S. Massimo, 8 gennaio 2009 Ritiro spirituale ai presbiteri Lo Spirito Santo fruttifica in noi la comunione fraterna Galati 5, 13-26 In continuità con le riflessioni proposte in seguito all’omelia del Giovedì Santo dello scorso anno, sulla comunione fraterna presbiterale, in questo ritiro spirituale che ci rivede riuniti in una doverosa sosta spirituale, poniamo attenzione al protagonista della comunione fraterna, lo Spirito Santo, sia per riconoscere la sua opera in noi, già nostro alleato per i sacramenti ricevuti, sia per interrogarci su come possiamo essere a lui più docili, perché la sua presenza dinamica in noi trovi in noi un humus particolarmente predisposto alla sua fruttificazione e, attraverso il nostro ministero, sia propiziata la sua azione salvifica. E lo facciamo attraverso una lectio divina del testo di Paolo ai Galati appena proclamato. Ma in essa, cioè nella lectio divina, ci soffermeremo soprattutto sul versetto 22, interamente dedicato al frutto dello Spirito in noi. Si sa che il testo che ci accingiamo a considerare fa parte della parenesi, segnata da una serie di verbi alla forma imperativa esortativa. Paolo vi giunge dopo aver ampiamente chiarito, con un itinerario argomentativo di quattro capitoli, il rapporto tra una vita imperniata sulla fedeltà obbedienziale al mosaismo e la vita nuova che scaturisce dalla obbedienza della fede (upacoè tes pisteos), attribuendo ovviamente la netta e incontestabile superiorità, anche agli effetti di una singolare qualità di vita, all’obbedienza della fede cui è riservata la giustizia salvifica di Dio, nel senso che Dio rende giusto l’uomo che si affida a Lui nella fede obbedienziale. Se pertanto ne va di mezzo una singolare superiorità di qualità di vita, identificata in quella novità su cui Paolo riporta frequentemente le riflessioni nelle sue lettere, e che ha convinto Saulo a lasciare alle spalle le modalità esecutive della tradizione ebraica, per assumere un nuovo parametro di valutazione e di scelte, a costo di fatiche senza numero e di persecuzioni, occorre tenerla a denti stretti, come il tesoro più prezioso venuto tra le mani: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi. State dunque saldi e non lasciatevi imporre il giogo della schiavitù”, così non esita a rammentare ai Galati, tentati di fare retromarcia proprio nei riguardi di questo obiettivo. Liberi dunque perché liberati. E liberati nientemeno che dal sangue di Cristo, cioè dal mistero pasquale! Il che significa che un eventuale ritorno all’antico sistema di vita, che stava ammaliando alcuni Galati, squalifica e vanifica la portata del mistero pasquale di Cristo, il dono della sua vita, espressione massima del suo amore per Paolo e per tutti: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita che io vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio che ha amato me e ha dato la sua vita per me!” (Gal 2, 20). Come potrebbe Paolo permettere che questo mistero venga vanificato proprio in lui e in coloro presso i quali lo aveva presentato con tanta passione da dire loro: “O stolti Galati, chi mai vi ha ammaliati, proprio voi agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso?” (Gal 3, 1). Ben si giustifica allora il primo imperativo esortativo: “State dunque saldi”. Nessun imperativo esortativo in Paolo è moralistico. È consequenziale alla teologia. Al versetto 13, che ha dato avvio alla lettura proposta, in una formulazione che sa di negativo, ci offre la chiave di ingresso nella logica che introduce in pieno l’azione dello Spirito nel credente. Paolo che ribadisce ancora una volta il senso del dono della liberazione dal sistema del mosaismo, mette in guardia dal pericolo di vivere nel libertinaggio, che nel termine “carne” trova la sua traduzione più convincente. Riascoltando tra poco le manifestazioni della carne, potremmo dire che corrisponde al vivere secondo la logica del più abietto paganesimo, di cui Paolo da un anticipo al versetto 15: “Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!”