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Associazione Nazionale per l’immigrazione
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Bologna 21 MAGGIO 2005 ORE 9.00
IMMIGRAZIONE MUSULMANA
PROFILI GIURIDICI ED ECONOMICI DELLE MACELLERIE ISLAMICHE IN OCCIDENTE
di Lorenzo Ascanio**
“Chi emigra per la causa di Allah troverà sulla terra molti rifugi ampi e spaziosi” (Cor.IV, 100)
Parte I
Immigrazione, economia, società e il fattore religioso
Alcuni spunti di riflessione
Per poter affrontare il tema della condizione giuridico – economico sociale dell’immigrato
musulmano in un contesto Italia, occorre iniziare dalla descrizione del più generale istituto
dell’immigrazione, partendo da una sua attenta analisi economica e sociologica, per poi affrontare
il particolare, curioso e certo rilevante fenomeno della costituzione delle cosiddette “ macellerie
islamiche”.
Tra le cause dei fenomeni migratori – oltre alle teorie sociologiche di cui brevemente accennerò –
la liberalizzazione economica degli ultimi dieci anni ha sicuramente assunto una decisiva chiave di
lettura al fenomeno; in effetti se sempre maggiori risultano essere il movimento di capitali, la
conclusione di investimenti e l’internazionalizzazione delle imprese, che ha accresciuto la
circolazione dei beni all’interno del mercato internazionale, è altrettanto cresciuta la circolazione
dei servizi con organizzazioni fondate su alti capitali.
All’ interno di questa evoluzione economica – che ha portato il mercato internazionale a coniare il
termine “globalizzazione” – esiste una variabile economica definita “persona”, “uomo” che si fonda
su un antico principio giuridico che stabilisce la libertà per ogni Stato nazionale di decidere la
propria politica immigratoria ovvero di decidere chi fare entrare o meno nel proprio territorio. 1
Ogni Nazione è libera dunque di decidere il livello di flussi di ingresso sul territorio e con quali
norme regolarlo; ma oggi questa regola sembra essere superata dall’esperienza comunitaria in
atto, poiché, se è vero che gli stati adottano Leggi sull’immigrazione differenti tre loro, è altrettanto
vero che principi fondamentali in materia di libertà di movimento e di lavoro sono da tutti gli
ordinamenti dell’Unione Europea accettati e difesi.
La libera circolazione dei beni nel mercato internazionale ha chiaramente comportato la libera
circolazione delle persone, anzi dei lavoratori2, categoria a cui è concessa tale libertà, anche se
1
Questo è un principio richiamato da tutte le dottrine giuridiche di diritto internazionale.
Cfr. Francesco Munari, Immigrazione e diritto internazionale dell’economia: alcuni spunti di riflessione, in Diritto del
commercio internazionale, Ed. Giuffré, Aprile – Giugno 2004, pag. 252.
2
Sempre l’ Autore citato in nota n. 1 sostiene ( pag. 253 ) giustamente che: “ anche nella sua originaria struttura, per
intenderci quella della Comunità Economica Europea del 1957, l’integrazione e la cooperazione economica degli Stati
Membri prevede la libera circolazione delle persone quale libertà fondamentale accanto alle libertà relative agli altri
fattori di produzione”.
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oggi, attraverso l’interpretazione “estensiva” del termine la Corte di Giustizia non manca di
equiparare persone e lavoratori per quanto riguarda la loro libera circolazione.
Dunque in un contesto di unione economica come l’Europa, la persona e il suo movimento
all’interno di Essa ( soprattutto se proviene dall’esterno) assume un valore fondamentale ma allo
stesso tempo non ci si può non fermare a riflettere su determinanti fattori sociali legati alle
motivazioni personali di spinta alle migrazioni che, per evidenti ragioni, si intrecciano con i principi
di “globalizzazione” economica; se infatti è vero che il processo di internazionalizzazione e il tasso
di continuo “interscambio planetario” non si arresta ed è sempre più coinvolgente, altrettanto non
si può negare che il fattore dell’immigrazione è da un lato legato indissolubilmente a tali fenomeni,
dall’altro contiene in sé variabili che non sempre possono essere inquadrabili in una lettura
economica.
