari della città nei termini in
cui era stata presentata la prima volta dal Seggio popolare a Ferdinando il Cattolico nel 1507, ed emerse il motivo
dell’indipendenza, con diretti richiami alla rivoluzione delle Fiandre.
Apparvero anche cartelli che invitavano esplicitamente alla sollevazione contro gli spagnoli.
Il moto promosso ed organizzato dalla piccola e media borghesia cittadina e, specificatamente dai capitani di quartiere
era la manifestazione non casuale di una volontà di inversione dell’ordine sociale: la rivolta assumeva sia pure a livello
elementare un principio di organizzazione. Ciononostante rivelava ancora il suo carattere subalterno, la dipendenza
degli strati popolari ( sul piano psicologico e mentale, prima che politico ) dalla cultura ufficiale.
Anche qui la risposta feroce non si fece attendere a conferma di quella situazione di impatto immediato tra le classi in
lotta che caratterizza la lotta delle classi in questo periodo, a conferma di un equilibrio decisamente instabile e fragile,
che teme ogni pur minima modifica. Una situazione come questa non può che portare un simile regime a bunkerizzarsi
e quindi a perdere elasticità nella direzione e nella costruzione e mantenimento del consenso.
Due mesi dopo la fine del tumulto, nel luglio 1585, giunsero a Napoli quaranta galee e molte compagnie di soldati al
comando di Don Pietro di Toledo. Il viceré, duca di Ossuna, diede l’avvio ad un’azione repressiva di vaste proporzioni.
Era emerso comunque un fatto nuovo.
Ancora insufficientemente motivato, privo di una adeguata elaborazione politica, l’indipendenza
popolare poteva tuttavia diventare il tessuto connettivo di critiche e proteste che si indirizzavano
prevalentemente contro la borghesia privilegiata. Carlo Spinelli, della famiglia genovese degli
Spinelli, fu nominato reggente della Vicaria con il compito di assicurare l’ordine nella città,
organizzare l’arresto degli indiziati e l’esecuzione delle pene. Nella seconda metà di luglio furono
presi 498 uomini in quattro notti. " Et in tre mesi e mezzo furono spediti non solo i 498 ma anco
320 contumaci ed istruiti 820 processi." Risultato: 31 condanne a morte, 71 condanne alle galere,
3000 bandi dal regno.
Tra i condannati a morte vi furono due maestri artigiani, ed un mercante di stoffe, due scrivani della
Sommaria, uno scrivano dell’Arcivescovado, un cittadino di Bruxelles, Giorgio Olivier, numerosi
artigiani e bottegai.
Il punto da fermare qui è il coinvolgimento di forze legate agli ambienti accademici. Si disse che l’
" officina" del Pisano era il luogo in cui si erano tenute riunioni di molti cittadini, riparò poi a
Venezia: nel febbraio 1586 per ordine del viceré la sua casa fu rasa al suolo e sul luogo fu eretto un
monumento nel quale, in altrettante nicchie, furono poste le teste e le mani dei suppliziati.
Un’iscrizione indicava il Pisano come promotore del moto del 9 maggio 1585. Stroncata nella
realtà, la rivolta popolare si prolungava ora nel mito, attraverso la creazione della leggenda che
racchiudevano nelle loro apocalittiche immagini la speranza di giustizia e la coscienza dolorosa
dell’insuccesso. Il prezzo del pane continuò ad aumentare già nell’agosto del 1586. Nel 1591 vi fu "
qualche principio si sollevazione nella Piazza della Selleria" e nel 1592 ricomparvero per le
strade cartelli che incitavano il popolo alla rivolta.
Nel più generale clima di lotta ed opposizione, che la rivolta del 1585 aveva aperto nel paese, si
iscrive lo sviluppo delle confraternite delle varie categorie artigianali, in quanto centri di
resistenza ed organizzazione. Mentre la persecuzione infieriva contro disoccupati e vagabondi, "
le confraternite " che raggruppavano per scopi religiosi ed assistenziali i membri delle varie
categorie artigiane si trasformavano in centri di organizzazione della difesa salariale. Questi
organismi associativi si erano moltiplicati dopo il Concilio di Trento e continuavano a moltiplicarsi,
assumendo caratteri di " classe". Lo " spirito di classe" delle confraternite artigiane si esprimeva
prevalentemente, in tempi normali, oltre che nella solidarietà interna, nella forma della loro
partecipazione ai riti religiosi, alle feste, alle manifestazioni pubbliche civili, sul piano della
formazione e della difesa di un patrimonio di cultura popolare, più che su quello dell’antagonismo
sociale contro i ceti superiori. In questa sede al di fuori del normale apparato corporativo controllato
dalla borghesia, si svolsero i tentativi degli artigiani di fissare minimi salariali impegnando i singoli
"confratelli" a non prestare la propria opera per un salario inferiore a quello stabilito
collettivamente. Le autorità religiose denunciarono il pericolo, rinnovando la proibizione che nelle
"confraternite" si trattassero questioni non attinenti alle pratiche religiose e minacciando la
scomunica contro coloro che le creavano senza autorizzazione. L’intervento del potere politico fu
pesante: lo scioglimento delle " congregazioni" artigiane ritenute centri di sedizione e che facevano
crescere " da un giorno all’altro inaspettatamente le manifatture et le merci a prezzo eccessivo". Il
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movimento era abbastanza esteso e, per il suo carattere semiclandestino non era facilmente
perseguibile. Agivano da limite all’azione delle " confraternite" le condizioni oggettive: la
pressione demografica sul mercato del lavoro era così forte da travolgere facilmente i tentativi di
difesa organizzata dei salariati. L’alternativa era ancora tra rivolta e rassegnazione.
E si iscrive anche l’opposizione culturale al degrado ed alla corruzione. E’ del 1586 un memoriale
di un dottore, Franceschiglio, contro la vendita degli uffici. L’autore fu condannato a morte; uguale
sorte subì, per lo stesso motivo, Martino Siciliano, mentre il dottor Lerna fu imprigionato e morì in
carcere sei anni dopo.
Il "gran disordine" dell’ottantacinque aveva rivelato, al di là del moto plebeo, una nuova spinta
indipendentista, con l’emergere di posizioni politiche che si erano accompagnate alla protesta
sociale, determinando una situazione assolutamente nuova nel regno, quella disposizione di alcuni
gruppi della borghesia cittadina ad inserirsi nella crisi con proprie autonome rivendicazioni.
Qualche anno più tardi il Costo osservò che da allora " non hebbe più bene il Regno",
riconoscendo che il movimento non si era esaurito in una fiammata di protesta.
Non " hebbe più bene" e bene dirà il Cosso, giacché il 1585 agì nella direzione di provocare una
irreversibile divaricazione, un baratro mai più colmabile e sempre più approfondentesi tra la classe
dominante e le altre classi, che non troverà pace neppure all’indomani della cosiddetta unità
nazionale, o formazione del mercato unico nazionale italiano, 1860, giacché quelle classi che nel
Cinque-Seicento erano la classe dominante saranno queste che mutueranno nella classe borghese,
riperpetuando quella scissione, approfondendola e fornendo a questa nuovi ed assai più validi
motivi. La rivoluzione borghese, che poi in Italia non c’è mai stata, non ha lenito o superato tali
contraddizioni, ma le ha esasperate ed inacerbite. Non si insisterà mai abbastanza su questo tratto di
continuità da una parte e di assenza dall’altro.
Represso il movimento nella sua prima forma, esso trovò nuove forme di espressione articolandosi
nelle campagne nella forma classica del banditismo, che costituisce una forma della guerra dei
contadini, e nella forma dell’opposizione al pagamento del censo, delle rendite e degli obblighi
feudali. La prima forma era espressione e guidata dai contadini poveri e diseredati, il secondo dai
contadini ricchi, massari. Nelle città il movimento si concretizza nella forma della lotta
all’introduzione dei metodi e dei dettami del Concilio di Trento, nella forma della difesa dei punti
alti della ricerca e del dibattito scientifico e della tolleranza.
In questa fase questi movimenti non trovano un punto di sintesi e di direzione, per cui ciascuno
segue il suo corso, ma innestandosi dentro il più generale processo rivoluzionario borghese,
determina un avanzamento di questo processo e si rinvigorisce e trova alimento in questo e da
questo. Questo complesso movimento di lotta, pur non trovando il suo momento di sintesi, fa ben
intendere il più generale corso, le linee di sviluppo tendenziali, ci fa intravedere che sta approdando
ad un " quid", ci fa sentire che sta montando la marea rivoluzionaria, che è soltanto un
accumulazione quantitativa: annuncia la tempesta rivoluzionaria. L’annuncia giacché in questa fase
accumula esperienza, smussa angoli, compatta forze, idee, anima passioni ed aguzza l’ingegno,
mette a dura prova idee, teorie, visioni, concezioni, spinge a rivedere, a ripensare criticamente, a
raschiare il fondo del barile, a verificare che al raschiare il fondo del barile alla fine ci si ritrova il
barile stesso e quindi spinge al nuovo ed in questo processo elabora le nuove teorie politiche,
economiche, sociali, civili, culturali: artistiche e letterarie.
§ 2.1 Nelle città
I conventi domenicani di san Domenico Maggiore e di san Pietro Martire in Napoli, sviluppano
una resistenza al tentativo di riforma e di dispersione delle due comunità fatto nel 1586 da Sisto V e
ripreso nel 1594 da Clemente VIII.
Il fenomeno doveva essere abbastanza diffuso se in memorie dell’epoca, vi sono accenni al
fuoriuscitismo di " monaci depravati venuti in conflitto cogli sforzi riformativi di Pio V.", ma si
accenna a persone " di sentimenti eretici" nelle Marche ed in Romagna, ed a Faenza " quasi piena
d’eretici" che il papa pensò addirittura di distruggere.
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Ma il movimento di opposizione e lotta supera i confini strettamente ecclesiastici e coinvolge le
"organizzazioni di classe" della città, si intreccia con la lotta degli schieramenti politici.
Manu militari la Chiesa ed il viceré cercarono di scacciare i frati domenicani. Un frate converso,
Ferrantiello, uccise a pugnalate uni degli sbirri che tentavano di arrestarlo e fu impiccato, con
immediato consenso di Roma nella piazza mercato. Lo scontro si rifletteva intanto sul terreno
politico cittadino. L’organizzazione popolare si schierò decisamente dalla parte dei conventuali
contro Roma. La Piazza del Popolo di san Pietro Martire inviò al papa una dichiarazione indifesa
dei monaci, firmata dal capitano e dai 47 cittadini ( verosimilmente i capifamiglia del quartiere ), tra
i quali un orefice, un notaio ed un ‘ razionale’ della Sommaria. I frati dichiararono di voler " vivere
conforme alle lor Regula" e di " non poter essere riformati per forza". Era solo l’inizio di una
vicenda che ebbe più drammatici sviluppi quando l’offensiva raggiunse il convento di san
Domenico Maggiore. I due conventi offrivano motivi particolari di preoccupazione. San Domenico
Maggiore era uno dei più importanti centri culturali del regno, sede dello Studio Generale
dell’Ordine a contatto con l’Università ( che era nello stesso edificio ) e con il mondo culturale
laico, luogo delle più vivaci ed interessanti discussioni teologiche e filosofiche. La sua biblioteca
possedeva pregevolissime opere, di cui parecchie mancavano nelle altre biblioteche. Qui sostarono
e lavorarono i più grandi ‘ ribelli’ italiani del Cinquecento. Giordano Bruno vi entrò nel 1565 e vi
rimase fino al 1586. Si formarono qui i primi fondamenti della sua cultura: un ambiente in cui gli
studenti di teologia avevano la possibilità di scrivere, leggere, e studiare anche di notte nelle proprie
celle e di discutere con relativa libertà delle proprie idee. Quell’ampia e soda preparazione letteraria
e scientifica fu frutto della dimora nei conventi napoletani. Anche Campanella, mentre il conflitto
era in pieno svolgimento, frequentò la biblioteca ed il convento di san Domenico durante il suo
primo soggiorno napoletano. Frate Serafino Rinaldi da Nocera, uno dei promotori della resistenza
alle direttive romane ed uno dei più stimati religiosi napoletani, cercò allora di aiutare
Campanella. Alcuni anni dopo Caravaggio, bandito da Roma dipinse per i frati di san Domenico
Maggiore la stupenda " Flagellazione di Cristo" e la " Madonna del Rosario" uno dei quadri in cui
la passione caravaggesca, fatta insieme di profonda pietà e di vigorosa protesta, raggiunge il
culmine. I due monaci ai lati della " Madonna del rosario" raffigurano san Domenico e san Pietro,
i santi, cioè, a cui erano intitolati i due monasteri " ribelli".
Il movimento intendeva di difendere, con la propria autonomia, idee e principi tutt’altro che privi
di vigore ideale, che Roma si sforzava, invece, con ogni mezzo di soffocare: ostilità all’uso della
forza nelle controversie interne, fiducia nella discussione, tendenza a mettersi sul piano del
dibattito razionale anche nei confronti degli eretici, rifiuto degli eccessi del trionfante superstizioso
formalismo, indipendenza dal potere politico, ricerca di legami con l’organizzazione popolare della
città. Alcuni di questi temi, fortemente radicalizzati, erano già presenti nel Candelaio di Giordano
Bruno ed affioravano nel pensiero e negli atteggiamenti del primo Campanella. Sono questi i
principi fondanti di quello che poi nel XVII e XVIII secolo sarà chiamato principio della tolleranza,
che caratterizzerà la migliore corrente progressista e materialista borghese. Ma questi principi, e
la lotta per la loro affermazione sono già tutti qui in questa lotta del 1586 napoletano e
meridionale.
I progressi della riforma nella provincia di Napoli, dopo l’episodio di san Pietro Martire furono
realizzati direttamente dal " braccio secolare". Nel 1591 l’iniziativa del conte di Mirandola fu
decisiva per l’estensione della riforma ai conventi di santo Spirito e Monte di Dio. Anche l’elezione
del provinciale nel 1594, nella persona del padre Marco Maffei da Marcianise, che fu poi il
commissario apostolico che istituì processi in Calabria contro i congiurati ecclesiastici, fu fatta
d’autorità , " per mezzo di Sua Signoria Illustrissima", ossia il viceré, secondo un documento del
Seggio del Nilo.
La storia meridionale di questo periodo, ancora tutta da scrivere e tirare fuori dall’ingiuria del
silenzio, è ricca di questi movimenti di opposizione anche armati, tra questi va segnalato quello del
movimento valdese. La repressione in Calabria che qui si accenna si riferisce, per esempio, alla
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messa a ferro e fuoco di intere paesi della costa tirrenica che si erano schierati con la Riforma e
dove avevano trovato ospitalità, tra gli altri, il movimento valdese, come Guardia dei Piemontesi.
§ 2.2 Nelle campagne.
La rivolta contro il pagamento di censi, le decime e le altre obbligazioni feudali alla
Chiesa ed ai baroni.
1. la resistenza contro i censi e le decime ecclesiastiche si accompagnò ad un atteggiamento
generale ( " ab omnibus fere" ) di disprezzo verso il clero, a minacce ed offese, al disinteresse
nei confronti delle condizioni materiali dell’esercizio del culto;
2. ruolo e funzione dei massari.
Le campagne meridionali, non toccate dall’ondata di rivolte contadine, che ha accompagnato la
diffusione della riforma protestante, reagiscono ora alla ripresa sempre più accentuata della rendita
fondiaria e feudale ed al contemporaneo sforzo di riorganizzazione economica e finanziaria della
Chiesa. Al movimento partecipano, prima dei contadini poveri, gruppi che hanno un ruolo di
direzione e di aggregazione sociale nelle campagne .
Sono gli imprenditori agricoli, massari, organizzatori semicapitalistici della coltura granaria: forze
contadine che hanno potuto approfittare della fase secolare di congiuntura favorevole lungo il
secolo XVI, raccogliendo in parte i frutti della depressione salariale ed avvantaggiandosi,
indirettamente, della crisi finanziaria della nobiltà e dello sviluppo del mercato cittadino. Sono nello
stesso tempo lavoratori, piccoli o medi possidenti, imprenditori agricoli. Con una fisionomia ben
distinta da quella del borghese possidente, i massari hanno una funzione organizzativa di grande
importanza nella coltura fondamentale del regno e nella pastorizia. Esposti alla pressione dei ceti
privilegiati, di una borghesia terriera, di usurai e di redditieri e di mercanti di grano, sono ora
seriamente minacciati dalla fine della congiuntura favorevole e rischiano di essere ricacciati nella
massa indifferenziata dei contadini. Fino a quel momento, a differenza dei piccoli coltivatori, i
massari-imprenditori hanno potuto superare con relativa facilità, grazie alle scorte, i periodi di
carestia e le cattive annate. Ma ora anche i massari, dopo un raccolto scarso, " non possono
complire di seminare li territori già preparati alla coltura" e rischiano di essere costretti a lasciar
loro masserie ed andare fuggendo.". Il movimento fu abbastanza esteso e stando ai memoriali e
documenti dell’epoca riguardò: Lagonegro, Castelfranco, Forio d’Ischia, Giugliano, santa Maria
Maggiore di Capua, Marigliano, Castello di Aversa, Ducenta, s. Antimo, Villa di Cellole,
Pomigliano d’Arco, Altavilla, Fuorigrotta, Capua, Aversa, san Giovani a Teduccio, e molti altri
ancora.
L’azione dei massari si rivolge contro la rendita feudale ed ecclesiastica. Le conseguenze sono
gravissime. Viene meno un fattore essenziale di ordine e di equilibrio che, in condizioni normali,
contribuisce a tenere a freno le forze selvagge e " demoniache" che il mondo rurale nasconde nel
suo seno.
E’ una resistenza, che tuttavia si diffonde silenziosamente nelle campagne. Finalmente nel 1590-91,
la natura e l’entità reale de movimento, che si estende dalla Terra del Lavoro alla Calabria, dalla
Puglia all’Abruzzo, si rendono evidenti. La breve dilazione concessa dal viceré ai massari per il
pagamento dei canoni e debiti, in seguito al raccolto " penurioso" del 1590; una dilazione da luglio
a novembre che non riguarda né i canoni feudali né quelli ecclesiastici. Il provvedimento del viceré
più che una prova dell’importanza che si poteva attribuire alla funzione dei massari nella
produzione granaria, era la prova dello stato di confusione e di sbandamento in cui viene gettato il
blocco reazionario al potere. Dinanzi alla marea montante dalle campagne, il viceré scarica i suoi
fidi alleati, attraverso la concessione della dilazione, sperando che il movimento si indirizzasse
contro baroni e chiesa e tenesse fuori la corona ed il sistema. Ma il movimento rivoluzionario è in
ascesa ed anche le concessioni non lo fermano, ma lo incoraggiano e sostengono. E’ la forma più
radicale ed eversiva di lotta che si possa concepire nelle campagne: il rifiuto di pagare il tributo
alla rendita fondiaria ed ecclesiastica. Decine di conventi, prelati, chiese, protestano invocando il
" braccio secolare" per costringere i massari a pagare canoni e censi; ad essi si uniscono ora
anche numerosi feudatari. Il movimento coinvolse l’intero regno di Napoli e testimonianza indiretta
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la si ha dalle proteste e dalla locazione di queste: Monastero e clero di Venosa; il marchese di
Vasto Innico d’Avalos per le terre di Pomarico e Montescaglioso; l’arcivescovo di Conza, il
marchese di san Marco Marcello Cavaniglia, Paolo di Sangro duca di Torremaggiore; Camilla
Carafa marchesa di Laino, Flumari, Castello e san Nicola ( " essa supplicante non potrà
corrispondere alla Regia Corte per li suoi adoghi, anzi manco vivere" ); il vescovo di Troia,
Ferrante Carafa barone di Montecalvi; il clero di Laberona; l’ospedale di santa Maria Maggiore di
Capua; il barone di Monteleone Don Carlo Guevara; il clero di Procina; il monastero di san
Benedetto ( le monache " se moreno de fame" ); duca di Termoli Ferrante de Capua; il marchese di
Campagna Francesco Grimaldi; la marchesa di sant’Eramo Laura Pappacoda; i monasteri di
sant’Agostino di Aversa e di sant’Antonio di Buccino.
L’epicentro della resistenza è la Puglia, il centro più importante della cultura granaria e la zona in
cui più sviluppata è l’organizzazione dell’azienda agricola.
Il movimento non solo spacca il viceré dai suoi alleati, ma lacera anche i rapporti tra baroni,
borghesia compradora e chiesa ove i primi cercano di scaricare tutto sulla chiesa e di avvantaggiarsi
della più lenta ripresa di questa ed a tal fine, in qualche caso sono questi stessi ad indirizzare contro
la chiesa i contadini. Essi sperano così di trarne vantaggio e così nella loro ottusità non si accorgono
di indebolire lo strumento principe del consenso: la Chiesa, appunto.
Ma anche il blocco reazionario farà un bilancio dell’esperienza e reso edotto da questa esperienza
correrà ai ripari e saprà tenersi ben unito dinanzi all’assalto rivoluzionario del 1646, ma qui si
spaccano, si dividono. E così facendo creano ulteriori spazi all’iniziativa rivoluzionaria più
complessiva.
Quello che conta qui fermare di questa esperienza è: Dopo l’incrinatura del blocco sociale operatasi con
il distacco dei massari, vi è qui la seconda incrinatura nel blocco sociale tra nobili e Chiesa e lotta
al loro interno per scaricarsi a vicenda i costi della crisi. Sotto il possente attacco contadino si
acuisce la lotta all’interno del gruppo dominante, ciascuno cerca di spostare a sua favore i rapporti
di forza, al fine di scaricarne i costi sull’altro. La protesta contadina colpisce in maniera profonda
parrocchie, conventi et similia di piccole entità, che di quelle decime vivevano, oltreché intaccare i
ricchi patrimoni delle rendite feudale e fondiarie dei nobili ecclesiastici.
La crisi e la rivolta contadina intaccano profondamente il patrimonio ecclesiastico
L’organizzazione ecclesiastica resterà ancora per diversi anni in difficoltà. " Molti preti .. che per
loro povertà miseramente vivono" sono autorizzati a cercarsi lavoro, a fare " alcuno esercizio
manuale" per poter continuare la loro missione; autentici preti-contadini, loro malgrado. I redditi di
molte parrocchie sono così esigui che bastano appena a comprare l’olio e la cera. La Chiesa si
sforza di superare con una riorganizzazione della rendita ricalcata in gran parte sul modello feudale.
A queste resistenze si accompagna anche una certa indipendenza sul piano spirituale o del
costume. Infatti quegli stessi contadini che non vogliono pagare le decime pretendono di dare ai
preti non redditii certi e determinati, ma una mercede libera, in modo da poterli licenziare, quando
non vanno loro a genio; le loro donne non hanno l’abitudine di andare a messa se non a Pasqua ed
a Natale e coabitano con i fidanzati prima che il prete abbia benedetto il matrimonio. Nella diocesi
di Amalfi la resistenza si protrae a lungo. E’ questa una testimonianza precisa che non manca di
sottolineare come la resistenza contro i censi e le decime ecclesiastiche si accompagni un
atteggiamento generale ( " ab omnibus fere" ) di disprezzo verso il clero, a minacce ed offese, al
disinteresse nei confronti delle condizioni materiali dell’esercizio del culto. Sarà questo movimento
di lotta che indebolendo l’egemonia spirituale della Chiesa nelle campagne, apre la via al
movimento della guerra dei contadini nel meridione.
La guerra contadina nelle forme e nelle proporzioni che assume sul finire del Cinquecento, sarebbe
impensabile senza questo serio indebolimento dell’egemonia spirituale della Chiesa nelle campagne
e della sua unità interna.
Come sempre cioè il passaggio a forme superiori di lotta ed opposizione presuppone e rimanda
sempre un più generale indebolimento dell’egemonia della classe dominante, che è sempre il
prodotto di profonde incrinature a monte nel blocco sociale dominante. Giammai viceversa!!
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Quindi possiamo qui dire: crisi di egemonia del blocco sociale dominante e quindi! guerra dei
contadini.
§ 3 Il Banditismo nelle campagne.
Il banditismo in quanto forma della guerra dei contadini, in quanto forma della rivolta agraria.
E’ questo l’unico movimento organizzato, che supera l’ambito delle lotte municipali, è in grado di
resistere al potere pubblico ed in certe zone disgregarlo. Era la più grande forza di opposizione
esistente nel Regno. Nelle condizioni date di insufficiente sviluppo dei nuovi rapporti di produzioni
borghesi, per l’azione di rapina e drenaggio, viste, per l’azione cioè di autentico massacro delle
nascenti forze produttive da parte dei rapporti di produzione esistenti, questo movimento non riesce
a superare il momento della negazione, incapace di per se stesso ad esprimere un’altra società. Ed in
questo senso la sua stessa preminenza rispetto alle altre forme di protesta costituisce un
momentaneo ostacolo al collegamento tra i gruppi rivoluzionari cittadini e le campagne. Sul piano
più generale della prospettiva storica questo movimento sarà invece decisivo per gli sviluppi futuri
del movimento rivoluzionario. Saranno accumulate qui importanti esperienze politiche e militari
estremamente preziose nel e per il corso della rivoluzione borghese del 1646-48. Il movimento di
lotta contadino costringendo il nemico ad impegnare forze materiali e finanziarie, distraendole da
altri punti, e quindi ad alleggerire la pressioni su altri, creano così nuovi ed altri varchi per
l’iniziativa rivoluzionaria. Il raggio d’azione comprendeva anche la Campagna romana, le Marche,
l’Umbria, la Romagna. La prima ondata va dal 1585 al 1592; tra il 1596-1600 ci fu una ripresa
un po’ meno intensa.
Durante il pontificato di Gregorio XIII e di Sisto V i banditi dello Stato della Chiesa avrebbero
raggiunto il numero di 27.000 circa; secondo le informazioni dell’ambasciatore Paruta nel1595
oltre 15.000 persone erano registrate come banditi dall’amministrazione pontificia. Era
convinzione comune che la piaga fosse assai più grave nel vicino regno di Napoli Il movimento più
importante è costituito dal primo periodo che per sette anni, 1585-1592, tenne impegnate le forze
regolari spagnole del regno di Napoli con rinforzi da altri punti del dominio spagnolo in Italia, con
il concorso di uomini e mezzi delle varie casate nobiliari italiane, legate alla corona di Spagna ed
in combinata con l’esercito della curia romana, questi stringendo da nord e quelli spagnoli da sud,
riuscirono a mettere in condizioni di non nuocere il movimento di lotta contadino. Capo indiscusso
di questo movimento fu Marco Sciarra, è questa la figura mitica che poi sarà proiettata in futuro
del bandito buono, del difensore dei poveri, che toglie ai ricchi e dà ai poveri.
Nelle condizioni in cui il movimento rivoluzionario si trovava in quella fase stretto tra la rivolta e
rassegnazione, l’alternativa reale era il banditismo
Marco Sciarra tradusse questo orientamento pratico in un programma esplicito, ben sintetizzato,
pur nella sua forma messianica e burocratico: " Marcus Sciarra flagellum Dei, et commissarius
missus a Deo contra usuraios et detenientes pecunias otiosas.".
La forma burocratica e la dizione latina mostra ancora tutto il tratto della subordinazione ideologica
del movimento alle classi dominanti; la forma messianica evidenzia, invece, sia pure in forma
contorta, il tratto popolare della cultura contadina. Questa presenza forte della cultura popolare e
contadina può essere ricondotta a quel lavoro fatto attraverso le " confraternite" di cui si è detto e
dal ruolo dei massari.
In generale i proprietari terrieri, di solito meno esposti a rischi dei mercanti, furono tartassati:
imposizione di taglie ai proprietari residenti, pena la devastazione di fattorie ed aziende agricole.
Nell’estate 1590 posero una specie di assedio intorno a Roma, ricattando, insieme a molti ‘ ricconi
di Roma’ perfino la sorella di Sisto V; saccheggiavano le case dei più ricchi, rispettando il resto
della popolazione. Gli stessi comuni resistevano invece con le armi, spesso capeggiati dai loro
amministratori, alle richieste regie di alloggiamento da parte dei soldati inviati per reprimere
Sciarra. A Santobuono si rifiutò l’alloggiamento alle truppe regie, ma fu accolta volontariamente
una compagnia di fuoriusciti.
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Né la ricchezza feudale, né la ricchezza ecclesiastica furono immuni dall’attacco. Nel 1587 fu
ricattato ed ucciso Orazio Carafa, barone di Rocca Scalegna. L’uccisione del barone di Colonnella (
1589) ha tutte le caratteristiche della rivolta contadina. La terra fu presa d’assalto dai fuoriusciti
che, una volta rotte le mura e superata la difesa di alcuni famigli del barone, trovarono tutta la
comunità ad aiutarli. Poiché gli uomini si erano dati tutti alla macchia, lasciando soltanto le donne
nel paese, una di queste fu giustiziata sotto l’accusa di aver indicato ai fuoriusciti il luogo in cui si
era rifugiato il barone.
Gli alti esponenti delle gerarchie ecclesiastiche sono presi particolarmente di mira. Tra il 1590 ed il
1595 un buon numero di vescovi rinunciano ad andare a Roma per la visita triennale ad limina, per
timore di finire nelle mani dei banditi. Così i vescovi di Aversa, Potenza, Larino, Nola,
l’arcivescovo di Salerno. Il vescovo di Capaccio, Riccardo Ricciotti, "andando in compagnia di
certi preti della diocesi fu preso e taglieggiato da certi banditi". Così un ricco prete di Gaeta fu
preso da Ascanio Fusco; un abate di Pianella fu ucciso. Durante l’assedio alla città di Lucera del
1592 venne ucciso il vescovo, Scipione Bozzuto.
Il bandito " sociale", che non era al servizio dello Stato o dei baroni, aveva la " protezione" dei
contadini. Sciarra distribuiva denaro e grano ai poveri, imponeva ribassi di prezzi, poneva
particolare cura nel far rispettare dai suoi " l’onore delle donne"; " i banditi … pagano largamente
quanto pigliano per loro bisogno, non violano donne, anzi hanno fatto dimostrazione severa contra
alcuni di loro compagni per aver servato questa parte ".
Tra il 1585-86 queste bande abruzzesi si riunirono in una sola grossa formazione, che riconobbe
Sciarra come capo. Questa formazione resistette sette anni. Era una vera e propria formazione di
guerriglieri. Il suo quartier generale era in Abruzzo ma il raggio della sua attività era più ampio
con collegamenti con nuclei operanti nella campagna romana, nelle Marche ed in Romagna e con
contatti " internazionali": Venezia. " Atipico" era il consenso che lo Sciarra incontrava negli
ambienti cittadini, dove la sua azione veniva interpretata come un movimento di ribellione
antispagnola, come ci attesta la testimonianza del Costo sulle simpatie che suscitava a Napoli, non
solo nella parte povera della città, ma anche tra coloro che da, buoni uomini di cultura, potevano
fare raffronti ed istituire analogie con le vicende della storia di Roma. Così il Costo: " .. il volgo
soleva pazzamente dire che Marco sarebbe venuto in breve tempo ad occupare Napoli, e farsene
anche Re. Né vi mancavano uomini di non mediocre giuditio, che ardivano paragonarlo a Viriato
Lusitano, quel che cotanto tenne a bada gli eserciti romani. Imperocché ( dicevano costoro) .. con
pochissimi rispetto a quelli d Viriato, si mantiene tuttavia contro a’ ministri del maggior re d’
Europa." Nel regno poterono occupare per qualche tempo delle terre, creandovi una
rudimentale e provvisoria organizzazione amministrativa. Vi tenevano tribunali e creavano
magistrati e facevano matrimoni. Sciarra cercò di dare un elementare e confuso orientamento
politico, un’organizzazione militare e mutamento di indirizzo. Il mutamento di indirizzo veniva
riconosciuto con vivissima preoccupazione dal viceré in una lettera del 13 settembre 1588 nella
quale si alludeva anche ad atti di ostilità di natura politica: Marco Sciarra non si limitava più a
rubare ed a commettere delitti contro i sudditi, ma resisteva alle truppe della Corte e le attaccava
con successo, giungendo così a " perdere il rispetto per li ministri di Sua Maestà".
Tutto questo non poteva che portare a Sciarra le simpatie cittadine.
La febbrile attività di Sciarra e la reazione generale delle popolazioni dei comuni contro i
commissari inviati dal governo avevano messo in crisi l’apparato amministrativo e statale più in
generale.
La lotta si era trasformata in guerra interna.
Consequenzialmente fu adottata la guerra controrivoluzionaria con saccheggio, deportazioni,
massacri, villaggi interi furono costretti ad essere abbandonati e spietata persecuzione contro i
parenti dei banditi.
La feroce e spietata repressione avvenne sulla base di dettagliate direttive emanate da Sisto V con la
bolla del 10 luglio 1585 e dalle istruzione del duca di Ossuna e del conte di Miranda ai commissari
di campagna. Il carattere esteso del movimento antispagnolo, nella forma del banditismo, determinò
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una feroce azione di repressione contro tutto il mondo rurale. Cinquantasette villaggi furono
abbandonati e distrutti di cui 18 solo nell’Abruzzo. Alla fine dopo aver impiegato decine di migliaia
di uomini, a cui si aggiunse un forte esercito del papa Clemente VIII nel maggio 1592 gli uomini di
Sciarra sono accerchiati, dopo che Lucera era caduta nelle mani della reazione. Le squadre di
Sciarra si concentrano in due grossi nuclei, come se si riorganizzassero per dare battaglia, invece si
sciolgono. Sciarra andrà a Venezia, ma sarà venduto dai Veneziani alle truppe papaline, riuscirà a
sventare la consegna e solo nel marzo del 1593 verrà ucciso. Molti degli uomini di Sciarra
continueranno per molti anni ancora una resistenza armata, nella forma del banditismo, ma oramai
quella forma di lotta era stata sconfitta.
Il nome di Sciarra rimase per lunghissimo tempo tra la gente abruzzese " in proverbio per denotare
un uomo estremamente imponente ed autorevole".
Il Cinquecento che si era aperto con i tumulti del 1510 contro l’introduzione dell’inquisizione nel
Regno e proseguito poi nel 1545, proseguito con il movimento rivoluzionario del 1585 in realtà mai
spento, giacché esso in definitiva evolse nella lotta armata contadina, nella forma del banditismo,
si chiude con la lotta armata contadina, nella forma del banditismo di Michele Sciarra.
E meglio: il banditismo fu la forma che prese la lotta contro la crisi agraria nelle campagne, che
mentre nelle città si riuscì a fermare facendo affluire tonnellate di grano nel regno ed in modo
‘privilegiato’ nelle città e nella Capitale.
Il movimento di Tommaso Campanella
Ne sappiamo poco, non è ben collocabile il momento, l’estensione, le forze che vengono coinvolte,
il programma, ecc. Andrebbe fatto uno studio specifico, e meglio una ricerca storica specifica,
giacché questo movimento come quello di Masaniello è avvolto dal più fitto mistero.
§ 4 Congiura aristocratico-nobiliare francese e movimento rivoluzionario.