. Frase tra l’ironia pungente e l’amarezza sconfortata. Da sola vale un esame di coscienza. Per tutti i credenti. Anche per i diaconi, i presbiteri e i vescovi: quanto male ci si fa nel mordersi e divorarsi a vicenda! Proprio a questo punto Paolo dà la virata: per non vivere secondo la carne, ma “mediante la carità essere (siate) a servizio gli uni degli altri”, quale espressione della pienezza della legge, occorre “camminare secondo lo Spirito”. Carne e Spirito dunque. Rappresentano due logiche culturali, due orientamenti di vita, due prospettive, due sensibilità riconoscibili dal termine “desiderio”, inclinazione, propensione. Dialettiche, antitetiche. Irriducibili. Il dissidio vissuto nella interiorità di ciascuno di noi, evidenziato da Paolo al cap 7° Rm, tra i due mondi è incolmabile: “queste cose si oppongono a vicenda”. Paolo esorta a camminare nella direzione dello Spirito, lasciandoci ispirare e guidare dallo Spirito: “Se vi lasciate guidare dallo Spirito…” (v. 18), non siete più sotto una legge che detta dall’esterno i comportamenti legalisti e che vi rende esecutori di precetti, ma appunto sotto la legge interiore dello Spirito che dimorando nel credente, dal Battesimo, sospinge a seguire le leggi intrinseche del proprio essere. Tale versetto ci rimanda spontaneamente alla lettera ai Romani: “Tutti quelli che si lasciano guidare dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio” (Rm 8, 14). Lo Spirito è guida dei figli di Dio, nella direzione che conduce alla destinazione degna dell’uomo, conforme al progetto di amore di Dio! Fatte queste premesse, Paolo non esita a guardare in faccia il mondo della carne con le sue efflorescenze da marciume etico-morale, poiché ha la possibilità di prospettare l’alternativa: “Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere”. Atteggiamenti tutti che ostruiscono la via della salvezza. Ovviamente, non è detto che ne siamo in tutto immunizzati su tutto il fronte che spesso è da Caporetto. Ma a Paolo preme giungere al cuore delle questioni. Nessun credente in Cristo è condannato a soccombere alla logica della carne. Al contrario è chiamato e abilitato a lasciar produrre il “frutto dello Spirito”! Non ci sfugge la precisione terminologica di Paolo: anche se di fatto ne fa una enumerazione precisa, in numero di nove, vede in unità la fruttificazione. Come dicesse: l’azione di guida dello Spirito, immagine che trapassa a quella non meno significativa di agricoltore che sottostà al versetto 22, si concretizza nel rendere il credente capace di agire in modo divino, proprio a partire dal primo frutto, che sta all’inizio dell’elenco come il “la” dell’intera melodia, l’amore! A questo punto conviene soffermare la nostra riflessione proprio sul frutto, polivalente, dello Spirito, cercando di esemplificare in riferimento alla vita concreta dell’essere presbiteri, specialmente, ma non solo, se ancora nell’esercizio del ministero diretto, benché, come accennato, trovi riferimento abbastanza puntuale anche alla vita dei presbiteri che per malattia, infermità o anzianità servono diversamente la Chiesa di Dio che è in Verona. Questo frutto molteplice, a grappolo, segnala in modo inconfondibile l’azione dello Spirito in noi ed è indice di quanto la comunione fraterna sta realizzandosi nel nostro presbiterio. Insomma, la comunione fraterna in gran parte passa da questi atteggiamenti, frutto dell’azione dello Spirito in noi, docilmente assecondata, bandendo con risolutezza il loro contrario. Anzitutto, l’ Amore. Evidentemente si tratta di “agàpe”, in conformità a Rm 5, 5: “la speranza non delude perché l’Amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato”. Dunque è proprio il frutto primo dello Spirito in noi. Quanto più siamo inondati e conquistati da questo amore, pura gratuità, tanto più ci viene, per così dire, spontaneo e naturale trasmettere agli altri autenticità di amore, come da un esubero in noi. Il che equivale a dire: chi si sente amato e riconosce di essere amato, si