L’ immigrazione porta con sé non solo forza lavoro ma pone le più disparate culture a confronto,
abitudini etniche faccia a faccia, con la eventuale conseguenza che ciò porti a scontri o ad incontri:
per ciò, oltre che inquadrare lo studio del fenomeno immigratorio sotto un ottica economica,
occorre primariamente teorizzare i motivi per i quali uno, più soggetti, addirittura popoli decidono di
abbandonare la propria terra d’ origine e analizzare la situazione del paese d’ arrivo a contatto con
lo straniero in uno studio bifasico e integrato.
I movimenti migratori sono, soprattutto in sociologia, considerati una delle prime cause del
mutamento di una società; tutti i più recenti movimenti migratori riguardano determinate aree del
pianeta coinvolte in questo fenomeno per motivi sia economici sia geografici3.
Qualsiasi spostamento di massa sia interterritoriale sia internazionale provoca uno squilibrio dello
status di una comunità che deve confrontarsi con “ i nuovi arrivi”, anch’ essi portatori attivi di un
personale modus vivendi.
Procedendo con un metodo sociologico - economico, un primo livello di studio, tendente a
evidenziare le cause dell’ immigrazione, distingue due piani, il primo” sociale” , il secondo
“spaziale”:
- il piano sociale prende in esame sia il numero di migranti distinguendo tra migrazioni individuali,
famigliari, di gruppo o di massa sia il periodo di permanenza (migrazioni pendolari, stagionali,
temporanee e definitive) sia il motivo, differenziando tra “ labour migrations ( migrazioni per motivi
di lavoro) e not labour migrations ( migrazioni non per motivi di lavoro; trattasi di una clausola
generale che può comprendere svariate cause di partenze) .
All’ interno delle labour migrations in sociologia si classificano i settori e livelli delle qualificazioni
professionali: forza lavoro generica, tecnici, imprenditori e professionisti; proprio la scienza
economica ha teorizzato come variabili fondamentali che assurgono a ruolo di concause delle
motivazioni di immigrazione per prima la diversificazione e riduzione dei rischi, ovvero la figura
dell’ homo oeconomicus,4 poi la deprivazione relativa, cioè il confronto dei redditi salariali con
quelli del gruppo di riferimento, infine la conoscenza asimmetrica delle informazioni che impedisce
E. GRANDE, Mediterraneo, bacino di migrazioni, tratto dalla rivista “ Affari sociali internazionali”, n. 1, 2003, ed F.
Angeli, 2003. L’ autore indica appunto come una delle aree più coinvolte quella del bacino del Mediterraneo, “ nella
quale il fenomeno migratorio si ripropone seguendo quella contrapposizione nord-sud andatasi delineando a livello
globale nel corso degli ultimi decenni”; infatti in questa zona i paesi della sponda nord del Mediterraneo ( Italia,
Spagna, Portogallo, Grecia) raccolgono flussi di immigrati provenienti da paesi in via di sviluppo dello stesso bacino
(paesi nord africani) .
3
Sul tema anche CARLO BORIS MENGHI, ( a cura di, ) L’ immigrazione tra diritti e politica globale, ed. G.
Giappichelli, 1998
4
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un preciso confronto con i livelli salariali e produttivi dei mercati del lavoro stranieri rispetto a quelli
di origine allo scopo di valutare esattamente l’ utilità della scelta migratoria.
Tra le altre, una caratteristica del piano sociale di primaria importanza, specie riguardo le
migrazioni da paesi poveri o in via di sviluppo a quelli più ricchi, è stata denominata “ brain drain” (
fuga dei cervelli) ovvero l’ esodo dei cosiddetti lavoratori individuali; in particolare questo
fenomeno, segna la perdita di risorse umane qualificate da parte di un paese a causa di fenomeni
migratori.5
- Il secondo piano in esame, quello spaziale, è suddiviso in due tipologie di migrazioni, quelle
interne e quelle internazionali; queste ultime a loro volta sono distinte in “incentivate” e in “
disincentivate” a seconda dell’ indirizzo politico – amministrativo che il paese ospitante segue
rispetto alla promozione di specifiche scelte di richiamo della forza – lavoro straniera. L’
orientamento giuridico -amministrativo fa notevolmente variare la condizione dell’ immigrato che
può essere considerato: regolare ( non vincolato rispetto al soggiorno e alla tipologia di lavoro),
irregolare (soggiorno o attività lavorativa illecita) ,clandestino ( ingresso illecito) .