La GUERRA DEI TRENTANNI
La crisi spagnola è inarrestabile, la retrovia meridionale continuava a tenere ed a fornire uomini e
mezzi alla guerra spagnola contro la sua decadenza, contro il crollo di un sistema aristocraticonobiliare che vedeva unito in un sol blocco reazionario la corona di Spagna, la nobiltà italiana e
meridionale e la borghesia compradora meridionale ed italiana, che vivevano della rapina e del
drenaggio delle risorse e che faceva di quel macello umano e morale la base solida del suo
arricchimento. Non quindi l’industria e l’investimento agrario, ma la sordida speculazione. Il
problema di far saltare questa retrovia reazionaria diveniva una necessità di qui l’operare di agenti
inglesi e francesi nel regno al fine di staccare il meridione dalla corona di Spagna. Ma gli intenti
inglesi e francesi non erano poi tanto rivoluzionari, erano quelli di sostituirsi loro nel controllo di
questo importante territorio sul Mediterraneo e controllarlo. La Francia manovrerà con i Savoia
chiedendo in cambio porti sull’Adriatico e sul Tirreno. Il punto da fermare è che queste due nazioni,
che sul loro territorio conducevano una guerra rivoluzionaria, per liberarsi del regime feudale,
aristocratico-nobiliare, nel regno di Napoli non punteranno sulle forze borghesi, ma su quelle
aristocratico-nobiliari per asservirli a sé e non consentire uno sviluppo delle forze borghesi
meridionali ed italiane. L’aristocrazia nobiliare e la borghesia compradora meridionali ed italiane
giustamente sapranno scegliere tra due scelte reazionarie quella più conseguentemente reazionaria e
si schiereranno a difesa della corona di Spagna consentendo il mantenimento di un regime
aristocratico-nobiliare in Italia ed in Spagna: se fosse crollato il sostegno del regno di Napoli e della
borghesia e della nobiltà italiana lo stesso regime aristocratico-nobiliare e lo stesso il regime feudale
che dominava nella curia romana, ossia nello stato della curia romana non avrebbero retto
La resistenza spagnola nella guerra dei Trent’anni faceva leva quasi esclusivamente sulle risorse
finanziarie napoletane. Il regno veniva così ad acquistare una nuova collocazione internazionale retrovia dell’impero spagnolo – diventando uno dei centri sui quali si puntava l’attenzione politica
delle potenze in lotta con la Spagna, e specialmente la Francia e l’Inghilterra.
Tutti o quasi i moti rivoluzionari del Seicento, nelle condizioni più disparate e con le prospettive più
diverse, si presentano immediatamente come moti antifiscali.
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Nel 1636 era stata scoperta la congiura di Epifanio Fioravanti ( in cui si sospettò che avesse
parte il duca di Nocera, Francesco Maria Carrafa ) e nel 1634 quella di Tommaso Pignatelli.
Contemporaneamente un noto fuoriuscito, Pietro Mancino, tentò di promuovere una sommossa
penetrando in Puglia con un gruppo di armati, ma dovette quasi subito abbandonare l’impresa.
Organizzate all’estero, queste trame erano estranee ai concreti problemi del regno, ed incapaci di
svolgimento, proprio perché facevano leva sui residui anacronistici dell’indipendentismo
nobiliare. Il memoriale di Gian Giacomo Cosso, nel maggio 1640, a nome di un gruppo di nobili,
e indirizzato al re conteneva la rivendicazione delle prerogative e dei privilegi della nobiltà ed il
disprezzo aristocratico contro i nuovi ricchi. Gli stessi promotori e capi dell’opposizione
cercavano di circoscrivere la loro opera nel chiuso mondo dell’aristocrazia, rifiutando ogni
possibilità di intesa e di accordo con altre forze ed altri ceti.
In definitiva nei rapporti tra baronaggio e governo vicereale non si giunge ad una rottura. Le trame,
tra il 1640 ed il 1647, con l’obiettivo di trascinare la nobiltà ad una rivolta indipendentistica non
ebbero successo.
Il piano elaborato dalla diplomazia francese nel 1646 per promuovere una rivolta e dare la corona di
Napoli al principe Tommaso di Savoia non intaccò la solidarietà tra monarchia e baronaggio, che si
mantenne inalterata durante tutta la storia del viceregno e fu definitivamente confermata quando la
rivoluzione del 1647 mise in luce i reali orientamenti politici del regno. I singoli episodi di congiura
rimasero rigidamente chiusi nei limiti di una " congiura" senza larghe ripercussioni e senza legami
con le aspirazioni degli altri strati della popolazione e della parte più numerosa dello stesso
baronaggio.
La congiura francese entrò nella fase conclusiva, dopo le iniziative di Tommaso Pignatelli ( 1634) e
di Epifanio Fioravanti ( 1636) con l’episodio del principe di Sanza. Sostenuto ed incoraggiato dalla
famiglia Barberini, che fino alla morte di papa Urbano VIII fu punto di riferimento di tutte le
iniziative napoletane contro la monarchia spagnola, egli era in realtà completamente privo di
seguito e di legami politici.
Protetto dal cardinale Antonio Barberini era anche Fabrizio Carrafa che, insieme a Vincenzo della
Marra, era fuggito dal regno dopo aver assassinato uno dei rappresentanti popolari della Casa
dell’Annunziata. Egli si era messo in contrasto con il principe di Sanza; dopo l‘arresto di costui
furono prese dai Barberini misure per la sicurezza del Carrafa.. Nel 1642 egli era ancora a Roma
sempre sotto la protezione dei Barberini.
Qualche tempo dopo sembrò che la congiura dovesse acquistare maggiore consistenza per
l’adesione di un personaggio di rilievo: il conte di Conversano. L’iniziativa di un piano di rivolta
partì questa volta dal conte di Chasteauvilian che aveva avuto una parte di rilievo nella congiura del
1620 di Ossuna e che aveva cercato di promuovere una lega di principi italiani contro il regno di
Napoli. Oberato di debiti e mosso dalla speranza di riacquistare a Napoli i beni che sarebbero
spettati alla madre, il conte di Chasteauvilian, si unì alla lega dei Barberini riuscendo infine a
mettersi in contatto con il maggior esponente della parte più inquieta del baronaggio napoletano.
Durante tutto l’anno 1642 gli ambienti filofrancesi di Roma accolsero e trasmisero a Parigi voci
insistenti circa un presunto disegno del duca di Medina di rendersi padrone del regno. Una serie di
"lettere senza nome" furono inviate a Roma ai cardinali spagnoli con avvertimenti contro gli "
andamenti non sinceri" e le " macchine altissime" del duca di Medina.
Come nel 1620, anche in questo caso le accuse non avevano fondamento, ma dimostravano che la
tensione tra il viceré e l’aristocrazia era divenuta acuta. Da parte francese si riteneva necessario
informarsi più accuratamente sulla consistenza del partito del Conversano, prima di impegnarsi
concretamente con lui e di fare un trattato. Per la prima volta dunque si parlava formalmente di un
accordo con l’opposizione napoletana. Sono del marzo 1643 lettere del Conversano in cui
manifestava propositi di ribellione.
La morte di Urbano VIII e l’elezione di Innocenzo X, imprimevano una svolta all’orientamento
politico di Roma. I Barberini, che a Roma erano stati il centro delle trame antispagnole e che
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avevano cercato con ogni mezzo di incoraggiare e preparare la rivolta entravano in contrasto con
il nuovo papa.
Le fila della congiura furono riprese su nuove basi, nel 1646, nel momento in cui fu organizzata la
spedizione francese contro i Presidi di Toscana. Un progetto già abbozzato dal Richelieu fu
elaborato dal cardinale Grimaldi con l’obiettivo di ostacolare le comunicazioni tra la Spagna e
l’Italia e tra gli stessi domini spagnoli n Italia; di esercitare una pressione politica sulla santa Sede,
bloccando le sue iniziative a favore della Spagna e di imporre una stretta neutralità al granducato di
Toscana. Ma l’autore del disegno, Richelieu, vedeva anche la possibilità di un’azione più a fondo
nel regno. Occorreva, dunque, preparasi all’eventualità di una rivolta, tanto più che la conquista dei
Presidii avrebbe potuto far precipitare le cose all’interno del regno.
Mazzarino stipulò allora nei primi mesi del 1646 un trattato con il principe Tommaso di Savoia in
previsione di una rivolta a Napoli. La Francia avrebbe accordato al principe aiuto e protezione – in
cambio della cessione di Gaeta e di un porto sull’Adriatico – nel caso che egli fosse riuscito ad
ottenere, in seguito ad una ribellione, la Corona di Napoli. Mazzarino in generale era fortemente
contrario ad un intervento diretto delle armi francesi nel Napoletano. Egli aveva il dubbio che ciò
potesse provocare, per reazione, un riavvicinamento tra i napoletani ed il loro governo, con la
conseguenza di far fallire per sempre le possibilità di successo dell’azione politica nei confronti di
Napoli; e temeva che un intervento come quello che i suoi agenti in Italia sollecitavano piuttosto
che dare l’avvio ad un moto rivoluzionario, avrebbe costretto la Francia ad aprire un nuovo fronte di
guerra nel Napoletano, con un risultato opposto a quello che si proponeva di raggiungere. Secondo
Mazzarino, l’iniziativa ed il ruolo della lotta per la " liberazione" del regno dovevano essere assunti
dagli stessi napoletani, mentre la Francia doveva limitarsi ad incoraggiare, sostenere, guidare la
lotta. Stipulato l’accordo con Tommaso di Savoia, nel 1646, furono intensificati gli sforzi per
risuscitare un movimento indipendentistico, questa volta a carattere filosabaudo. Gli agenti del
principe di Savoia realizzarono contatti di qualche importanza. Uno dei primi sostenitori del
disegno sabaudo fu il principe Gallicano, romano, possessore di un vasto feudo in Abruzzo. Egli
auspicava apertamente l’invio dell’armata di Francia nel regno, sostenendo che al suo arrivo si
sarebbe sollevato con tutto l’Abruzzo ed in Abruzzo raccoglieva uomini ed armi e faceva fortificare
un suo castello ai confini con lo stato romano. La conquista di Piombino e di Portolongone, e quindi
la speranza di un imminente attacco contro il regno, lo resero più audace nelle sue iniziative. Così
negli ultimi mesi del 1646 egli fu arrestato e rinchiuso dapprima a Castelnuovo e poi a sant’Elmo.
Rimase attivo un altro centro della congiura in Terra d’Otranto. I cospiratori assicuravano che quasi
tutti i signori della provincia si sarebbero "dichiarati" appena Tommaso avrebbe messo piede a
terra; offrivano la piazza di Gallipoli e, probabilmente, quella di Taranto per lo sbarco; chiedevano
l’invio di diecimila fanti ( raccomandavano che fossero per la maggior parte italiani e svizzeri "per
levar ai popoli ogni sospetto"), dieci mila moschetti per " armar subito le genti del paese" ed altre
armi e munizioni per " ritrovarsene quel regno sprovvistissimo". La venuta di Tommaso di Savoia
era prevista per dicembre 1646. Questa volta si mirava a dare un più ampio respiro al movimento,
senza farlo uscire dai confini del ceto nobiliare. Ferrante si recò in aprile a visitare Bartolomeo
d’Aquino, carcerato a Castelnuovo e, rivelandogli il progetto del principe Tommaso, cercò di
persuaderlo a non accettare le proposte di Chacon, che gli offriva la liberazione in cambio di un
nuovo " partito2 di sette milioni di ducati. Intanto il cardinale Grimaldi e gli altri agenti francesi
premevano su Mazzarino. I grandi del regno erano malcontenti ed il popolo assai mal disposto. Si
riteneva impossibile ormai impedire che scoppiasse qualche grande rivoluzione nel regno. Nuovi
contatti furono realizzati dal Grimaldi e dal cardinale d’Este all’Aquila, Gaeta, a Baia, a Ischia con
ufficiali di stanza in quelle piazze. Nel marzo 1647 Mazzarino accennava ad una proposta venuta da
Napoli di far saltare l’armata spagnola ed in effetti nel maggio 1647 l’ammiraglia della flotta
spagnola saltò in aria nel porto di Napoli. Poco dopo fu arrestato il duca di Maddaloni, uno dei
grandi capi della nobiltà.
I centri della congiura si erano moltiplicati nei primi mesi del 1647 e da diverse parti si attendeva
l’iniziativa della Francia, quando il 7 luglio 1647, indipendentemente da queste trame, scoppiò a
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Napoli la rivolta di Masaniello. L’avvenimento ( le cui origini sociali e politiche erano
antitetiche rispetto all’indirizzo della " congiura" ) ebbe immediate ripercussioni nelle province.
Il marchese di Acaya cercò di collegarsi con la ribellione delle terre soggette al conte di
Conversano. Ferrante delli Monti, che nella sua qualità di generale della cavalleria napoletana
nello stato di Milano, di membro del Consiglio di guerra in Spagna e del Consiglio di Stato, doveva
assistere il viceré, tentò di preparare a Napoli un colpo di mano insieme ad un altro agente sabaudo,
l’abate teatino Andrea Paolucci, ed al conte torinese Corvo di Saluzzo.
Ma il 2 agosto 1647 Andrea Paolucci, che aveva anche tentato di mettersi in contatto con i capi
della rivolta popolare, fu arrestato. In base ad un’informazione avuta dal console genovese Cornelio
Spinola, il Paolucci aveva confessato e fatto i nomi di altri congiurati: Delli Monti, il principe
Gallicano, il duca di Nocera, ed altri. L’arresto del Paolucci fece cadere le speranze di Mazzarino
nella congiura aristocratica: ma fu soprattutto l’orientamento della rivoluzione a rendere finalmente
evidente il carattere velleitario ed anacronistico dei tentativi di creare nel regno un movimento
indipendentistico legato alle rivendicazioni ed alle ambizioni della nobiltà. Profonda ed insanabile
era la frattura tra aristocrazia e le aspirazioni dei ceti popolari cittadini e rurali; i piccol griuppi
nobiliari che restavano non potevano che puntare sull’intervento francese e dopo la rivolta del 7
luglio riaccostarsi senza esitazioni alla monarchia e prenderne energicamente le difese. Nel
frattempo in questo periodo il banditismo meridionale ( la cui funzione fu assai varia nelle diverse
epoche della sua lunga storia ) fu intimamente legato all’attività ed agli interessi del baronaggio. Al
momento dello scoppio della rivolta di Masaniello il problema del banditismo si era aggravato, per
la massiccia penetrazione di molti banditi nella capitale, al servizio dei grandi signori. Lo sterminio
di questi banditi, ai quali i popolani diedero una caccia spietata, fu uno dei primi e più clamorosi
successi della rivolta. Anche nelle provincie i contadini insorti presero subito l’iniziativa della lotta
contro il banditismo: un caso unico nella storia del Mezzogiorno.
Sollevazioni popolari contro i baroni preannunziano la tempesta del 1647: a Castiglione il popolo si
ribella contro il principe di Santobuono; una rivolta scoppia ad Atri, guidata dal dottor Giulio
Casorati; insorgono i vassalli del principe di Satriano. Nell’aprile 1643, alla notizia dell’arresto del
conte di Conversano, si rimette in movimento l’opposizione antibaronale nei feudi di Acquaviva,
capeggiata da un sacerdote, e sfocia in una serie di violenze e di tumulti.
Congiura aristocratica e rivoluzione popolare si svolsero secondo due linee antitetiche, tanto
più divergenti quanto più si venne aggravando lo squilibrio sociale e politico.
La flotta francese giunta il 24 settembre 1640 a Gaeta ed il 29 davanti a Napoli con lo scopo di
ostacolare il flusso delle " assistencias" che venivano dal regno, evidenzia paurose carenze e vuoti
nell’organizzazione della difesa del regno e della capitale.
Nel frattempo giungevano dalla Spagna le allarmanti notizie della rivoluzione catalana.
Sarà questa carenza che spingerà l’anno successivo, il 12. settembre. 1641, l’Eletto del Popolo a
proporre che si formasse nella città un esercito popolare. Potevano essere mobilitati trentamila
uomini, ma l’Eletto poneva come condizione indispensabile che l’esercito così costituito fosse
comandato da ufficiali popolari, che i nobili fossero esclusi dal comando. I reduci delle guerre
combattute nelle Fiandre, in Lombardia, in Germania avrebbero potuto costituire l’apparato
direttivo delle truppe, la cui base organizzativa dovevano essere appunto i quartieri della città ( le
Ottine ). Il viceré accolse la richiesta e furono formate in un giorno cinquanta " bellissime
compagnie": si costituiva così la prima struttura di quelle che pochi anni più tardi sarebbe stata
l’organizzazione militare del movimento rivoluzionario: 1645-48 e che avrebbe sorpreso tutti gli
osservatori per la sua ampiezza ed efficienza.
E’ il segno premonitore di un risveglio dell’organizzazione popolare, promosso più che dal
rappresentante nel governo cittadino, dai capitani dei quartieri – che erano borghesi!!. La risposta
nobiliare non si fece attendere: le Piazze nobili insorsero violentemente contro il provvedimento,
soprattutto per il fatto che il popolo aveva ottenuto che i nobili fossero esclusi dal comando delle
compagnie delle Ottine ( il principe di Bisignano fu nominato maestro di campo generale
dell’esercito popolare, ma su designazione e con il consenso del popolo stesso " non come nobile
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napoletano, ma come grande amico del Popolo e non altrimenti"). Secondo le proteste
dell’aristocrazia, la storia dimostrava che il popolo napoletano era " fedelissimo" soltanto di nome e
che soltanto il dominio della nobiltà poteva garantire la quiete. Altrove le popolazioni
passavano alla ribellione aperta: Alfonso Piccolomini, che aveva acquistato lo stato di Amalfi,
chiedeva al governo nel 1640 l’invio di truppe contro i " bandidos", che si erano messi a capo del
movimento demanialista; un commissario della Sommaria, inviato a Lanciano per dare il
possesso della città ad Alessandro Pallavicino, fu violentemente maltrattato; poco dopo insorse
Chieti contro il duca Caracciolo. Non erano più isolate proteste ma espressioni di un generale
orientamento che serpeggiava nelle provincie e che accomunava nella lotta contro il baronaggio
le popolazioni recentemente assoggettate e quelle in cui l’antico dominio feudale aveva in quegli
anni riacquistato vigore e violenza.
§ 5. Ingorgo Storico.
L’intero periodo storico presso in esame, 1545-1600, è caratterizzato dalla presenza di una
moltitudine di forme di lotta, giacché accanto a quelle delle città e delle campagne, si assiste a
forme estreme e persistenti di ribellismo nobiliare. ma nel quadro di un più largo dissenso politico e
religioso che è difficile definire nelle sue diverse componenti. Quello che colpisce è la vastità della
frattura, la molteplicità dei piani su cui essa si verifica, la molteplicità dei piani su cui essa si
verifica, l’ampiezza e la violenza della protesta e nello stesso tempo la mancanza di elementi che
possano orientarla, organizzarla, unificarla. Siamo così dinanzi ad una sorte di ingorgo storico.
La stessa classe baronale è in lotta con la Chiesa, spesso sono gli stessi baroni a deviare verso la
Chiesa la pressione dei contadini.
Lenti sono i tempi della ripresa della Chiesa. La Controriforma apre profonde lacerazioni sia nei
suoi quadri di base e sia nei suoi quadri teorici fino ad intaccare seriamente egemonia e consenso,
che costituirà uno dei momenti chiavi da cui passerà il banditismo; una borghesia che guida sia
nelle città il movimento contro il rincaro del grano e la manovra speculativo-granaria e sia nella
campagna con i massari; che appoggia il movimento contro il Concilio di Trento schierandosi con i
punti più alti dell’elaborazione teorica. minacciando di scendere in armi per difendere i conventi di
san Domenico Maggiore di san Pietro Martire, che si opponevano alle nuove disposizioni di Trento;
un movimento contadino armato diretto da Sciarra. E’ limitativo indicare con il termine "
banditismo" un movimento di massa armato che ha coinvolto tutto il meridione sia in uomini armati
che in appoggio e sostegno delle campagne e delle città.
Questo già di per se stesso ci consente di parlare di " guerra dei contadini"; se noi aggiungiamo
che tale movimento è durato sette anni, che ha tenuto impegnato truppe spagnole per sette anni,
scompaginatone l’assetto amministrativo, intaccato decisamente l’immagine e l’autorità politica e
militare della più grande potenza imperiale dell’epoca, la Spagna appunto, infliggendole sconfitte
militari ed umiliazioni politiche e sociali: assalti a tenute di grandi proprietari e la stessa Roma
tenuta sotto scacco per vari mesi e taglieggiata la stessa sorella di Sisto V, abbiamo un quadro
abbastanza fedele dell’entià di questa " guerra dei contadini". Essa inoltre intacca seriamente
prestigio, autorità e sicurezza dello stesso baronaggio meridionale ed arreca gravi danni alle casse
della corona spagnola oltreché dei tanti baroni e principi e marchesi e duchi, che potevano con
minori facilità soccorrere ai bisogni della corona e costretti a non poter versare quanto loro dovuto
al re di Spagna per i feudi in loro possesso. Innesca così un circolo vizioso che inasprisce le
difficoltà finanziarie della corona che già da allora iniziavano a vivere momenti difficili, dovendo
fronteggiare le situazioni in Catalogna, Portogallo, Fiandre. Le mire inglesi nei mercati oltre
Atlantico e attraverso la pirateria, forma di lotta mascherata della potenza inglese in ascesa,
infliggeva severe perdite ai galeoni spagnoli, mentre si andavano addensando le tremende nubi della
Guerra dei Trent’Anni.
Limitativo si diceva giacché poi sembra che una tale azione politica e militare protrattasi per sette
lunghi anni non abbia aperto contraddizioni, crepe, creato spazi, varchi, distogliendo forze e mezzi
a quei movimenti rivoluzionari che poi si svilupperanno tra la fine del Cinquecento e gli inizi del
Seicento: Fiandre, Portogallo, Catalogna, Inghilterra, Francia, intaccandone seriamente forza e
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capacità di risposta e quindi contribuendo a quel più generale declino spagnolo in Europa; se noi
aggiungiamo tutto questo, si diceva, appare in tutta la sua portata come sia riduttivo il termine usato
di " banditismo". Esso però non può neanche – stando alle conoscenze nostre attuali – configurarsi
come " Guerra dei contadini", nel senso classico, engelsiano del termine, venendo meno un
progetto unitario ed un programma politico di sovvertimento dello stato di cose presenti.
Certamente tale movimento si inscrive nella più generale " Guerra dei contadini", che si sviluppa
nella prima metà del Cinquecento nell’Europa centrale, ben trattata da Engels. Gli elementi
temporali sono diversi, giacché quelli dell’Europa centrale si inserivano dentro la lotta per
l’affermazione della Riforma luterana, e quindi dentro il processo di affermazione della borghesia di
quei paesi, che passava per il distacco dal controllo dalla Chiesa di Roma, questi invece avvengono
dentro l’opposizione all’introduzione di norme e regole del Concilio di Trento e traggono alimento
da questo, come ben evidenzia lo stesso Villari, quando lega lo sviluppo del banditismo e del rifiuto
di pagare la decima ed i servigi feudali dall’incrinatura dell’egemonia cattolica sul mondo
contadino e le pratiche ‘ antireligiose’ dei praticanti tali autoriduzioni. Ma non è " Guerra dei
contadini". Il movimento più complessivo vede anche uno sviluppo di forme di solidarietà di classe,
che attraverso le " confraternite" religiose tendevano a stabilire un prezzo unico per il salario
giornaliero dei lavoratori, fermamente contrastato dalla Chiesa e con momenti di frizione tra i
lavoranti ed i borghesi. Questa complessità, questo non essere ancora " Guerra dei contadini", ma
non essere neppure "banditismo" ci rimanda a quella felice intuizione di Villari di " ingorgo
storico", che non spiega, ma fissa implacabilmente tutta una complessità meridionale, spingendo a
riflettere, ad approfondire.
Se " ingorgo" significa che o in un determinato punto si ha una strozzatura, per cui questi fasci di
contraddizioni vengono deviati e non riescono ad interagire tra di loro, esponenziandosi, ma anzi si
smorzano. Si tratta allora di capire in cosa, precisamente in cosa, consiste questa strozzatura. I fasci
di contraddizioni non riescono, cioè, a travolgere gli steccati, gli àmbiti propri della società, che
invece resistono e costringono i fasci di contraddizioni a restare dentro quegli àmbiti, che quegli
steccati ben delimitano, difendono e tracciano la via, l’indirizzo del corso delle cose.
Il tratto più immediato è che questi fasci di contraddizioni vanno isolatamente allo scontro e così
vengono battuti, e mentre questi si ritraggono altri ne maturano, andando anche questi alla sconfitta,
mentre altri ancora stanno maturando e si apprestano allo scontro, senza che si possa attardare i
primi ed accelerare i secondi e così farli confluire ed interagire.
E’ questa una società all’inizio del suo declino, ove singoli pezzi entrano in contraddizioni
determinano lo sviluppo di contraddizioni parziali, ma in cui esistono ancora settori in grado di uno
sviluppo e quindi agiscono da volano per la più complessiva società e così agendo consentire di
attutire ed assorbire quelle spinte, quelle contraddizioni. In queste specifiche condizioni quella
società in declino si rafforza non solo perché riesce a dissanguare le forze di opposizione e
trasformazione, ma perché riesce ad attrezzare le linee strategiche di difesa.
In generale, infine, possiamo dire che quando questo accade è sempre indice di uno spropositato
rapporto di forze, che consente al nemico di attingere forze: uomini e mezzi da altri punti e
concentrarli in quelli ove maggiore è il pericolo. A lungo andare il nemico si ritrova, però, solo una
lunga prima linea, molto estesa, vasta, forte e ben puntellata, ma senza più riserve e retrovia.
Presenta, cioè, solo una lunga, estesa e fortificata prima linea.
Solo particolari condizioni, il concorso, cioè, di altre forze non direttamente ed immediatamente
visibili, possono consentire il mantenimento del sistema, ma a condizione di una pesante ed
asfissiante bunkerizzazione.
In generale si tende a giustificare tale situazione con l’assenza di una direzione in grado di unificare
le varie spinte, di… .In generale è giusto, ma proprio perché " in generale" non spiega poi, perché
quella fase storica non produce il gruppo dirigente che e che…, finendo così per non intelligere il
processo reale e, nei migliori dei casi, per costituire ferma ed inappellabile condanna della classe
borghese, come se i due momenti non fossero l’uno e l’altro; come se un gruppo dirigente non sia
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espressione e prodotto della più complessiva situazione generale ed è poi proprio ed esattamente
quel " generale" che sfugge, finendo per leggere solo i momenti di rottura, pur se forti e sostanziosi.
Specularmente potremmo fare il ragionamento, speculare appunto, per Spagnoletti, che vede il
"generale", cioè che legava un aspetto, senz’altro sostanzioso, ma che egli assume come dato " in
generale".
Quello che Villari chiama " ingorgo storico", potremmo più correttamente ricondurlo alla
categoria gramsciana di " casematte".
Il Seicento si apre così con questo esatto e preciso scenario, ove la lotta del popolo meridionale
contro la Spagna si scontra con tutta la reazione nobiliare italiana ed europea: i Piccolomini, gli
Aldobrandini, i Carrafa, i Pignatelli, gli Este, i De Medici, i Grimaldi, gli Spinola ed i Doria, i
Savoia, giacché tutti traevano guadagni: rendite, pensioni, titoli nobiliari, e questi titoli nobiliari
avevano poi il ruolo di rendere spendibile la casata all’interno dell’impero asburgico, assai
diversamente dal titolo nobiliare di principe di Sabbioneta, o di e di… . Saranno allora questi e
sarà allora questa quello che noi, con termine gramsciano chiamiamo " casematte".
Capitolo Terzo
Problemi e questioni nella formazione
della nuova coscienza borghese
Queste sono le condizioni politiche, lo sviluppo raggiunto dal movimento rivoluzionario nella sua
ascesa, ma non sono ancora tutte le condizioni, che possono consentire lo sviluppo di una
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rivoluzione, queste tutt’al più danno un movimento rivoluzionario, una ribellione forte, ma non
ancora una rivoluzione. Queste condizioni sono date dallo sviluppo della battaglia sul piano teorico,
dal bilancio complessivo dell’esperienza, dall’elaborazione di una nuova teoria politica, di una
tattica e di una strategia, specifica per quelle esatte condizioni storiche.
Di solito quando si parla della rivoluzione borghese del 1646-48 si nasconde sia tutto il precedente
sviluppo del movimento rivoluzionario, i suoi zigzag e tortuosità e sia questo sviluppo sul piano
teorico. Solo dopo aver fatto questo si può far passare il tutto per " rivolta" e può consentire al
Croce, don Benedetto, di scrivere:
" La rivoluzione detta di Masaniello finì, insomma, come sempre le rivolte proletarie, prive di
sodi e attuosi concetti politici e perciò incapaci di intima resistenza e perseveranza.".
Premessa
In una società che era incapace di contrapporre l’idea di un " nuovo ordine" al sistema tradizionale
di valori ed in cui il rispetto della gerarchia sociale, superati gli attacchi appassionati dei
propugnatori della libertà naturale e ricacciato al fondo lo spirito di eversione, era un dato
insuperabile, il richiamo al passato, alla tradizione, costituiva il presupposto fondamentale
dell’azione politica. Il concetto stesso dell’uguaglianza sociale si identificava con quello dell’ordine
gerarchico.
" La prima critica ad ogni scienza parte sempre dai presupposti della stessa scienza che si vuole
criticare" ( Marx-Engels). Noi dobbiamo cogliere due momenti: uno è quello riconducibile a
quanto Marx-Engels e l’altro al movimento oggettivo delle classi nel regno di Napoli. In realtà
situazione non dissimile si verifica in Olanda, Inghilterra: il processo di chiarificazione e di
separazione sarà un processo molto complesso, che troverà nella conquista del potere da parte
della borghesia un momento importante; il processo cioè di formazione della ideologia borghesia e
della teoria politica, sociale, militare, istituzionale sarà un processo che troverà nella conquista del
potere da parte della borghesia in Inghilterra ed Olanda un momento importante. Perché questo
avvenga occorre che le stesse forze produttive si sviluppino e che il sistema di produzione
borghese si sviluppi appieno e questo avviene con il sistema industriale, ma questo richiede una
serie di scoperte ed invenzioni scientifiche: Cartesio, Leibnitz, Newton devono ancora venire. Essi
troveranno nella borghesia al potere, nello Stato nelle mani della borghesia, strumenti eccezionali
per lo sviluppo ed applicazione delle loro teorie scientifiche. La stessa rivoluzione industriale
inglese deve ancora venire, ma non basta che essa si verifichi perché vi sia uno sviluppo della
teoria borghese organica, essa infatti troverà la sua sistematizzazione e definizione nel XVIII
secolo. Noi possiamo dire che la rivoluzione francese, e l’Encyclopedie costituisce esattamente,
questa sistematizzazione. Se è importante fissare questi limiti, giacché ci consente di cogliere i
limiti più generali del processo rivoluzionari, i suoi zigzag, con l’insistere troppo su questo si
finisce per occultare le responsabilità della borghesia italiana nell’evoluzione del processo politico
della Penisola. Altrove è lo stesso Villari, Elogio della Dissimulazione, che indica come le teorie
politiche che stanno alla base della rivoluzione borghese del 1646-48 sono non solo all’interno delle
più complessive teorie rivoluzionarie dell’epoca, ma in molti punti ne costituisce una punta
avanzata di eccezionale portata, specie sul piano delle teorie politiche, dello Stato, ecc.
Il punto invece da fermare per quanto attiene la società meridionale è che mentre in Inghilterra,
Olanda, Francia questi limiti vengono superati dal corso stesse delle cose e dalla spinta progressiva
e dagli interessi della classe borghese, nella società meridionale vengono inchiodati agli interessi
della classe borghese italiana, che trovava nei possedimenti feudali nel regno di Napoli ben precisi
interessi materiali, che la saldavano al mantenimento di uno status quo e quindi ad opporsi in
maniera diretta e cosciente a qualsiasi avanzamento di idee nuove e di nuove forze sociali, salvo
poi, caso mai, ad orientarsi diversamente nei propri paesi di origine. Ma in realtà esse si saldarono
alla corona spagnola e quei possedimenti nel regno di Napoli condizionavano, limitavano le loro
stesse azioni nei lori paesi d’origine, trasformando così l’Italia tutta in una retrovia della società
feudale-nobiliare. Trovandosi saldata alla corona di Spagna per mezzo dei possedimenti nel regno
di Napoli, essi lotteranno furiosamente contro una qualsiasi modifica dell’equilibrio, si opporranno
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così alla rivoluzione borghese nel meridione d’Italia e così facendo condanneranno se stesse ad
un ruolo subalterno nel più complessivo rapporto di produzione capitalistico. Il ritardo del
capitalismo italiano si origina proprio ed esattamente qui. Il declino della Spagna apre nuove
prospettive allo sviluppo degli stati borghesi europei, la rivoluzione inglese ed olandese da una
parte e lo sviluppo dello stato nazionale borghese in Francia consentono di rimettere in discussione
gli equilibri che si erano venuti a determinare all’indomani del 1492, ossia all’indomani della "
scoperta" dell’America. L’affacciarsi in contemporanea dell’Inghilterra e dell’Olanda da una parte
e della Francia dall’altra consentiva spazi di sviluppo e possibilità di uno sviluppo forte del
capitalismo italiano, che venendosi a trovare ben al centro del Mediterraneo poteva sviluppare un
ruolo sia nei rapporti con i paesi afro-asiatici rivieraschi e sia attraverso uno sviluppo alto della
produzione agricola, specie quella legata alla produzione: canapa, lino, olio, grano, ecc. avere un
suo sviluppo capitalistico. La borghesia italiana perde, per mere bindolerie, questa occasione e si
viene così ad essere condizionata nel suo sviluppo proprio ed esattamene dall’Inghilterra e dalla
Francia sul versante mediterraneo e atlantico-mediterraneo e sia dall’Olanda sul versante nordatlantico. Si è ritenuto di spiegare il declino dell’Italia con la " scoperta" dell’America e quindi con
lo spostarsi dell’asse dal Mediterraneo all’Atlantico e quindi con il venirsi a trovare l’Italia da
centro dell’asse principale degli scambi a fuori asse. Questo è indubbiamente vero, ma questo non
determina tout court il decadimento della Penisola, determina che la borghesia mercantile italiana
abbandona il paese per investire altrove, per farsi sostenitrice dello sviluppo degli stati nazionali
atlantici, appunto: Spagna, Francia, Inghilterra, Portogallo, e questo già la dice assai lunga sul
sentimento nazionale della borghesia in particolare italiana. Ma verso la metà del Cinquecento si
viene a configurare una situazione diversa e la borghesia italiana era in grado come forza
economica e politica di agire, avrebbe dovuto non perdersi in bindolerie e nelle elemosine
mentecatte spagnole, senza comprendere che le sue sorti erano saldamente legate e determinate da
quelle del meridione d’Italia, in quanto parte della Penisola e che uno sviluppo legato a singole
realtà: granducato di Toscana, Genova, Venezia era solo una velleità piccolo borghese, una visione
da mercante, implicava che questa borghesia non era evolta verso una visione più organica dello
stato e dell’economia e dei processi economici, rimanendo legata a quella mercantile. In generale si
è voluto sostenere la tesi di uno sviluppo capitalistico dell’Italia nella regione lombardopiemontese fino ad elevare questo allo sviluppo capitalistico italiano, all’Italia, fino a fare dello
sviluppo capitalistico italiano lo sviluppo avutosi in questa regione. Ci si è ostinatamente attaccati
a questa visione piccina, mercantile, che implacabilmente mostrava tutta la visione teorica piccina,
mercantile, della borghesia e dei suoi teorici, che continuavano a mantenere una visione vecchia di
6-700 anni, dei Comuni. Ma in realtà persa l’occasione della rivoluzione borghese nel 1646-48 la
borghesia italiana si condanna alla decadenza, ad un ruolo subalterno ed infatti tutta la storia di
questa borghesia, e quindi della Penisola, sarà la storia di quanto Inghilterra e Francia decideranno
che sia. L’Inghilterra controllando in maniera ininterrotta dal 1600 la Sicilia controllerà l’Italia
meridionale, stringendo l’intera Penisola in una morsa d’acciaio per impedirle qualsiasi sviluppo
che potesse minacciare o mettere in discussione la sua egemonia marittima nel Mediterraneo ed
attraverso questo, controllando le vie di comunicazione, condizionarne lo stesso sviluppo. La
storia italiana si farà quando Francia ed Inghilterra vorranno: la Francia nel 1798-99, dopo il 1793!!,
vorrà fare l’unità d’Italia per insediarsi stabilmente nel Mediterraneo e contrastare così l’egemonia
inglese e minacciarla sul versante orientale, in direzione Turchia-Mar Caspio ed in direzione paesi
rivieraschi mediterranei; si farà nel 1859 quando la Francia per rafforzarsi ed estendersi
nell’Europa centro-occidentale vorrà l’unità d’Italia a metà, ma questo incontrerà la resistenza e
l’opposizione dell’Inghilterra che con le sue navi, e prima con i suoi agenti nel movimento ed in
Italia dichiaratamente, sosterrà la spedizione dei Mille, e quando la flotta italiana, su ordine di
Cavour e comandata da Persano, lascia le acque di Livorno per intercettare le tre navi dei "Mille"
troverà la potente flotta britannica a difesa, che le scorterà fin dentro il porto di Palermo. E
continuerà a farsi dopo nel 1870 e continuerà a farsi con i capitali anglo-francesi e continuerà a farsi
con la direzione della Comit, non è scoperta il dire che i Savoia erano legati a doppio mandato agli
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inglesi. E si continuerà a fare in questo secolo secondo le linee direttrici di Francia ed Inghilterra
sosterranno ed incoraggeranno le avventure imperialiste italiane per scopi anti-germanici: nei
Balcani per bloccarne lo sbocco sul Mare Adriatico, ecc. ecc. .