predispone ad amare, con l’amore di cui si sente raggiunto. E lo fa con purezza di spirito, con autenticità. Senza mai scadere in gesti puramente fittizi, come ci ammonisce Paolo nella lettera ai Romani: “Un amore non ipocrita” (Rm 12, 9). E la vita di comunione fraterna si rivitalizza ogni volta che consentiamo allo Spirito di fruttificare in noi Amore per farne dono ai confratelli in primo luogo e ai laici. Praticamente non facciamo altro che evitare di ostruire il suo flusso di Amore vero che ha come destinatari le persone che condividono le nostre giornate, e di consentirgli di raggiungere tutti. Quale responsabilità sta sulle nostre spalle a tale riguardo: l’Amore di Dio, riversato in noi dallo Spirito, può stagnare in noi o essere un dono, nella reciprocità, ai fratelli! La vita di comunione fraterna è qualificata esattamente dalla presenza di un tale Amore. Quando c’è e non viene in nulla ostacolato la vita d’insieme viene trasformata in vita fraterna, proprio in obbedienza e sintonia con il comando di Gesù condensato nell’Ultima Cena: “un comandamento nuovo dono a voi: amatevi gli uni gli altri, poiché (e come) io amo in continuità voi (verbo al perfetto: azione che viene avviata nel passato e perdura nel presente). Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli se vi amerete gli uni gli altri” (Gv 13, 34-35). Teniamo presente che ognuno di noi è amato singolarmente da Gesù con lo stesso amore con cui Egli è amato dal Padre e Lui ama il Padre. Di conseguenza, quando ci amiamo tra di noi, viviamo l’amore trinitario e sperimentiamo in concreto chi è Dio, cioè crediamo davvero in Lui. Quando invece ne impediamo la realizzazione di fatto siamo atei, cioè senza Dio, dal momento che Dio è Amore (cfr 1 Gv 4, 8.16). Come a dire, autorizzati da Giacomo e non meno da Paolo, che una fede senza le opere dell’Amore è atea, è morta (cfr. Gc 2, 26: “la fede senza le opere è morta”; Gal 5, 6: “la fede che opera per mezzo dell’amore”). Ciò che segue nella elencazione delle fruttificazioni porta il sigillo dell’agape, tant’è vero che, anche nella espressione verbale e non solo nella sostanza, almeno alcuni sostantivi che appaiono nell’elenco di Gal 5, 22 si ritrovano come aggettivi qualificativi dell’agape in 1 Cor 13, 4 ss. Il secondo frutto, manifestazione certa che in noi già opera l’Amore, è la gioia. Karà, in greco, la cui matrice verbale è quel kairo da cui il kaire Maria! Si sa quanto è difficile renderne in lingua italiana tutta la densità di senso. Tentiamo di renderlo con una circonlocuzione: “trovarsi una interiorità interamente armoniosa, perché posseduta da Dio”. Come è avvenuto in Maria “piena di Grazia”. Per rendercene più convinti, basta il riferimento a qualche frammento di salmo: “cerca la gioia nel Signore” (Sal 37, 4); “verrò al Dio della mia gioia” (Sal 43, 4); “fammi sentire gioia e letizia” (Sal 51, 10); “servite il Signore nella gioia” (sal 100, 2)”; “La mia gioia è nel Signore” (Sal 104, 34); “Nel seguire i tuoi ordini è la mia gioia…la tua legge è la mia gioia” (Sal 119, 14.77). Oppure facciamo riferimento a qualcuno tra i più significativi testi del NT imperniati sulla realtà della gioia. Oltre quello già citato di Lc 1, 28 aggiungiamo: “Vi annuncio una grande gioia che sarà per tutto il popolo” (Lc 2, 10); “Al vedere la stella i Magi provarono una grandissima gioia” (Mt 2, 10); “pieno di gioia vende tutti i suoi averi (Mt 13, 44); la gioia del ritrovo della pecora perduta, della dramma smarrita, del figlio prodigo… c’è più gioia in cielo per un solo peccatore che si pente (cfr Lc 15); “Zaccheo accolse Gesù pieno di gioia” (Lc 19, 6); “La mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15, 11); “la vostra afflizione si tramuterà in gioia” (Gv 16, 20); “perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia” (Gv 17, 13); “la vostra afflizione si tramuterà in gioia (Gv 16, 20); “le donne con timore e gioia grande (Mt 28, 8); “I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo” (At 13, 52); “ho provato grande gioia nel Signore” (Fil 4, 10); “Siate nella gioia, ve lo ripeto, siate nella gioia” (Fil 4, 4); “avendo accolto la parola con la gioia dello Spirito” (1 Ts 1, 6); “siamo i collaboratori della vostra gioia…sono pervaso di gioia (2 Cor 1, 24. 