Oltre alle citate teorie, l’ ormai intera dottrina sociologica, senza molte diatribe in argomento,
afferma che ogni movimento migratorio contiene in sé sia ragioni oggettive ( spesso di costrizione
dovute a persecuzioni razziali o religiose) definite convenzionalmente “push factors”, sia ragioni
soggettive ( come, ad esempio, il già citato caso del “brain drain” ) chiamate “pull factors” 6.
Queste due cause sono spesso legate non solo dalla prevalenza dei fattori di spinta nelle zone di
provenienza dei flussi legati alla fortissima pressione demografica e ai consistenti differenziali di
reddito tra nord e sud, per quello che riguarda ad esempio le zone del bacino del mediterraneo in
cui sono coinvolti i paesi sud europei come l’Italia, ma anche da politiche legislative deboli che
causano fenomeni consolidate di immigrazione irregolare.7 E’ anche in questo ambito, oltre che in
altri, che può essere letto l’ insegnamento di Parson il quale stabilisce che il cuore dell’
integrazione di un sistema sociale risiede nel sistema normativo e nel complesso e nei
meccanismi del controllo sociale.8
Sempre le teorie sociologico – economiche hanno poi analizzato le conseguenti dinamiche “post –
arrivo” per comprendere le reali cause dell’immigrazione in un determinato territorio; così la
“scuola di Chicago” negli Stati Uniti degli anni ’20, guidata dal suo massimo esponente Robert
Ezra Park, focalizzò come problema dell’immigrazione il livello di integrazione e stabilì quattro
processi principali di relazioni tra culture e gruppi diversi9:
- processo biologico di amalgama (amalgamation);
- processo sociale di accomodamento (accomodation);
- processo sociale di assimilazione (assimilation);
- processo culturale di acculturazione (acculturation) .
5
Sul tema, un indagine curata dal Gruppo Cerfe, che su un campione di 979 immigrati ( 394 uomini e 585 donne)
qualificati complessivamente intervistati, ha rilevato che la percentuale di laureati si attesta intorno al 53% ( 52, 1 %
donne e 54, 0 % uomini) ; Di questi, una porzione rilevante intorno al 53 % / il 27 % tra le donne e il 28, 1 % tra gli
uomini) , ha addirittura ottenuto una specializzazione post – universitaria. La grande maggioranza degli intervistati
conosce almeno due lingue, oltre all’ italiano e dimostra di saper utilizzare le tecnologie informatiche.
6
C.f.r. G. Scidà “ Migrazioni e lavoro: prospettive sociologiche” articolo tratto dalla “ Rivista sociologica del lavoro”
Ed. F. Angeli, 199, pag. 26- 31.
7
Vedi nota n. 6.
8
T. PARSON, Comunità societarie e pluralismo. Le differenze etniche e religiose nel complesso della cittadinanza.
Scritti di Parsone, tradotti e commentati a cura di G. Sciortino, ed. Franco Angeli, 1994.
9
Park sottolinea come l’ integrazione sia fondamentale per “ stabilire e mantenere un ordine politico in una comunità
che non ha alcuna cultura comune” ( Park, Burgess, 1921, ).
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Secondo Park, lo svolgimento di questi quattro processi porta ad una convergenza di culture con
differenze tra loro sul piano sociale e religioso, in un’ unica grande cultura, il cui fenomeno è
definito con la metafora “melting pot” , enorme contenitore che racchiude in sé svariati tipi di
culture confuse tra loro in “ un minestrone dall’unico sapore”; il melting pot è “il processo
attraverso il quale la cultura di una comunità o di una nazione è trasmessa ad un cittadino “
adottivo” e nel quale i gruppi e gli individui vengono incorporati in una comune vita sociale e
culturale”.10
In questo quadro rientra anche l’ intuizione di Parson del modello AGIL, ovvero lo studio della
società in base a quattro dimensioni in relazione tra loro:
- dimensione A (adattamento, autonomia di una società);
- dimensione G (conseguimento degli scopi e capacità di agire in modo unitario);
- dimensione I (integrazione tra gli individui di una determinata popolazione);
- dimensione L (latenza, funzioni di riproduzione della società in cui convergono cultura, costumi)
.11
Sempre appartenente alla scuola di Chicago, più giovane del Professor Park, Fredrik Barth tentò
di innovare la teoria del “ melting pot”, intuendo che il fenomeno immigratorio non
necessariamente dovesse portare ad una generale assimilazione in un unico “ grande pentolone” ,
bensì la conseguenza avrebbe potuto essere una maggiore ridefinizione dei propri confini etnici
distintivi, data da una scelta di convenienza rispetto all’ ambiente di arrivo. Barth contribuì quindi al
passaggio dal concetto di “ melting pot” all’ efficace metafora della “ salad bowl”, in cui ogni
differenza sociale, etnica, religiosa convive con l’ altra difendendo e differenziando nei tratti
essenziali la propria identità e specialità in una convivenza comune.