Lo sviluppo dell’Italia si salda così a partire dal Seicento saldamente al Meridione d’Italia e lo
stesso sviluppo di Francia ed Inghilterra viene a dipendere dalle condizioni che vengono a
costituirsi in questa parte d’Europa. E così l’intero sviluppo degli stati borghesi nazionali europei
vengono a dipendere per certi aspetti con le sorti e lo sviluppo di questa parte d’Europa. Viene così
a partire dal Seicento a costituirsi quel tutto organico della storia europea, che vede in un nodo
strategico decisivo il controllo e lo sviluppo della regione mediterranea dell’Europa, la cui
configurazione consente sia di proiettarsi sul versante balcanico e sia sul versante dei paesi afroasiatici rivieraschi.
Questo comporta ipso facto la necessità del controllo di quest’area strategica da parte delle nazioni
europee più forti, ossia Francia ed Inghilterra e consequenzialmente la sottomissione tout court
della borghesia di quel paese.
Mentre quindi in Inghilterra, Francia, Olanda vi sarà il superamento di questa visione statica ed
una più generale crescita della coscienza, della cultura e della maturità di un popolo, in Italia
questo non avverrà, di qui quella sostanziale assenza di una cultura nazionale ed in sostituzione il
surrogato desanctiano-crociano, il surrogato della retorica umanistica e le Categorie dello Spirito di
Croce e quando sarà tutta sbilanciata saranno le smancerie ed i pettegolezzi labriolani. Viene con
forza qui quel nesso inscindibile che salda la sconfitta del movimento rivoluzionario meridionale
alla più generale decadenza dell’Italia, letto da qui dal lato delle coscienze e della produzione
culturale.
§ 2. La Teoria Politica
Anche qui lo sviluppo della teoria politica va inquadrato e letto dentro il più generale movimento
rivoluzionario borghese: inglese ed olandese in primo luogo.
La teoria politica elaborata dal Machiavelli se poteva dare le indicazioni più generali per la
formazione di uno stato nazionale, non era in grado di indicare al movimento rivoluzionario le vie
da seguire. La rivoluzione in Olanda, in Catalogna nel meridione dovevano fare i conti con due
realtà che Machiavelli non aveva aver preso in considerazioni e che facevano la differenza: 1. la
presenza di uno stato gendarme, l’impero spagnolo, in grado di intervenire in ogni punto e
concentrare forze e risorse, schiacciando così ogni movimento, ogni sussulto di cambiamento; 2. la
curia romana, totalmente espressione degli interessi spagnoli, che esercitava una forte egemonia,
costituendo le fondamenta del consenso e dell’egemonia.
In queste condizioni il problema non è tanto quello delle esplosioni di movimenti di opposizione,
quanto quello della salvaguardia ed accumulazione delle forze, la necessità che questi si esprimano
affinché siano in grado di accumulare esperienze ed aprire varchi nel blocco sociale, determinando
spostamenti di uomini e risorse da un punto ad un altro, creando così divisioni e scompaginamento
nelle fila del blocco dominante. E’ quello della sistematizzazione teorica e dell’arricchimento della
teoria, della tattica e della strategia, della migliore comprensione del nemico, del suo dispiegamento
delle forze in campo. Questo richiedeva quantomeno una circolazione delle idee, bloccata dal rigido
controllo dell’Inquisizione, che con la messa all’indice dei libri agiva da autentico blocco, da
strumento di repressione violento. Il dato da fermare è che il problema si poneva in modo originale,
che nel passato, per quel tratto di unicità del potere espresso dall’Impero spagnolo e della
sottomissione ad esso della curia romana.
La teoria politica elaborata da Machiavelli si rivelava insufficiente per quanto atteneva i problemi
dello Stato: teoria dello Stato, livelli di rappresentazione istituzionale, rapporto tra i vari livelli del
potere: politico, giudiziario, legislativo, del rapporto Stato e singoli e quindi emancipazione del
soggetto da suddito a cittadino, ma questo richiedeva tutta una nuova teoria politica e nuove forme
di organizzazione dello stesso convivere civile. Lo Stato di Machiavelli è ancora lo stato
assolutistico, ancora e tutto sul terreno aristocratico-nobiliare, il principe, appunto. E’ ancora lo
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stato di fine Quattrocento, lo Stato spagnolo di Ferdinando e Isabella di Castiglia, lo stato inglese
che viene unificato militarmente, lo stato portoghese del Quattrocento e non ancora lo Stato
borghese.
La " scoperta" delle Americhe aveva determinato lo sviluppo e l’affermazione di una nuova classe,
la borghesia, aveva determinato una più generale complessificazione della società civile. Lo
sviluppo dei nuovi rapporti di produzione aveva agito da indebolimento degli strumenti di controllo
e di egemonia. Consequenzialmente lo stesso Stato si era complessificato ed aveva attrezzato
strumenti adeguati, sufficienti e necessari che non quelli dell’età di Machiavelli. La modifica delle
classi determinata dal post 1492 aveva determinato profonde modifiche nell’equilibrio delle classi e
del blocco sociale, determinando il superamento dei precedenti metodi della lotta politica e del
mantenimento e conseguimento del consenso sulle classi subalterne. Tutta questa realtà non era
riconducibile al principe, alla Signoria, alla corte dell’età machiavelliana. Consequenzialmente la
lotta politica si era modificata e modificati erano gli strumenti e le forme della conduzione della
lotta delle classi, dove la classe dominante si era adeguatamente attrezzata ed impostata una saggia
politica preventiva, sulla base della nuova realtà che si era andata nel tempo profilando e
disegnando.
La rivoluzione inglese dimostrerà ampiamente la necessità di un nuovo e diverso equilibrio tra le
classi costituenti il blocco dominante e le forme ed i modi ed i metodi di risoluzione delle
contraddizioni all’interno del blocco che aveva costituito la massa principale della rivoluzione ed i
livelli di equilibri successivi tra le classi che, invece, costituiranno il blocco dominante sociale.
La teoria dello Stato per il nuovo Stato borghese, poneva tutta una serie di problemi legati alla
territorializzazione ed all’interno di questi tutto il problema dell’esercito e della sua organizzazione.
Ulteriore problema, che rendeva se non obsoleta la teoria politica dell’età di Machiavelli,
quantomeno insufficiente era il problema militare. L’invenzione della polvere da sparo e
consequenzialmente delle armi da fuoco aveva modificato non solo la natura della guerra, ma
aveva modificato l’intero assetto dell’esercito con il superamento della centralità della cavalleria e
posto al centro la centralità della fanteria. La nuova forma raggiunta dalla guerra richiedeva una
massa enorme non solo di soldati, ma una loro specializzazione e quindi una nuova e diversa
organizzazione dell’esercito ed una diversa ripartizione, con la nascita di nuove figure espressione
delle nuove armi e la necessità di un nuovo e diverso coordinamento tra i vari tipi di armi, ciascuna
organizzata in specifiche formazioni militari. Questo comportava che lo stesso movimento
rivoluzionario in un paese non si trovava di fronte cavalleria ed alabardieri, ma moschetti e cannoni
e che quindi le stesse città e gli stessi paesi venivano ad assumere ruoli e funzioni diversi che nel
passato. Nelle singole città veniva a disegnarsi diversamente l’importanza militare di determinate
zone e nei singoli paesi veniva a disegnarsi diversamente l’importanza di determinati territori sul
piano strategico e tattico, fino a configurarsi come importanti piccoli villaggi solo perché venivano
a trovarsi su posizioni strategicamente vitali sul piano militare ed economico. Tutto questo
determinava una modifica nella teoria politica per quanto attiene le forme, i modi ed i metodi del
mantenimento e conseguimento del consenso. Il nemico si presentava in possesso di tremende
capacità distruttive non facilmente contrastabili ed ancora più difficilmente il movimento era in
grado di provvederne per sé, tale da contrastare le armi e la forza del nemico che gli stava dinanzi.
Una massa enorme di problemi stavano davanti al movimento rivoluzionario del periodo 15701650. Tale massa se per certi aspetti era assimilabile a quella che si trovava davanti il movimento
olandese era assai diversa dall’inglese. Il movimento rivoluzionario meridionale risolve in maniera
sostanzialmente corretta i problemi che gli stavano di fronte, contribuendo all’elaborazione della
più complessiva teoria politica borghese: Accetto, Boccalini, Malvezi ed altri, oltre alla produzione
di importanti pamphlet prodotti nel corso della rivoluzione, ma che fanno chiaramente intendere di
una più sostanziosa elaborazione e riflessione a monte, sviluppatasi negli anni 1620-1640.
Una funzione più grande e più diretta, come sostegno alla ricerca, ebbe la forte organizzazione del
ceto popolare, che costituiva una struttura portante del sistema politico, dell’amministrazione e della
vita cittadina. Ferrante Imperato, il promotore del gruppo dei naturalisti, che ebbe un ruolo
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importante nella elaborazione delle prime idee di riforma, fu un rappresentante ufficiale del
popolo nell’amministrazione della città, come, in seguito, suo figlio Francesco Imperato, scrittore
politico ed autore di una importante raccolta di antichi Capitoli del Regno. A diversi livelli
l’intreccio tra movimento intellettuale ed organizzazione politico-amministrativa popolare riuscì ad
assicurare dei margini di relativa libertà al dibattito politico.
Ma il ruolo essenziale nel garantire la continuità del movimento lo ebbe il suo stesso sviluppo
interno, la riflessione sui metodi e sugli obiettivi. Fondamentalmente fu il ripensamento che seguì
alla fase di ribellismo, di utopie e di proteste, in cui si colloca anche l’episodio campanelliano: una
lunga catena di fallimenti, da cui l’oppressione era uscita rafforzata e che erano sfociati in grandi
ondate di banditismo. La cultura di opposizione ( esperienze e correnti diverse) acquistò
consapevolezza della necessità di questi fenomeni, manifestazioni di impotenza ed ostacoli obiettivi
alla riforma politica ed intellettuale. L’elaborazione di linee e programmi più realistici, rispetto alla
protesta, sorta quando cominciò ad incrinarsi il tradizionale equilibrio tra il Regno e la Corona, fu
essenziale per la prosecuzione della ricerca e per il raccordo con il pensiero contemporaneo italiano
ed europeo.
Nella letteratura che contribuì a preparare a Napoli la rivoluzione del 1647 c’è, il libro di Camillo
Tutini Origine e fundatione dei Seggi di Napoli , che fu considerato una sorta di manifesto della
ribellione, o come altre opere di impianto " scientifico" che rivelarono poi, durante la
rivoluzione, il loro significato politico.
Gli studi su Napoli in età greca e romana, ai quali contribuirono il Capaccio e lo stesso segretario
dell’Accademia degli Orsini, Francesco de Pietri furono ampiamente utilizzati dai repubblicani ed
indipendentisti nella propaganda, nella elaborazione di programmi, nelle scelte politiche. La
rivoluzione da una parte diede significato politico ad opere che erano state elaborate con diversi
scopi, dall’altra rompendo la cappa dell’oppressione e della censura, rivelò intenzioni e pensieri che
prima erano accuratamente nascosti.
In generale la teoria politica del Quattro-Cinquecento contemplava una visione sostanzialmente
semplice dei rapporti politici e sociali. Essa era fortemente determinata dalla visione e concezione
della società feudale e quindi da una concezione politica che aveva al centro, perno e motore primo
la classe aristocratico-nobiliare. Il sistema tolemaico ben esprimeva e sintetizzava il modello
ideologico della società e dei rapporti civili e sociali.
Il modello politico-teorico di rivolta comunemente accettato contemplava due tipi, in una certa
misura connaturati alla realtà stessa della società e dello Stato. Anzitutto la rivolta popolare,
provocata dalla fame e dalla miseria. Non si riconoscevano altre cause possibili di sollevazione
popolare: la plebe " più suol muoversi per interessi vili che per spiriti generosi" ( Boccalini ).
L’altro tipo era la rivolta di una frazione o della maggioranza della " nazione politica". Nel giudizio
comune e nel caso specifico delle rivolte, la nazione politica coincideva con i ceti privilegiati della
nobiltà. Non si riteneva che una rivolta potesse conseguire lo scopo del mutamento politico - e
neanche che potesse avere inizi e svolgimenti di qualche consistenza - senza il consenso e
l’appoggio della nobiltà. E sebbene la tradizione culturale assumesse spesso e volentieri come punto
di riferimento la figura classica dell’eroe tirannicida, il modello ufficiale e più largamente diffuso
attribuiva a questo tipo di ribellione fini particolari, di gruppo o di casta, contro la funzione di
equilibrio sociale e di giustizia svolta dal sovrano. Era piuttosto incerta e confusa invece, o
addirittura inesistente, l’idea che il mutamento potesse essere tentato da gruppi sociali politicamente
capaci ma distinti dalla nobiltà o in contrasto con essa, da gruppi borghesi. Consequenzialmente le
stesse norme della prevenzione e della repressione erano corrispondenti al modello di rivolta
comunemente riconosciuto e qui la distinzione tra i due ordini della società era particolarmente
netta e rigorosa. La cura particolare per l’approvvigionamento alimentare dei centri urbani e
l’attenta distribuzione di cariche e benefici ai nobili appartenevano al normale bagaglio delle misure
di buon governo ed alle legittime aspettative degli strati sociali interessati; nella repressione delle
congiure nobiliari, insieme alla decapitazione dei colpevoli, era tipico l’impegno di disgregazione
della rete di solidarietà del parentado. L’elemento del sistema repressivo su cui è necessario
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richiamare l’attenzione, per l’importanza che ebbe nella prima età moderna, è lo spettacolo rituale
di esecuzione capitale con atroci torture riservato ai condannati di estrazione popolare, responsabili
di tumulti e delitti di lesa maestà. Una sentenza per delitto di lesa maestà fu emanata ed eseguita a
Napoli nel maggio del 1622 contro sette cittadini per una manifestazione di protesta, con insulti e
lancio di sassi, contro il viceré Zapata. L’episodio è noto come " tumulto delle zanette", colpisce,
tuttavia, la sproporzione tra la pena comminata, a pochi giorni della protesta, e l’entità del fatto. E
in base alla rigorosa distinzione tra gli ordini adottata anche nei metodi repressivi e punitivi, al "
borghese" condannato per ribellione e lesa maestà non toccava un tipo di esecuzione diverso da
quello riservato al plebeo.
La ribellione e la congiura come forme di lotta allora conosciute.
In presenza, allora, di un apparato repressivo imponente e di modelli di interpretazione e di giudizio
rigidi e profondamente interiorizzati vengono elaborati strumenti per creare margini di movimento e
di innovazione all’iniziativa politica. Il problema riguarda, in misura diversa, tutti i paesi europei,
ma indubbiamente in Italia la situazione era più difficile che altrove: qui, perciò, le coperture e le
ambiguità nella ricerca dell’innovazione, insieme alla pratica della clandestinità nella diffusione
delle idee, ebbero le manifestazioni più complesse e difficili da decifrare e documentare. Alcuni
settori della cultura e della politica cercarono di difendere esigenze di riforma e di libertà senza
contrapporsi frontalmente ed apertamente ai princìpi dominanti nella politica e nella morale.
Da questa esigenza e da questa realtà la teoria e pratica della dissimulazione. Affrontata dal
pensiero classico e medievale come un problema eterno dell’uomo, del rapporto tra apparenza e
realtà, tra menzogna e verità, essa fu considerata nel tardo Cinquecento e nel secolo successivo
soprattutto come un aspetto della vita politica e del costume di quel tempo. Francesco Bacone non
si limitava ad affermare la liceità della dissimulazione, ma ne esaminava meccanismi ed effetti. Egli
la considerava come " la parte più debole della politica e della prudenza", ne attribuiva la pratica
soprattutto ai politici che non hanno " tale penetrazione di giudizio da poter discernere quali cose
devono essere messe alla luce del sole e quali mostrate a mezza luce, ed a chi e quando…".
Per questa via si faceva, cioè, la Scienza della Politica, si faceva l’autonomia della politica
dalla teologia e dalla filosofia, il suo fondarsi in quanto scienza, distinta dalle altre e dall’arte
militare.
Un documento boemo dell’inizio della guerra dei Trent’anni delinea la questione in maniera
esemplare. Venceslao Meroschwa, spiega ad un amico di Norimberga la corrispondenza tra i
metodi della ricerca scientifica ed il nuovo modo di concepire la politica, mettendo al centro
del discorso, appunto il tema della simulazione.
L’amico gli aveva chiesto un parere sul modo come dovevano comportarsi le città imperiali non
ancora coinvolte nella guerra: se dovevano schierarsi con l’imperatore Ferdinando o con l’elettore
Federico o restare neutrali.
" Il tuo triplice schema è scolastico e proviene dai maestri di antico candore; oggi, infatti,
come i nuovi matematici con il loro cannocchiale hanno scoperto nuove stelle nel firmamento
e nuove macchie nel sole, così anche la nuova politica ha le sue lenti e la sua ottica, attraverso
la quale si possono scorgere altri elementi e alternative (…)."
Tenendo conto delle possibilità offerte dalla tecnica della simulazione, infatti, le scelte politiche
diventavano molto più complesse di quelle che aveva potuto prevedere l’amico di Norimberga
Venceslao Meroschwa così scrive: " I vostri mercanti vendendo le loro cianfrusaglie, simulano,
mentono, spergiurano per denaro, e non faremo la stessa cosa per la difesa dei nostri regni e delle
nostre città?"
§.3. La categoria della Dissimulazione
La Dissimulazione come forma e tecnica dell’opposizione.
Il mondo dell’opposizione e della resistenza attiva accoglie e fa propria una tecnica elaborata
ufficialmente ed esclusivamente per l’azione di governo, svolgendo e portando a nuovi sviluppi la
tematica già delineata, nei suoi tratti essenziali, nel secolo precedente.
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Un retroterra ideale e culturale è la legittimazione della simulazione religiosa, sostenuta da gruppi
eretici per la difesa della libertà interiore e della fede personale.
Giordano Bruno ne Lo Spaccio della bestia trionfante, collegò il discorso della dissimulazione con
la ricerca e la difesa della verità, aprendo una nuova fase di riflessione che avrebbe raggiunto la
piena maturità nell’opera di Torquato Accetto. " Ancella della Prudenza e scudo della Veritade":
così Bruno aveva definito " la studiosa Dissimulazione, a cui Giove fa lecito che talvolta sia
presente in Cielo" accanto alle virtù che stabilmente sono accolte tra gli dei. Il contenuto
preminente non fu più, o non fu soltanto, l’esercizio dell’inganno e dell’astuzia o l’esortazione
all’adattamento e all’acquiescenza. L’accento si spostò su una funzione di educazione politica,
necessaria alla dissidenza ed all’opposizione per creare nuovi spazi di iniziativa e per tentare di
sfuggire all’alternativa tra utopia e conformismo.
Il trattato Della Dissimulazione di Torquato Accetto fu pubblicato all’inizio del decennio più
tempestoso del Seicento, in una fase storica di grandi conflitti e di accentuata instabilità politica e
sociale, nel 1641. Uno dei motivi dominanti è il dominio della ragione sull’impulso, l’invito a
prestare la massima attenzione alle condizioni reali ed alla loro " mutazione". E’ un elogio alla
razionalità concreta, e non senza un gusto autenticamente machiavelliano.
Bacone dal canto suo pone la necessità della dissimulazione: " in quei primi anni del secolo XVII,
quando la morbosa caccia alle streghe andava crescendo in ogni parte d’Europa" quale strumento
per agire in modo prudente e mascherato di fronte alle " mille insidie" che ostacolavano il progresso
scientifico.
Nel cinquantennio ( 1590-1640) che precedette il 1640, Napoli visse una duplice e contrastante
esperienza: da una parte, la grande vivacità ed ampiezza del movimento di riforma intellettuale e
politica e, dall’altra, l’estrema violenza della repressione. Censure, processi alle idee, denunce,
azioni repressive non colpirono soltanto le pratiche magiche e qualche esponente della ricerca
scientifica, come Nicola Antonio Stigliola, ma in diverse fasi ed in diversi modi, tutte le
manifestazioni della vita intellettuale che potevano mettere in discussione, sia pure in modo
indiretto e lontano, l’ordinamento politico del Regno, i rapporti tra Napoli e Madrid, il rapporto tra
cultura e potere. Le esecuzioni, le deportazioni e le fughe del 1585, con fasi di diversa intensità,
aprirono un periodo di repressione che si protrasse per molti anni e che colpì soprattutto il mondo
intellettuale. Fatta eccezione per quelle regioni in cui era guerra aperta ( Fiandre) e per le minoranze
etniche perseguitate ( Moriscos, Ebrei) fu questa - il napoletano - la regione dell’impero in cui tra il
1585 ed il 1640, la repressione politica e culturale si abbatté con maggiore forza. Il quadro
dovrebbe essere completato dai dati della censura religiosa, dalle condanne che anche Napoletani
meno famosi di Giordano Bruno e Giulio Cesare Vanini subirono in quegli anni a Roma o in altri
paesi e dalla violenza privata feudale..
Il problema quindi che si poneva in quel tornante storico e specialmente nell’area in cui Accetto
viveva - il Regno di Napoli - era di evitare il rischio di annientamento, di scoprire i modi
attraverso i quali la ricerca e l’iniziativa potessero continuare a svolgersi, passando dalla sterile
protesta e dall’astratta razionalità al concreto operare politico.
Con la dissimulazione, scrive, " si dà qualche riposo al vero" ma " per dimostrarlo a tempo".
Essa serve alla scelta del tempo, al calcolo dei rapporti di forza ed al prudente impiego delle
energie: valori che non appartengono al domino dell’inerzia e della passività ma a quello
dell’iniziativa e dell’azione. Uno strumento che finora è stato proprio delle classi dominanti , viene
offerto all’uomo comune come una via per tentare di uscire dalla subalternità e
dall’impotenza.
La necessità della " Dissimulazione" viene affermata anche di fronte ai modi più sanguinosi della
repressione esercitata dalla tirannide, scrive: " .. e non è lecito di mostrarsi pallido mentre il ferro
va facendo vermiglia la terra con sangue innocente" con riferimento a esperienze di terrore politico
come quelle che Napoli aveva vissuto.
Dissimulazione è allora la capacità di non perdersi d’animo e di impedire che l’obiettivo del terrore
venga raggiunto in pieno fino a stroncare nel profondo della coscienza l’amore per il vero.
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Evitare di allarmare gli avversari, coglierli di sorpresa, riservarsi una buona via di ritirata,
scoprire più facilmente i disegni degli altri: questi sono secondo Bacone i vantaggi concreti della
dissimulazione.
Per Accetto è spiraglio attraverso cui è possibile evitare l’isolamento…: " Non dico che non si han
da fidar nel seno dell’amico i segreti, ma che sia veramente amico."
In forma diversa, non del trattato, ma del racconto storico
Il Tarquinio Superbo di Virgilio Malvezzi
La linea essenziale dell’opera consiste nell’analisi di due modelli di comportamento politico.
Turno, è un capo popolare generoso, legato alla sua gente latina, animato da un grande senso di
giustizia e da un forte spirito di libertà. Avendo compreso il disegno di Tarquinio di istituire un
dominio tirannico sulle popolazioni latine, egli si oppone frontalmente al re ed apertamente cerca di
sollevare contro di lui il suo popolo. Il suo stesso slancio ed il suo impeto offrono a Tarquinio la
possibilità di manovrare abilmente per minarne il prestigio. Ingannati da Tarquinio, gli stessi
seguaci di Turno lo fanno morire gettandolo nelle acque del fiume: " in quelle acque ove lasciò
Turno la vita, pressoché si estinse la libertà dei Latini." , volendo significare che gli errori di
precipitazione ed imprudenza del capo ricadono poi su tutta la comunità. Turno è sconfitto ed
annientato, infatti, perché la sua ""fierezza leonina" non si è servita della necessaria " coperta di
simulazione". Il confronto con l’azione di Bruto ribadisce il concetto fondamentale dell’opera:
" I Tiranni hanno da temere più dagli homini simulati che dagli homini aperti. Questi stanno
ignudi ai colpi di chiunque gli fere, quegli si riparano dagli assalitori dopo la trinciera, per
sortire quando è tempo di dare l’assalto (..). Bruto, che di quest’arte è maestro.. si fa
conoscere quando discaccia il Tiranno: si cava la maschera nell’ultima scena; ognuno lo
applaude quando lo ravvisa, perché non lo ravvisa se non quando è nel fine la Tragedia.".
La Dissimulazione allora in quanto risposta all’oggettivo gap esistente tra i vari livelli di cultura,
esperienza e coscienza presente nel ‘ popolo’ contra la intellegibilità del progetto da parte delle
classi dirigenti e non ancora del ‘ popolo’.
Accetto e Malvezi perseguono il chiaro intento di educazione politica e civile particolarmente
importante in un paese in cui era maggiore che altrove la difficoltà di sfuggire all’alternativa fra la
protesta sterile e l’acquiescenza ed in cui le vie della liberazione e della ripresa dovevano rivelarsi
assai più complesse di quelle che aveva immaginato Machiavelli nel momento in cui era avvenuto il
crollo della libertà.
Il Tarquinio Superbo ebbe una fortuna assai maggiore: quattordici edizioni in Italia nel corso del
Seicento, cinque traduzioni spagnole, tre inglesi, tre francesi, un olandese, due latine.
I contemporanei furono consapevoli della corrispondenza tra la teoria e l’uso pratico di quello
strumento politico, la dissimulazione, anche nel momento in cui lo scontro divenne più diretto e
generalizzato. Uno dei principali cronisti della rivolta catalana, Luca Assarino, interpreta in questa
chiave l’azione dei gruppi dirigenti catalani durante la prima e decisiva fase della ribellione (
maggio-giugno 1640). Secondo la sua ricostruzione degli avvenimenti, i rappresentanti politici che
avevano sostenuto negli anni precedenti la protesta legale contro Olivares, continuarono a
proclamare la loro fedeltà alla Corona nello stesso tempo in cui fomentavano la rivolta popolare e le
davano un indirizzo politico. I capi politici catalano si comportarono con " apertissima finzione":
finzione fu lo sbigottimento dimostrato per l’assalto dei contadini e la conseguente incapacità del
governo di prevenirlo e prevederlo; finzione fu anche il rifiuto di uno dei carcerati, Tamarit, di
uscire dalla prigione senza l’autorizzazione del viceré. Il gioco proseguì fino alla giornata cruciale
del Corpus Christi e oltre, fino a quando, cioè, il successo del movimento popolare fu assicurato ed
ai capi catalani non rimase apparentemente altra scelta che assumerne la direzione o esserne
travolti. La loro dissimulazione accreditò nel governo di Madrid la convinzione che i moti, essendo
" opera dei villani e della plebe vile(..) fossero per acchetarsi da se stessi, o per venir frenati da un
solo torcer di ciglio della Maestà cattolica.". Furono quindi ritardati " quei rimedi violenti" che se
adottati in tempo, sarebbero stati sufficienti a stroncar la rivolta. L’altro obiettivo fu di dimostrare
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che " il Re era stato il primo a venire alle rotture, e che perciò non haveano potuto a meno di
difendersi e d’opporsi alle oppressioni".
E così, mentre il ricorso alla dissimulazione fu per il governo una necessità imposta dall’impotenza,
per i Catalani fu un efficace strumento di iniziativa politica soprattutto nel senso dell’isolamento
degli organi di governo e della copertura e guida dell’azione rivoluzionaria popolare.
Capitolo Quarto
La rivoluzione borghese del 1647-48
Introduzione.
Il periodo 1620-1660 vede lo sviluppo di 6 grandi rivoluzioni in Europa: Catalogna, Olanda, Boemia, Inghilterra,
Portogallo e Regno di Napoli e profonde modifiche nell’assetto borghese nella nazione francese. Vede cioè un
movimento complessivo borghese che interessa 7 nazioni. Le esperienze rivoluzionarie della metà del Seicento, cioè,
non furono estranee l’una all’altra. Una maggiore attenzione ai rapporti tra i diversi episodi potrebbero rendere più
agevole la comprensione dei loro contenuti politici ed ideali, delle differenze e dei tratti che ebbero in comune. Il
periodo chiave è dato dalla Guerra dei Trent’Anni, 1618-1648, dalla Guerra per la spartizione del dominio spagnolo
oramai in declino e che coinvolse l’intera Europa centrale e parte dell’orientale: Polonia, Russia. E’ cioè il momento di
massimo sviluppo del processo rivoluzionario borghese in cui giunge in porto il processo di formazione degli stati
nazionali borghesi europei e gli equilibri su cui l’intera Europa sarà retta fino ad oggi. Questo fa della rivoluzione
napoletana del 1646-48 la rivoluzione borghese italiana.
Era questa la fase in cui la nazione italiana doveva portare a compimento la rivoluzione borghese ed iscrivere la nazione
italiana dentro il movimento complessivo europeo che si andava delineando e quindi partecipare alla vita ed alla storia
borghese dell’Europa che da lì si inizia a scrivere. Persa questa occasione, rifiutata questa occasioni, per ignobili
bindolerie e per i pochi spiccioli che la corona di Spagna lasciava cadere, la nazione italiana dovrà subire i processi
delle altre nazioni, che iscriveranno nelle loro strategie il dominio sull’Italia e sui porti italiani. Esse quindi
successivamente: Inghilterra e Francia, massimamente, lavoreranno per impedire all’Italia un suo ruolo autonomo e
massimamente di sviluppare una sua politica marinara in grado di prendere pieno e legittimo possesso delle sue coste e
di suoi territori per uno sviluppo borghese del paese. Il paese avrà, cioè, da questo momento uno sviluppo sub
conditione anglo-francese, sarà pedina anglo-francese, sarà cioè protettorato inglese e francese ed il suo territorio,
campo di battaglia degli interessi di queste due nazioni, che dal controllo del Mediterraneo facevano dipendere la loro
più generale strategia politica, economica, commerciale e militare.
La Spagna dal canto suo vive una profonda crisi di decadenza, incapace di gestire i nuovi processi produttivi e attaccata
nelle sue colonie, ove i popoli le si ribellano contro e lottano per l’indipendenza. Il blocco dominante non è in grado di
dirigere i nuovi processi di produzione e l’ombra di Villabar si presenta oramai a presentare il conto. Stretta da
necessità sempre maggiori di rastrellare denari per mantenere i tanti fronti di guerra aperti accelera la sua fine, aprendo
ed inasprendo contraddizioni in quei paesi dove riesce ancora a mantenere i suoi possessi coloniali. Il regno di Napoli
era uno di questi possessi coloniali.
Il regno di Napoli vede allora un inasprirsi dello sfruttamento e della rapina, ma vede anche un concentrarsi delle forze
reazionarie, che avevano nel regno di Napoli i loro unici possedimenti ed entrate parassitari e le loro uniche occasioni
speculativo-parassitarie. In specifico il processo rivoluzionario borghese nel regno di Napoli si iscrive allora sia nel più
complessivo contesto rivoluzionario borghese europeo e sia nelle specifiche condizioni che abbiamo descritto: presenza
di tutta l’aristocrazia nobiliare italiana e non solo e nelle condizioni di retrovia decisiva dell’Impero spagnolo.
§. 1 Gli inizi: 26. dicembre 1646-7. luglio. 1647
Il movimento rivoluzionario ha inizio nel dicembre 1646 con la gabella sulla frutta al fine di ricavare un milione di
ducati, somma che doveva servire per finanziare la spedizione militare, che partendo dal regno di Napoli, attraversando
lo stato pontificio, andasse a riconquistare le posizioni di Portolongone e Piombino conquistate nell’ottobre dai francesi.
Erano questi due importanti attracchi portuali sul Tirreno che costituivano per i francesi due importanti teste di ponte,
tendenti a minacciare sia il regno di Napoli, sia il Granducato di Toscana e sia lo stato pontificio, oltre a costituire
minaccia diretta per le vie di comunicazioni marittime tra i domini spagnoli nel Mediterraneo e la Spagna, in modo
particolare con Genova e Monaco.
La mattina del 26 dicembre 1646 la carrozza vicereale si recava con gli augusti ospiti a bordo da Palazzo Reale alla
Chiesa del Carmine, lungo il tratto che costeggia la marina, viene assaltata da masse popolari con una fitta sassaiola. I
manifestanti esigevano l’abolizione della gabella sulla frutta. Vari tentativi vengono fatti per rovesciare la carrozza, che
traballa paurosamente. Il viceré si impegna a togliere la gabella non appena tornato alla reggia.
Da questo momento fino al maggio 1647 è un lungo braccio di forza tra il movimento rivoluzionario ed il blocco
reazionario.
Il 3 gennaio 1647 viene fatto affiggere dal viceré il regolamento per la riscossione della gabella sulla frutta. Il 4 gennaio
viene fatto trovare imbrattato di sangue lo stemma spagnolo che sormontava il casotto dove si riscuoteva la gabella sulla
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frutta. Nel frattempo il gruppo dirigente della rivoluzione si poneva il compito di mantenere accesa la fiamma del 26
dicembre, evidenziando la non volontà vicereale di abolire la gabella: Masaniello. Marco Vitale, Vincenzo d’Andrea,
Salvatore di Gennaro, Francesco Campanile, Giuseppe Fusco, Francesco Censale, Vincenzo Jacopo Rossi, Onofrio
Pagano, Pietro Javarone, Agostino Romano, Francesco Puca assieme a molti altri borghesi e popolani. L’azione di
propaganda porta ad una nuova manifestazione di lotta: la carrozza vicereale viene di nuovo fermata e fatta segno a
colpi di pietra e sballottata al fine di rovesciarla. Nel frattempo si intensifica la presenza di cartelli, che erano stati una
caratteristica di tutto il periodo prerivoluzionario nel regno, che inneggiavano alla lotta ed alla opposizione, alcuni
furono fatti trovare davanti alla reggia. Giungono nel frattempo notizie della rivoluzione scoppiata in Palermo, portate e
diffuse dai siciliani, che incitano i napoletani a fare altrettanto.
In Sicilia la popolazione si era ribellata ed aveva ottenuto il 21. maggio. 1647 l’abolizione delle principali gabelle.
Anche questa è un storia tutta da scrivere. E’ da scrivere ancora e tutta la grande esperienza rivoluzionaria del popolo
siciliano.
A Napoli, stretto dal movimento rivoluzionario in ascesa e dalla impossibilità di togliere la gabella il viceré attua la
tattica dilatoria del prendere tempo, fino a quanto la Spagna fosse stata in grado di distogliere forze da inviare a Napoli
e reprimere nel sangue la rivoluzione. Dietro la gabella, vi era – come si è visto, tutto un apparto finanziario
speculativo, che costituiva uno dei fondamenti del blocco sociale su cui si manteneva l’intero dominio coloniale, oltre
alle impellenti necessità finanziarie spagnole di dover scacciare i francesi da quegli importanti capisaldi: Piombino e
Portolongone.