7,4); “il regno di Dio è gioia nello Spirito Santo” (Rm 14, 17); “il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia” (Rm 15, 13). La gioia dunque nasce dal nostro rapporto con il Signore della gioia. A garantircela non è la salute, la carriera, le soddisfazioni pastorali, ma l’essere nel Signore. Può avere tratti di buon umore, ma non vi si identifica. È un atteggiamento dello Spirito, frutto dello Spirito, che produce armonia vibrante nel cuore dell’uomo, e ha una notevole ricaduta, nelle parole e nei comportamenti, anche su chi condivide le nostre giornate. In particolare, il presbitero che consente allo Spirito di far fruttificare in lui la gioia dello Spirito fa germinare attorno a lui gioia e bisogno di gioia. Un prete gioioso è una benedizione. E propizia in modo fecondissimo lo spirito di comunione fraterna. Il terzo: la pace. Eirene in greco. Non si tratta di un vago e poco sofferto irenismo, tipico del generico embrassons nous. Risponde piuttosto all’esito dell’abbinamento con la ricerca della gloria di Dio, come evidenzia l’evangelista Luca: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli – cioè nella trascendenza assoluta – e pace in terra agli uomini destinatari della benevolenza di Dio”. Chi ricerca la gloria di Dio e non la propria gloria è destinatario del dono della pace. Proprio nella misura in cui dichiara a se stesso che ciò che gli interessa e gli sta a cuore non è se stesso ma ciò che interessa e sta a cuore a Dio. Essere in pace anzitutto con Dio, per effetto della gratuità della sua giustificazione (Rm 5, 1: “Noi siamo in pace con Dio”), di conseguenza con se stessi e di riverbero con gli altri. Un cuore in pace sente come bisogno vitale quello di trasmettere sentimenti di pace, ricordando la beatitudine del discorso della montagna: “Beati i portatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5, 9). Quanto la pace sia anzitutto dono è confermato dalla Parola di Dio che sulla pace intesse pagine luminose. Per citarne alcuni flash. Un salmo: “Il Signore ha messo pace nei tuoi confini” (Sal 147, 14). Dunque il dono della pace c’è e ci precede, scendendo dall’alto della gratuità di Dio; all’uomo il compito di corrispondervi. E le consolanti parole di Gesù: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la da il mondo o la do a voi” (Gv 14, 27); “Pace a voi” (Gv 20, 19.26). E quelle di Paolo! Paolo abbina grazia e pace infinite volte, ma ne assume il termine anche in autonomia: “Fatevi un punto di onore di vivere in pace” (1 Ts 4, 11); “Vivete in pace tra voi” (1 Ts 5, 13); “La pace di Cristo regni nei vostri cuori” (Col 3, 15); “Egli è la nostra pace” (Ef 2, 14); “solleciti nel conservare il vincolo della pace” (Ef 4, 3); “vivete in pace con tutti” (Rm 12, 18). Come presbiteri siamo ministri della pace. Nella celebrazione dell’Eucaristia da noi presieduta e nel sacramento della riconciliazione come vertice. Ma poi nella ferialità, essere portatori di pace nelle famiglie, tra gruppi e associazioni, tra i collaboratori. Saremmo efficaci se portiamo sempre, ad ogni costo, la pace tra confratelli, perseguendola con le vie della pace, il dialogo, il perdono… Segue la pazienza. È noto che il termine italiano ha come riferimento in Paolo due termini greci: upomoné e macrothymia. L’upomoné sta ad indicare la sottomissione (sto sotto il giogo) tipica dell’animale da soma. Dunque è più legata al senso della pazienza che occorre ad uno schiavo, quando lì, nella immediatezza, deve eseguire gli ordini ricevuti, fossero pure forche caudine. In realtà nel testo di Galati 5, 22 Paolo usa il termine macrothymia. Il termine evoca la capacità del contadino di sopportare ogni genere di fatica grazie alla sua lungimiranza. Egli mostra un animo abituato a commisurare le