antagoniste annullando di fatto e ponendo in un secondo piano la differenziazione etnicoculturale. 12
Ma queste due scuole, celebri e in certi casi ancor oggi condivisibili, devono tener conto della
realtà che vede sempre di più atteggiamenti diversi dei vari gruppi rispetto al loro inserimento nella
società di arrivo. Esistono comunità pronte e tese ad un totale inserimento nei meccanismi dello
stato ospitante, altre invece rifiutano il processo di “amalgamation”13 in difesa della propria storia,
della religione, della lingua14.
Credo infatti che le celebri scuole americane del melting pot non tengano conto di un “revival
etnico”15 capace invece ,anche se in un contesto di minoranza, di non lasciarsi omologare ma
addirittura di rivendicare uno spazio sociale autonomo, originale e impostato secondo la cultura di
origine.
Il soggetto migrante è infatti di solito inserito in uno o più “social networks” riconducibili alle
differenti nazionalità degli immigrati o appartenenti a elementi comuni dei gruppi come sangue,
amicizia, etnia e religione. I neworks fungono da richiamo per coloro che successivamente
decidono di migrare nel paese in cui i primi si sono stabiliti; perciò questo metodo è fondamentale
per capire, rispetto alle cause dei flussi migratori, sia quale possa essere una lettura completa dei
motivi di spinta e desiderio nel migrare, sia quali siano i “social networks” di riferimento, ovvero i
La definizione di “melting pot” è di G. Scidà, Pollini, sociologia delle migrazioni, ed. Franco Angeli, 1998.
V. Cotesta, Sociologia dei conflitti etnici, ed. Laterza, 1999.
12
vedi nota 1.
13
Park, 1921.
14
Questa è l’ opinione di G. Scidà, da me condivisa.
15
Scidà, op. cit.
10
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legami tra determinate persone che stabiliscono e interpretano specifici e peculiari comportamenti
sociali dei soggetti coinvolti.
Questo passaggio è fondamentale per cogliere la vera dinamica del processo di integrazione dell’
immigrato nel paese ospitante poiché la vita di relazioni sociali non può essere un elemento dal
quale prescindere; il profilo economico e i suoi vantaggi, le condizioni lavorative, la democraticità
del paese di arrivo, non sono sufficienti per impostare una politica di integrazione se essa non è
supportata da un attento studio sull’ appartenenza ad un gruppo e sulle relazioni sociali dei
membri relative a momenti della vita quotidiana, come il matrimonio, il rapporto di amicizia, l’ aiuto
reciproco . Il metodo descritto offre inoltre la possibilità di verificare come i gruppi di immigrati uniti
da determinati social networks si evolvano in proporzione alle generazioni che si succedono sullo
stesso territorio ospite; infatti dopo il primo periodo definibile di ambientamento nella nuova
società, vengono programmati ulteriori spostamenti per raggiungere il luogo più consono alle in
base alle esigenze della rete sociale di riferimento; successivamente il secondo periodo vede un
contatto diretto con l’ ambiente esterno del paese ospite sotto le forme più disparate di
aggregazione e di rappresentanza con confini netti perdendo buona parte di quegli aspetti iniziali
legati a strutture familiari o puramente territoriali; lo strumento del network è quindi fondamentale
per riunire la teoria “micro” delle migrazioni fondata sulle scelte individuali prese dal soggetto con
la teoria “macro” basata su fattori interni e internazionali.