La tattica dilatoria adottata in questa prima fase è quella istituzionale: si doveva sì abolire la gabella sulla frutta, ma si
doveva stabilire da dove attingere i fondi sostitutivi e poi sia l’abolizione della gabella che lo stabilire le nuove entrate
non era competenza del viceré, ma degli Eletti del Popolo, che andavano riuniti uno alla volta ed una volta ottenutane
l’approvazione a maggioranza allora e solo allora il viceré avrebbe potuto procedere. Ma lui il viceré non poteva
decidere niente: c’erano gli Eletti del Popolo che decidevano.
La struttura rappresentativa era data da i Seggi; 5 erano divisi tra nobiltà e clero ed uno apparteneva al Popolo. Nel
regno di Napoli gli artigiani, gli operai, i lavoranti in genere erano totalmente esclusi dalla categoria di popolo. Artigiani
ed operai non erano rappresentati né dal Seggio del Popolo né da nessuno. Costituivano la plebe senza diritti. Per ‘
popolo’ si intendeva il ceto civile, costituito innanzitutto dai nobili detti " non di seggio", cioè i nobili non appartenenti
al numero chiuso delle centoventi famiglie patrizie più antiche di Napoli i cui capifamiglia e primogeniti erano iscritti
di diritto nei cinque seggi attribuiti alla nobiltà: Capuana, Montagna, Nido, Porto e Porta nuova. Ai nobili esclusi da
tali seggi era precluso il privilegio di eleggere ed essere eletti gli amministratori cittadini con ingerenze negli appalto,
ecc. ecc. Oltre ai nobili non di seggio, facevano parte di ‘ popolo’ anche i ricchi proprietari di antica ed onorata
famiglia, i dottori in diritto civile e canonico, i notai, i ricchi mercanti. Queste categorie erano tutte iscritte, e
rappresentate nel seggio detto appunto del Popolo.
L’elezione di questo rappresentante, anche in base alle modifiche introdotte nel 1548, come si è visto, era sotto la diretta
sorveglianza ed il controllo poliziesco del viceré che in definitiva ne decideva l’elezione attraverso il controllo dei "
capitani di strada", impegnati non tanto a rappresentare i quartieri, ma divenuti, sotto la stretta poliziesca, strumenti di
controllo e delazione ed all’occorrenza spalleggiatori e mazzieri dell’Eletto del Popolo. A loro volta i deputati dei Sedili
avevano dato mandato al cavaliere Spinelli di trovare una soluzione da proporre. Lo Spinelli era egli stesso uno
speculatore sui dazi, che aveva investito 30 mila ducati e ricevutene in rendita seimila sulla dazio del vino, e che ora
aveva investito più di centomila ducati nella riscossione della gabella sulla frutta.
Ma crepe nello schieramento nemico si aprono, date proprio del movimento di lotta in ascesa: alcuni nobili del Sedile
del Porto erano per l’abolizione della gabella e questo portò prima a vivaci discussioni e poi a scontri fisici tra i nobili
dei diversi pareri, tanto che il viceré interviene proibendo che se ne discutesse in futuro. In queste lungaggini
burocratico-istituzionali si consuma il periodo dicembre 1646-maggio 1647, ma questa " fase di interregno" nelle
condizioni date indeboliscono il blocco di potere e consente alle forze rivoluzionarie di accumulare forze, serrare le fila
e dare organizzazione al movimento.
Muoversi a quell’epoca era difficile per il rigido regime poliziesco, dittatoriale e terroristico che incombeva sul regno.
Feroce ed esemplari erano state le repressioni, come si è visto, contro gli oppositori e semplici contestatori del dominio
terroristico spagnolo; incombeva inoltre sul regno una fitta rete di spie, provocatori al servizio di singoli baroni e nobili,
i " bravi" di manzoniana memoria. Il 3 giugno 1646 sull’onda delle crepe apertesi nel Sedile del Porto e proprio nel
quartiere Porto un banale incidente, un banale e quotidiano atto di sopruso e di arroganza delle truppe di occupazione:
alcuni soldati spagnoli si rifiutano di pagare il conto ad un oste, si trasforma prima in una lite tra questi ed alcuni
marinai napoletani venuti in soccorso delle ragioni dell’oste: ed i primi spagnoli restano a terra. Picchiati sonoramente i
superstiti tornano con i rinforzi, ma così fanno anche i marinai napoletani e la mischia si allarga, ma… iniziano a
confluire i vari abitanti del porto ed i soldati del re e poi gli abitanti dei quartieri vicini: è battaglia, che dura fino a
tarda sera, posta fine dalla sera appunto. Il viceré alla fine non può che allontanare tedeschi ed italiani al servizio degli
spagnoli dal regno con la scusa che gli erano stati richiesti rinforzi militari da Milano. Decisione dolorosa per lui, viste
le già scarse forze a sua disposizione ed il segnale tremendo di debolezza che lanciava all’interno del suo schieramento
e per lo schieramento nemico.
Il viceré lasciava il campo. Il viceré scaricava i suoi.
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Consentire ora, dopo i fatti del 3 giugno 1647, al viceré di continuare nella tattica dilatoria avrebbe comportato una
inversione di tendenza: le forze reazionarie si sarebbero ricompattate e quelle rivoluzionarie indebolite.
In generale si deve ben cogliere, al di là del più immediato sentire, la portata e la valenza che un determinato fatto
determina, valutarlo esattamente ed intelligerne il più complessivo movimento di interagire sulla situazione generale.
Una lotta vede in campo uomini con le loro passioni, i loro interessi generali e ‘ particulari’ e questi possono
determinare fatti, situazioni imprevedibili, che possono far precipitare la situazione in un verso o in un altro. Una lotta
è sempre la tensione massima e quindi più facilmente può accadere che possono verificarsi situazioni imprevedibili.
Inoltre essa in generale consente di comprendere meglio la disposizione in campo delle forze nemiche e gli spostamenti
che il nemico attua, o ha attuato, e quindi le possibilità nuove di attacco e le necessità nuove di difesa, date da quella
diversa disposizione delle forze in campo; i fatti imprevisti scoprono assai maldestramente i punti delicati del nemico,
proprio perché non disposti dalla direzione. Il far saltare i nervi al nemico, il porlo in condizioni di subalternità
psicologica ha esattamente questa funzione, quello di indurlo ad azioni improvvise o determinare azioni improvvise nel
suo schieramento e farlo scoprire. Nelle condizioni specifiche di una guerra rivoluzionaria fin quando il nemico non è
abbattuto nel senso machiavelliano del termine, esso mantiene ancora l’iniziativa: è ancora lui che determina il
movimento oggettivo dei processi ed in questa fase, anche se di assalto al cielo delle forze rivoluzionarie, una direzione
corretta deve essere ancora e di più in grado di sfruttare appieno proprio quei movimenti oggettivi, che in questa fase
si eccitano e saper ben distinguere se sono favorevoli all’uno o all’altro contendente, giacché in questi momenti
agiscono forze policentriche che spingono in avanti o frenano in maniera irrazionale, non avendo un quadro generale
delle forze in campo e non avendo un piano strategico e se ce l’hanno esso è parziale, limitato e quindi tendono a
leggere diversamente i dati a dargli diversa valenza e quindi a predisporre forze in maniera diversa. Quanto accaduto
il 3 giugno 1647 poteva anche essere una provocazione, ossia un’azione cosciente del nemico al fine di chiamare le
forze rivoluzionarie in campo aperto ed annientarle: anche questo andava valutato. Nelle condizioni specifiche di quel
giugno 1647 il fatto costituiva solamente un’azione improvvisa, un’azione inconsulta di un gruppo di soldati
d’occupazione, che non avevano ben chiara la situazione e ritenevano di poter fare ancora i gradassi ed hanno
innescato così una situazione assolutamente nuova.
Il gruppo dirigente rivoluzionario seppe ben cogliere la portata dei fatti del 3 giugno, che esso stesso aveva ben saputo
aiutarne l’evoluzione da lite a sommossa, trasformandola in un saggio su scala ridotta delle forze in campo. Si trattava
adesso di strappare la maschera di buono, comprensibile, paterno, e meglio il vestito, che il viceré si era ben cucito
addosso, comprendendo che la conquista delle forze intermedie ed arretrate avviene nel corso, ed è segnato esattamente,
dall’ascesa del movimento rivoluzionario.
Il 6. giugno. 1646 Masaniello, alle prime luci dell’alba, fa saltare con un barile di polvere la baracca dove si sarebbe
dovuto riscuotere la gabella sulla frutta. Cosa avrebbe fatto il viceré? Come ed in che tempi sarebbe intervenuto?
Questo avrebbe aiutato i napoletani a capire il gioco del viceré ed il suo essere in combutta con arrendatori, nobili ed
essere il suo modo di fare solo una tattica per stancare il movimento.
Grande fu il botto ed immediata la risposta del viceré: manda il consigliere Antonio d’Angelo con l’ordine di requisire
l’albero posto di fronte alla baracca saltata in aria, per metterlo immediatamente in ordine così che prima dell’alba vi
fosse ricostituito l’ufficio della gabella sulla frutta e messa in grado di riscuotere la gabella senza neppure un’ora di
ritardo.
Era strappato così il vestito di arbitro istituzionale.
Masse popolari, organizzati e spinti da agitatori ed organizzatori del movimento rivoluzionario, si portano a palazzo
reale, nel frattempo la protesta dilagava in tutti i quartieri. Notizie dello sviluppo del movimento in Sicilia giungevano
sempre più frequenti e si diffondevano in tutto il regno, portate dai siciliani che ovunque sbarcavano diffondevano
notizie sulla lotta ed ovunque attraccassero spingevano i napolitani alla lotta. Occorreva accelerare i tempi. Occorreva
passare dalle manifestazioni di piazza all' insurrezione.
Si trattava di addestrare militarmente un gruppo di 400 lazzari, che costituissero la punta di sfondamento, l’avanguardia
dell’attacco e la milizia pretoriana. Non potevano essere militari di tante campagne, che il viceré aveva inviato e che
erano tornati a casa, la cosa avrebbe insospettito le autorità. Occorreva dissimulare per poter colpire all’improvviso ed
impedire al nemico sia la preparazione che la concentrazione delle forze. Torna qui, ancora, la Dissimulazione come
forma di lotta.
L’idea è quella di sfruttare la rappresentazione religiosa che si teneva il 16 luglio nella Piazza del Carmine per i
festeggiamenti in onori della Madonna del Carmine il 16 luglio con l’allestimento di una macchina di festa, che era
anche una macchina da guerra. Al centro della piazza veniva eretto un castello di legno, montato il giorno prima e
difeso. L’attacco e l’assalto al castello venivano condotti da un esercito di " alarbi". Dovevano, armati di soli bastoni,
riuscire a vincere la resistenza ed espugnare la finta fortezza. Sotto il pretesto di provare la rappresentazione sacra
Masaniello addestra, con l’aiuto di esperti militari, veterani delle campagna dell’impero di Spagna, all’uso delle armi
giovani dai 16 ai 22 anni. A gruppi di 100-200 li addestra all’uso delle armi dalle più rudimentali agli archibugi, alle
pistole, ai moschetti, armi che commercianti e borghesi avevano procurato acquistandoli con soldi propri. I lazzari
vengono addestrati ad attaccare ed a fuggire, a concentrarsi ed a disperdersi, ad infliggere rapidi e violenti colpi, a
stancare, a confondere, sfibrare il nemico con una serie senza fine di azioni imprevedibili. Occorreva sorprendere gli
Spagnoli. Ma questo non poteva assolutamente bastare. Gli spagnoli, una volta ripresisi dalla sorpresa, ben armati e ben
inquadrati, avrebbero avuto facile gioco dei 400 lazzari. Occorreva che questi non solo sorprendessero gli spagnoli, ma
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li tenessero in una costante situazione di sorpresa proprio ed esattamente con quelle azioni imprevedibili. Queste
sfibrano, stancano un esercito, giacché un esercito regolare è facilmente confondibile da azioni rapide ed improvvise, è
facile, cioè, scompaginarne le rigide fila, il preciso ordine di avanzata e di movimento, determinato da precisi comandi:
i limiti dell’esercito regolare in sé.
L’iniziale data del 23. giugno. 1647 dovette essere scartata, perché confidata al Genoino, il piano fu trovato sere prima
ben descritto in ogni dettaglio su vari cartelli. L’idea del 16. luglio era da scartare necessariamente per il clima di festa
in sé della ricorrenza: tutta la popolazione in Chiesa… . D’altronde non si poteva andare oltre. Fu così scelta la data del
7. luglio. 1647.
Il piano ideato consisteva nel far saltare il rituale pacifico della procedura della compra-vendita di frutta ed il
pagamento della gabella da parte dei commercianti: Ciommo Donnarumma avrebbe sobillato a non pagare più la
gabella sulla frutta, pretendendo che a pagarla fossero i contadini; questi invece, organizzati e diretti da Mase Carrese
ad insistere che a pagarla fossero i commercianti come sempre. Era questa una trappola micidiale: coinvolgeva due
grandi categorie: i contadini che veniva a Napoli a vendere la loro frutta all’ingrosso ed i commercianti al minuto: la
categoria contadini va qui ben intesa, essa non comprende solo i piccoli contadini che portano al mercato i loro
prodotti, ma anche, ed innanzitutto, i massari ed i borghesi grossisti, che raccoglievano la produzione agricola dai più
distanti punti del mercato e con propri mezzi provvedevano portarla al mercato, dopo averla acquistata dai contadini,
ossia i commercianti agrari. Insieme ai loro familiari, amici, parenti costituivano più della metà della popolazione.
Tutti interessati alla faccenda della gabella. A questa trappola il viceré non poteva sfuggire: doveva farsi nemico una
delle due e mostrare a tutta la popolazione che non aveva intenzione alcuna di abolire la gabella sulla frutta. I
propagandisti nei giorni precedenti il 7. luglio sparsero la voce sull’imminenza dell’abolizione della gabella da parte del
viceré, creando così un clima di attesa fiducioso sull’abolizione dell’odiata gabella. L’autorità confermando il
pagamento della gabella avrebbe anche dovuto decidere chi tra gli opposti gruppi, dovesse pagarla, inimicandosi uno
dei due contendenti. La gabella sarebbe stata indubbiamente fatta pagare al più debole dei due gruppi ed in questo modo
maggiore sarebbe stato l’odio e la volontà di opposizione. La mattina del 7. luglio. 1647 Piazza Mercato era ben
presidiata dagli uomini della rivoluzione, armati ed addestrati da Masaniello. Erano stati sparsi in piccoli drappelli per
tutti i vicoli che sfociavano sulla piazza, mentre la maggior parte degli artigiani, in maggior parte con la rivoluzione,
armati di fucili e pistole, nascosti in portoni poco distanti, pronti ad intervenire al segnale. Sulla piazza c’era
un’avanguardia di lazzari costituita da gruppetti sparsi un po’ qua un po’ là, con l’aria innocente di sfaccendati intenti a
giocare a dadi o a carte, ma che in realtà tenevano sott’occhio l’intera situazione pronti a correre in aiuto e ad avvertire
gli altri nei punti in cui si erano nascosti. Il rituale della compra vendita procede secondo i canoni classici, ma giunto il
momento di pagare la gabella i commercianti, con alla testa Ciommo Donnarumma, sostenevano che se mai si dovesse
ancora pagare la gabella, visto che il viceré intendeva abolirla, dovevano essere i contadini a pagare; i contadini dal
canto loro, con alla testa Mase Carrese, ribadivano che a pagarla dovevano essere i commercianti. La discussione
divenne accesa inframmezzata da scontri violenti tra i due gruppi, che o inconsapevoli del gioco o immedesimandosi
troppo, finivano per scontrarsi ma senza che alla fine ci fossero vinti e vincitori, giacché a dar man forte a chi in quel
momento era in difficoltà: commercianti o contadini, intervenivano uomini della rivoluzione, ma non appena i soldati
cercavano di intervenire, i due gruppi di contendenti serravano le fila e le davano a sbirri e soldati. La gente che intanto
accalcava la piazza non parteggiava per nessuno dei due contendenti, giacché poi alla fine doveva essere la gente a
pagarla e quindi spingeva perché non la pagasse nessuno e che fosse abolita: anche qui agitatori della rivoluzione
provvedevano abbondantemente a dirigere il dibattito ed a far crescere il movimento di lotta ed opposizione, facendo
convergere: commercianti, contadini e popolo sul punto dell’abolizione della gabella. Il viceré per primo mandò avanti
l’Eletto del popolo Naclerio, che nel giro di poco tempo bruciò tutta la sua credibilità, commettendo grossolani errori: i
suoi sgherri furono affrontati dalla popolazione e bastonati sonoramente. La massa dei contadini, a cui Naclerio aveva
imposto di pagare la gabella, diretta da Mase Carrese si diresse al palazzo reale dal viceré. La massa restante diretta da
Ciommo Donnarumma, Masaniello ed altri procedette alla distruzione di tutti gli uffici delle gabelle. Attaccarono il
Forte del Carmine conquistandolo, conquistando un importante punto militare, si impediva l’avvicinamento di qualsiasi
nave, essendo in grado di cannoneggiarla. Da lì partì l’attacco a tutti i posti di guardia spagnoli ed a tutti i forti, depositi
di armi e munizioni, prigioni, ecc.
Il popolo è in armi.
Voi vedete bene, qui, come tutto quel dibattito, che è potuto sembrare astratto, senza senso
alcuno sulla Dissimulazione, Accetto, Bacone, ecc. aveva invece un ben preciso scopo. La
rivoluzione borghese italiana del 1647 pone proprio ed esattamente la Dissimulazione a base di
tutta l’azione politica. La forma nella quale viene presentata la rivoluzione è quella di un normale
litigio, di una lite tra commercianti e contadini e quindi nella forma proprio che il nemico voleva e
sperava: la divisione del fronte popolare e la guerra tra i poveri. Il gruppo dirigente rivoluzionario
con grande sagacia politica sa ricomporre quel fronte, nello stesso momento in cui lavora nella
forma a dividerlo, ricomponendo il movimento di lotta in un momento superiore: abolizione della
gabella ove convergono commercianti, contadini e popolo. Nella fase iniziale il viceré non aveva
alcun elemento per ritenere che era una messa in scena: i dati in suo possesso dicevano che era
una lite violenta tra i vari gruppi popolani ed in quanto tale andava sostenuta ed alimentata, per
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creare un falso obiettivo ed un punto su cui far convergere, e così disperdere, il momento di
tensione.
Ancora. Scoperto il primo momento dell’inizio dell’attacco, il 23 giugno, il gruppo dirigente
rivoluzionario sa fare un ottimo bilancio della lotta e sa imparare con maestria dagli eventi che
accadono e combinare il piano strategico con quegli insegnamenti di quegli eventi quotidiani. I
fatti del 3 giugno avevano insegnato, nella loro spontaneità, che una lite, scoppiata in definitiva
per futili motivi: storie di ordinaria oppressione e rapina, poteva sviluppare un grande incendio: la
scintilla poteva dar fuoco a tutta la prateria; che in quella forma di rissa le forze nemiche non
sapevano come orientarsi. Tutto il piano tattico del 7. luglio. 1647 prende a base proprio questa
esperienza: la forma di una lite, di una rissa, tra due gruppi contrapposti, come scintilla che deve
dare fuoco a tutta la prateria, che degenera. La forma nella quale viene presentato l’assalto al cielo
consente al nemico di incunearsi in quella crepa ed una volta avanzato venirsi a trovare in una
situazione di assoluto accerchiamento: impossibilitato a ritirarsi ed impossibilitato a condurre
l’attacco. Il nemico verrà a trovarsi per tutto il periodo della rivoluzione: dicembre 1646-aprile
1648 in questa situazione, che blocca, imbriglia le sue stesse forze.
Se vogliamo dare una rappresentazione militare a questa tattica essa può essere assimilata alla
battaglia di Canne, ove Annibale offre al nemico un centro debole, consentendogli di attaccarlo in
quel punto, una volta che il nemico ha impiegato le sue forze in quel punto con la cavalleria ed il
restante esercito opera un aggiramento chiudendo in una morsa infernale i romani e
massacrandoli. Infine. L’intera tattica aveva un punto debole, quello che presentava al nemico: la
divisione del fronte di lotta – la rissa tra contadini e commercianti – si trattava di sviluppare un
buon lavoro in grado di ricomporre prontamente il fronte che si era diviso e questo era possibile
lavorando tra il popolo, ponendo a base la parola d’ordine che non si dovesse pagare per niente la
gabella e su questo ricomporre l’intero fronte, facendo trovare così il nemico che in quel punto era
avanzato in una situazione di accerchiamento, avendo subito l’aggiramento, la rapida conversione
di direzione di quelle forze che diversamente erano state disposte nella direzione dell’impatto
frontale.
E’ questa veramente una grande esperienza, le forze della trasformazione non la studieranno invano. Esse devono
ripetutamente studiare questa ed altre esperienze rivoluzionarie, impadronirsene e padroneggiarle con grande
dimestichezza, per acquisirle alla loro coscienza politica.
Il tentativo di bloccare sul nascere il movimento rivoluzionario si articola su due piani: uno di dare al movimento per
capo il vecchio e malandato principe di Bisignano, Tiberio Carafa, Genoino e Giuseppe Palumbo, nella confusione della
prima rivolta antispagnola, messa assieme una colonna di lazzari, la spinge verso il palazzo del principe, per acclamarlo
capo. Ma quegli stesi lazzari che seguivano Genoino si comportavano esattamente come tutti i lazzari: disarmavano ed
attaccavano i posti di guardia, attaccavano le case dei nobili, mentre solo alcuni scagnozzi di Genoino gridavano voler
Bisignano per capo. L’altro piano era quello di abolire la gabella sulla frutta ed in parte sulla farina. Le notizie della
diffusione del moto rivoluzionario nei quartieri della città e nei paesi vicini e poi in tutto il regno erano eccellenti. La
scintilla aveva dato fuoco a tutta la prateria. La concessione del viceré costituiva, nelle condizioni date, uno
sfaldamento dell’intero fronte reazionario ed un eccezionale impulso alla lotta ed un innalzamento dello scontro e
quindi una maturazione più complessiva del movimento rivoluzionario. La concessione del viceré aveva ottenuto lo
scopo di spingere alla lotta gli strati indecisi ed i più arretrati. " Tutte! Tutte le Gabelle": questa la nuova parola
d’ordine del movimento.
In queste nuove condizioni, la manovra Bisignano non solo si era bruciata nelle mani stesse degli ideatori, ma correva
ora il pericolo di divenire copertura per un più complessivo innalzamento del movimento di lotta. Una situazione
veramente pericolosa. Genoino, Palumbo, i nobili ed il viceré ne rimasero maledettamente impigliati. Bisignano se ne
doveva tirare fuori subito ed a tutti i costi, lasciando a metà strada quanti avevano pur lavorato per lui e per il viceré.
Genoino, Palumbo ed i loro scagnozzi si trovano così a dover fronteggiare la massa dei lazzari, che essi stessi avevano
incolonnato, che intendevano muoversi all’assalto delle case dei nobili e degli speculatori: ne vennero travolti e per
Genoino fu la fine. Consuma qui tutta la sua credibilità e venerazione, conquistatasi negli anni addietro per la lotta e
l’opposizione agli spagnoli. Non gli resta oramai che essere il sicario della rivoluzione, il prezzolato al soldo spagnolo
contro la rivoluzione: e Genoino compirà fino in fondo la discesa nella vergogna e nel disonore: da capo stimato, pur
con i suoi limiti ed idee strambe, a sicario della rivoluzione. Una seconda colonna, guidata da Masaniello ed altri
uomini della rivoluzione, si recò a Palazzo Reale e lo occupò. Il re fu preso prigioniero e trascinato fuori dalla carrozza
per i capelli da fra Agostino di Muro, che successivamente, quando gli spagnoli riuscirono a catturarlo, fu assassinato e
qui senza riguardo alcuno per l’abito talare e senza che la Chiesa ponesse obiezioni di qualsiasi natura. Ed anche per lui
come per tutti gli altri capi della rivoluzione non una lapide, non un ricorso, non un monumento o una via per questo
eccellente combattente per la Libertà. Il re intanto riesce con l’aiuto dei frati e preti vari a sottrarsi al popolo ed a
rifugiarsi nel convento di san Luigi. Il movimento intanto si espandeva e procedeva alla distruzione di tutti gli uffici di
tutte le gabelle, alla requisizione di armi e munizioni e di depositi e luoghi di depositi di armi e munizioni. Procedeva
nella giustizia contro gli arrendatori, contro i nobili e borghesi che si erano arricchiti con gabelle e operazioni
finanziarie varie, distruggendo palazzi ed averi, riducendoli così a nulla tenenti, distruggendo carte e documenti di
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proprietà, distruggendo carte di credito e documenti di feudi e attestanti servitù, ecc. Viene così a costituirsi di fatto
un dualismo di potere: da una parte il viceré che comandava alcuni forti, palazzo reale ed un esercito spagnolo ed
italiano al soldo degli spagnoli ed il popolo guidato da Masaniello, Marco Vitale, Donnarumma, Mase Carrese, ecc.
§ 2. La rivoluzione
La prima fase: 7-15. luglio. 1647 è caratterizzata da:
1. i capitolati dell’accordo; 2. l’organizzazione militare;
I Capitolati dell’accordo.
Nei capitolati dell’accordo viene espresso chiaramente il programma borghese, tramite il quale la borghesia dirige
l’intero popolo meridionale nella lotta contro il dominio spagnolo.
In quanto tale sono qui espressi i diversi orientamenti ed obiettivi di ciascuna classe costituente il blocco rivoluzionario,
che trovano nei capitolati un momento di ricomposizione e sintesi.
Il dibattito che si svilupperà nella città e nelle province sarà alto, vedrà coinvolto l’intero popolo meridionale e la cui
accettazione da parte dei Capitani del Popolo è espressione del mandato che il popolo meridionale e la Città affida al
governo della rivoluzione.
Nell’intera città si allarga e ferve il dibattito politico, fin nelle sue più delicate pieghe giuridiche, come la discussione
sui Capitoli. Schipa indignato da tanto scrive: " si vide ogni ignorante farsi interprete di legge ed ogni monello
mutato in giureconsulto", ma ciò rappresenta invece la eccezionale vivacità e vitalità di una esperienza rivoluzionaria,
che ha pochi eguali nella storia moderna. Carlo Denina, storico illuminista, lo coglie appieno: " Per tutte le piazze, per
le chiese, le botteghe e per ogni angolo di Napoli, ragionandosi continuamente delle presenti occorrenze di Stato,
infiniti sistemi non meno dagli ignoranti che dalle persone letterate s’andarono disegnando di un nuovo governo
da stabilire nella città e nel regno."
L’intero corso della rivoluzione borghese meridionale non è dissimile dal corso di tutte le altre rivoluzioni borghesi.
Esso si caratterizza per l’unità iniziale della borghesia e della borghesia con i contadini e le masse popolari, ma nel
corso della rivoluzione queste classi si dividono e differenziano, iniziandosi a profilare intenti ed interessi diversi,
propri alla natura delle varie fazioni che compongono la classe borghese e propri degli interessi delle classi diverse
che costituiscono il blocco delle forze rivoluzionarie. Questo determina da una parte una costante spinta a sinistra da
parte delle forze della piccola borghesia, dei contadini e delle masse popolari a cui si contrappone una tendenza alla
stabilizzazione moderata e moderatrice della ricca borghesia. Le stesse forze borghesi tendono a manifestare diversità
di programma, strategia, tattica, obiettivi ed intenti. La ricca borghesia ha per obiettivo quello di essere riconosciuta
dall’aristocrazia nobiliare, che vengano abbattuti gli ostacoli che le impediscono di accedere a cariche ed incarichi
nello stato, che ostacolano la sua scalata, al fine di porre lo Stato sotto il suo controllo, controllare l’apparato
economico, politico, amministrativo, militare. Tramite la rivoluzione intende imporre questa volontà e capovolgere così
i rapporti di forza all’interno dello Stato. La piccola e media borghesia avanza rivendicazioni più radicali circa lo
Stato e la rappresentanza istituzionale, le terre baronali, la libertà di commercio, ecc. Esse non possono fermarsi
quando la ricca borghesia vuole fermarsi, perché i suoi obiettivi devono ancora essere raggiunti e consolidati. Le
masse popolari avanzano rivendicazioni più radicali: le garanzie personali ed istituzionali, la libera organizzazione, la
parità con le stesse forze borghesi. Esse non possono fermarsi quando la piccola e media borghesi vogliono fermarsi,
perché i suoi obiettivi devono ancora essere raggiunti. Questo movimento oggettivo delle classi determina quel
carattere proprio della rivoluzione borghese in cui vi è una costante spinta a sinistra, una costante radicalizzazione
dello scontro e degli obiettivi. Nel corso del processo l’ala destra tende da subito a condizionare l’evoluzione, stando
ben attenta a non perderne il controllo ed a non far avanzare eccessivamente le forze popolari e radicali. E’ la prima
che tende la mano per un rapido accordo con le forze aristocratiche nobiliari e non appena il movimento prende una
direzione radicale, che mette in discussione i vantaggi ed i privilegi che lei si attende, si stacca ed invoca l’accordo fino
a fare corpo unico con le forze della controrivoluzione per schiacciare la rivoluzione. La piccola e media borghesia si
appoggia al movimento popolare per non essere schiacciata dalla ricca borghesia; è quella che più direttamente
esprime i capi del movimento rivoluzionario. Il processo rivoluzionario borghese, cioè, si caratterizza per un’ascesa
costante delle posizioni più radicali. Nel corso della rivoluzione le posizioni intermedie vengono subito bruciate e
scavalcate e quelle più moderate in un costante movimento ascensionale, che sposta il movimento su posizioni sempre
più avanzate, che mettono in discussione le basi stesse della proprietà privata. Il processo ascensionale viene bloccato
con un atto violento della borghesia, che o unendosi alle forze della reazione abbatte la rivoluzione o con un colpo di
stato elimina l’ala più radicale ed impone la stabilizzazione moderata. Viene ad operarsi così la scissione del blocco
che ha dato origine alla rivoluzione: i borghesi da una parte i contadini e proletari dall’altra. Questo il corso delle
rivoluzioni borghesi: inglese, francese, americana per indicare le principali. Non dissimile il corso della rivoluzione
borghese nel regno di Napoli.
Il programma espresso nei Capitolati esprime e sintetizza bene l’equilibrio tra le varie forze del blocco rivoluzionario.
Nei capitolati sono sancite le conquiste popolari in primo luogo l’eliminazione delle gabelle; la lotta antifiscale ha
unificato ceti diversi non solo a Napoli ma nell’intero regno: Vi sono l’indulto per i reati commessi nel corso della lotta
ed il riconoscimento dell’armamento popolare, della struttura militare del popolo fino all’esecuzione dei Capitolati. Il
capitolato XX contiene la liberalizzazione del commercio dei generi alimentari. L’ultimo sancisce il diritto di resistenza,
riconoscendo al popolo il diritto di prendere le armi – senza che ciò venga considerato atto di ribellione – in caso di
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inosservanza dei Capitolati. Viene chiesta la parità di voto popolo-nobiltà; la libera elezione dell’Eletto del Popolo da
parte dei capi di quartiere e non dai Capitani, strumenti del viceré, libero il popolo e non il viceré di confermarli, in
carica per sei mesi e da eleggere in s. Agostino, chiesa destinata ad assemblea popolare, e così pure i Capitani di strada i
Consultori ed i Deputati da mutare ed in carica per sei mesi.
L’organizzazione militare
Il 7. luglio. 1647 viene costituito l’esercito popolare.
Era formato dalla massa della popolazione armata, cioè dai cittadini dei vari quartieri. Quando non erano in linea contro
gli spagnoli, erano sempre con le " armi al piede". Nei momenti di sosta bellica, riprendevano tranquillamente le loro
attività, accudivano alle proprie normali faccende di operai, artigiani, mercanti, medici, avvocati, giudici. Per non
stancare l’esercito, tenendolo sempre in armi, sempre impegnato alla guardia delle mura e delle porte, il governo
rivoluzionario dispose che le compagnie di quartiere si dessero un turno di allarme in modo che ognuna di esse, in ogni
settimana, non fosse di linea per più di ventiquattro ore di seguito. In questo modo retrovia e riserve erano costituite
dalla stessa popolazione e dalle sue case e botteghe, dove la gente viveva e lavorava. Gli uomini di linea ricevevano
ciascuno per giorno di servizio un carlino, due caraffe di vino e venti once di pane.. Il loro compito in caso di attacco
era di dare l’allarme e resistere finché il resto dell’esercito non si fosse disposto in combattimento. Struttura tattica che
avrebbe consentito al governo rivoluzionario di tener testa per un tempo indefinito alle pressioni militari spagnole.
L’esercito in armi era costituito da 140.000 effettivi, organizzati in 140 compagnie di 1000 uomini ciascuna. Tra queste
sono da segnalare due compagnie femminili formate da donne del quartiere Mercato, Lavinaio ed altre che
seppero ben distinguersi, sul piano militare tattico ed organizzativo, in tutto il corso della guerra di resistenza
spagnola e che si distinsero nella estrema difesa della città nel marzo del 1648.
Venne infine organizzata una cavalleria.
Il governo rivoluzionario seppe ben tenere in considerazione l’esperienza militare e la tenacia rivoluzionaria dei
contadini che si erano tenuti per molti anni in guerra aperta contro gli spagnoli, a tale scopo venne emanato un appello
affinché questi ‘ banditi’ si unissero alla rivoluzione.
Da questo momento la storia del Regno di Napoli è la storia della lotta mortale tra la popolazione armata, il suo
governo popolare, distinto e contrapposto a quello spagnolo. Il governo rivoluzionario esercitava il suo potere su tutto
il territorio del regno di Napoli, aveva un esercito, un ordinamento giuridico. La bandiera della governo rivoluzionario
era la bandiera rossa e nera.
§ 2.1 Lo sviluppo rivoluzionario del movimento e le risposte della controrivoluzione.
Lo sviluppo del movimento.
Il primo atto del governo rivoluzionario fu la compilazione di una lista di 60 tra nobili e borghesi che si erano arricchiti,
decretando la requisizione delle ricchezze, l’abbattimento dei loro palazzi e ville e la morte.
Sin dal 7 luglio, inizio della rivoluzione borghese e della guerra di resistenza alla Spagna, il movimento si sviluppa in
tutti i casali della città di Napoli. Piacente attesta come non vi fu subito città e terra del Regno che non si sollevasse.
Ovunque furono incendiate le case, uccisi i baroni e requisiti i beni. In Calabria i nobili di Cosenza furono quasi tutti
uccisi. Nella provincia di Lecce non vi fu da meno. A Bari il capo della rivoluzione fece di tutti i nobili in catene un
corteo.
Nelle altre province del regno dove i baroni riuscivano a mantenersi, i contadini e la popolazione si rivolsero al governo
rivoluzionario perché intervenisse: fu nominato Onofrio della Pia, Vice Generale per le cose del regno, messo a capo
di due compagnie bene armate con il compito di uscire da Napoli come forze mobili in sostegno dei popolani ovunque
ne avessero avuto bisogno contro i baroni e gli spagnoli.
La controrivoluzione.
Sin dal primo momento la prima risposta della controrivoluzione fu l’utilizzo della Chiesa, che rivelerà qui tutta la sua
funzione di forma organizzativa della tattica spagnola.
I primi a mobilitarsi furono i padri teatini che inscenarono una processione per la città al fine di sedare il tumulto. Essi
si mossero da due delle sei chiese in loro possesso: dalla s. Paolo e dalla dei ss. Apostoli; dalla s. Paolo per via Toledo
passando dinanzi alla chiesa di s. Luigi, ove si conservava il " purissimo latte della Santissima Vergine"; ed i secondi
dalla chiesa di s. Luigi per altre strade popolari fino a Piazza Mercato, entrando nella chiesa del Carmine. Seguirono i
Gesuiti con processioni e ovunque nelle chiese i predicatori inveivano contro i tumultuanti implorando su di loro la
grazia divina e simili sconcezze. Tutti: Teatini, Gesuiti e le restanti fraterie, di numero sconsiderato, confluirono verso
Piazza Mercato. Ne rimasero fortemente delusi, giacché qui furono affrontati dal popolo in lotta. Il De Santis riporta "
Andate pure padri a fare orazioni nelle vostre chiese. Mai usciste in processione perché non si mettessero le gabelle,
ora che si tratta di levarle, ne state a rompere il cervello con queste litanie. Andate via e farete bene." E sempre il De
Santis riporta che a tali parole " i buoni padri stimarono aver soddisfatto al debito dell’ufficio loro e grandemente
attoniti, si dileguarono.". Il Donzelli allo stesso modo riporta i fatti esposti.