fatiche con l’obiettivo (cfr Gc 5, 7: “L’agricoltore aspetta pazientemente il prezioso frutto della terra”). Letteralmente significa: animo che guarda in lunghezza. A tale proposito lo stesso Paolo, che usa non di rado il termine (ad es. in Ef 4, 2: “con ogni umiltà e mansuetudine, sopportandovi a vicenda nell’amore con la pazienza”), nella prima ai Corinti ne fa una qualificazione dell’agape: “l’agape ha pazienza” (macrothymei: 1 Cor 13, 4), come Dio ha pazienza (e ce lo ricordano gli infiniti testi salmodicia. Ad es. Sal 145, 8: “paziente e misericordioso è il Signore”, ripreso dalla seconda di Pietro 3, 9: “Dio non ritarda a compiere le sue promesse, ma usa pazienza verso di noi, non volendo che alcuno perisca”), e nella seconda a Timoteo non esita a sospingere la pazienza fino all’eroismo: ”Un servo del Signore dev’essere paziente nelle offese subite” (2 Tm 2, 24). Quanto costi anche ai presbiteri la pazienza, ognuno di noi ne ha consolidata esperienza. Ma essendo prima di tutto frutto in noi dello Spirito che ci fa partecipi della pazienza lungimirante di Dio ci incoraggiamo, consci dei benefici che se ne ricavano. Delle impazienze ci pentiamo sempre. Dalle pazienze portate, anche stringendo i denti, abbiamo sempre ricavato buoni esiti. Benevolenza. Xrestotes, in greco. Non è il semplice volersi bene. Ma la ricerca di ciò che è bene. Letteralmente evoca l’essere benigno, utile, propizio favorevole. Ed è una ulteriore caratteristica dell’agape, come evidenzia Paolo nella prima ai Corinti: “l’agape è benevola!”. È evidente che anche in questo atteggiamento scorgiamo il tratto divino della benevolenza, come risulta ad esempio nel testo della lettera a Tito: “quando si è fatta visibile la benevolenza (Xrestotes) e la filantropia di Dio salvatore nostro” (Tt 2, 4). Dunque Paolo coniuga la benevolenza di Dio con la sua simpatia per l’uomo. Se è benevolo verso l’uomo è perché l’uomo gli è caro al punto da farsi Lui stesso uomo, nel Figlio. Nei confronti dei confratelli, ma anche dei fedeli, ci guidi sempre quel credito di benevolenza che ci fa scorgere nei fratelli persone destinatarie prima di tutto della benevolenza stessa di Dio, memori comunque delle esortazioni di Paolo: “Siate benevoli gli uni verso gli altri” (Ef 4, 32). E la comunione fraterna avrà una marcia in più. Bontà. Agathosune, in greco. Il termine agathos ci è noto: buono! In che cosa poi consista la bontà ci è meno facile decifrarlo. Sta di fatto che anche quando Gesù viene interpellato su chi è il prossimo e viene definito dall’interlocutore “maestro buono”, corregge precisando che l’attribuzione di buono è una esclusiva di Dio: “Uno solo è buono: Dio!” (cfr Mc 10, 17-18), non certo per stornare l’attribuzione da sé ma per far intuire che anche in Lui c’erano i tratti del divino, appunto quelli connessi con la bontà. Buono è il samaritano che si prende cura di un estraneo ( e non a caso Gesù fa seguire la narrazione di quella parabola). Noi potremmo definirlo: un uomo dal cuore sensibile, pronto a soccorrere, anche a costo di rimetterci in termini di purità legale, di tempo e di denaro. Non è il bonario bonaccione, incapace di fare il male, ma colui che si dispone a fare il bene secondo l’assioma di Paolo: “Non lasciarti vincere dal male ma vinci il male con il bene” (Rm 12, 21) . In questo senso la bontà è atteggiamento, frutto dello Spirito, particolarmente confacente al presbitero, chiamato a fare il bene, evitando ogni comportamento e ogni parola che possa ferire, facendo del male ai fedeli, che difficilmente dimenticano una parola e un gesto non buoni, e anche al confratello. Fedeltà. Pistis, in greco. “Dio è fedele” (Sal 31, 6; 86, 11; 146, 6); “Il Signore è fedele” (2 Ts 3,3); “colui che vi chiama è fedele” (1 Ts 5, 24; cfr anche 1 Cor 1, 9. 