Proprio grazie a questa valorizzazione del fattore sociale come variabile indispensabile per lo
studio dei processi migratori, anche gli economisti, strenui difensori del valore puramente
economico attribuibile al “capitale umano” dell’immigrato, hanno invertito la rotta passando ad una
visione del fenomeno come imprescindibile dalle relazioni sociali fondamentali per il
raggiungimento di un determinato obiettivo; si passa così da capitale umano a capitale sociale16,
concetto che racchiude tutte le motivazioni descritte riguardo i networks, incluse quelle
economiche.17
Dalla teoria dei social networks discende inevitabilmente uno degli elementi caratterizzanti l’ unità
dei gruppi immigrati, l’ etnia, concetto dato troppo per scontato e assimilato in un’ idea più
generica di fraternità dalle dottrine classiche legate a Marx e Durkheim, rivalutato invece dalle
teorie antropologiche culturali e etnologiche le quali hanno coniato l’ istituto di identità etnica come
fattore di coesione di un gruppo sociale “ i cui membri condividono un senso di origini comuni,
rivendicando un passato storico e un destino comune e distintivo, possiedono uno o più attributi
peculiari e percepiscono un senso di unità collettiva e di solidarietà[…] Un gruppo etnico ( si può
appunto parlare di rete etnica) è quindi caratterizzato da quattro attribuzioni:
- il senso delle origini specifiche del gruppo;
- la conoscenza di un passato storico ben definito del gruppo e la credenza nel suo destino;
- una o più dimensioni di individualità culturale collettiva e per ultimo un senso di singolare
solidarietà comunitaria”.18
L’ intuizione prende spunto da uno studio di L. Zanfrini Il capitale sociale nello studio delle migrazioni. Appunti per
una prima riflessione, articolo tratto dalla rivista sociologica del lavoro n. 91 - capitale sociale, lavoro e sviluppo- a cura
di R. rizza- G. Scidà, ed. F. Angeli, 2002.
17
Le teorie classiche cercavano di spiegare la scelta di migrare come individuale di massimizzazione dei vantaggi
ottenibili attraverso l’ investimento del capitale umano; la teoria però non può valere se non sorretta da motivazioni
sociali come la rete di relazioni. Vedi nota n. 15.
18
La definizione appartiene a A. D Smith ( 1981) , autore citato da V. Cotesta, Sociologia dei conflitti etnici, ed.
Laterza, 1999.
Sempre sul tema è interessante e attuale l’ insegnamento di Alexis de Tocqueville ( 1835) che scrive, rispetto allo studio
delle migrazioni verso l’ America: “non andavano nel nuovo mondo per migliorare la loro situazione o per accrescere le
16
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Secondo l’ etnologia infatti l’ individuo non nasce solo, ma portatore di tratti di identità di base di
gruppo che sono: caratteristiche fisico somatiche; i beni comuni del gruppo, un nome individuale e
uno familiare da cui discendono la storia, l’ origine del gruppo; la religione e i relativi costumi (
come battesimo o circoncisione) che introducono l’ individuo singolo nel gruppo.19
Lo studio dell‘ identità etnica è da alcuni autori descritto più criticamente partendo dall’ analisi di
due fattori inerenti il gruppo etnico: il primo riguarda la condivisione di modelli di comportamento
normativo, la seconda è relativa all’ appartenenza ad una popolazione più grande e l’ interazione
con persone provenienti da altre collettività nel contesto di un sistema sociale comune; Cohen
(1974), attraverso questi fattori, stabilisce che l’ etnicità debba essere “legata al grado di
conformità da parte dei membri della collettività alle norme condivise nel corso dell’ interazione
sociale”, per cui l’ identità etnica assume una veste politica con un preciso scopo e un determinato
interesse.20
Tra i tentativi di un melting pot completamente fallito ( basti pensare all’ esperienza americana in
cui nella speranza di una nascita di un’ identità nazionale grazie al mescolamento di culture si è
giunti prima al genocidio degli Indiani d’ america poi al razzismo verso i neri dell’ africa, causa di
un evidente ghettizzazione) emerge dunque una “rinascita etnica”21 ; proprio riguardo a ciò la
sociologia delle migrazioni non può non prescindere da un elemento fondamentale di identità
etnica e a volte motore centrale dei social networks: il fattore religioso.
Il tema religioso risulta infatti fondamentale per rimanere fedeli al proseguimento di questa
indagine che, riguardando il fenomeno islamico, ha chiaramente e unicamente connotazioni
confessionali.