Il cardinale Filomarino dal canto suo ordinò sempre il giorno 7. luglio. 1647 che venisse esposto in molte chiese della
città il santissimo sacramento, sarebbe il calice con l’ostia. Il cardinale Filomarino ordinò anche che venisse esposto il
sangue del vescovo di Benevento, conosciuto come s.Gennaro, che prontamente si liquefece, fuori stagione e non
richiesto, ed in tale stato vi rimase per tutto il periodo della rivoluzione, a testimoniare che il santo non gradiva quello
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stato presente delle cose, ed in quello stato istette fino alla pasqua del 1648, ossia fino a quando la rivoluzione non fu
soffocata nel sangue, ossia fino a quando l’ordine spagnolo, e le gabelle con esso, non fosse stato ristabilito.
Il cardinale Filomarino, visto che il viceré aveva perso il controllo della situazione e che teatini, gesuiti, frati
cappuccini, e fraterie varie non erano state in grado di fermare il tumulto e le risposte ferme e le minacce, intervenne in
prima persona, cercando disperatamente di cavalcare la situazione ed ascrivere meriti a sé affinché potesse essere in
grado di avere ancora voce in capitolo presso il popolo. Insieme a tutti i preti ed i frati della città di Napoli convenuti
ordinò alla presenza di tutti che si andasse a demolire tutti i posti di riscossione delle gabelle e che sin dall’indomani
fosse aumentato di peso il pane e miglioratene la composizione. Il Cardinale in verità mandò i suoi a controllare se per
caso ve ne fosse rimasto qualcuno ancora in piedi dei posti per la riscossione delle gabelle e per quanto riguarda il pane
la modifica introdotta era assolutamente insignificante. Era più azione di propaganda, più fumo nell’occhio, populismo
di bassa lega che azione concreta, ma questo è indice assai indicativo dello stato grave in cui si venivano a trovare le
forze della controrivoluzione se il cardinale Filomarino si vide costretto a sopperire a ruoli e funzioni del viceré; ma
questo è assai indicativo del grado di integrazione della curia romana con il potere spagnolo.
Cosa sostanzialmente non dissimile era già accaduta in Milano nei moti del 1628, come riporta il Manzoni ne " I
Promessi Sposi": " Tutti i monsignori del duomo, in processione, a croce alzata, in abito corale, e monsignor Mazenta,
arciprete cominciò a predicare da una parte e monsignor Settala, penitenziere dall’altra e gli altri anche loro: ma brava
gente ma cosa volete fare? è questo l’esempio che date a’ vostri figlioli? ma tornate a casa; ma non sapete che il pane è
a buon mercato, più di prima? ma andate a vedere, che c’è l’avviso alle cantonate."
Stessa ed identica scena in Sicilia. Qui nel maggio 1647 le maestranze artigiane si erano impadronite di Palermo, dove
al primo impatto si dissolse l’intero apparato: viceré, nobili e borghesi arricchiti erano semplicemente fuggiti. Restò
all’arcivescovo Trasmiera, spietato fanatico e non meno crudele inquisitore, condurre in campo le sue spietate spie della
Santa Inquisizione assieme a frati, preti, monaci, che usciti da chiese e conventi, organizzati in veri e propri reparti
armati, teatini a gesuiti sempre in testa. Si interposero tra le forze militari spagnole ed il popolo, innalzavano altari
proprio dove il movimento popolare mostrava di dirigersi; esponevano i santissimi sacramenti, mettendosi a dar messe
nei punti minacciati, minacciando scomuniche, inferni e dannazioni varie a chi osava avanzare.
E così a Napoli la prima ondata popolare fu fermata con l’intervento della curia romana. Il giorno seguente l’8. luglio.
1647, essendo falliti i tentativi del viceré di spacciare per vero un falso privilegio di Carlo V, il movimento, guidato e
diretto dai rivoluzionari, cresce di tono. Suonata la campana del Carmine a martello il popolo è chiamato alla lotta. Le
forze spagnole sono ininfluenti, di nuovo i domenicani in processione cercarono di fermare il movimento, ma il
domenicano che con la croce apriva il corteo fu affrontato da un popolano, che, trattenuto, non fu in grado di attuare
appieno quanto era nella volontà di fare, e così i domenicani a passo veloce ritornarono al loro convento.
L’ATTENTATO.
Masaniello- eletto alla massima carica del governo rivoluzionario: Capitano Generale del Popolo il 9. luglio. 1647 convoca, su insistenza del Cardinale Filomarino, per Mercoledì 10. luglio. 1647 per l’approvazione da parte di tutti i
capitani del popolo dei capitolati. Questi erano stati concordati la notte tra il 9 ed il 10 luglio nella chiesa del Carmine,
negli appartamenti del Generale dei Carmelitani. La delegazione trattante era costituita per gli spagnoli da: il cardinale
Filomarino, Genoino ed alcuni avvocati; per la rivoluzione da tutti i membri del governo. Il pomeriggio del 10 luglio
piazza del Carmine vide una massiccia partecipazione popolare: una massa enorme, che costituiva, riportano i cornisti
dell’epoca, una fitta muraglia impenetrabile che dalla chiesa del Carmine occupava più della metà dell’intera piazza.
Non appena Masaniello inizia a salire sul pulpito, dove doveva leggere i capitolati dell’accordo è fatto segno da cinque
colpi di arma da fuoco, che vanno a vuoto. Subito dopo le campane del Carmine suonano a morto per annunciare la
morte di Masaniello e costituire il segnale dell’aggressione armata delle forze reazionarie italiane e spagnole: baroni,
nobili, borghesi arricchiti; il segnale per l’inizio del massacro commissionato da i Barberini, i Borgia, i Farnese, i
Colonna, i Piccolomini, gli Aldobrandini, i Grimaldi, i Carafa, i Gonzaga, i Pignatelli, i Doria, gli Spinelli, i Savoia, e
tutta la canea accattona e miserabonda dell’italica stirpe nobiliare e borghese. Banditi a cavallo ed a piedi attaccano la
folla: era scattato il piano per il massacro. La maggior parte dei capi erano in chiesa, in trappola. Cinquecento banditi
confluiscono subito su piazza mercato, altri provenienti in ordine ben studiato da tutte le altre direzioni in modo da
chiudere ogni via di scampo. La risposta popolare è immediata. L’attacco viene immediatamente respinto ed iniziata la
pesante ed inesorabile controffensiva rivoluzionaria, il che dimostra la validità dell’organizzazione politica e militare e
le doti militari dei capi militari. I banditi presi vivi sono costretti a confessare, rivelando cose atroci. Sin dalla sera,
mentre era in corso l’incontro per stendere i capitolati, cinquecento banditi armati, ben ordinati e divisi in
squadre, si erano distribuiti nelle chiese attorno piazza Mercato, in agguato, pronti a confluire per il
massacro al segnale della campana a morto. Il fatto che nessuno li aveva visti sta ad indicare che erano tenuti, 500
banditi, ben nascosti nelle celle, nei corridoi, nelle sale interne; tutti luoghi chiusi alla vista del pubblico. Micaro
Perrone, capo dei banditi, e suo fratello Gregorio sono stanati nella cella di un carmelitano. Confessa Perrone essere il
duca Maddaloni uno dei mandanti, ma confessa cosa evidente, essendo egli uomo del Carafa. Confessa che la chiesa era
stata minata con ventotto barili di dinamite, un’altra mina con molti barili di polvere era stata collocato sotto il convento
del Carmine: la strage! L’offensiva rivoluzionaria è fermata: conventi, chiese vengono messi a soqquadro ed ovunque
vengono stanati banditi e qui giustiziati. Il cardinale Filomarino viene stanato con il fratello assieme a capi della
congiura. Alla vista dei popolani in armi, distribuisce benedizioni il Filomarino invitando alla calma; nascosto con lui
stava Antino Grassi, che si stringe ai piedi del Filomarino per chiedere protezione, lo scaccia il cardinale. Grassi,
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sperando di aver salva la vita, confessa: " Guardatevi dalle chiaviche, perché vi è stata riposta quantità di
polvere da far saltare tutto per aria." Non solo la chiesa del Carmine ed il convento erano stati minati per massacrare
lì sul posto la folla convenuta per i capitolati, ma l’intera piazza Mercato era stata minata e per farla saltare si attendeva
l’arrivo di una nuova ondata di banditi, che doveva confluire su Napoli per completare il massacro, dopo aver fatto
saltare il centro della rivoluzione, i simbolo della rivoluzione: l’intero Quartiere Mercato. Un altro bandito catturato in
cambio della vita rivelò: che la notte sarebbero dovute venire compagnie a cavallo, che sarebbero fatte entrate come i
precedenti 500 banditi, nascosti cioè in chiese conventi, e distribuiti per la città avrebbero dato fuoco alle mine poste
sotto piazza Mercato per dare inizio alla seconda ondata del massacro. Vengono trovate 15 mila libbre di polvere
collocate sotto piazza Mercato determinando così la morte quanto meno di più di 50 mila persone, il resto l’avrebbero
fatto le squadracce del Filomarino, del viceré, dei baroni e dell’aristocrazia nobiliare italica. Altri banditi confessano il
crimine peggiore ordito dalla canea reazionaria: le acque sotterranee che servivano la popolazione dei quartieri
popolari erano state tutte avvelenate. Un piano criminoso ideato ed attuato al fine del massacro di tutta la
popolazione della città di Napoli: era " l’estinzione per via di sangue" di machiavelliana memoria applicata su larga
scala, a tutto il popolo napoletano. Questo obiettivo dell’estinzione per via di sangue sarà l’asse centrale di tutta la
strategia spagnola e di tutta la reazione, che ne determinerà tutta la condotta politica e militare, come vedremo nel
prosieguo: per ora fermiamo qui questa direttiva strategica delle forze reazionarie. Gli spagnoli e la curia romana in
verità non erano insoliti nell’attuare queste pratiche di feroce sterminio di massa. Le avevano già abbondantemente
sperimentate. Nel corso del Cinquecento, in piena controriforma, intere popolazioni come gli albigesi, i valdesi di
Calabria, gli ugonotti in Francia vennero sterminati in massa. In Calabria nel 1561 interi villaggi vennero bruciati,
intere popolazioni assassinate con il fuoco, con la tortura, con decapitazioni di massa. Non si risparmiarono le più
atroci torture: unti di resina e poi bruciati vivi, scorticati vivi e poi diviso il corpo in due parti, ecc. In generale
l’Inquisizione, che non è riconducibile soltanto alle esecuzioni capitali per rogo degli eretici, procurò non meno di 700
mila morti in Europa, oltre le decine di milioni di morti delle popolazione dell’America Latina.
Ma torniamo ora all’attentato. Giuseppe Carafa è stanato ben nascosto nel monastero di santa Maria la nova. Qui
Onofrio Brando con un sol colpo del lungo coltello che aveva con sé gli taglia la testa. La testa del Carafa assieme a
tutti i banditi che con lui sono catturati ed uccisi sono posti su picche. In generale le teste tagliate venivano poste su
picche ed esposte, alcune venivano inchiodate ai portoni dei loro palazzi o ai portoni delle chiese ove venivano scovati.
La testa ed il piede di questo barone sono posti in una gabbia di ferro e così appesi sotto porta san Gennaro: il piede
stava ad indicare un fatto avvenuto tempo addietro: il barone aveva voluto umiliare un popolano costringendolo a
baciargli quel piede, ora ben esposto, a faccia per terra. La sera del 10 luglio un nuovo attentato. Ma anche questo va a
vuoto.
L’ASSASSINIO.
L’11. luglio. 1647 mentre si reca in corteo dal viceré pronuncia un importante discorso, che mostra bene la natura
rivoluzionaria di questo eccezionale capo. Da questo traiamo alcuni brevi stralci: " Inoltre se non fossi stato costretto
un’ora fa da Sua Eminenza – il cardinale – con il tenace vincolo di un precetto ed atterrito con lo spaventoso fulmine
della scomunica a vestirmi dei vestiti che porto addosso, mai avrei deposto gli ordinari miei stracci di marinaio, perché
tal io nacqui, tal vissi e tal anche vivere, e morire pretendo. Dopo la pescagione della pubblica libertà, che io farò nel
tempestoso mare di questa afflitta Città, tornerò alla primiera di pescare e vender pesce senza riservarmi neppure un
puntale di strenga per la mia casa. Pregovi dunque, giacché altro non chiedo, che quando io muoio mi vogliate dire
ciascuno di voi un’Ave Maria…" In chiusa Masaniello esterna i suoi timori di una trappola o.. ed invita il popolo a
seguire la strada della lotta, a non deporre le armi qualsiasi cosa accada; indica infine al popolo la via da seguire,
tracciandone le linee tattiche, dopo un’analisi delle classi ed i movimenti oggettivi di queste. " voglio darvi un
avvertimento: non lascite le armi fintanto che non venga dalla Spagna la conferma delle ricevute grazie, e Capitoli del
Re nostro Signore. Della nobiltà non ve ne fidate punto, perché son traditori e nostri nemici. .. Io vado a negoziare con
Sua Eccellenza e fra un’ora mi rivedrete o al più tardi domattina; però quando di mattina non sarò da voi, mettete a
fuoco e fiamme tutta la Città: non me ne date tutti parola? Di quanto ha finora fatto Sua Eminenza, ne ha grandemente
gustato, perché sebbene le Gabelle sono levate, Sua Maestà però non ha niente perduto; ha bensì fatto perdita di questa
nobiltà nostra nemica; impoveriti si sono, e ritornati alla loro primiera mendicità gli ingordi lupi, e voraci affittatori, e
partitari, compranti e vendenti il nostro sangue, e che questi perdano è gloria di Dio, servigio del nostro Re e pubblico
beneficio della Città e Regno di Napoli. Ora più che mai sarete vero Re di questo Regno, Re Filippo. .. quel che d’ora
innanzi gli sarà donato sarà tutto suo, e non come prima, che donandogli tesori, svanivano come in fumo: perciò è
tanto il gusto del Sig. Viceré di quel che noi si è fatto e si fa quanto se per l’appunto vedesse i suoi nemici tutti
distrutti." Così commenta Vittorio Dini: " Colpisce, innanzi tutto, la forza del richiamo ad un valore così profondo e
poco consueto, perfino nella riflessione politica più alta: la libertà. Non a caso Bacone, la più alta intelligenza
europea, vedrà in Masaniello il simbolo della libertà." Ed in verità le innovazioni apportate alla teoria politica da
Masaniello sono profonde e sono testimoniate dai bandi da lui firmati. Il punto che colpisce è il superamento del
concetto del suddito e l’affermazione, in atti ufficiali, del concetto del citoyen, I bandi infatti introducono questa nuova
dizione: " si ordina e si comanda a qualsivoglia persona di qualsiasi stato, grado e condizione si sia"; ove secondo
questa formulazione tutti i sono ritenuti uguali ed in quanto tali soggetti tutti allo stesso modo al rispetto delle leggi, vi è
cioè la parificazione dei diritti e dei doveri, non più stabiliti secondo il censo, ecc. Ed infatti la formulazione è precisa,
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scientifica, " qualsiasi persona di qualsiasi stato, grado e condizione si sia": è il citoyen appunto. Questo dà ben il
segno dell’altezza a cui era giunto il movimento rivoluzionario sin dai suoi primi giorni, che fa ben intendere che
esisteva tutto un dibattito ed una elaborazione teorica e concettuale precedente, che innervava dentro il più complessivo
dibattito teorico europeo come si è visto. In una sezione specifica affronteremo il dibattito e la produzione teorica
sviluppatasi nel corso della rivoluzione borghese del 1647-48, che renderà bene tutto il carattere di rivoluzione e non
moto o tumulto.
Fallito il tentativo di Bisignano, messo in un angolo Genoino, fallito l’attentato occorreva abbattere assolutamente
Masaniello. Il movimento rivoluzionario si era spinto troppo oltre, aveva raggiunto i confini dello stato romano e
movimenti cominciavano anche lì a serpeggiare; aveva raggiunto la Francia, l’Olanda, l’Inghilterra; aveva messo in
ginocchio la Spagna nelle trattative di Munster, che preparavano il trattato di Westfalia del 1648, con il quale si
chiudeva la Guerra dei Trent’anni.
Il re di Spagna ed il viceré con tutta la loro estesa e capillare rete di spie, provocatori, confidenti, ruffiani si
erano fatti miseramente giocare dalla sottile arte della " Dissimulazione", messa in atto dal gruppo dirigente
rivoluzionario. Il re ed il viceré avevano finito per essere rimasti impigliati in quella stessa rete di spie e
ruffiani, che essi stessi avevano così ben tessuto e sonoramente e beffardamente battuti sul loro terreno
principe: la Dissimulazione. Nella fitta rete di congiure e congiurette tramate dai vari baroni e cardinali, legati
alla Francia ed all’Inghilterra, che cercavano di controllare, infiltrando spie e manovrando, avevano finito per
perdersi essi stessi in quei meandri. E così quella fitta rete aveva svolto oggettivamente il ruolo di cortina
fumogena, di distrarre l’attenzione dal pericolo vero. L’insulsa ottusità baronale aveva impedito di
comprendere che un moto rivoluzionario poteva avere un centro diverso dai baroni; aveva impedito di
vedere i processi reali nuovi e la fondazione di una nuova Scienza della Politica con nuovi protagonisti ed il
superamento del concetto di plebe e suddito da accattivare con lancio di monete tra la folla o con elargizione
di viveri; aveva impedito di cogliere la formazione di una nuova coscienza civile e quindi di una nuova e più
alta dignità dell’uomo, che la rivoluzione borghese portava con sé: il citoyen appunto; aveva impedito di
cogliere il superamento del vecchio rapporto dominati-dominanti. Si erano così! persi in quella fitta rete e
giocati beffardamente proprio da quella fitta rete. Quando il movimento rivoluzionario inizia a prendere corpo:
il 26. dicembre. 1646 e fino al 7 luglio. 1647, pur avendo le maggiori forze impegnate altrove e dislocate
esigue nel regno di Napoli, pur tuttavia non impegnarono da subito quelle che avevano a loro disposizione,
che concentrate nel punto vitale avrebbe represso sul nascere il movimento; avrebbe sopraffatto le forze
rivoluzionarie in via di ulteriore accumulazione, che avverrà proprio nel corso della fase che va dal dicembre
1646 al maggio-giugno 1647. Non lo faranno per il timore che dietro quel movimento vi fosse qualche setta
congiurante, il cui intervento avrebbe finito per regalare quel movimento plebeo ai francesi o agli inglesi. Essi
non potendo concepire un qualche movimento autonomo alla plebe ed al popolo, ritenevano che solo i
baroni potevano essere centro propulsore di un qualche movimento politico. Finzione ben studiata fu la
scelta di Masaniello, pescivendolo, quale capo; finzione ben studiata quella di dare al movimento un
carattere di moto plebeo, questuante, in pieno stile di tutte le precedenti sommosse plebee, proprio al fine di
" Dissimulare", coprire il vero centro dell’attacco, per coprire l’intero schieramento delle forze rivoluzionarie in
campo e consentire a questo da una parte di rafforzarsi accumulando nuove forze e dall’altro di dispiegarsi
secondo i tempi e le necessità del procedere del movimento rivoluzionario. Neppure dopo il 16. luglio. 1647
re e viceré intuirono la vera portata dello scontro, ma intuirono dai capitolati quanto bastava per serrare le
fila e scatenare la controrivoluzione armata.
La logica dell’assassinio se in generale è l’espressione di uno stato di disperazione e di depressione, nel caso specifico è
la conferma dell’ottusità spagnola, baronale ed ecclesiastica di capire che dietro esisteva un autentico gruppo dirigente
rivoluzionario, un intellettuale collettivo, che sapeva guidare il movimento in avanzate e ritirate per i tortuosi sentieri e
le inesplorate vie della rivoluzione. Erano convinti che abbattuto Masaniello avevano abbattuto la rivoluzione e si
trovarono, dopo il 17 luglio, una situazione ben più grave. E non erano serviti spie, ruffiani e provocatori: in abito talare
o civili; non erano servite neppure le intelligenze della curia arcivescovile, la raffinata esperienza della curia romana per
intelligere il movimento reale.
Grande era il prestigio e l’affetto che Masaniello si era conquistato sul campo, occorreva non tanto e non solo uccidere
Masaniello, ma screditarlo e l’assassinio essere opera, così doveva sembrare, di popolani che abbattono il tiranno.
Testi documentari ben studiati, analizzati ed esposti da Rosario Villari e Vittorio Dini dimostrano ampiamente la cricca
che agì da mandante: il viceré, Genoino ed il cardinale Filomarino, a nome e per conto della curia romana. Lettere,
documenti, presso gli archivi della corona spagnola e del Vaticano, analizzati ed esposti da Villari e Dini, attestano e
provano la responsabilità diretta e soggettiva di Filomarino e Genoino, oltreché del viceré.
Il piano è quello di dare di Masaniello un immagine di pazzo, reso arrogante dal potere: il plebeo che resta accecato dal
contatto con lor signori. A tal fine Filomarino aveva insistito perché Masaniello indossasse quell’abito per il corteo che
si recava dal viceré e che Masaniello nel suo discorso ben spiega: ma comincia già da lì il piano della pazzia.
A tal fine viene somministrato nel vino una droga: la Rauwalpia Serpina, un allucinogeno.
Occorre considerare che all’epoca era pratica consueta questa di droghe e veleni: preti, monache, principi e sovrani ne
facevano uso quotidiano quale strumento per eliminare avversari: nota ed elevata a simbolo dell’epoca e la Borgia. Nelle
corti italiane e spagnole se ne trovavano di varie specie ed esisteva una cultura specifica e ben addottorata in merito a
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cui si poteva attingere a piene mani: c’era solo l’imbarazzo della scelta. Occorre infine considerare che gli europei, e
gli spagnoli in modo particolare all’epoca, entrarono in contatto con tutta la cultura indios e quindi con le droghe
latino-americane: mescalina, ecc. che aveva ben arricchito la loro cultura in merito.
Esistevano quindi materialmente queste droghe, era pratica diffusa l’uso come arma politica ed esisteva una cultura
approfondita in merito.
Dai resoconti delle cronologie dell’epoca si evince chiaramente lo stato allucinogeno nel quale si trovava Masaniello
domenica notte ed il lunedì 15. luglio. Resoconti parlano di notte insonne, agitata, sudorazione profonda, brividi,
tremori, ecc.; parlano cioè di una chiara situazione confusionale: perdita della dimensione spazio-tempo, stati di
esaltazione che rapidamente si alternano a stadi di profonda depressione, paure e timori esagerati.
L’assassinio matura nel più generale clima festoso della raggiunta sottoscrizione dei Capitolati.
Errore mortale questo commesso: la vigilanza deve aumentare, essere più rigida e ferma proprio nei momenti di vittoria
ed essere sfruttati questi per abbattere i nemici e liquidare spie, provocatori, infiltrati, che possono costituire testa di
ponte in un momento di difficoltà, che deve sempre essere previsto nel corso di una rivoluzione.
Nella notte di domenica 14 luglio gli spagnoli piazzavano cannoni e Doria riceve l’ordine di tenere Napoli con le sue
navi sotto il tiro dei suoi cannoni. Vengono armati uomini in previsione dell’assassinio, segnale per un nuovo assalto,
per il massacro. Ma la quasi totalità degli armati dal viceré e da Filomarino si rivelarono infidi, rivolgendo le armi che
avevano avuto contro spagnoli, curia e nobili.
Marco Vitale è assassinato la notte del 16 luglio.
Il 17 luglio viene assassinato da banditi Masaniello: la testa viene separata dal corpo, che viene gettato via.
Il popolo e l’intero gruppo dirigente, mostrando ancora una volta una salda organizzazione ed una formidabile unità
politica e morale, si riebbero subito. Gli sgherri lanciati all’assalto dopo l’assassinio vengono prontamente affrontati e
massacrati.
Nel pomeriggio in armi reclamarono il corpo di Masaniello e ricongiuntolo alla testa mossero il corteo funebre.
Imposero i funerali di Stato e Filomarino, sotto la punta delle baionette, celebrò il funerale di Stato imponendo la
presenza di tutto il clero; fecero poi passare il corteo funebre dinanzi Palazzo reale imponendo il presentar armi alle
guardi spagnole. Così Capecelatro: " Unita la testa al corpo, fu recato in processione con molti lumi alla Chiesa del
Carmelo, collocandolo nobilmente innanzi l’altare maggiore,.. . Conchiusero finalmente di seppellirlo con la maggior
pompa funebre che potuto avessero, onde giti al Cardinale, ottennero da lui, che sotto certa stabilita pena, vi dovessero
andare tutti i preti della città con torce accese, i quali radunatisi al Carmelo in numero di ben quattromila, si
avviarono due ore prima del tramontare del sole, precedendo innanzi da cento figliuoli di quelli che si allevano nella
chiesa di santa Maria di Loreto…Portavano il feretro, ed i lembi della coltre i capitani e gli altri capi di guerra e molte
compagnie di soldati , strascinando le bandiere per terra, con le armi al rovescio, ed i tamburi scordati,.. .
Comandarono anche i popolari, che si mettessero lumi in tutte le finestre, acciò splendendo la notte come fosse stato
giorno. Sonarono le campane di tutte le chiese ove passava. Portarono il corpo .. per tutti i sei Seggi della città, cioè
Capuana, Montagna, Nido, Porto, Portanova e Popolo, ed in ciascun quartiere , sempre increscendo in passare in
ordinanza militare le compagnie abbattevano le armi al passaggio. Passa poi per la piazza del Palazzo.. , e giunto al
principio della strada del Porto, ove stava di continuo di guardia un’intera compagnia di Spagnoli, stante capitano
Giovanni d’Erbias, i popolari gli dissero che insieme ai suoi soldati avesse volto le armi al rovescio passando il
mortorio. La magnificenza dell’esequie, quando non da altro, si può conoscere dalla lunghezza del tempo che durò;
perché essendo uscita dalla chiesa del Carmelo alle ventidue del giorno vi tornò alle tre della notte …." Così Donzelli.
Così De Santis, che non si discosta dalle precedenti cronache, aggiunge: " Finì questo furore con l’arsione di tre case
fornai contumaci e fu la prima quella di Salvatore Cataneo, nel cui incendio fu visto gittare una gran quantità di
zecchini. Cercavano di lui per ucciderlo, chiamandolo parricida per aver ucciso Masaniello; ma già al primo odore di
questo tumulto s’era egli posto in salvo." Così Piacente, che ribadisce le precedenti testimonianze dei cronisti e così
descrive la parata militare: " strascinando le bandiere per terra e sonando tamburi non meno scordati che coperti di
negro, il suono feriva con tanta pietà gli animi degli astanti che pochi furono coloro che quella pompa non onorassero
con il pianto. Infine fu l’esequie così maestosa che non potrebbero con apparenze più grandiosei funerali del Primo
Monarca del mondo celebrarsi." Tutto imposto dai popolani, come scrive il Nunzio al Papa, descrivendogli appunto il
fastoso e regale funerale. Infine il De Santis riferisce che i popolani recatisi sotto la reggia così gridarono: " che tra di
loro era più di un Masaniello del medesimo ardore, e forse di migliore condotta, con il cervello intero e non tocco dalle
fraudolenti bevande, e che non si dessero ad intendere di aver vinto il gioco con la morte di Masaniello.". Così infine il
viceré nella sua lettera al re di Spagna 23. luglio. 1647: " Si è manifestato rammarico per la morte di Masaniello, tanto
che il giorno 17. luglio hanno portato il suo cadavere per la città, unendo la testa al corpo.. . La loro insolenza è
arrivata al punto che l’hanno portato a seppellire nella stessa notte con quelle cerimonie che si usano per i generali
defunti, facendo passare il corte funebre davanti alle finestre del Palazzo. "
§ 3. Ripresa del movimento rivoluzionario. Il 26 agosto, quaranta giorni dopo, al viceré fu imposto con
la forza delle armi di riscrivere i Capitolati, ed il 7 settembre di rigiurarli, aggiungendone due ove si perseguitava a
morte al presente e per le generazioni future Genoino e gli assassini di Masaniello.
In specifico i Capitolati in questione così recitavano: " 2. Item. che il presidente della Regia Camera della Summaria
Giulio Genovino sia privato del suo carico di Presidente, e Vicecancielliero, e così anche il Giudice Giuseppe
Santovincenzo ( nipote di Genoino, nda ) sia privato di Giudice di Vicaria e fra Luca Genovino ( altro nipote di
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Genoino, nda) sia finalmente privato del carico di Capitano di cavalli e che li sopraddetti, Giulio, Giuseppe e fra
Luca siano disterrati ( cacciati dal regno e privati di ogni bene ) dal presente Regno, insieme con tutti i loro discendenti
di linea mascolina in infinitum, eccettuato le figlie femmine, e discendenti di linea femminina; e né essi, né detti
discendenti di linea mascolina, ut sopra, possano mai rimpatriare, né ottenere gratia, ne anco da S. M. Cattolica, e nel
suddetto termine di un mese debbiano sfrattare dal presente Regno, sotto la stessa pena della vita per aver macchinato
falsamente contro detto fedelissimo Popolo di Napoli e Regno, il che è notorio a detto fedelissimo Popolo; e li parenti di
linea mascolina di detti Giulio, Giuseppe e fra Luca fino al quarto grado, computando de jure Canonico, non possono
esercitare Offici Regii di questa fedelissima Città e Regno, così di giurisdizione, d’amministrazione, come di cose
pubbliche…" Sentenza severa ed inequivocabile sul ruolo di Genoino. Ma quello che qui deve maggiormente attirare la
nostra attenzione è la precisa, esatta, formulazione giuridica, il che presuppone un apparato di giureconsulti profondi ed
attenti conoscitori della giurisprudenza civile, penale e canonica dell’epoca. " 17. Item, che Salvatore e Carlo Cataneo,
Angelo Ardizzone, Andrea Rama ed altri declarandi (gli assassini ancora non scoperti, ma di cui si era ancora aperta
l’indagine giudiziaria, nda )per la Piazza del detto fedelissimo Popolo siano nel predetto termine di un mese disterrati
dal presente Regno e che mai possano essere agratizati, etiam da S. M. Cattolica, e ritrovandosi ciascheduno di essi per
il Regno, incorrano ipso facto nella pena di morte naturale, e si possino impune occidere; e di loro discendenti in
infinitum di linea mascolina non possino godere di Offici regii, né Baronali di questa fedelissima Città e Regno, stante
che furono macchinatori della morte di Masaniello … ." Sentenza severa ed inappellabile e che sancisce sul piano
giuridico formale quanto sul piano politico era stato inappellabilmente stabilito. Ma anche qui l’attenzione va fermata
sulla esatta formulazione giuridica, che rimanda anche qui ad un apparato di giureconsulti in grado di esporre in termini
giuridico-formali la sentenza e di trasporre sul piano giuridico-formale quanto il piano politico aveva inappellabilmente
stabilito. Ma c’è qui un altro punto da fermare, presente anche nel precedente Capitolato, ma qui formulato con
maggiore nettezza: quello di negare a discendenti Uffici Regi e titoli di baronaggio. Si impedisce in questo modo al
viceré di remunerare comunque gli assassini. La rilevanza politica di questo è enorme: si attesta cioè che il viceré ed il
re di Spagna non sono in grado di garantire quanto promettono e che il fatto di agire a nome e per conto del re non
comporta impunità e certezza del godimento del premio, ma quantomeno incertezza e quindi rischio. Re e viceré ma
anche la curia romana è clamorosamente sconfessata nella garanzia di impunità. Entrambi re e curia danno qui un
segnale tremendo di debolezza di non essere in grado di garantire i loro fedeli servi e di scaricarli.
Il tentativo, riprendendo l’esposizione cronologica, di porre, assasinato Masaniello, Genoino alla testa di tutto il
movimento fallisce miseramente: Genoino consuma fino in fondo il suo tradimento, fino alla più plateale
manifestazione di servilismo ed accattonaggio, come si vedrà nella lotta dei tessitori, che condurrà poi il governo ed il
popolo a quella sentenza severa ed inappellabile espressa nel Capitolato riportato.
Il movimento rivoluzionario riprende la sua marcia in avanti e questo conferma sul piano immediato tutta la giustezza e
veridicità di quanto il popolo napoletano aveva detto al viceré il giorno dei funerali di Masaniello, di cui si è detto, ma
questo conferma l’esistenza di un saldo gruppo dirigente, legato al movimento popolare e contadino, espressione reale
di questo ed in quanto tale Stato Maggiore della rivoluzione borghese, che trova in Gennaro Annese eccellente erede di
Masaniello. Ma questo vuol dire proprio ed esattamente, ed ancora, dell’esistenza di un collettivo, di un intellettuale
collettivo in grado di sostituire i capi assassinati; ma vuol dire ancora di più che il movimento che parte nel dicembre
1646 aveva avuto una corretta preparazione e che aveva saputo unire attorno a sé veramente l’avanguardia della classe
borghese e dei popolari ed aveva saputo costruire uno Stato Maggiore di grande validità teorica, politica, organizzativa.
Il movimento rivoluzionario riprende alto il suo volo, raggiungendo da subito più alte vette. Genoino impaurito ed
incapace fa appello al Filomarino.
I popolani il 21. luglio 1647 con un memoriale, sorretto dalla punta delle loro baionette e dalla bocca dei loro cannoni,
intimarono al Filomarino di astenersi dall’intervenire e " di stare servito" e che " V. Em. voglia farli gratia ordinare alli
Padri Gesuiti che vogliano attendere agli Divini offici, stante che detti Padri con indebito zelo e con una carità pelosa
vanno cotidianamente a raccomandare al Signor Genovino gl’interessi propri e particolari, stuzzicando il vespaio per
essere cacciati in camicia, con poco gusto e soddisfazione di questo Regno; .. . "
Il 22. luglio.1647 un funaio del Mercato Francesco Cerullo alla testa di un gruppo di popolani chiamò a raccolta il
popolo contro Arpaia e Genoino, definiti traditori del popolo. Il nuovo tumulto fu soffocato sul nascere per l’assassinio
di Francesco Cerullo ad opera di Domenico Milone e Peppe Palumbo, agenti segreti degli spagnoli.
Il 23. luglio. 1647 i popolani di Melito giunsero a Napoli a chiedere aiuto contro Antonio Muscettola, consigliere regio
e cavaliere del seggio di Montagna, il quale pretendeva la riscossione delle gabelle abolite. I popolani napoletani
corsero subito in aiuto di quelli di Melito. Se ne stava il Muscettola a gozzovigliare con i suoi sicuro del ripristinato
ordine, alla notizia di forze armate che marciavano contro di lui riesce a stento a scappare come stava, in camicia ed
assistere da lontano alla requisizione di tutti i beni ed alla distruzione del palazzo, rimanendo così come era scappati: in
camicia. Il viceré dal canto suo, anch’egli sicuro della riconquistata libertà, credette fare cosa buona ristampare i
capitolati a modo suo. Il popolo in armi gli impose di riscrivere i Capitolati così come erano stati concordati
aggiungendone dei nuovi, tra cui i due: su Genoino ed i sicari dell’assassinio di Masaniello, di cui si è detto.
Le popolane attaccarono il " Monte di Pietà" assieme alle case degli amministratori di questo.
Gli studenti in armi respinsero l’imposizione della tassa di laurea, abolita dalla rivoluzione.
