Il circo di Lourousa, con il versante nord est del Corno
Stella (al centro)
L’aereo persiano
22 luglio 1967
E’ sabato mattina e sto lavorando, ma ogni tanto guardo
l’ora. Mi hanno promesso di portarmi al Corno Stella
domani e ho chiesto di uscire mezz’ora prima. Nello stipetto
ho infilato zaino, scarponi e pantaloni alla zuava.
Saluto il mio capo, ormai rassegnato e incapace di negarmi
ferie e permessi senza preavviso e a mezzogiorno sono
pronta. Cerco di guadagnarmi l’uscita senza farmi vedere. Il
corridoio è stretto e io e lo zaino l’occupiamo
per intero. Il pavimento è di linoleum e il vibram degli
scarponi si appiccica un po’.
Quando il corridoio svolta a sinistra mi trovo di fronte
l’ampia mole di Angelo Costa, presidente della
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Confindustria e grande capo di tutta la ditta. Un attimo di
panico e mentre cerco disperatamente una valida
giustificazione per questa uscita fuori ordinanza vedo il suo
viso aprirsi in un sorriso.
Mi stanno aspettando in piazza Dante per andare al Bozano,
nell’alto vallone dell’Argentera. E’ il rifugio che amo di più
ed è frequentato da soli alpinisti. Mi sento di far parte di
un’élite.
Nell’entusiasmo di questa nuova gita non mi chiedo se ce la
farò. Il tempo dei dubbi e delle paure arriva la notte, come
un fantasma, e svanisce al mattino. Questa volta arriva un
po’ prima quando, al termine delle fatidiche due ore di salita
dal Gias delle Mosche a quattro chilometri di sterrata da
Terme di Valdieri, mi ritrovo a vedere con occhi nuovi
questa meravigliosa montagna, al centro del circo di
Lourousa che fa da anfiteatro al rifugio. Un compagno che
forse ha intuito mi rassicura “ti tiro io, stai tranquilla”.
Abbiamo lasciato il bosco di larici e le ultime tracce di
vegetazione molto più sotto. Qui siamo nella pietraia e il
Bozano è appena sopra un roccione.
E’ bella la sera al rifugio. C’è pace e un silenzio che invita al
raccoglimento. Le cime sono ancora illuminate mentre noi
siamo nell’ombra. Le guglie che a semicerchio ci circondano
sembrano uscire dalle pietraie come denti affilati, l’enorme
bocca di un gigante, e noi ci siamo dentro. Il solito rito della
busta con la minestra, un pezzo di formaggio, due risate e
poi prepariamo con cura corde, cordini e moschettoni per
l’indomani. I materassi, sporchi e rotti, sono appoggiati su
una grande tavola di legno, tutti in fila.
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Il rifugio Bozano
Il rifugio è vecchio. Devono aggiustarlo e ingrandirlo. Mi
sono già prenotata per aiutare a portare su i materiali, con
l’elicottero. Prenderò le ferie.
E’ notte quando si scatena il temporale e, mentre la luce dei
lampi si infila nelle fessure degli scuri e lo scoppio dei tuoni
ci impedisce di dormire, sono felice. Non dico mai che ho
paura, ma se piove non ho bisogno di dire proprio niente, la
gita non si fa. Quante volte però dopo un temporale ci si alza
la mattina e nel cielo terso si intuisce che il sole asciugherà
velocemente le rocce.
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23 luglio 1967
Questa volta il sole non arriverà. Stracci di nuvole sostano in
tutte le gole. Minaccia ancora pioggia. Non si può
arrampicare sul Corno Stella.“Ma si può andare sulla Plent,
per la Ellena-Soria”.
L’invito è presto raccolto e partiamo per questa via di terzo
con qualche passaggio di IV e uno di V inferiore. Ci
arrampichiamo, vado su bene, e quando i passaggi sono più
difficili c’è la corda tesa ad aiutarmi. Un tiro dopo l’altro
arriviamo in cresta, affilata da doverci stare a cavalcioni, una
gamba di qua e una di là.
Le rocce sono ricche di ferro e nell’aria c’è tanta elettricità
che i capelli mi stanno ritti come aghi in un puntaspilli. Un
ronzio sordo, come solo una volta ho sentito sotto i cavi di
un enorme elettrodotto, ci consiglia di liberarci di tutta la
ferraglia che abbiamo. La mettiamo in un sacchetto e la
caliamo con la corda. Il tempo sta peggiorando di nuovo.
Mentre mi muovo con attenzione su quelle rocce bagnate
vedo un’automobilina di latta, schiacciata. Come fa ad
essere lì? Me lo spiegano. Su questa cime qualche tempo fa
è precipitato un aereo, pieno di donne e bambini, l’harem di
un sultano. La guardo un attimo e poi la metto
religiosamente nella tasca dello zaino.
Aggiungono che qualcuno, giù in paese, appena ha sentito lo
schianto si è arrampicato fin qua e ha tolto tutti i gioielli alle
mogli del sultano. Ha nascosto il tesoro da qualche parte e
ora è ricco.
Grandina e si deve scendere velocemente. Il pericolo dei
fulmini è altissimo. Iniziamo così le doppie e venti metri per
volta ci caliamo seguendo la verticale. Non c’è tempo per
fare sicurezza e, senza il cordino in vita che di solito mi
assicura con un Prusik, punto i piedi alla parete, corpo in
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fuori. Lungo lo spigolo il vento mi spinge verso l’altro
versante, a precipizio, e annaspo in aria. Chi è sceso prima di
me riesce a recuperare i capi della corda e li tiene a piombo
in modo che possa arrivare al terrazzino.
E’ in una di questa doppie che la corda si aggancia agli
occhiali e me li strappa. Istintivamente me li schiaccio sulla
faccia e senza la presa, abbandonata per un istante, rischio la
capriola e il volo. Ma tutto è bene quel che finisce bene e un
tiro dopo l’altro raggiungiamo la base e tocchiamo lo
sfasciume. Un complimento “brava” che mi ricompensa di
tutto e ci sleghiamo.
Il pensiero corre di nuovo all’automobilina e alla tragedia
che si è consumata su queste montagne. Il cinismo di chi ne
ha approfittato mi è insopportabile.
Cerco questo giocattolo fra gli oggetti che conservo – c’è di
tutto – ma non riesco più a trovarlo. Chissà dove l’ho perso!
Ma è come se l’avessi ancora davanti agli occhi, schiacciato
e ormai inutile, come il bambino che lo stringeva.
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