Proprio la sociologia classica ci insegna che dal cosiddetto studio di un fenomeno secondario o
deviante si può cogliere l’ aspetto “ normale” del sistema; infatti per studiare lo stato della salute
occorre partire e analizzare le patologie, per cogliere la situazione famigliare si possono indirizzare
le indagini sui divorzi e così via22.
La religione può essere quindi essere considerata come un fattore secondario ( in certi casi
deviante) attraverso cui cogliere la condizione di una nazione alle prese con il problema
immigratorio e può essere l’ inizio, lo spunto di un dialogo per lo studio di una buona
integrazione23.
Non a caso Compte, Durkheim, Weber, considerati i pionieri della sociologia classica, studiarono
per molti anni il fenomeno religioso, pur non appartenendo ad alcuna confessione ma
percependone l’ importanza24
loro ricchezze, ma si staccavano dalle dolcezze della patria per obbedire ad un bisogno puramente spirituale.
Esponendosi alle inevitabili miserie dell’ esilio, volevano far trionfare un’ idea”.
19
Queste intuizioni sono di Isaacs, 1975, autore citato da V. Cotesta, in op. cit.
20
La tesi di Cohen è sostenuta anche da Blazer e Moynihan (1975) i quali interpretano i conflitti etnici come conflitti di
interessi; “ possiamo azzardare l’ ipotesi secondo la quale i conflitti etnici sono diventati una forma mediante la quale
vengono condotti conflitti di interesse tra stati e negli stati”. Vedi nota n. 20.
21
M. MARTINIELLO, Le società multietniche- diritti e doveri uguali per tutti?-, Ed. Il mulino, 2000.
22
Le similitudini sono di S. Allievi, Migrazioni, globalizzazioni e pluralità religiosa. Cambiamenti in atto nel paesaggio
e nelle dinamiche religiose in Europa, capitolo tratto da G. Scidà, ( a cura di) I sociologi italiani e le dinamiche dei
processi migratori, Ed. F. Angeli, 2002 pag. 11- 16.
23
Konrad Lorenz sosteneva che “ lungi dal costituire un ostacolo insormontabile ai fini dell’ analisi di un sistema
organico, la sua disfunzione patologica rappresenta spesso la chiave per poterlo comprendere.”.
24
Allievi ricorda che Durkeim, figlio di un rabbino ma non credente, studiò l’ ebraismo come fattore “cruciale nel tenere
insieme una società”.
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Certo è vero che nel periodo storico di studio dei maestri citati la situazione era ben diversa
rispetto a quella attuale: lo stato coincideva con un solo territorio e una sola religione e una sola
società; è toccato al sociologo Berger25 introdurre in materia il concetto di pluralismo religioso,
inteso però come l’ aumento di religioni e quindi la crescita di offerta religiosa; lo stesso Berger
dichiarava che “il pluralismo indebolisce tutte le certezze”26 poiché nulla sembrerebbe essere certo
e scontato nella ricerca dell’universale.
L’ offerta religiosa è certamente un fattore fondamentale per questo studio,vista la crescita del
numero di “nuove “religioni come lo shinto, i sikh, l’ animiamo, le sette dei testimoni di Geova, oltre
le “ vecchie” dottrine come il Cristianesimo, l’ebraismo, l’ islam, l’ ortodossia ecc., ma non si può
però prescindere dalle dimensioni della “domanda religiosa” , ovvero la richiesta soggettiva di ogni
individuo appartenente ad una società di professare la propria fede, con tutto ciò che comporta
questa istanza: luogo di culto, riconoscimento delle festività, associazionismo . E quando “ nuove”
e “ vecchie” religioni sono importate nel nostro paese dagli immigrati che nella loro valigia, oltre ai
motivi di lavoro, alla sicurezza economico- sociale dello stato ospitante tengono anche la
“domanda”della propria confessione?
La religione dunque opera nel contesto immigratorio come fattore sia personale sia sociale: il
fattore confessionale assurge in prima istanza come dato del capitale umano del singolo sia come
elemento del capitale sociale dell’ immigrato.
Il soggetto infatti forma la propria identità distinguendosi dagli altri e mantenendo una continuità
con sé stesso con una costante esigenza di essere riconosciuto dagli altri.