I mendicanti organizzatisi marciarono sulla chiesa di san Martino per incendiare quel monastero, ma furono prevenuti
dalla soldataglia che presidiava Castello sant’Eremo. Essi riuscirono allora ad imporre che i padri del convento
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attaccato, in alcuni giorni della settimana sovvenissero i mendicanti con una certa elemosina, in soddisfazione di un
legato fatto da un testatore ed a cui i suddetti padri non davano soddisfazione alcuna. Imposero inoltre che fosse
ripristinato nel valore originario il legato di Giovanna I d’Angiò, regina di Napoli, consistente nella distribuzione
giornaliera d’un grosso pane e di un boccale di vino , che era stata sostituita dai pii padri certosini con altra elemosina di
altro valore e di natura diversa.
Le serve dei monasteri, in modo particolare di quello di santa Chiara, si ribellarono al modo come veniva trattate ed
imposero nuove e migliori condizioni: la badessa non poté che aderire alle richieste, dato la compattezza del movimento
ed il sostegno immediato dei popolani e del governo rivoluzionario.
Un forte movimento si sviluppa contro le bische ed il gioco d’azzardo: ciascuna bisca fu scovata ed assaltata
bruciando carte, tavoli e quanto altro vi trovavano, per totale di almeno cento bische e case da gioco furono assaltate e
date alle fiamme. L’iniziativa, anche questa diretta ed organizzata dal gruppo dirigente rivoluzionario, diversamente non
si spiega, ha un’eccezionale portata rivoluzionaria ed un immediato significato politico. In quelle case da gioco oltre i
nobili molti popolani per il passato vi avevano giocato e perduto e sottoscritti debiti capestri, usurai. Inoltre dette bische
continuando alcuni popolani a frequentarli, costituivano un ricettacolo di individui potenzialmente disposti per debiti di
gioco e per il vizio del gioco a prestarsi ad azioni scellerate contro la Repubblica. L’iniziativa consente di legare a sé
quei popolani che per il passato si erano indebitati, liberandoli così dal debito, spazza via il ricettacolo ed uno strumento
di ricettazione di elementi per scopi scellerati, infligge infine un serio colpo alla malavita ed alla camorra, che in giochi,
bische, prostituzione et similia traeva la sua forza ed i suoi guadagni.
Il movimento di lotta dei tessitori di drappi di seta impone al viceré che non potesse essere esportata la seta prodotta
nel regno. I mercanti interessati invece all’esportazione si opposero ed entrambi ricorsero in giudizio. I mercanti erano
difesi da Cennamo, noto incettatore di gabelle e legato alle manovre speculative del d’Aquino ed arricchitosi proprio
con l’esportazione della seta; i lavoratori erano difesi da Genoino. In sede dibattimentale Genoino prende le difese di
Cennamo contro i tessitori, sottoscrivendogli una dichiarazione che l’incendio delle sue proprietà gli era stato procurato
da nemici personali e non dal popolo; in sostegno di tale dichiarazione fa circolare una dichiarazione che fa
sottoscrivere ai suoi sostenitori. Il pezzo di carta cade nelle mani di Orazio Rossetti, detto Razzullo de Rosa, autentico
capo rivoluzionario. Impadronitosi del foglio lo mostra a tutti come prova dell’ulteriore tradimento di Genoino,
smascherando ad alta voce quella dichiarazione come " iniqua, fraudolenta ed in tutte le sue parti contraria al popolo,
che abbatteva i suoi ordini, .. che aveva preso a difendere il mercante per dare addosso al tessitore, come più
affezionato al popolo. Con questo mantice soffiava sul fuoco." Il 21. agosto. 1647 organizzati e diretti da Orazio
Rossetti i tessitori mossero sul tribunale della camera dove dovevano trovarsi i due compari: Genoino e Cennamo. Ma
il viceré provvide ad avvertirli in tempo ed i popolani non ve li trovarono, che avevano trovato rifugio a palazzo reale.
Rossetti senza perdersi di coraggio diresse il movimento dal tribunale a palazzo reale imponendo la consegna di
entrambi e la liberazione del fratello di Masaniello, arbitrariamente e proditoriamente fatto prigioniero dalla soldataglia
spagnola. Il viceré si disse subito disponibile a liberare il fratello di Masaniello, ma che non sapeva dei due. Palazzo
reale è così posto subito sotto l’attacco popolare. Il viceré ritiene di poterne approfittare e fare piazza pulita. Ordina il
massacro. La risposta fu immediata: un possente contrattacco che dà inizio alla seconda fase della rivoluzione borghese
meridionale. I soldati spagnoli vengono affrontati dal popolo che accerchia palazzo reale e sono messi in fuga.
Salvatore Barone nel frattempo guida l’assalto per la conquista del piano degli Angioli a Pizzofalcone, ed il
Palazzo,posto eminente d’incontro. La popolazione di santa Lucia del mare attaccarono il posto della Croce e
conquistarono il convento di san Luigi, congiungendosi così con le forze di Barone ed accerchiando il Tuttavilla, che
vista perduta la resistenza e temendo la perdita della ritirata, fugge riparando nella reggia, lasciando così nelle mani del
governo rivoluzionario l’intera zona, che si trovava così nelle condizioni di stringere di più Palazzo reale, esposto a
duplice attacco ed all’accerchiamento. Nel frattempo la casa del principe d’Ascoli, maestro di campo della fanteria
spagnola, e svaligiata. Successivamente furono attaccati soldati tedeschi e spogliati di ogni arma e beni vari,
successivamente toccò alla casa del conte Bisconte, colonnello di detti soldati: una gran quantità di armi caddero nelle
mani del governo rivoluzionario e dell’esercito popolare. Il viceré deve immediatamente correre ai ripari ed accettare in
cambio della tregua nuovi capitolati, molti più onerosi dei precedenti. Lo stesso Schipa è costretto a riconoscere: " non
tanto richieste di grazie, quanto imposizioni di patti."
Alcuni punti importanti dei nuovi Capitolati sottoscritti il 31. agosto. 1647 erano: La consegna di castelli, della reggia e
dei posti chiave nell’amministrazione del Regno, che dovevano essere di esclusiva attribuzione a napolitani e con
l’esclusione dei nobili da ogni pubblico ufficio. " 7. Tutti i nobili, tanto quelli che godono Nobiltà nelli seggi di Napoli,
quanto quelli che godono Nobiltà nel Regno, non possano havere, né esercitare Offici Regii, né di Toghe, né Militari,
né qualsivoglia officio pubblico…." La cacciata dal Regno e requisizione dei beni, " il disterro" degli arrendatori della
gabella della frutta e di tutte le altre gabelle. " 8. .. Ed anco di tutti gli altri Gabellotti, Arrendatori, e Governatori di
qualsivoglia gabella ed imposizione, che s’esigeva prima nel presente Regno, debbiano depositare tutte le quantità per
essi debite per tutto il tempo passato sino al detto 7 luglio 1647 .. ". Il riconoscimento dell’armata popolare. " 13.
Che si debbia fare una casa per la conservazione delle artiglierie ed altre armi a disposizione del fedelissimo Popolo, e
s’habbia da custodire da detto fedelissimo Popolo, e per le persone da esso eligende .. ." Si proibiva al viceré di poter
costruire alcunché. L’interpretazione dei Capitolati era competenza esclusiva della Piazza del Popolo. La Piazza del
Popolo diventava parlamento sovrano. Solo essa, non più con la partecipazione dei Seggi Nobili, decideva sulle leggi
della Città e del Regno.
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§ 4. L’assalto alla Rivoluzione
I Capitolati imposti veniva firmati dal viceré al fine di poter prendere tempo in attesa dei rinforzi dalla Spagna; erano
imposti e sottoscritti dal governo rivoluzionario nella strategia dell’accumulazione delle forze e nell’attesa dell’ulteriore
indebolimento della Spagna, che si dissanguava nella Guerra dei Trent’anni.
Il 1. ottobre. 1647 la Grande Armada, ossia la flotta spagnola, al comando di Giovanni d’Austria, figlio di Filippo IV fu
schierata nel golfo di Napoli contro la Città, il Regno e la rivoluzione. La città fu sottoposta ad un feroce
cannoneggiamento, più di 150.000 cannonate furono sparate sui quartieri popolari.
Inizia qui la terza fase della rivoluzione borghese.
L’Armada doveva costituire l’appoggio ad un più generale attacco scatenato dalle forze reazionarie. Il piano prevedeva
un attacco da terra con truppe arruolate nel regno e costituito dagli sgherri al servizio dei vari nobili: meridionali, ma
ancor più fiorentini, lucchesi, genovesi, ferraresi, modenesi, piacentini, romani, ed in specifico: Colonna, Aldobrandini,
Estensi, Gonzaga, Piccolomini, Medici, Grimaldi, Doria, Spinelli, ecc. Questi non potevano che fare blocco una volta
che la rivoluzione li aveva privati degli uffici e requisiti i loro averi, frutto delle speculazioni sulle gabelle. La canea
reazionaria era stata toccata nel vivo e così il popolo degli accattoni fece lega contro la rivoluzione. Ciascuno ci mise
del suo e mise al servizio della reazione per la conquista della libertà di speculazione e di ruberia i propri " bravi", armi
e soldi: perché questi uomini andavano pagati e bene. Il duca di Maddaloni con grandi difficoltà riusciva nel regno ad
organizzare i bravi delle varie casate per l’opposizione del movimento contadino e con grandi difficoltà riusciva a
muoversi e ad avvicinarsi alla Capitale. Quando vi giungerà in enorme ritardo non porterà con sé che un pugno di
malfattori, assolutamente incapaci oltreché insufficienti per la bisogna della reazione.
Le forze spagnole impegnate nella battaglia per la Capitale sono intanto fatte penetrare con la copertura di frati, preti e
monaci e da questi nascosti, secondo la ben nota consuetudine. Anche qui non si prestò molta attenzione se conventi di
frati o di monache e meno che mai all’ordine, per cui gli stessi conventi di clausura videro ospitare sgherri.
La chiesa del Gesù fu trasformata dai gesuiti in una fortezza di soldati spagnoli. La chiesa di santa Chiara non fu
da meno. I frati zoccolanti ospitarono nella chiesa di santa Maria la nova soldati e malfattori di ogni risma, che al
servizio delle nobili casate dell’italica e non solo stirpe nobiliare erano stati prestati alla reazione. Anche qui erano
tenuti ben nascosti in celle, accampati nei corridoi, sale interne: trasformando così detti luoghi in bivacchi di assai mala
affare, accampati, cioè, in luoghi esclusi al pubblico ed all’occhio del pubblico.
La mattina del 5. ottobre vengono fatti prigionieri ed assassinati alcuni capi e membri del governo rivoluzionario, erano
mercanti, procuratori, artigiani, lavoranti, dottori, giureconsulti, L’attacco si sviluppava su tre direttrici ed aveva come
asse strategico l’accerchiamento della zona popolare in generale e convergere tutte sulla zona Mercato. L’Armada
costituita da vascelli per la maggior parte di primo rango, ossia a tre ponti e novanta cannoni, seguivano quelli di
secondo rango con due punti e settanta cannoni, poi quelli di terzo rango con sessanta cannoni, aprì il fuoco sui quartieri
Mercato, Lavinaio, ed altri. La fanteria spagnola nel contempo, con la copertura della marina, avanzava sulle tre
direttrici indicate. Il primo momento non può essere che favorevole alla reazione, ma non resse al pesante e poderoso
contrattacco dell’esercito rivoluzionario popolare, che poteva contare sul concorso di tutta la popolazione della città e
dei paesi vicini che accorsero in gran numero, stringendo in una morsa gli aggressori. Innumerevoli i casi di grande
eroismo, che proprio nei primi momenti dell’attacco seppero fermare, ritardare l’avanzata nemica e preparare
condizioni migliori alla controffensiva rivoluzionaria. Di Onofrio Pagano, Capitano della Pietra del Pesce, così ne
racconta un cronista dell’epoca: Aveva egli visto venire alla volta di quella Porta una gran quantità di nemici, seguiti
da molte galee. Sostanzialmente solo fece un riparo e vi pose due cannoni di ferro ed iniziò a cannoneggiare le forze
nemiche. La porta fu difesa con eroismo e le forze spagnole costrette a retrocedere ed alla fine a desistere dal
penetrare in città per quella Porta.
La situazione nel campo reazionario precipita, da precarie diventano insostenibili le posizioni spagnole, l’attacco era
fallito e la controffensiva dilagava. I centri di resistenza spagnoli divennero ben presto i conventi e chiese, ma anche da
qui furono costretti a sloggiare sotto l’attacco risoluto dei popolani. Sola la chiesa del Gesù resisteva tenacemente, ben
fornita di armi e munizioni, ma alla fine anch’essa dovette soccombere ed i nemici sloggiare. Diserzioni vi furono sulle
galee spagnole. La galea di santa Teresa si ribello ed imprigionati in una stiva gli ufficiali spagnoli, i forzati condussero
la galea verso Torre del Greco, dove furono accolti dal Popolo con il quale si unirono e nelle fila della rivoluzione
combatterono come archibugieri. Fallita l’aggressione le forze spagnole sono costrette a chiedere una nuova tregua.
Innalza la bandiera bianca il viceré, questa volta le forze rivoluzionarie sono decise a dare battaglia e rispondono
alzando sul forte del Carmine la bandiera rossa e nera : " volendo significare che volevano combattere fino alla morte".
Gli spagnoli avevano un disperato bisogno di una tregua. Il governo rivoluzionario prevenendo le mosse del nemico che
di certo si sarebbe appellato al Filomarino, provvidero armati di imporre al Filomarino di non immischiarsi.
Inizia qui l’ultima fase della rivoluzione borghese nel regno di Napoli.
Capitolo Quinto
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La Repubblica
Questa ultima fase richiede una disamina attenta, di cui si tratterà di ben intelligerne i movimenti delle classi interni al
Regno ed il più complessivo movimento delle classi in campo europeo, che trovavano nella Guerra dei Trent’anni la
loro più immediata espressione e nella pace di Westfalia il loro punto di equilibrio, occorre esaminare il più generale
clima venutosi a creare nella repubblica E’ questo movimento complessivo delle classi in campo europeo che guida ed
orienta tutta la politica estera dei singoli Stati nazionali. La guerra dei Trent’anni fu cioè un possente scontro di classe,
che ebbe per teatro l’intera Europa ove le due classi l’aristocratico-nobiliare e quella borghese si contesero
l’egemonia ed il primato nella rapina e nello sfruttamento, ma che vedeva la classe borghese in posizione di classe
rivoluzionaria.
Il periodo in esame è il più confuso, qui si accavallano ed accatastano fatti ed annotazioni diversi e contrastanti, che
impediscono una iniziale lettura dello sviluppo del processo in atto.
Vi è da una parte la difesa dall’aggressione che dura per tutto il periodo ottobre-1647-6 aprile 1648,la politica di
alleanza con la Francia: Mazzarino ed il duca di Guisa, di cui non si riesce ben a tracciare i profili ed i contorni di
entrambi e come questi interagiscono con i movimenti delle classi sul piano interno ed europeo; diviene infine assai
difficile comprendere quale sia la portata e l’influenza degli accordi di Munster, poi ratificati a Westfalia,
sull’evoluzione della rivoluzione borghese nel Regno di Napoli. Il tratto più immediato che si coglie è il rapido e
vertiginoso capovolgersi delle situazioni e dei rapporti tra le classi, giacché ciascuno si orienta e si modella sulla base
di come si va profilando l’accordo di Munster; una serie di azioni militari hanno un significato proprio dentro
Munster, ossia al fine di spostare in una direzione o nell’altro quel particolare accordo, quel particolare capitolato
dell’accordo. Solo se si riesce a fermare i processi rivoluzionari nel Regno con l’evoluzione degli accordi di Munster si
può cercare di fendere la fitta nebbia.
Uno dei primi atti della Repubblica, proclamata il 1. ottobre. 1647 è la costituzione del Parlamento del Regno.
Il dibattito teorico e politico sviluppatosi sin dai primi anni del Seicento e che dalla rivoluzione aveva trovato alimento e
sostegno oltreché libera circolazione e confronto, trova in questo atto del governo rivoluzionario il suo punto di arrivo.
Gennaro Annese, Presidente della Repubblica, emana un bando nel quale si dice che ciascuna città e terra di ogni
Provincia del Regno deve eleggere un proprio rappresentante che sia " una persona popolare fedele ed interata dalli
maneggi universali e delli bisogni di essa Città e Provincia", ossia che sia legata alla popolazione di quella città o
provincia e quindi in grado di intenderne ed esprimerne interessi ed istanze ed in questo esatto e preciso contesto essere
mandante, essere rappresentante e quindi Eletto del Popolo in quella, e di quella, Città o Provincia.
Viene espresso qui il corretto concetto di rappresentanza politica e si salda questa alla capacità di esprimere interessi ed
istanze ed in quanto tale Eletto, in quanto tale rappresentante. E’ questo un alto concetto di democrazia che lega, che
salda in maniera indissolubile, la democrazia formale con la democrazia sostanziale, respingendo la divaricazione tra i
due termini ed affermando la sostanziale come momento centrale e fondante e quella formale, espressione e derivata
dalla sostanziale, la formale forma del manifestarsi della democrazia sostanziale ove il passaggio alla formale non
espropria il Popolo dal mandato e non lo affida all’Eletto per il tempo in carica. E’ questo un alto concetto, il più alto
che mai più sarà raggiunto nel corso di tutte le rivoluzioni borghesi del Sei-Settecento ed a cui non prevarrà mai la
democrazia borghese parlamentare, anche nelle forme più avanzate.
§ 1. Problemi nuovi e dibattito teorico
Molta è stata la strada che il dibattito teorico ha dovuto percorrere per poter creare le condizioni fondamentali per la
rivoluzione. Ha dovuto innanzitutto liberare il campo dal concetto-categoria di " suddito" a cui era intimamente legato
quello di " fedelissimo", " fedeltà", che saldava il servo della gleba al signore feudale. Era questa cioè una categoria
chiave della più complessiva costruzione del consenso/dominio della classe feudale sul servo della gleba. Il concettocategoria di " fedeltà" presuppone e rimanda proprio ed esattamente a quel rapporto di dipendenza personale, che era la
quintessenza del regime feudale. La fedeltà nella proiezione mitica diveniva così punto di onore, e quando questo non
bastava la iattura della infedeltà si estendeva a tutto il parentado, che data la realtà contadina costituiva la base e
l’essenza stessa del mondo agricolo, come bene attesta e documenta Villari. La fedeltà era al signore, a cui spettava far
rispettare gli ordini e le disposizioni del re, da cui aveva ricevuto il feudo. Il processo di scardinamento di questa
pesante catena era complesso già di per sé, ma dovendosi, poi, anche muovere entro il rigido e barbaro ordine imposto
dal Concilio di Trento lo era di più. Viene articolato attraverso la dimostrazione storica della fedeltà del popolo del
regno di Napoli. Il quasi completo monopolio nobiliare della rappresentanza nazionale e l’antagonismo o la divisione
tra nobiltà e popolo erano condizioni essenziali per la stabilità del dominio. La resistenza al radicalismo della nobiltà
venne invece dal movimento popolare. Ed il cardine di questo era dato proprio ed esattamente da quel concettocategoria di " fedeltà". La nobiltà ascriveva a sé questa ed a legittimazione del suo dominio ascriveva ai dominati quello
di " infedeltà". Il " popolo" nell’accezione dell’epoca di tale termine, ossia borghesi, artigiani, nobili non di seggio, non
aveva alcuna legittimazione al governo se " infedele", ossia incapace di mantenere il governo delle cose nelle difficili
situazioni. La classe dominante in lotta contro la classe rivoluzionaria in ascesa fa ampio uso di questa incapacitàimpossibilità della classe rivoluzionaria di essere classe di governo e quindi di non poter essere affidabile sul piano
interno ed internazionale. La borghesia non fa diversamente nei confronti del proletariato. Il lavoro storico di Tommaso
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Costo " L’Apologia istorica del Regno di Napoli. Contro la falsa opinione di coloro che insinuano i Regnicoli
d’incostanza e d’infedeltà" del 1613, assestava un duro colpo in questo senso. Il lavoro di Giulio Cesare Capanio, Il
Forastiero del 1634, faceva un’analisi storica sulla tradizione storica repubblicana " [ I Napoletani] vissero con costumi
di Repubblica, e questa ritrovo di quattro maniere: la prima [..] era divisa, ma unitamente, in Senato e Popolo. Di quello
erano capo gli Arconti; e di questo il Demarco, voci che significano l’autorità degli uffici loro." Questo lavoro
affondava di più l’attacco mostrando come in tempi precedenti agli Spagnoli i napoletani erano stati in grado di formare
un proprio gruppo dirigente. Il secondo passo è stato quello di formulare diversamente il concetto di " fedeltà",
definendo verso chi e quando. A questo provvede il lavoro " Il Cittadino Fedele". Qui vi è anche una disamina delle
forme di governo a cui la rivoluzione doveva tendere con un bilancio delle varie forme che si erano affacciate nella
storia. Qui il carattere preminente è il rapporto che viene costruito tra le forme dello Stato e le garanzie che queste sono
in grado di dare al mantenimento e consolidamento della Libertà. Si lega cioè saldamene forma dello Stato e Libertà.
Così scrive l’autore: " .. maggior beneficio della desiderata libertà, con la quale facendosi Repubblica, o conforme agli
Svizzeri, che ritengono con tanta quiete il governo appresso li Popoli, e che con tanta stima di fedeltà sono da tutti i
Prencipi tenuti e preggiati, o conforme agli Olandesi, che da semplici pescatori, agguerriti per lungo uso delle Armi,
sono fatti ragguardevoli tra’ Potentati; o vero fare un Re elettivo, come quello di Polonia, o pigliarne uno dalla
Francia, indipendente da quel Regno, ma concorde con quella Corona per aver forze da resistere agli Spagnoli, o
almeno chiedere all’Armata che sta in Portolongone Capitani e Officiali esperti e Veterani, Armi e monitioni da bocca e
da Guerra, delle quali provvidamente abbondano, se la fama che ciò che porta è vera; o pure tornando a vivere, come
nei primi tempi della fondatione di Napoli, in forma di repubblica con libertà greca divisa in Senato e Popolo,
rinnoverete gli antichi Arconte e de Marco." Assieme e complementare a questo lavoro uscito nel corso della
rivoluzione è quello di un anonimo ove discute delle forme dello Stato e quindi della democrazia e dell’organizzazione
militare, leggendo l’unità del processo, ossia legando strettamente la forma dello Stato con l’organizzazione militare
entrambi strumenti di garanzia per la Libertà e per la Democrazia, facendo, infine, dipendere tutte queste dal un saldo e
sano sviluppo ed economico, che ha per base l’indipendenza nazionale. In: " Lettera scritta da un Personaggio
Napolitano agli ordini del Regno di Napoli, nel quale dà loro una breve istruttione per formare la nuova Republica",
questa complessa problematica è esposta non solo nella sua organicità ma anche in una forma molto semplice e
popolare, indice questo dell’altezza del dibattito e della ricerca teorica che lo sostanziava – senza la quale non vi è mai
sintesi e chiarezza logica e d espositiva. In generale di questo lavoro possiamo dire che, al di là dei temi che abbiamo
fermato all’attenzione, esso costituisce un autentico manuale di Scienza della Politica. I lavoratori avanzati ed i
comunisti non lo leggeranno invano. Fissa bene l’altezza della produzione teorica e del dibattito politico alti che si
vengono a maturare negli anni della rivoluzione del 1647-48. Idea del governo da prendersi " E’ diviso, come voi
sapete, il Regno di Napoli in dodici provincie considerabili. In ciascuna vi sono i suoi Baroni, sparsi per varie Terre e
Castella, delle quali sono signori. In tutte le Città v’è la sua Nobiltà distinta dal Popolo, e di Popolo ogni luogo ne è
pieno. Hor’io formo in questo modo il Governo, e prendo per esempio una delle Provincie, a simiglianza di come le
altre s’intendano regolate. Ci vaglia per esempio l’Abruzzo. Qui vi sono molti Titolati, molte Città con molte famiglie
di Nobili e da per tutto gran popolo. S’intenda per capo di questa Provincia L’Aquila. Qui in tempo di Parlamento o
assemblea concorrano tutti i Baroni, con tanti Nobili scelti dalle Città et un numero proporzionato de’Popolari, eletto da
ciascuna Città, Terra e Castello, secondo la gente che fanno. Da questo corpo di persone si dovranno scegliere, sì da
parte Nobile come dalla Popolare, a proportione tanti deputati. i quali con quelli delle altre Provincie fatta la massa in
Napoli, governeranno tutto il Regno a nome commune. Il formare una Republica, di cui Napoli fosse capo assoluto, a
somiglianza di Venetia e di Genova,.., non riuscirebbe. Sappiano che le Provincie del Regno sono habitate da gente
feroce e bellicosa, e forse più tolleranti della guerra che quella di Napoli; perché alla fine vi sono gli Ernici, gli Appuli, i
Sanniti, che furono quelli co’ quali Roma vinse tante Nationi d’Europa. E queste mal volentieri di colpo si metterebbero
sotto il giogo de’ loro uguali. E quando riuscisse il metterli, non riuscirebbe il mantenerli, perché risorgerebbero tutti in
favor della causa commune, e sarebbe affatto impossibile che una Città sola potesse resistere nonché domare un Regno
intiero, che combatterebbe per la sua libertà. Aggiungete che, sendo sparse per il Regno famiglie nobilissime e potenti,
l’ambitione di queste servirebbe di mantice alle sollevazioni de’ Popoli sdegnati, per vedersi privi di quelle prerogative
che altri ad essi non superiori godrebbero. [… ]. Parimenti tutti [ i Baroni] manterrebbero i loro feudi; e che più
ottengono da’ Spagnoli? […]. Dopo aver indicato come tutte le cariche siano nelle mani di ‘ forastieri’, scrive: " Chi
finalmente tira tutte le utilità della toga e della spada, se non il forastiero? Non può una grossa dote per rapacità degli
Spagnoli fermarsi tra voi. I Principati di Stigliano, di Caserta, Venosa, di Castiglione e tanti altri non sono andati per
forza, ed a vostro dispetto, in mano degli stranieri? Non dico nulla de’ Vescovadi, Abbadie e beneficij, tutti sparsi in
case Spagnole, Romane, Genovesi. [..]." Viene qui ora un passo centrale che sulla divisione dei poteri: legislativo,
esecutivo e giudiziario, unito ad un abile passaggio politico in cui tende una mano ai nobili meridionali affinché si
stacchino dalla restante nobiltà " forestiera". " I Nobili non potrebbero più strappare i Popolari, sì perché troverebbero
sempre giustizia presso un Senato o Tribunale, in cui parte dei Senatori o dei Giudici fossero Popolari, sì perché gli
stessi Nobili, ambitiosi d’avvantaggiarsi negli honori della Repubblica, non vorrebbero disgustar quelli dai quali
dipendesse per metà la lor fortuna... . Si creerebbero i Generali degli eserciti dall’Ordine Nobile; ma si potrebbe
scegliere i Provveditori generali dall’Ordine Popolare; se quelli andassero per Ambasciatori, questi potrebbero assisterli
con titolo di Segretari della Repubblica. .. gli altri uffici di toga e di spada si dividerebbero a parte. Né vieterei che,
quando un Popolare divenisse… aspirare alle massime cariche.. ... . Né vi lasciate lusingare dalla propria vanità che
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pensiate formare una Repubblica affatto Popolare e senza le preminenze di Nobili. le utilità del Regno saranno di
lunga mano maggiori di quelle che hora vediamo; .. . Che emolumento è hormai restato a voi? Che concorso a’ vostri
Porti? I mercanti, in mano ai quali cola tutto l’oro ed il prezzo delle vostre sostanze, sono Genovesi e ciò per astutia ed
interesse de’ Governanti. I commerci di Taranto, di Brindisi, di Bari, di Gallipoli sono affatto dismessi e ciò per
lasciarvi smunti ed inetti a risorgere contro gli oppressori; ma quando il traffico nelle vostre mani venisse. che ricchezze
tra voi non si numererebbe?… ergere in piedi una Repubblica per molte unite qualità superiore a quante oggi vediamo
in Europa. ..Né passerebbero i Napolitani per vili mercantuzzi, come altri di altre Republiche, né per servi legati, come i
Signori di molti Regni.[ .. ]." Lega infine questo all’organizzazione militare della Repubblica. " Nella conquista
delle Provincie osserverei questo ordine. Nelle fortezze e negli altri luoghi bisognosi di presidio vi metterei gente di
diverse Province, ma in modo che ciascuna di questa fosse custodita da gente d’altra Provincia, e questa similmente
mandasse de’ suoi a custodire una delle altre. Per esempio la gente di Puglia potrebbe mettersi nelle fortezze d’Abruzzo,
e quei d’Abruzzo nelle fortezze di Calabria, e quelli di Calabria in quelle di Puglia, e così di mano in mano; con che
s’otterrebbero diverse buone conseguenze. La prima, che ciascuna Provincia resterebbe fedelmente guardata. La
seconda, che la Repubblica [ mostrerebbe di fidarsi egualmente] di tutte. La terza che i soldati sarebbero meno insolenti
et andrebbero con più riguardo con quei dell’altre Provincie per timore che ai loro Paesani non fussero usate le
medesime insolenze ch’essi farebbero agli altri."
Si vede bene da qui come allora il decreto del governo rivoluzionario sull’organizzazione del Parlamento del Regno
non era frutto di una improvvisazione di lazzari, di tumultuanti, ma il prodotto esatto di un dibattito forte, pubblico, che
si sviluppava nella repubblica e nel corso della rivoluzione, alimentandola e trovando da questa sempre nuovi punti e
stimoli e linfa vitale. Presuppone e rimanda all’esistenza di un intellettuale collettivo che solo una classe rivoluzionaria,
giunta alla sua maturità può esprimere ed esprime. Il movimento contadino, che aveva oramai assunto il carattere di
guerra dei contadini ed il movimento popolare delle città e terre di ogni provincia del regno, sviluppatisi sull’onda del 7.
luglio. 1647 trovano in questo atto rivoluzionario nuova linfa e legittimazione.
Va qui detto che il governo instaurato il 7. luglio.1647 assolse appieno al suo ruolo di governo rivoluzionario: esso fu
un vero centro propulsore dell’iniziativa rivoluzionaria delle masse popolari delle città e delle campagne, difensore
strenuo degli interessi di questi contro tutto e tutti, contro qualsiasi mercanteggiamento e linea compromissoria. Agì
cioè da centro propulsore dell’intero movimento rivoluzionario, organizzatore instancabile che seppe utilizzare appieno
tutte le funzioni del governo e del potere in difesa della rivoluzione e per la sua costante espansione; instancabile
coordinatore delle azioni e delle iniziative rivoluzionarie delle masse; difensore instancabile della cultura e della
Libertà. Raccolse l’affetto di tutti i rivoluzionari del regno e d’Europa. Esso ha veramente conquistato sul campo di
battaglia l’appellativo di governo rivoluzionario, in quanto comitato della Rivoluzione: amico sicuro del popolo e
nemico terribile per baroni, viceré curia contro cui seppe ben far sentire la sua autorità morale, politica e militare.
§ 2. La politica delle Alleanze
Proclamata la Repubblica ed eletto Gennaro Annese capo, il governo rivoluzionario e la Repubblica cercarono ed
allacciarono rapporti di alleanze in primo luogo con la Francia.
Il 17. ottobre. 1647 il governo rivoluzionario pubblica un manifesto indirizzato a tutte le corone ed ai tutti i potentati
della Cristianità nel quale concludevano di sostenere le armi per liberarsi dalla politica spagnola. Era l’atto ufficiale di
indipendenza e l’atto ufficiale di nascita della Repubblica.
Gli spagnoli reagirono la notte stessa del 17. ottobre lanciando un disperato attacco, che si protrasse per molti altri
giorni, anche se fin dal primo momento apparve chiaro l’assoluta inutilità ed evanescenza di questo. Esso assolveva al
compito politico, di dimostrare infondata la proclamazione di indipendenza della repubblica, stando il suo continuare ad
essere sotto il fuoco spagnolo e stando gli spagnoli ancora presenti sul territorio della repubblica, da cui facevano partire
e mantenevano un attacco. In un attacco contro un casale di Nola venne ucciso il duca Ferrante Caracciolo. Questa
perdita fu grave per il nemico, giacché sbandò l’intera cavalleria e spinte l’intero nolano alla lotta, tagliando così
Aversa, in mano spagnola, da ogni collegamento. Papone con il sostegno della popolazione locale attacca Venafro,
minacciando seriamente Capua, ove il Tuttavilla aveva ricevuto l’ordine di resistere. Disperando della ritirata
abbandona Capua nella speranza di correre in aiuto di Aversa: ma le esigue forze che gli erano rimaste: non più di 400
uomini a cavallo e 300 di fanteria, di cui non più di 100 di linea, non gli consentono neppure questo ed Aversa è in
mano della repubblica. In movimento popolare e contadino divampa in tutto il meridione e le forze spagnole sono
costrette ad arretrare.
§ 2.1 La Francia. Sia per indebolire ulteriormente la Spagna, e rafforzare la testa di ponte a Piombino e
Portolongone ed sia al fine di imporle più pesanti condizioni al tavolo di trattative di Munster, la Francia offre il suo
intervento alla Repubblica Napoletana tramite il cardinale Mazzarino, cardinale di Aix. fratello di Mazzarino che
governava la Francia. Questi con una lettera inviata ai capi della repubblica, e pubblicata in bando dichiarava: Primo
che il re di Francia approverà e troverà buono lo stabilimento fatto da codesto fedelissimo Popolo di vivere in
Repubblica. Secondo che tra detta Serenissima Repubblica e S. M. sarà eterna e perpetua lega offensiva e difensiva.
Terzo lascerà e si contenterà che tutti li Officiali si diano e dichiarino dalla Serenissima Repubblica con patenti di essa.
Con bando del 29. ottobre. 1647 Gennaro Annese dava pubblica notizia delle trattative in corso con i francesi. E Luigi
XIV il 29. novembre. 1647 scriverà una lettera al popolo di Napoli: " Il Re al Popolo di Napoli": " noi vi soccorreremo
con tutta la nostra potenza e vi assisteremo con tutte le forze del nostro Regno, senza pretendere nient’altro che la
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pubblica gloria di avervi procurata la libertà e di permettervi mantenerla, stando però la dipendenza consueta al
santo Seggio Apostolico." Il riferimento qui è al legame di vassallaggio che legava il regno alla curia romana, che si
esprimeva nell’omaggio della chinea. Il altri termini. Il re di Francia riconosceva la Repubblica Napoletana ed il suo
esercito, i cui ufficiali sarebbero stati di esclusiva nomina repubblicana così come tutti gli uffici della Repubblica.
Avrebbe rispettato l’indipendenza e le decisioni prese dalle sue istituzioni autonome e sovrane.
Il punto che qui va fermato – un ragionamento a sé va fatto sulla questione delle alleanze – è il corretto rapporto
democratico: il governo rende noto al popolo la trattativa in corso, secondo il principio della delega e dell’assoluto
rispetto del principio essere il popolo l’unico e solo depositario del mandato a cui occorre fare capo e rendere conto.