10, 3). E tutti sanno che il termine in ebraico evoca il senso della stabilità della roccia. Insomma di Dio ci si può fidare perché rimane fedele al suo patto anche quando l’uomo si mostra infedele. È comunque un forte richiamo per noi. Potremo infatti dichiararci veri discepoli di Gesù, se saremo a lui fedeli: “se rimanete fedeli alla mia parola, sarete miei discepoli” (Gv 8, 31). Come amministratori dei beni di Dio ci è chiesta la fedeltà: “All’amministratore è richiesto che sia fedele” (1 Cor 4, 2). Saremo giudicati sulla fedeltà: “Bene servo buono e fedele” (Mt 25, 21s). Sta di fatto che di una persona si misura la maturità sulla sua capacità di fedeltà. Lo si può dire nei confronti della fedeltà coniugale come della fedeltà al propria vocazione di ministero ordinato o della consacrazione a Dio mediante i tre voti canonici. Ma lo si può dire anche nei confronti della parola data, in genere, della riservatezza di cose di cui si è venuti a conoscenza per svariate vie, degli orari stabiliti, in segno di rispetto, di un impegno assunto. Saper di poter contare su confratelli di parola, fedeli a Dio e ai propri impegni personali e pastorali, è garanzia di riuscita nella strada della comunione fraterna. Mitezza. Prautes, in greco. In Mt 5, 4 i miti vengono detti beati, come eco del salmo: “I miti possederanno la terra” (sal 37, 11). Sempre in Matteo, ma al capitolo 11, 29, Gesù stesso si autodefinisce “mite e umile di cuore”, esempio paradigmatico per tutti gli affaticati e oppressi. E Paolo: “Un servo del Signore deve essere mite con tutti” (2 Tm 2, 24). Certo, mite non è l’arrendevole. Semmai è colui che sa prendere avvenimenti e persone dal verso giusto e nei tempi giusti. Non precipita nulla, men che meno le decisioni importanti, anche se non le rimanda all’infinito. Non si lascia turbare da nulla: gli basta Dio come Signore. E poiché proprio in Gesù mitezza si coniuga con umiltà, ovviamente anche per noi presbiteri non possono che stare insieme. Se siamo umili siamo anche miti. E non pretendiamo che gli altri siano fatti a nostra immagine e somiglianza, un nostro clone o che ci dia sempre ragione, ma li accogliamo per quello che sono e nella condizione, fisica, psichica e spirituale in cui si trovano, evitando ogni forma di sbrigatezza che fa dell’altro più un oggetto di incomodo, su cui riversare all’occorrenza i propri malumori, che una persona, confratello, da prendere dal verso giusto, nell’ora giusta, come fa il Signore con ciascuno di noi. Dominio di sé. Egcrateia, in greco. Letteralmente: essere padrone di sé, capace di esercitare il potere su di sé, temperante, moderato. Dunque sapersi moderare in tutto. Usando di tutto ma con quella moderazione che ci fa liberi da tutto e ci fa usare le cose per quanto servono, senza mai divenirne sudditi e schiavi. È la capacità di mettere solidi argini agli impeti delle passioni impulsive, che si vogliono contenere, appunto con quella virtù che si chiama continenza o castità, che impedisce esondazioni devastanti. Sapersi dominare e dare delle regole, nell’uso dei tempi razionalizzati, del cibo, del divertimento, delle relazioni, delle parole… è garanzia di corretto rapporto con le persone che favorisce notevolmente la comunione fraterna. Frutto certamente di grande impegno personale, ma, prima di tutto e come sua origine feconda, dell’azione dello Spirito in noi. Così abbiamo passato in rassegna i nove frutti dello Spirito. Ci siamo resi conto che ognuno è un trattato di teologia biblica. E che sono a grappolo o a polittico. Uno nell’altro di cui di volta in volta è ulteriore germinazione. Poter dire che una persona sta manifestando in grande i frutti dell’azione dello Spirito in lei significa constatarne la santità, che altro non è se non la forma alta della vita cristiana, nel suo produrre tutti i frutti dello Spirito. In favore della crescita del Corpo ecclesiale di Cristo. Non a caso Paolo, pochi versetti dopo, in Gal 6, 2 dirà: “Portate i pesi gli uni degli altri”. Come a dire: lasciate che lo Spirito operante in voi si faccia carico, attraverso di voi, delle condizioni di difficoltà dei fratelli. In tal modo la comunione fraterna altro non risulta essere se non la docilità allo Spirito Santo che è in noi.