Questo consente al popolo, ossia al proprietario legittimo del potere, di sapere in anticipo, farsi un’idea, valutare ed
esprimere orientamenti e giudizio ed intervenire così in tutto il corso del processo di formazione, elaborazione,
formalizzazione di una decisione, valutando ed esprimendo opinioni per il governo ed i suo rappresentanti nelle loro
azioni future in merito a quel problema. Questo consente così all’intera Nazione: Popolo ed Eletti la partecipazione
democratica alla vita civile, sociale ed istituzionale. Si ripresenta ancora una volta qui il rapporto democrazia formale e
democrazia sostanziale di cui si è detto. Ed anche qui va ben fermato che solo la rivoluzione borghese del regno di
Napoli vede raggiungere questi livelli di vita democratica, che nelle condizioni date costituiscono un determinante
contributo alla teoria Politica, alla Teoria dello Stato ed alla Teoria della Democrazia. Sposta decisamente in avanti il
concetto di " cittadino", cancellando definitivamente quello di " suddito", inquadrandolo e leggendolo quale portatore di
diritti, bypassando qui tutta la tematica del diritto naturale e diritto delle genti, facendo cioè una decisa puntata in avanti
per proiettarsi nei Principi della Rivoluzione Francese del 1793. Abbiamo avuto modo di verificarlo, anche se lì non lo
abbiamo evidenziato, allorquando veniva riconosciuto al Popolo il diritto alla sollevazione armata in caso di
inadempimento, oggi diremmo costituzionali, e di condizioni di asservimento o di ritorno dell’ancient regime. Qui
veniva non solo riconosciuta la legittimità e non perseguibilità dell’insurrezione armata, ma veniva riconosciuto un
luogo ove sarebbe stato costruito un deposito e dove sarebbero state depositate le armi, che all’occorrenza sarebbero
dovute servire al Popolo per esercitare questo diritto riconosciuto dal Capitolato e l’impedimento di costruivi alcunché,
al fine da non poter costituire artifizio per controllo o impedimento.
§ 2.2 Il Proclama del duca d’Arcos Gli spagnoli dopo la lettera del re di Francia sono veramente con
l’acqua alla gola, devono assolutamente uscire da quest’angolo che li stritola. si muovono su tre direttrici: 1. da una
parte lanciano sempre più rabbiose offensive, attacco tendente ad investire più punti dello schieramento rivoluzionario.
Anche qui la natura e la forma dell’attacco fanno ben intendere il carattere eminentemente politico che non quello
militare. 2. Il duca d’Arcos emana un bando, che si muove su due direttrici.
L’aspetto immediato è la grazia per quanti si uniranno a lui e la liberazione dal peso delle Gabelle e che " siano – dice il
bando- franchi ed esenti di qualsivoglia pesi". Ma il messaggio vero, e più profondo, è ben altro. E’ la chiamata
all’unità di tutti i baroni, paventando loro il pericolo del crollo della Spagna nel meridione d’Italia. E’ un chiamare a
serrare le fila, giacché i loro privilegi, le loro speculazioni e truffe il Re di Spagna, il re Borbone di Spagna, poteva, e si
impegnava a, garantire. Il testo infatti, dopo aver detto delle gabelle e dei pesi, prosegue con: " continuando però con
la solida fedeltà a Re Nostro Signore e nell’ubbidienza delli loro Baroni."
Ora nelle condizioni date le gabelle erano tutte state abolite, per cui non vi era guadagno alcuno, avrebbe un senso se le
forze spagnole tendevano alla vittoria, ma non nelle condizioni in cui subivano sconfitte. Ma nelle condizioni più
generali, astraendo cioè dalla situazione militare, il sottolineare " nell’ubbidienza delli loro Baroni" è politicamente
errato e quantomeno poco opportuno e questo da parte di chi ha la menzogna e l’inganno per norma assoluta di vita. Ha
senso, invece, solo se letto come chiamata a serrare le fila. Il bando nella forma così concepita è un messaggio
esplicito alle varie case regnanti in Italia che nel regno avevano pensioni, " ayudas de costa" , rendite, feudi e titoli,
giunge infatti presso queste corti nella forma di atto ufficiale del viceregno di Napoli. L’elemento più forte, che
caratterizza il bando del D’Arcos, è – ed in risposta alla ufficializzazione dei rapporti Repubblica Napoletana e Francia
– l’appello ad un fronte comune degli speculatori, avventurieri, accattoni di pensioni, di " ayudas de costa" che
insistevano sul e nel Regno di Napoli. Il fronte, il compattare le fila, ha una sua maggiore validità d’essere proprio per il
precipitare degli eventi per la Spagna, che perso il regno di Napoli non sarebbe più stata in grado di garantire pensioni, "
ayudas de costa" e feudi e rendite e speculazioni e quindi quel drenaggio di risorse che fino ad allora aveva consentito
agli estensi, ai Grimaldi, ai de’ Medici, ai Colonna, Piccolomini, Doria, Spinelli, Aldobrandini, Gonzaga, i Savoia, ecc.
di mantenersi nel lusso e far fronte alle nuove forze sociali in ascesa ed i cui possedimenti nel Regno, più che quelli di
scarsa entità che avevano nelle loro terre d’origine, consentiva loro di avere " seggia", ossia di contare sullo scenario
europeo. Persa la grande retrovia finanziaria e feudale questa nobile genia si sarebbe trovata sul lastrico. La chiamata a
serrare le fila, al fronte unico controrivoluzionario, aveva cioè una ben precisa e solida base materiale, aveva ben
precise ragioni materiali: la propria sopravvivenza come gruppo parassitario.
Le forze coinvolte avevano, e mantenevano, un loro peso politico se si vuole per quei legami dinastici, costruiti con
centellinate politiche matrimoniali, ed erano in grado di far sentire la loro voce, la voce dei loro interessi, presso le
principali corti europee, che poi sedevano a Munster e firmatarie della Pace di Westfalia. Io credo che questo elemento
sia stato poco analizzato, ma esso se non modifica la sostanza degli equilibri usciti da Westfalia, gli accattoni non hanno
mai un tale potere, pesa nel determinare alcune varianti dei capitolati, che pesarono sulle sorti della rivoluzione
borghese del Regno di Napoli. La Spagna esce dalla Guerra dei Trent’anni sostanzialmente ridimensionata. Francia ed
Inghilterra ereditano in buona sostanza l’impero spagnolo. Con la Guerra dei Trent’anni giunge così a conclusione la
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decadenza spagnola e la sua discesa a sub potenza. E’ allora dentro questo movimento complessivo che occorre
leggere l’intero andamento delle trattative di Munster. La classe aristocratico nobiliare aveva e manteneva ancora
una sua forza.
Nella stessa Inghilterra, caposaldo della rivoluzione borghese, le forze nobiliari avevano, e mantenevano, una
considerevole forza. La classe borghese aveva stretto un’alleanza con questa dopo la prima fase della rivoluzione, era
riuscita ad assorbire il movimento di Cromwell ed attuare la sua transizione nelle forze borghesi, isolando e
schiacciando il Movimento dei Livellatori. La classe nobiliare inglese era ora ancora forza di potere e di governo,
anche se in posizione subalterna a quelle borghesi. Le forze nobiliari in Olanda mantenevano ancora una loro
consistenza. In Francia era ancora tutta aperta la battaglia tra le forze borghesi e quelle aristocratico-nobiliari; tutta
aperta era ancora la battaglia per il controllo e la sottomissione dello Stato da parte della borghesia e la battaglia per
l’eliminazione di quei vincoli, legacci, prerogative feudali che agivano da impedivano al pieno sviluppo delle forze di
produzione capitalistica e la questione verrà risolta centocinquanta anni dopo nel 1789 ed attraverso la Rivoluzione
Francese. La borghesia non voleva e non poteva rompere con queste, ma a queste si appoggiava per la costruzione del
suo dominio. I successivi cento anni da Westfalia costituiranno il periodo della transizione di forze intellettuali
nobiliari al campo borghese e la costruzione della intellighenzia borghese nei vari stati nazionali, la cui linfa fu
proprio ed esattamente la transizione di forze intellettuali nobiliari che transitavano al campo borghese. Le forze
nobiliari di questi paesi: Inghilterra, Olanda, Francia in quanto tale non potevano volere un azzeramento di questa
forza in Spagna e nel resto dell’Europa, pena il loro stesso indebolimento e rapida precipitazione sotto il bastone del
comando borghese. La stessa borghesia non poteva volerlo: 1. per non rompere con le forze aristocratico-nobiliari con
cui aveva costituito ( Inghilterra ed Olanda ) il nuovo blocco dominante in funzione egemone e con cui costituiva
(Francia ) il blocco dominante in lotta per l’egemonia. Rompere avrebbe voluto significare aprire una guerra aperta
contro l’aristocrazia-nobiliare, un’aperta minaccia alla sua esistenza, con ripercussioni immediata sulla recente
stabilizzazione moderata raggiunta nei detti Paesi.
2. Le rivoluzioni in Inghilterra, Olanda e nel Regno di Napoli erano state tremendi campanelli d’allarme sulla necessità
di tenere sotto controllo non tanto la costituenda forza del proletariato, che pur aveva fatto minacciosamente sentire la
sua presenza già nei moti dei Ciompi e di Londra della fine del Trecento, quanto e di più il movimento contadino. Nel
corso della Guerra dei Contadini in Germania e dell’intero Movimento Riformatore del Cinquecento siera assisstito alla
tremenda forza distruttice che esso era in grado di mettere in campo, attraverso le diverse forme di guerra dei
contadini a cui aveva dato vita e che solo le vecchie classi potevano tenere a bada. E la borghesia stessa dipendeva
ancora in larghissima parte dalla campagna e dal profitto agrario per potersi permettere il lusso di allentare la presa
sui contadini ed allentargli il morso. E questo morso era ancora il lo sfruttamento intensivo della forza lavoro
contadina, era ancora il dominio aristocratico nobiliare sulle campagne, che non poteva ex abrupto essere soppiantato.
Il processo di separazione dell’industria dall’agricoltura era ancora agli inizi e la penetrazione capitalistica nelle
campagne ancora gli albori. Lo stesso processo produttivo capitalistico avveniva nelle campagne attraverso il lavoro a
domicilio, dove il lavorante manteneva ancora la sua fisionomia principale di contadino e solo in subordine di
lavorante. Lo stesso sviluppo capitalistico avrebbe ancora, ed abbondantemente, attinto dalle campagne: saranno le
campagne la base dell’accumulazione originaria e saranno le campagne a fornire le prime schiere di proletari.In
queste condizioni doveva essere trovata una soluzione, che non modificando l’essenza borghese della Pace di
Westfalia, consentisse alle ancora presenti forze aristocratico-nobiliari una loro esistenza.
Il mantenimento della corona di Spagna, oramai in posizione subalterna e del suo dominio nel Regno di Napoli: questa
era la via d’uscita. Se noi poniamo dentro questo quadro l’intero svolgimento dei rapporti Repubblica Napoletana Francia essi acquisiscono contorni meno sfumati e più nitidi.
La flotta francese si fa vedere nella baia di Napoli, ma non andrà oltre un sostegno di facciata, non portando a termine
alcuno degli obiettivi dichiarati: sbarcare uomini a terra, conquistare un porto.
§ 2.3 Enrico II di Lorena, duca di Guisa Le cronache ed i resoconti circa Enrico II di Lorena, duca di
Guisa, sono assai contraddittori. Giunge a Napoli e si presenta come accreditato dal re di Francia ed in quanto tale viene
accolto da una parte delle forze rivoluzionarie, altre vi si opporranno, tra le quali quelle facente capo a Gennaro Annese,
Marcantonio Brancaccio, Tenente Generale, ed altri. Unisce attorno a sé un gruppo di fedeli, per lo più ostili al governo
diretto da Annese e trova nel contempo un sostanziale ed assai poco celato sostegno da parte delle forze spagnole, che
non attuano alcun impedimento, intercettazione od altro, al suo sbarco in Napoli. Il suo tentativo di farsi riconoscere
capo del movimento falliscono miseramente, nonostante avesse intrigato molto e cercato attraverso l’assassinio di capi
popolari a lui oppositori di superare le difficoltà che incontrava nel suo progetto. I dati più immediati e che non
convincono sono: il sostegno francese alla repubblica Napoletana ed il ruolo e l’agire del Guisa, ossia di Enrico II di
Lorena, duca di Guisa. Non è pensabile che il Guisa potesse agire in Napoli come uomo della Francia senza
l’approvazione della Francai stessa. La Repubblica aveva suoi contatti con la Francia e le sarebbe stato assai facile
verificare la fondatezza delle dichiarazioni del Guisa, anche perché la Francia poi non mandò nessun al di fuori del
Guisa. Il Guisa era persona ben accetta dalla curia romana. Guisa faceva parte del più feroce estremismo cattolico,
quello delle feste, delle luminarie, dei tridui, dei " Te Deum" e degli affreschi celebrativi delle stragi di san Bartolomeo.
Ai tempi delle guerre di religione in Francia ( 1562-1598 ) i Guisa erano stati a capo della " Lega Cattolica",
predominante a Parigi e nelle province settentrionali francesi. Lega che era la quinta colonna spagnola in terra di
Francia.
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§ 2.3.1. La Francia.
E’ probabile che la Francia abbia messo in atto una tattica assai duttile: appoggiare direttamente il Movimento
rivoluzionario al fine di indebolire la Spagna al tavolo delle trattative e mettere comunque un piede avanti. Va qui
ricordato come sin dal Cinquecento agenti francesi operavano nel Regno e continuarono ad operare fino a tutto il
periodo risorgimentale, 1860-70; vanno qui ricordate le congiure e congiurette imbastite dal Mazzarino, di cui si è detto.
Il trattato di Plombiers tra Cavour e Napoleone III del 1858 dice bene, e conferma di più, l’asse strategico della politica
internazionale francese per quanto attiene il Mediterraneo, al fine di avere per sé porti e minacciare lo strapotere della
marina britannica. Il Guisa è stato mandato avanti dal Mazzarino: 1. per non irretire la curia romana. il Guisa, persona
fidata della curia, era in grado di essere garante degli interessi curiali: segnale questo francese che il suo operare non
costituiva minaccia per Roma;
2. forza comunque moderata che in estrema ratio i baroni avrebbero potuto digerire. Ed il Guisa tentò di attrarli nella
proprio sfera, ma la sua proposta venne rifiutata;
3. forza moderata in grado di contrastare l’ala rivoluzionaria che egemonizzava la rivoluzione, in grado di essere punto
di coagulo delle forze moderate borghesi e farli staccare, garante il Guisa, moderato, dei loro interessi e passaggio
credibile per un loro aggancio alle forze francese presenti nella curia romana e quindi persona credibile per una futura
mediazione con la Chiesa: i Barberini.
Si tratta di leggere qui l’unità e lotta. Da una parte la lotta che vede opposta la Spagna alla Francia, ma dall’altra
esisteva un problema più generale che era quello di ricondurre assolutamente la rivoluzione napoletana entro limiti
moderati, di porla comunque sotto un qualche controllo: era andata ben oltre ogni ragionevole limite, senza che alcuno
fosse in grado almeno di sapere, di conoscere intenti ed agire futuri ed immediati. Nel frattempo la stessa Francia aveva
visto manifestazioni popolari di donne che dicevano di voler fare come Masaniello a Napoli. Il sostegno e seguito che il
Guisa incontrò ed il suo operare, possono ben costituire l’indice di forze borghesi moderate che si spostarono sul Guisa.
Ed in verità gli atti formali della Repubblica: modi e forme dell’alleanza con la Francia costituiscono la mediazione tra
due tendenze presenti nel movimento: una indipendentista, espressa dalla forze popolari e da forze radicali della piccola
e media borghesia
l’altra, antispagnola. espressa da settori di borghesia ricca, nobili non di seggio, ecc.
§ 2. 4. Il dibattito teorico Le posizioni indipendentiste sono ben espresse in " Il Cittadino Fedele ": " .. voi
ancora potete mandare i Deputati a Monster - rappresentanti al Congresso di Munster - dove si preparava la
pace di Vestfalia, sottoscritta nel 1648 e che concludeva la Guerra dei Trent’anni - e fare istanza d’esser
compresi nella pace Universale, come han fatto gli stessi Olandesi ed i Catalani, per assicurare con la fede
di quel Congresso e dei Prencipi ( con i quali potete confederarvi ) la libertà per sempre, godendo dei
benefici della congiuntura corrente , ricordandovi che simili gravezze del 1356 e 1418 stando la Regia
Maestà in Napoli, ottenne il Popolo che governassero otto, che furono chiamati del buon governo… Et che
perciò questi presenti moti .. mentre le forze del Re di Spagna sono in tante parte divise et impegnate in
Catalogna, Fiandre, Germania, Portogallo, Stato di Milano, Sicilia ed altrove .. né può avere o sperare aiuto
dai suoi aderenti , occupati tutti nella cura e custodia dei propri domini.. ." In " Lettera scritta da un Personaggio
Napolitano agli ordini del Regno di Napoli, nel quale dà loro una breve istruttione per formare la nuova Republica
." vengono tracciate le linee di politica internazionale, che possano consentire alla Repubblica di muoversi tra le
contraddizioni esistenti in campo europeo e quindi di svolgere una sua politica sul terreno internazionale in grado di
stringere le opportune alleanze per salvaguardare così la Repubblica " Inoltre questo Inverno dovrebbe attendersi a
strette negotizationi con Potentati stranieri, massime con gli interessati nella medesima vostra causa. ..
Ambasciatori segreti a Portogallo ed impetrare da quel re la sua Armata, ogni volta che dal Brasile ritorni ed
in questo non risparmiar preghiera o danaro; .. . Né sarebbe disutile spedire un huomo di partito in Olanda, e
far a quegli Stati le dimande medesime. E quantunque quella Repubblica ( la quale avete a venerare per
Dea ), sia tornata in amicitia co’ Spagnoli, potrà nondimeno soccorrervi con il darvi a nolo i suoi vascelli con
altro pretesto; giacché la lega con la Spagna - l’accordo degli Olandesi con la Spagna – non contraddice ai
vostri disegni, ma a quei dei Francesi. In somma potreste trattare una lega in commune con tutti gli Stati
separati e smembrati dalla Corona di Spagna. Vi consiglierei ancora a passare qualche ufficio con la
Republica di Venetia, non già perché hora ve ne possiate promettere, stando ella impegnata nella guerra di
Candia, ma acciocché con le prattiche non procuri frastornare i vostri disegni. Che perciò dovreste per
tempo stringere con le amicitia, affine che ella gelosa che voi non sorgiate con pretendenze vaste, non pensi
a farvi contro per tempo e per ogni strada. Et il sollecitare e confortare unitamente all’impresa i Popoli di
Sicilia lo stimerei partito profitttevole. E’ quella gente avvezza a seguire la vostra fortuna, et hora è agitata
dalle medesime cause che voi. Potreste perciò offerire l’unione della Republica et esibire prerogative eguali
o poco inferiori o almeno la lega offensiva e difensiva a favor della libertà commune. Vi consiglierei
similmente a mandare un editto pubblico, con il quale dichiarare che non è vostra intentione ritenere l’entrate
de’Benefici a quelle persone Ecclesiastiche che di presente le godono, et universalmente vorrei che
mostrasse gran pietà ed affetione verso la Sede Apostolica, .. ciò giova assai ai vostri particolari interessi. Le
persone ecclesiastiche possono in Roma farvi gran guerra col consiglio e con l’oro se non con la forza e con
ferro. Oltre che i Pontefici haverrebero sempre buoni pretesti d’invadervi o congiungersi con i vostri nemici…
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riconosceste non solo con il tributo ma con ogni altro ossequio non pregiudiziale.". I due testi mostrano
sfumature di orientamento più generale, che fissano bene il dibattito e gli orientamenti prevalenti all’interno delle forze
rivoluzionarie. Il punto di entrambi i lavori è l’autonomia della Repubblica, il suo dover agire per sé e da sé senza
affidarsi a questo o a quello.
§ 3. L’isolamento della Repubblica da parte delle forze borghesi europee. La posizione
del governo mentre da una parte si affida alla Francia, anche perché l’unica che si era fatta avanti, ma non provvede a
quanto " Il Cittadino Fedele " indicava, dall’altra non si piega al Guisa e sa bene condurre la battaglia per la sua
autonomia ed indipendenza ed anche i capitolati d’accordo sono tutti all’interno della salvaguardia dell’indipendenza e
dell’autonomia e della dignità nazionali, ben altra cosa dall’accattonaggio della borghesia compradora regnicola e
italica.
La posizione di stabilizzazione moderata guisiana non trova gli oggettivi spazi di manovra e viene rapidamente bruciata.
Lo sviluppo alto della rivoluzione aveva ben mostrato le difficoltà insormontabili di porre sotto controllo quella
rivoluzione. Era andata ben oltre i Livellatori inglesi, aveva prodotto un ben saldo, vasto ed intercambiabile gruppo
dirigente, un eccellente intellettuale collettivo, Gramsci lo chiamerebbe senz’altro " un moderno Principe" in grado di
sostituire ed integrare i capi che cadevano sotto il fuoco nemico. La rivoluzione aveva portato ad un livello inesplorato
la Teoria politica: del cittadino portatore di diritti ed il popolo unico depositario del potere, della distinzione dei poteri:
legislativo, esecutivo e giudiziario prevedendo le opportune forme di bilanciamento in grado di impedire che uno di
questi sopravanzi l’altro: che è poi un livello teorico giureconsulto che si svilupperà in modo approfondito solo agli
inizi degli anni Quaranta del XX secolo; dello Stato; della Democrazia: democrazia formale, democrazia sostanziale e
mandato, e dei suoi livelli istituzionali, amministrativi, militari e giurisdizionali; della Scienza Militare e
dell’organizzazione militare in tempo di pace e di guerra e questi strumenti ed in funzione delle garanzie democratiche e
della Libertà. Gli stessi borghesi inglesi, francesi, olandesi, inoltre, non potevano volere una Repubblica forte e florida –
si ricordi qui quanto l’anonimo Personaggio napolitano scrive a riguardo – ben piantata nel cuore del Mediterraneo in
grado di tenere testa e sviluppare una sua posizione nel militare e commerciale nel cuore del Mediterraneo; una
Repubblica forte, florida ed indipendente ed in grado di difendere la sua indipendenza da condizionamenti ed investiture
straniere; ed essere così in grado di contrastare piani ed egemonie francesi ed inglesi. Questi dall’abbattimento di una tal
Repubblica – si ricordi che la congiuretta con il principe di Savoia prevedeva porti francesi sul Tirreno e sull’Adriatico,
qui invece la Francia si deve accontentare della " gloria" – ne traevano l’indubbio vantaggio di rimanere padroni del
Mediterraneo e tenere l’Italia soggetta e quindi in grado di stabilire rapporti di aiuto ed alleanza ottenendone in cambio
posizioni e sbocchi nel Mediterraneo. Abbandonarono così la Repubblica Napoletana e con essa la borghesia
meridionale, ai cani da guardia spagnoli e vaticani il compito del massacro, di " estinguere nel sangue" la Rivoluzione.
Essi se ne tennero ben in disparte, ma furono esse che ne trarranno vantaggi e profitti e questo sta ben ad indicare le
modifiche intervenute nel giro di un secolo, dalla pace di Chateux Cambrais, 1559: la Spagna ridotta a cane da guardia
per conto di altri, ossia la Spagna ridotta a ruolo subalterno alle nascenti potenze nazionali borghesi: Francia ed
Inghilterra. La Spagna e le forze aristocratiche nobiliari non potevano permettersi il lusso di perdere questa riserva
finanziaria e feudale, base dei loro arricchimenti ed esigeva la testa della Rivoluzione, "l’estinzione in via di sangue" di
machiavelliana memoria della Rivoluzione, condizione unica per il ripristino del vecchio ordine " delli Baroni", come
diceva l’Appello del D’Arcos.
La Rivoluzione venne così consegnata nelle mani dei suoi carnefici.
La Spagna e la Curia Romana furono in grado di concentrare truppe e mezzi, ed avute le mani libere e le assicurazioni
di alcun intervento a nessun titolo e livello poterono scatenare il massacro. E quell’accordo di tacito assenso e di
garanzia dell’impunità resta ancora a tutt’oggi ben saldo e nessuna forza osa rompere quel patto di sangue di silenzio. Il
silenzio sulla rivoluzione del 1647-48, la produzione teorica tendente a nascondere, celare, mistificare oggi a 350 anni
di distanza, è il mantenimento ancora di quel patto scellerato di sangue che le potenze borghesi strinsero. Ed il fatto che
la borghesia italiana fa ben lega con queste sta ben a dire che è essa stessa dentro quel patto di sangue sottoscritto
all’epoca, essendo essa la figlia diretta di quella borghesia compradora, di quella nobiltà mentecatta alla tavola del re di
Spagna, il cui motto assoluto era ben scritto su tutti gli stemmi: "Franza, Spagna o Alemanna basta che se magna" e
quindi, per il suo, mandataria anch’essa di quel massacro, a cui in verità vi concorse con mezzi finanziari ed uomini. Ed
in verità quel motto è la borghesia italiana di ieri e di oggi: quel motto è la borghesia italiana mentecatta ed accattona
pronta a darsi a chi le lancia una elemosina di più; sempre avida ai banchetti altrui, da cui cerca di arraffare briciole e
qualche pacca sulla spalla: ieri come oggi pronta a fare del territorio nazionale luogo e mercato di scambio in cambio di
qualche rendita, pensione o " ayudas de costa"
Capitolo Sesto
La fine della Repubblica
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§ 1. La vile mattanza.
Le condizioni in cui matura l’assalto alla Repubblica sono di un’atrocità unica, che vedono coinvolte in prima e
personale persona il papa Innocenzo X e Filomarino.
I fatti si commentano da soli. Ci limitiamo pertanto ad una esatta cronologia ed all’indicazione delle fonti d’archivio. Il
conte d’Ognate, chiamato dal 1. marzo. 1648 alla carica di viceré, fa richiesta formale al Papa di promulgare un
Giubileo Speciale. Nel ricevere il Nunzio Apostolico il 12. marzo dichiara: " di rassegnare la sua unica speranza nelle
preghiere del Papa e nel Prossimo Giubileo" Il cardinale Filomarino si mobilità e mobilita tutti i preti, e monaci, e
frati e suore di Napoli per il Giubileo del 1648 Il clero comincia a disporre gli animi alla pace, profittando della
prossima Pasqua del 6. aprile. 1648. Il Papa, Innocenzo X, pubblica il giubileo " per eccitare con l’esempio la pietà
altrui, in modo da rendere più efficaci le preghiere tanto necessarie per la presente condizione di cose." ( marzo 1648 ).
Innocenzo X invia direttive al Nunzio di Napoli ed al Filomarino affinché dispongano per la prima processione il giorno
dell’Annunziata e la seconda per il 27 marzo, nei quartieri tenuti dagli spagnoli. La forma, in deciso contrasto con il
giubileo in sé, è una forma dimessa, senza pompa alcuna; vesti liturgiche, statue, altari, emblemi, architetture delle
chiese tutto è in forma dimessa, a lutto, senza paramenti sgargianti e faraonici. Il segnale è chiaro: aperto dissenso della
Chiesa nei confronti della guerra che vedeva opposti i popolani agli Spagnoli.
Nel clima giubilare le truppe spagnole fatte affluire in abbondanza preparano l’attacco alla città e si preparano al
massacro.
Domenica 6. aprile. 1648, Pasqua dell’anno santo il Cardinale Filomarino " a capo delle truppe vicereali nella
Pasqua del 1648 sprona i soldati all’assalto dei quartieri popolari." " Il
Cardinale vestito questa volta
pontificamente, montò sulla chinea – cavallo bianco che viene donato in segno di
vassallaggio dal regno di Napoli al papa – fra una moltitudine di armati. Erano 3000
ma tutti irresoluti, pensierosi e titubanti: la fiera voce del Cardinale vinse la loro
pusallinimità e li spronò alla vittoria. Nella cavalcata che potè ben dirsi trionfale
perché non vi fu traccia di lotta, il cardinale pretese il posto d’onore tra il Viceré ed il
principe don Giovanni d’Austria.".
Il popolo di Napoli venne colto alla sorpresa da un attacco fulmineo e su più direttrici, intento come era in quella
giornata della santa Pasqua dell’anno giubilare in Chiesa e nelle famiglie. L’assalto guidato dal Cardinale con alla
testa la Croce non fu inteso dal popolo in armi quali un assalto, troppo tardi comprese l’inganno, ma era veramente
tardi: il massacro, il macello, lo scannatoio era ormai in buono stato di avanzamento. L’intero apparato militare, non
aspettandosi affatto alcun attacco ed in quella forma: il Cardinale che guida l’assalto e la Croce e nel giorno di
Domenica della santa Pasqua dell’anno giubilare.
Ciascuno dal suo posto si difese, difese l’onore della Rivoluzione, A miglia caddero sotto il ferro del Cardinale. In
migliaia rifiutando di gridare viva il re: Matteo dell’Amore, Lorenzo di Lando che rispondevano con " Viva il
Popolo"
Le cronache riportano: " ‘Al viva chi’ i popolani rispondevano " Viva il Popolo" e venivano uccisi. Il 17. maggio. 1648
venne stipulata la pace di Munster tra il re e gli Stati dei Paesi Bassi. Feroce fu la repressione che si protrasse per mesi:
centinaia di migliaia di uomini e donne passati massacrati. Nel solo primo giorno: Domenica 6. aprile. 1648 della
santa Pasqua dell’Anno santo migliaia gli assassinati, donne violentate, bambini massacrati. Ritornò l’ordine " delli
Baroni" ma il popolo meridionale era stato sconfitto non battuto e riprese la via della lotta: giovedì 19. novembre. 1648
alcuni quartieri ripresero la via della lotta.
Il movimento di lotta si protrasse con sollevazioni e forme armate fino al 3. giugno. 1655, ossia ancora per otto
anni.
Genia maledetta questa meridionale, bisognava estirparne il seme. Bisognava veramente estinguerla tutta questa genia
ribelle, che non si piegava, che nulla la intimidiva e pronta sempre alla lotta; e si che se ne erano massacrati,
violentati, bruciati vivi: niente si era sempre punto e daccapo
Il problema di porre fine a tutto questo, di mettere veramente fine a questa storia era un problema vero, serio. Bisognava
pur dare garanzie di rendita e di stabilità, bisognava pur consentire ai possessori di rendite di godersele le loro rendite,
costretti invece a fuggire, a vivere nel terrore di sommosse popolari e guerre per bande di contadini. Il regno non
trovava pace e tutti gli accordi non valevano niente. La Spagna non riusciva ad entrare in possesso reale del suo
dominio e la canea dei nobili regnicoli e di italica stirpe non erano in grado di essere liberi e sicuri delle loro proprietà.
Si era fatto trenta si doveva fare trentuno: la Peste!
§ 2. La peste a Napoli, 1656
Ghirelli così ne scrive:
Gravi inefficiente ed ancora peggiori insabbiamenti di casi eclatanti del morbo e incarcerazione del medico
napoletano: Giuseppe Bozzuto, che curava gli infermieri e informava il viceré del morbo che dilagava. Le
autorità sanitarie ufficiali non solo negavano, ma davano spiegazioni svianti sui sintomi delle morti per il
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peste. Anche quando alla fine furono costretti: autorità sanitarie e viceré, a riconoscerne l’esistenza
continuarono le inadempienze e gravi sottovalutazioni.
" Mentre pullulano i miracolosi rimedi dei ciarlatani, il clero alimenta con zelo alluvionale le pratiche religiose,
alternando le confessioni al viatico, le penitenze ai digiuni, le processioni ai giubilei e moltiplicando così
incoscientemente le occasioni del contagio.
" … la furia del morbo ha finito per concentrare la collera popolare proprio contro il governo spagnolo, che i vecchi
ribelli cominciano ad accusare più o meno velatamente di aver trascurato tutti i rimedi validi nella speranza di
sterminare la povera gente, .. ."
" Il morbo dilaga ben presto a Roma, negli Abruzzi, in Umbria, salvando il litorale toscano, ma senza risparmiare quello
ligure fino a Genova."
" Napoli ha perduto scienziati, medici, artisti, curiali, magistrati, cioè una parte sostanziale dei suoi quadri dirigenti,
oltre ad enormi masse del popolo grasso e minuto. Infine ricchezze risultano irreparabilmente distrutte o passate di
mano attraverso furti, truffe, intrighi, falsificazioni di ogni genere. Le dispute ereditarie moltiplicandosi in un groviglio
di cavilli e di imbrogli, accrescono l’influenza dei paglietta. L’arricchimento improvviso, la concentrazione di molti
beni nelle mani di pochi.. ."
" … abati che gettano la sottana alle ortiche per sposare una donna galante, e vedove della buona borghesia che
accettano come amante l’ex cameriere, tra analfabeti che si improvvisano avvocati e vecchie comari che si caricano di
ornamenti e monili d’oro, come madonne sull’altare."
Il re Borbone di Spagna, la curia romana – e per essi il viceré ed il cardinale Filomarino, l’aristocrazia nobiliare
regnicola e di italica stirpe, la borghesia compradora diffusero scientemente il morbo della peste. Un’ammissione
indiretta vi è già in Ghirelli quando dice del medico imprigionato, ma non dice tutto.
Fu lasciato, semplicemente, che proveniente dalla Sardegna appestata, alcune navi alle quali erano stati chiusi tutti gli
altri porti della penisola, potessero non solo entrare nel porto di Napoli, ma fu consentito ai marinai di sbarcare.
Salvatore di Giacomo così ne scrive: " La peste continuò l’opera distruttiva. Corse voce che gli spagnoli l’avessero con
meditato disegno di vendetta, fatta allignare in Napoli dalla Sardegna; ma se non fu disegno di oppressori la causa di
tanto male fu certamente una interessata lor imprudenza."
Scoppiata la peste, i preti ne approfittarono per dire che era castigo di Dio. Sostenevano che il morbo si era diffuso
esalando mefiticamente proprio dal vicolo in cui Masaniello era nato.
Per la Chiesa fu un’autentica manna dal cielo, giacché in quel periodo centinaia furono le donazioni ed altre centinaia i
patrimoni caduti in suo possesso, secondo le vigenti leggi di allora, per quelli che morivano senza testamento o senza
eredi.
Per quanto riguarda la peste si è voluta accettare la tesi della fatalità e nella migliore delle ipotesi, della " interessata
imprudenza"; e respinta la tesi della artata, cosciente, diffusione della peste al fine dell' " estinzione per via di sangue".
La peste venne invece fatta diffondere in maniera cosciente e razionale al fine di annientare un popoli. Su questo punto
occorre la massima chiarezza.
Una fonte per certi aspetti indiretta è: Di Giacomo Salvatore, La prostituzione a Napoli, Edizioni del Delfino, Napoli
Pubbligraf, 1968. Salvatore Di Giacomo scrive:" La peste continuò l’opera distruttiva. Corse voce che gli spagnuoli
l’avessero con meditato disegno di vendetta, fatta allignare in Napoli dalla Sardegna: ma se non fu disegno di oppressori
la causa di tanto male fu certamente una interessata lor imprudenza" ( pag, 135). Un’altra fonte è A. Ghirelli, Storia di
Napoli, pag. 66-67.. [ Einaudi, 1973, III ed.].
In linea generale, e ferma, Ghirelli smentisce qualsiasi volontarietà dell’atto, ma le informazioni che fornisce poi
consentono una riflessione diversa. Scrive: " Una delle tante navi in rotta dalla Sardegna tocca il porto di Napoli:
secondo certe fonti, è un trasporto militare che sbarca un gruppo di soldati spagnoli ammalati di lue; secondo certe altre,
è un triremi mercantile che manda a terra la ciurma. Qualcuno di questi marinai o di quei soldati porta con sé monili e
indumenti di pregio che naturalmente occulta alla dogana per farne omaggio ad una donna o rivenderli di contrabbando:
saranno proprio questi oggetti, contaminati dalla peste di Sardegna, a spargerla dapprima nel Lavinaio, poi in tutta
Napoli." Ancora. Pag. 67:" a contrastarla [ la peste ] .. il dott. Giuseppe Bozzuto pag. 68: " Quando gli arrivano
all’orecchio le prime voci su queste morti improvvise, .., le collega all’arrivo delle navi dalla Sardegna ed alla
registrazione di un misterioso decesso all’ospedale dell’Annunziata. I sintomi del male lo fanno rabbrividire: sono
petecchie e bubboni, che si rivelano su altri ammalati dello stesso ospedale o sui loro congiunti. Anche l’identità delle
prime vittime gli sembra sintomatica, perché dopo un tal Masone, appena tornato dall’isola, muore nel giro di
ventiquattr’ore un infermiere, Carlo de Fazio, che lo ha assistito e, dopo di lui, sua madre. Il quarto defunto è un
usuraio, un negoziante di castagne e noci, padrone del De Fazio, che per ripagarsi della pigione si è preso due materassi
e ci ha rimesso la pelle, contagiando per giunta tutta la famiglia. .. segno secondo il medico, che si tratti di una
spaventosa malattia infettiva e che questa malattia è la peste."
Gli argomenti del dottor Bozzuto sono fin troppo persuasivi e Don Grimaldi, eletto della Città, si fa premura di correre
a riferirli al viceré. Il primo provvedimento che prende don Garcia – il viceré – è quello di far relegare l’impudente
medico in " oscure prigioni" dalle quali uscirà soltanto per andare a morire di peste a casa propria; il secondo è quello di
consultare i grandi medici, protomedici e baroni dello Studio Universitario, per farsi illuminare dalla loro veneranda
scienza. L’oracolo è che non si tratta affatto di peste né di altra epidemia, ma che ad ogni buon fine sarà meglio
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realizzare due arditi espediente sanitari: " il bando di una quantità di animali immondi alle selve e la mondezza agli
angoli delle strade".
Qui occorre fermare: 1. la nave proveniva da una accertata zona infestata dalla peste;
2. storie a parte e facezie circa monili e donne e contrabbando si fa attraccare la nave e si fanno sbarcare gli uomini;
3. la peste se alligna negli abiti e nei monili, per conquistar belle donne – ma si può trattare la storia e cose così gravi
con tali facezie? – si è già diffusa sulla nave e tra gli uomini della nave!!
4. La nave proviene dalla Sardegna, accertata infetta da peste. Ghirelli parla di nave a pag. 67, ma poi parlando del
Bozzuto parla di " arrivo delle navi provenienti dalla Sardegna".
Ora il fatto stesso che proveniva dalla Sardegna già allora era in uso il divieto di attracco ed il rifornimento via mare e
quindi le più elementari norme di " cordone sanitario": gravissimo è l’autorizzazione allo sbarco e la circolazione di
merci, cose ed uomini.
Vogliamo dire con Di Giacomo: " interessata lor imprudenza"? E’ quanto meno riduttivo. Ci convince la tesi della
volontà soggettiva, del criminale piano della diffusione al fine dell’annientamento per vari motivi.
Innanzitutto quando vi fu l’attentato a Masaniello il Mercoledì 10. luglio, banditi catturati, rivelarono che la Chiesa ed il
convento del Carmine, dove era stata convocata l’assemblea e tutto il popolo per la lettura dei Capitolati, sottoscritti la
sera precedente, e quindi prevedibilmente stracolma di folla, come poi avvenne, erano stati minati allo scopo di una
strage; risultò poi che l’intero quartiere Mercato era stato minato; risultò – sono queste testimonianze del Giraffi, - A.
Giraffi, Ragguagli del tumulto di Napoli, Società Tipografica Bruxelles, 1844 – infine che le acque erano state
avvelenate al fine della strage. Vi è già qui l’idea dell’annientamento ‘ batteriologico’.
Se noi prestiamo attenzione agli usi ed ai metodi di lotta in uso in quell’epoca, se noi cioè fermiamo la nostra attenzione
sui metodi di massacro che Spagna e chiesa romana adottarono ampiamente nella lotta contro ugonotti, valdesi ed in
modo particolare contro le popolazioni latino-americane: indios, ecc. abbiamo la conferma dei metodi spietati che
furono adottati, aventi per fine l’annientamento totale del nemico ed il ricorso a qualsiasi forma. Storicamente cioè era
praticata la teoria dell’annientamento totale e quindi l’utilizzo di qualsiasi arma e forma. Se noi fermiamo la nostra
attenzione sugli scritti di Ignazio di Loyola e la Compagnia di Gesù ci rendiamo ben conto di quale fosse la mentalità,
l’approccio nella lotta contro il nemico. Tutto questo ci autorizza, sul piano della critica storica e della disamina critica
delle fonti, ad affermare la volontà soggettiva della " guerra batteriologica" . Non vi sono possibilità di interpretazione
diversa sulla base delle fonti non sospette, ossia non di parte quali il Ghirelli ed il Di Giacomo, circa la diffusione della
peste a Napoli. L’autorizzazione all’attracco e lo sbarco di merci ed uomini di una nave, proveniente da una zona
colpita da peste, avendone piena notizia della provenienza della nave e della peste infuriante nella zona di provenienza
della nave, la Sardegna, costituiscono fatti inappellabili sulla deliberata volontà della diffusione. Diversamente è solo
operazione ideologica.
§ 3. Intellettuali e Popolo.
Non si insisterà mai abbastanza sulla eccezionalità della rivoluzione borghese nel Regno di Napoli e l’altezza politica,
teorica e culturale che essa raggiunse.
Può servire considerare l’eccezionale clima culturale che venne ad aversi nel corso della rivoluzione borghese, che
raggiungerà vette inedite e mai più superate dall’intero processo rivoluzionario borghese e che trova forti e decisivi
momenti di continuità solo con la Rivoluzione d’Ottobre e con la Rivoluzione Cinese.
Un altro aspetto interessante della direzione politica del movimento fu l’impegno di collegarsi alle tradizioni culturali e
di mobilitare intellettuali, scienziati, artisti per legittimare e diffondere i contenuti ideali e gli indirizzi politici della
rivolta. La Partenope Liberata di Giuseppe Donzelli, infatti, fu scritta e pubblicata per diretta sollecitazione dei capi
popolari:
" Per ubbidir poi a havea l’autorità espressamente comandarlo, ho posto insieme questo volume …. essendomi
convenuto di star sempre con l’armi nelle mani, non mi rimaneva altro tempo,per dettar l’opera, che quel solo che
io toglieva alle brevi hore che assegnatamente mi si concedevano per risotrare co’l vitto e co’l sonno li continuati
patimenti dell’Individuo."[ Donzelli, Partenope Liberata ]
Vi fu un raccordo diretto tra intellettuali e capi rivoluzionari. I quadri di Micco Spadaro sulla rivoluzione sono stati
commissionati o comunque ispirati dai dirigenti politici della rivolta. L’idea di fare di un avvenimento del genere il
soggetto di una serie di dipinti è un fatto nuovo nella storia della pittura italiana. Francis Haskell ha segnalato la novità
a proposito dell’opera di Michelangelo Cerquozzi: un fatto " avvolto nel mistero (..) dato che simili rappresentazioni di
avvenimenti contemporanei erano pressoché sconosciute nell’arte italiana del Seicento." La descrizione di insieme di
Micco Spadaro si riferisce alla prima fase della rivoluzione; ad essa si devono aggiungere, per avere una visione
completa del suo contributo, anche i dipinti minori su episodi particolari, e soprattutto quello sull’uccisione di Giuseppe
Carafa. I quadri dello Spadaro corrispondono ai contenuti, ai gesti, ai simboli della rivoluzione, contribuiscono a
fissarne gli orientamenti ideali e politici, dimostrano una notevole consapevolezza dei problemi che erano sul tappeto: le
loro indicazioni scaturiscono dall’interno dell’avvenimento, corrispondono all’immagine che gli stessi capi
rivoluzionari volevano dare, specialmente per quel che riguarda il drastico risanamento della piaga del banditismo e
l’eliminazione delle pericolose infiltrazioni di banditi nella capitale, la punizione degli speculatori e degli elementi più
faziosi e violenti della nobiltà, la glorificazione di Masaniello. Il pittore dunque attinse al comune patrimonio di idee
politiche popolari che si formò e si diffuse in quel periodo; ma non improbabile che siano stati gli stessi capi popolari ad
ispirarlo e dirigerlo, secondo un disegno di informazione e diffusione delle idee che, come si è già visto per Donzelli, si
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servì di rappresentanti della cultura. Salvator Rosa, poeta notevole oltre che pittore di fama, nella composizione
poetica del 1647: " La guerra" Masaniello viene ricordato con versi pieni di forza e di sentita partecipazione. La cultura
napoletana della prima metà del Seicento era in qualche modo preparata nel suo insieme, già prima del 1647, ad una
esperienza particolarmente intensa di impegno civile e di tensione ideale. Si salda indissolubilmente con quella
tradizione culturale e civile che aveva caratterizzato la battaglia in difesa della tolleranza contro l’ordine imperiale di
sottomettere gli importanti centri di san Domenico Maggiore ed altri alla piattezza dogmatica ed all’insipienza
tridentina. Il confronto tra Spadaro e Cerquozzi mette ulteriormente in risalto il diverso grado di partecipazione dei due
artisti e di interesse documentario delle loro opere.
Fu talmente profonda la rivoluzione borghese nel regno di Napoli che sconvolse tutta la precedente concezione della
politica, imponendo modifiche nello stesso apparato definitorio della Scienza della Politica. E’ proprio a questa
esperienza storica che si può far risalire l’uso da parte di storici del concetto di rivoluzione per indicare un fenomeno di
trasformazione sociale e politica, che coinvolge masse consistenti di popolazione. Precedentemente il termine
rivoluzione stava ad indicare soltanto la descrizione di un moto degli astri. Per i fenomeni di disordini sul terreno
sociale, che nella " crisi in Europa" del Seicento, è il vero e grande e problema della riflessione politica, si adoperavano
una quantità di termini notevole. Benzoni in " Gli affanni della cultura", Feltrinelli, a pagina 129 impiega una fitta
mezza pagina per enumerarne ed elencarne gran parte.
§ 4. Echi ed influenza in Europa
Ma la rivoluzione borghese nel Regno di Napoli seppe essere un contributo teorico, politico, civile, e militare di
eccezionale importanza.
Spinoza e Cromwell sono tra i primi grandi personaggi a testimoniare non solo la conoscenza, ma ammirazione
profonda per Masaniello. Colereus, biografo ufficiale di Spinoza, annota di aver ritrovato tra le carte del filosofo
olandese " Un intero libretto di ritratti ad inchiostro o carboncino di illustri personaggi che lo conoscevano e che
occasionalmente gli rendevano visita. Tra gli altri trovai al quarto foglio un pescatore ritratto in camicia con una rete
sulla spalla destra: proprio come appare nell’iconografia il famigerato capo degli insorti napoletani Masaniello. .. era
somigliante come una goccia d’acqua, attesta il signor Hendrik van der Spyk, suo ultimo proprietario di casa, a Spinoza,
il quale l’aveva senza dubbio disegnato prendendo se stesso a modello."
Singolare è la presenza di una raffigurazione pressoché uguale in una stampa tedesca.
A sua volta Cromwell compare in una medaglia che ha dall’altro lato l’effigie di Masaniello. Gregorio Leti sostiene nel
1666 che Masaniello e Cromwell sono esempi di rivoluzione per l’Europa. Intorno a quegli anni, 1650-52, in Inghilterra
un segno di attenzione parallela alla rivoluzione inglese ed a quella napoletana fu la diffusione di medaglie che
portavano per un verso l’immagine di Cromwell e nell’altro quella di Masaniello. Più esplicita ed interessante è un’altra
medaglia non registrata nei cataloghi pubblicati ma conservata nel Department of medals and coins del British Museum,
attribuita a Pietro Aquila e datata 1658. Attorno alla figura di Masaniello sono rappresentati, infatti, alcuni elementi
essenziali dei primi giorni della rivolta: una casa in fiamme, che rappresenta un episodio centrale e particolarmente
significativo della prima fase rivoluzionaria; una scena di violenza popolare che probabilmente si riferisce anch’essa
agli incedi delle case dei nobili e speculatori, ed un’ordinata schiera di soldati spagnoli
Si è visto già come la figura di Masaniello viene immediatamente identificata con la figura dell’Eroe borghese per
eccellenza, del simbolo della Libertà; sinonimo di Libertà. E’ questo poi il senso profondo di quel disegno di Spinoza
che ritrae Masaniello dandogli le sembianze di Spinoza stesso, come a significare essere lui stesso Masaniello ed è nota
la figura di Spinoza come grande campione della Libertà.
Ma questo non è ancora tutto. E se la distruzione del materiale rivoluzionario fatto con accanimento dopo la fine della
ribellione e rivolta in maniera particolare agli scritti che documentano la capacità di dare contenuti politici e culturali al
movimento indipendentistico antispagnolo è prova documentaria inappellabile della potenza di quell’esperiena: a
dichiarazion di parte, inutilità di prove, ancora di più è la documentazione circa la produzione degli elaborati del
periodo rivoluzionario in tutta Europa e dell’attenzione forte se Parlamento inglese, olandese, francese e quella di
Venezia chiedono ai loro ambasciatori ed inviati resoconti attenti e puntuali e se i giornali dell’epoca riportano con
dovizia di particolare gli sviluppi della rivoluzione e se documenti, libri vengono pubblicati in più edizioni e se molte
saranno le produzioni letterarie: racconti, rappresentazioni teatrali, poesie, saggi storici di evocazione di quella
rivoluzione in Inghilterra come in Francia come in Olanda.
Enorme fu, cioè, l’influenza e la conoscenza dei contemporanei europei degli sviluppi della rivoluzione del 1647-48.
In realtà quella rivoluzione ebbe in Europa una risonanza immensa: fatto che di per sé costituisce un
problema storico, che non può essere sbrigativamente attribuito ad ingenuità ed a gusto del folclore. Il
Parlamento inglese fu informato tempestivamente degli avvenimenti napoletani. … il presidente del
Parlamento in Parigi, René Augier, inviò dettagliati resoconti al presidente della commissione per gli Affari
Esteri: " lettera del 10 novembre 1647.. Non voglio far partire questo corriere senza informarvi della
continuazione dei grandi avvenimenti in Napoli,dove il popolo ha costituito la repubblica, fatto a pezzi i ritratti
e le insegne del re di Spagna, chiamato il duca di Guisa alla carica di Generalissimo… dichiarato suo
protettore il Cardinale di Aix ( fratello di Mazzarino), impiccato Toraldo, caduto in sospetto nonostante i suoi
impegni…. . Il cardinale Mazzarino mostra di non essere di non essere soddisfatto della scelta di suo fratello
per protettore con la clausola " durante la guerra", pensando che quando la guerra sarà finita i Napoletani
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sceglieranno come protettore il cardinale Filomarino o qualcuno della loro stessa nazione, e d’altra parte,
e d’altra parte se questa clausola non fosse inserita il papa diventerebbe troppo geloso:.."
Una lettera successiva del 5 febbraio 1648, informa il presidente della commissione della fuga da Napoli dei
più grandi signori del Regno e della ribellione delle provincie che fino ad allora erano rimaste fedeli. " […].
Gli Spagnoli perdono, con le ultime rivolte, tutte le forze che erano rimaste e così non sono più capaci di
tenere tanti bei paesi nonostante i loro sforzi. Nulla se non la pace li può salvare dalla rovina. I ministri
spagnoli vendono ai Genovesi la città di Finale per 600.mila corone e cercano un mercante che voglia
comprare il regno di Sardegna. Lettere del 28 gennaio [ 1648] informano che Capua è stata è stata presa e
che il Conte Onate, ambasciatore spagnolo a Roma, ha ordine del re di andare a Napoli ad offrire ai
Napoletani il perdono per quello che hanno fatto, l’abolizione di tutti i sussidi e gabelle e la conferma dei loro
privilegi."
La più importante opera inglese resta quella che James Howell dedicò all’episodio. Due anni dopo, 1652, Howell
scrisse una continuazione del racconto sulla base dei resoconti che gli furono inviati da corrispondenti inglesi residenti
in Italia ed ancora nel 1654 tornò sullo stesso argomento pubblicando un quadro complessivo della storia recente del
Regno di Napoli, insieme alla traduzione di un’opera di Scipione Mazzella. Con " La ribellione napoletana o la tragedia
di Masaniello", scritta da un testimone dei fatti, inizia a Londra la lunga serie di opere letterarie pubblicate in varie vari
paesi europei sulle imprese della giovane ribelle napoletano. Vi saranno anche importanti opere teatrali ed il lavoro di
Giraffi.
L’interesse per la rivoluzione napoletana fu più intenso nelle Provincie Unite, che avevano in comune con Napoli la
tradizione di appartenenza alla monarchia spagnola. Ma la questione della loro indipendenza era ormai praticamente
risolta e l’ulteriore indebolimento della monarchia, provocato dalla crisi napoletana, giunge troppo tardi per avere
un’influenza di rilievo. Gli Stati generale ricevettero dettagliati e tempestivi resoconti sia dal console a Venezia e sia da
informatori che risiedevano a Napoli. Le prime notizie furono inviate il 26 luglio a cui seguì un’ampia relazione del 2
agosto e regolari informazioni nei mesi successivi. La relazione napoletana si sofferma in particolare sul rapporto tra i
ribelli e le istituzioni religiose e sulla seconda rivoluzione del 21 agosto. 1647, mettendo bene in luce l’importante
indicazione che il contrasto con i gesuiti ebbe luogo fin dalle prime fasi della ribellione: " li padri Gesuiti facevano
pratiche con la nobiltà, li cittadini et mercanti, ad effetto di opprimere li populari, il Popolo era andata dal cardinale
Filomarino con protestargli che se non rimediava a questo negozio, esso popolo haveria fatto uscire fuori del regno tutti
li padri Gesuiti con la sola camisa e sotto calzoni."
Documenti e relazioni tradotti in olandese furono diffusi in opuscoli e fogli volanti a poche settimane dagli avvenimenti
, contribuendo ad incrementare i ‘ pamphlet di guerra’. Seguì una relazione inviata da Aversa l’8 ottobre 1647 sulla
venuta di Don Giovanni d’Austria. Apparvero diverse edizioni del manifesto che proclamava il distacco del regno dalla
Spagna. Ad Amsterdam fu stampato nel 1647, in forma di manifesto, il testo dell’accordo tra il popolo napoletano ed il
duca di Guisa nel momento in cui assunse il comando delle milizie popolari.. . Il documento esprime infatti sia la
volontà di limitare i potere e le funzioni del duca e di regolare i suoi rapporti con i capi politici del movimento.
popolare.
Con tempestività l’opinione pubblica olandese seguì le vicende napoletane e precisione con cui sono documentati i
momenti essenziali di svolta: una conoscenza diretta e diffusa, dato il carattere popolare delle stampe, della rivoluzione
di Napoli che non può non avere avuto qualche influenza sui fermenti popolari nelle Province Unite, se è vero che " già
nel 1651 Masaniello ispirò una rivolta a Dordrecht"
Le Provincie Unite videro anche in seguito studi e pubblicazioni sulla rivoluzione napoletana e la
pubblicazione di scritti italiani sull’argomento come Traiano Boccalini Ragguagli della Pietra del paragone
politico; Donzelli Partenope Liberata, ecc.
In Francia
Il capitolo più rilevante, a proposito delle ripercussione della rivoluzione napoletana in Europa riguarda la Francia.
L’impatto fu forte a tutti i livelli e su diverse correnti di idee e tendenze politiche; le spinte espansionistiche, la protesta
sociale, il dibattito sull’ordinamento istituzionale, le polemiche antimazzariniane ricevettero dagli avvenimenti
napoletani impulso più che dagli altri episodi contemporanei.
In seguito all’aggravarsi del clima di tensione nella capitale ed in particolare dopo una manifestazione di una folla di
donne parigine invocanti l’esempio di Napoli, Mazzarino cercò di contenere la diffusione di notizie sugli avvenimenti
napoletani. A Parigi appare nel settembre 1647 la prima immagine a stampa di Masaniello, che non riproduceva il volto
reale, ma fissava gesti e simboli, che sarebbero rimasti nella iconografia della rivoluzione napoletana. Era il segno di
una popolarità che aveva nello stesso tempo altre e non superficiali manifestazioni.
§ 5.Un primo bilancio.
§ 5.1 Ruolo e funzione della curia romana.
L’intero corso rivoluzionario: dicembre 1646-aprile 1648 è contrassegnato, decisamente caratterizzato da
questo semplice ed elementare dato:
le forze rivoluzionarie riescono ad accumulare forze, spostare rapporti di forza e spingere in avanti il
processo, ma sono contrastata dalla curia romana, che blocca, frena, devia. Le forze rivoluzionarie riescono
a respingerne la presenza, ad incrinarne ulteriormente l’egemonia e riprendere il cammino interrotto, ma la
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curia si ripresenta in quanto forza economica, politica e militare ed interviene nei punti alti del processo,
costringendo le forze rivoluzionarie a sostare l’attenzione su di essa. La curia romana, cioè, con il suo
intervento impedisce al movimento il salto qualitativo, imponendogli il segnare il passo; e così facendo
consente alle forze reazionarie, di riprendersi, riorganizzarsi ed attaccare.
La tattica della curia romana è abbastanza complessa:
per tutta la fase che le due forze si contendono assume la funzione di al di sopra delle parti, quando la
controrivoluzione è sopraffatta interviene richiamando su di sé le forze della rivoluzione, costringendole in
questo modo a disimpegnarsi dalla pressione sulle forze nemiche, alleggerendo così la pressione su queste
e mettendole in grado di riprendere fiato, riorganizzarsi, serrare le fila ed essere pronte ad un nuovo assalto
contro le forze rivoluzionarie. A questo punto la curia romana lascia il campo per riprendere la sua funzione
di al di sopra delle parti, di centro di moderazione.
Questo sul piano immediato, su piano più immediatamente visibile.
Sul piano invece nascosto, invisibile – dietro le quinte – essa agisce sempre al servizio della
controrivoluzione; è una forza di costante sostegno politico, militare, ideale delle forze coloniali. I conventi, di
suore e di frati, le chiese, i campanili, l’Arcivescovado, il Duomo saranno il luogo sicuro dove nascondere
uomini, armi e munizioni; dove nascondere sgherri e camorristi al servizio di nobili e borghesi arricchiti: base
militare operativa per sortite contro la popolazione, base di appoggio ed operativa, oltreché centro di
provocazione e spionaggio, nelle fasi di attacco della controrivoluzione. Qui le truppe avranno modo di
nascondersi, qui avranno modo di essere ospitati gli oltre cinquecento banditi che tenteranno prima
l’assassinio di Masaniello e poi di attaccare la città; le truppe e banditi che assalteranno la città in
coordinamento con l’assalto da mare delle galere spagnole inviate da Madrid; questi i luoghi dove saranno
nascosti gli ori i documenti di nobili, borghesi, ecc. Nel corso della rivoluzione molti conventi e chiese e priori
e abati e badesse saranno giustiziati dalla rivoluzione per il ruolo di provocazione, spionaggio, assistenza a
banditi e soldati: non si terranno in disparte neppure le badesse dei conventi di clausura: anzi questi erano i
privilegiati, sicuri che nessuno sarebbe mai andato ad immaginare tanta nefandezza. La chiesa cioè
consentirà alle forze coloniali di resistere fino a quando la Spagna sarà in grado di concentrare forze da
inviare nel regno di Napoli e – nelle mutate situazioni internazionali – schiacciare la rivoluzione borghese.
La chiesa, e questo punto va ben fissato e nessun equivoco deve sussistere in merito, agisce da forza
subalterna, funzionale alla strategia coloniale spagnola. E’ forza subalterna, la sua è una tattica all’interno
della strategia spagnola; è una forza tattica alle forze spagnole. Si muove sullo scacchiere spagnolo ed è
mossa dal re di Spagna da cui dipende e ne è funzionale. La sua azione è azione tattica, giammai
strategica; è parte, e quindi si coniuga con essa, della strategia delle forze aristocratico-nobiliari, che nella
corona di Spagna avevano trovato punto di forza e cane da guardia. La Chiesa è cioè una forma
organizzativa della tattica della strategia spagnola. Sarebbe un errore mortale considerarla una forza
autonoma, un’altra forza, uno Stato nello Stato.
Il movimento rivoluzionario commetterà rispetto alla Chiesa due errori gravi, vitali per la stessa rivoluzione:
da una parte non la considererà una forma organizzativa della tattica della strategia spagnola; dall’altra la
considererà forza ideale, religiosa, questo le impedirà di vedere che quella forma ideale era la forma
specifica, concreta, che quella forma organizzativa della tattica assumeva nel più complessivo
dispiegamento delle forze nemiche in campo. Scinde i due momenti in due atti autonomi e distinti tra di loro
e non ne legge l’intima unità; non ne legge, cioè, l’interdipendenza relazionale tra i due momenti e di questi
due momenti con il più generale piano strategico e tattico delle forze reazionarie spagnole. Non vedrà allora
che la capillare struttura organizzativa della Chiesa ben serviva la sua funzione di forma organizzativa della
tattica:
le processioni, i monaci, i preti inviati nei quartieri, le chiese, le prediche domenicali, i confessionali erano
tutte le esatte, precise, articolazioni di quella forma organizzativa della tattica. In quanto tale essa non
poteva assolvere ad alcun ruolo strategico, poteva assolvere invece al ruolo tattico appunto di attirare le
forze rivoluzionarie su di sé e consentire al resto dell’esercito reazionario di riprendersi, riorganizzarsi e
ripresentarsi così, serrate le fila, di nuovo sul campo di battaglia: funzione classica della retroguardia, che è
appunto una forma organizzativa della tattica. Non poteva quindi essere la chiesa la causa della sconfitta,
l’artefice della sconfitta, ma solo elemento tattico che concorre con tutti gli altri elementi delle forme della
tattica al conseguimento dell’obiettivo tattico, che la strategia aveva posto, all’interno del più generale piano
strategico alle varie forme dell’organizzazione della tattica, altre ne assegna alle altre forme: militari,
istituzionali, di propaganda, di agitazione, culturali, ecc. che tutte si compongono nel piano tattico generale,
stabilito dalla strategia e dentro il piano strategico generale. In quanto tattica essa non può avere il compito
di dirigere un processo, ma di concorrere ad isolare determinate forze, intervenire in determinati punti e
spostare qui forze e rapporti di forza. In quanto tale la chiesa è allora forza culturale, ideale, politica,
economica e militare del piano tattico spagnolo.
L’intero corso degli avvenimenti confermano appieno questo ruolo tattico e quindi subalterno, funzionale al
perseguimento degli obiettivi strategici che era quello, nelle condizioni specifiche, di ritardare la rivoluzione,
consentire alle forze spagnole di resistere e prepararsi ad inviare rinforzi, in quel momento impegnate altrove
71
e che non potevano essere distolte dai fronti di guerra in cui la Spagna era impegnata. Questo avrebbe
dovuto far comprendere alle forze rivoluzionarie la necessità immediata, come era stato fatto per le forze del
viceré, di sottomettere militarmente questa forza e militarmente neutralizzarla o imporle di mettersi al suo
servizio. Lo farà nel corso della rivoluzione come fatto episodico, non organico e concettuale. Ben
diversamente Championnett che militarmente impose alla Chiesa a Napoli di sottomettersi al potere delle
armi francesi; ben diversamente Vittorio Emanuele II, ben diversamente le truppe anglo-americane nel 1944.
Gli Eletti del Popolo, ossia i livelli istituzionali, costituivano un’altra forma organizzativa della tattica,
funzionale all’organizzazione ed alla costruzione del consenso/dominio; la camorra ed i " bravi" al servizio
dei nobili un’altra ancora: tutte a seconda della loro natura, avevano il compito di organizzare, controllare
particolari forme organizzative del popolo concorrendo tutte al mantenimento del consenso/dominio nelle
forme, che di volta in volta si rendevano necessarie, combinandosi cioè l’elemento pacifico, di convinzione,
con quello violento della repressione. Carceri, sbirri, esercito erano altre forme organizzative della tattica e
tutte queste trovavano il loro momento di sintesi e di direzione nella Giunta, nel viceré e nel Consiglio d’Italia,
ove il momento di direzione era esercitato dall’avanguardia della classe nobiliare, che era organizzata
attorno al Grandato di Spagna. La Chiesa ha una struttura capillare ed i suoi elementi di base vengono dalle
fila del popolo e quindi mantengono stretti legami con il popolo e questo dà a loro una forte capacità di
penetrazione, di controllo, di spionaggio. La struttura capillare diffusa consente che ogni chiesa, ogni
convento, ogni edicola votiva può essere un punto di raccolta di forze nemiche, armi, munizioni, punto di
raccolta e riferimento. La loro veste religiosa consente loro di infiltrarsi, spargere il veleno della calunnia:
sanno molte cose, apprese nei confessionali in tempi normali e tranquilli; tutto ricordano e tutto utilizzano.
Queste consente loro infine di essere e dare copertura a spie, provocatori. La storia della chiesa è piena di
questi provocatori e spie professionali infiltrati in missioni religiose al fine di provocare rivolte popolari e
giustificare così poi l’intervento militare delle forze imperiali o imperialiste nei paesi del Terzo Mondo, come
ben documenta Pannikar in " Storia della dominazione in Asia dal Cinquecento ad oggi.". La tattica adottata
dalla rivoluzione borghese è stata quella di neutralizzarla, ma non di sottometterla militarmente. Il movimento
popolare nelle campagne aveva già raggiunto un forte grado di autonomia dal dominio spirituale della chiesa
con il movimento nelle campagne, di cui si è visto, contro il pagamento delle decime e degli obblighi feudali e
con Sciarra aveva opposto una guerra armata a preti, cardinali, vescovi e papa. La rivoluzione inglese poté
essere vincente proprio perché da tempo questa forza era stata abbattuta e sottomessa al potere centrale
inglese; non diversamente in Olanda ove attraverso il protestantesimo e l’estromissione di quella cattolica,
questa forza era stata sottomessa alle forze borghesi in lotta. Il protestantesimo in definitiva costituisce
esattamente questo. Nelle specifiche condizioni del regno di Napoli non si era potuto fare diversamente,
anche se forte era stato il movimento contro l’Inquisizione. Da questo punto di vista esemplare fu
l’atteggiamento dell’esercito francese nel 1799, quando armi in pugno imposero la realizzazione della
liquefazione del sangue: quando Championnet entrò in Napoli e successivamente. In questa seconda volta
Championnet aveva deciso anche l’ora: 11.30. Un drappello di uomini armati, penetrati nella sagrestia gettò
sul tavolo degli officiandi, una borsa con denari per i poveri della città ed alla risposta che era il santo che
decideva posero sul tavolo una pistola. La liquefazione del sangue avvenne quel giorno secondo i desiderati
di Championnet: alle ore 11.30. Andavano posti sotto controllo tutte le chiese ed i conventi, spostati altrove i
rispettivi occupanti e destituiti priori, badesse, occupati militarmente in quanto centri militari del nemico,
postazioni nemiche, posti molte volte in punti strategici. La Controriforma aveva ben mostrato come assalti
militari in piena regola erano stati la norma per ripristinare l’ordine in monasteri e conventi che non si
piegavano agli ordini del Concilio di Trento. Andavano, poi, posti sotto il diretto controllo militare e civile delle
forze armate e degli organi civili di quartieri e tolti ad essi ogni funzione di beneficenza: distribuzione delle
minestre e dl pezzo di pane ai poveri. In tempi normali costituisce questa un utile sostegno a formazioni
reazionarie ed in rari casi moderate, quando non vi possono provvedere le forze rivoluzionarie, diviene in
tempo di guerra strumento di corruzione, repressione, reclutamenti di elementi instabili. L’intero apparato
apicale doveva essere messo in assolute condizioni di non nuocere e quindi trasferiti seduta stante ai confini
con la stato romano. Grave infine che si permise la propaganda controrivoluzionaria del cosiddetto miracolo
del vescovo di Benevento per tutto il periodo della rivoluzione
.§ 5.2. Borghesia compradora ed aristocrazia-nobiliare italiana.
La seconda grande differenza è data dalla natura e composizione di classe del blocco controrivoluzionario dominante.
Il gruppo rivoluzionario vide il principale, ossia il blocco: viceré, baroni e speculatori napolitani, ma non vide tutta
l’aristocrazia nobiliare italiana e non che insisteva sul regno di Napoli. Documenti dell’epoca parlano chiaramente di
genovesi, lucchesi, fiorentini che avevano nelle loro mani il commercio, che gestivano, ecc. ma non videro la
complessità. Non videro che tali borghesi e nobili attuavano un drenaggio di risorse nelle loro zone di origine al fine di
attutire la pressione fiscale ed attuare forme di accumulazione originaria. Non videro che sul regno, e nel regno,
insisteva tutta la canea parassitaria nobiliare italiana e non e tutta la borghesia compradora italiana. Ossia che insisteva
sul regno di Napoli e nel regno di Napoli l’intero blocco reazionario aristocratico-nobiliare europeo, che si difese con
maggiore tenacia nel momento in cui veniva scacciata o decisamente ridimensionata dalle nuove forze borghesi.
Difesero cioè l’ultimo ed estremo lembo della loro esistenza fisica. Queste agirono da forze invisibili dello schieramento
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controrivoluzionario e non furono intaccate né minacciate. Furono esse che fecero la seconda grande differenza.
Spezzata la borghesia meridionale dai suoi legami con i borghesi di tutta Italia, che tramavano per isolarla dai legami
internazionali: Francia, Olanda, Inghilterra, si veniva a trovare in condizioni di isolamento, che, allorquando la Spagna
fu in grado di concentrare le forze, a cui concorse tutta la canea accattona e parassitaria dell’aristocrazia nobiliare
europea, non poteva alla fine non pesare e decretare la sconfitta. Queste forze internazionali agirono con pressioni a vari
livelli sulla Francia, affinché allentasse i legami con la repubblica guidata da Gennaro Annese. Fecero ben sentire tutto
il loro peso in tutto il corso degli incontri di Wunster, che ben si vide nel trattato di Westfalia del 1648 con il quale si
chiudeva la Guerra dei Trent’anni. Ed essa si chiudeva proprio ed esattamente con il decretare la sconfitta della
rivoluzione borghese italiana e la consegna del regno di Napoli nelle mani della Spagna, oramai ridottasi essa stessa a
funzione subalterna alle potenze nascenti Francia ed Inghilterra.
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NOTE
1
M. Schipa, Masaniello, Laterza 1925
C. Denina, Le rivoluzioni d’Italia
3
A. Manzoni, I Promossi Sposi, cap. 16
4
V. Dini, Masaniello, pag. 32, Newton ediz.
5
F. Capecelatro, Diario delle cose avvenute nel reame di Napoli negli anni 1647-50, con annotazioni del marchese
Angelo Granito, principe di Belmonte.
6
Giuseppe Donzelli, Partenope Liberata
7
De Santis Tommaso, Storia del tumulto di Napoli
8
Giò Battista Piacente, Le rivoluzioni del Regno di Napoli negli anni 1647-48
9
Ester Visco,Politica della santa sede nella rivoluzione di Masaniello, Napoli 1928
10
De Santis Tommaso, Storia del tumulto di Napoli
11
De Santis, op. cit
12
M. Schipa, Masaniello
13
Studi e ricerche devono ancora approfondire molte cose:
1. la Pace di Westfalia ed i suoi riflessi nel Mediterraneo, giacché modificando gli equilibri tra Spagna, Olanda,
Inghilterra, Francia di facto configura nuovi scenari sul e nel Mediterraneo.
2. Ruolo di Spagna, Francia, Olanda, Inghilterra, Portogallo dopo Westfalia ed incidenza di questa sul loro sviluppo
interno ed internazionale.
3. Ruolo della Spagna dopo Westfalia: l’intero corso della sua decadenza e la mutuazioni di quelle forze egemoni e
principali nel Seicento, loro evoluzione.
4. Ruolo del Regno di Napoli dopo Westfalia ed il rapporto tra lo sviluppo, e problemi dello sviluppo e ruolo del
capitalismo italiano, del capitalismo italiano e la sconfitta della rivoluzione napoletana del 1647-48.
14
Nunziature di Napoli, Archivio Vaticano, Napoli 43, pag. 33, 12. marzo 1648
in Visco, Politica della santa sede nella rivoluzione di Napoli, pag. 97, Napoli, 1928
15
Nunziature diverse, 76-4 marzo 1648, pag. 523
in Visco, op.cit., pag. 101
16
Visco, op. cit., pag. 21
17
Visco, op. cit., pag. 102-103
18
Antonio Ghirelli, Storia di Napoli, pag. 68
19
ibid, pag. 70
20
ibid, pag. 72
21
ibid, pag. 73
22
ibid, pag. 74
23
Salvatore di Giacomo, La prostituzione a Napoli nei secoli XV-XVI-XVII
2
74
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