L’ identità religiosa è quindi una risorsa a cui l’ individuo fa riferimento quando avverte il disagio di
avere a che fare con la proposta di un ‘ altra identità, con valori diversi da quelli che l’ individuo ha
assimilato nel suo processo di assimilazione, ovvero emerge la sua identità quando si trasforma in
“ minoranza”.
In questo contesto, la sociologia in materia è solita centrare il problema sulla famiglia come fase di
“ socializzazione primaria”, che si compie nei primi anni di vita di uno straniero immigrato; rispetto
alla “socializzazione secondaria” invece, i fattori possono essere molteplici; nel nostro caso
assume rilevanza l’ appartenenza alla comunità d’ origine, un fattore su cui negli ultimi dieci anni si
sono ravvisate varie teorie sulla sua funzione: alcune di esse hanno ravvisato un nesso tra la
comunità d’ origine e il concetto di eticità utilizzato per designare il sentimento di appartenenza ad
un gruppo etnico o la condizione di essere etnici.
Recenti studi27, facendo rientrare l’ elemento religioso nel più generale concetto di etnicità,
riguardo la “ prima e seconda generazione”, hanno osservato che l’ identità etnica non è
solamente espressione di un atteggiamento difensivo bensì assume una valenza “simbolica”
perché viene meno la rivendicazione di uno specifico territorio dove l ‘immigrato chiede di poter
vivere per realizzare a pieno uno stile di vita il più vicino possibile all’ originario.
Berger appartiene alla corrente sociologica della fenomenologia, metodo filosofico che si sviluppa dall’ individuo e
dalla sua esperienza cosciente e che cerca di evitare assunti aprioristici, pregiudizi e dogmi. Questa dottrina esamina i
fenomeni nella maniera in cui gli attori li percepiscono nella loro immediatezza. Altri autori appartenenti a questa scuola
sono Garfinkel,e Lucmann.
26
Autore citato da R. DE VITA-F. BERTI, ( a cura di, ) La religione nella società dell’ incertezza -per una convivenza
solidale in una società multireligiosa, Ed. F. Angeli, 2001.
25
Centro Nazionale di Documentazione ed analisi sull’ infanzia e adolescenza, “ Un volto o la maschera? I percorsi di
costruzione dell’ identità.Rapporto 1997 sulla condizione dell’ infanzia e dell’ adolescenza in Italia.”, Presidenza del
Consiglio dei Ministri. Dipartimento per gli Affari Sociali.
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La famiglia in questo contesto impartisce al bambino immigrato un’ educazione mista in cui
emerge da un lato un modello basato sulla cultura del paese di origine, spesso non riproducibile,
dall’ altro un esempio legato a ciò che i genitori stessi hanno assimilato nel paese d’ arrivo. La
seconda generazione ( “socializzazione secondaria” ) , vede invece lo scontro tra le due culture,
quella del paese di partenza con quello di arrivo, in cui i ragazzi e le ragazze ricevendo o subendo
un processo di assimilazione o acculturazione, reagiscono o amalgamandosi o esiliandosi.
Parte II
L’apertura di macellerie islamiche in contesto immigrato
“vi sono interdetti gli animali morti di morte naturale, il sangue e la carne del maiale, gli animali su
cui sia stato invocato all’atto dell’uccisione un nome diverso da quello di Dio, gli animali soffocati,
ammazzati a colpi di bastone, morti per caduta o per colpi di corna, quelli che bestie feroci abbiano
divorato in parte” (Corano V, 4).
Per ovvie ragioni di sintesi dovute ai molti interventi previsti in questo convegno, mi sforzerò di
definire, seppur brevemente, quali sono le principali peculiarità dell’apertura in contesto immigrato
di macellerie islamiche; pertanto è indispensabile partire da alcuni rilievi storico religiosi.
Le prescrizioni alimentari furono rivelate al Profeta Muhammad a Medina, dopo la sua partenza
dalla Mecca, nel 622 e a parte qualche eccezione, ripropongono gli usi e i costumi antichi degli
arabi.
La normativa alimentare rappresenta per i musulmani un modello di comportamento
universalmente accettato ed un importante fattore di identificazione con la comunità.
Nel pensiero islamico il cibo è una grazia divina28; il Corano ne salta i valori benefici e invita l’uomo
a mangiare le cose buone e di conseguenza lecite (halal) che Dio ha creato per lui e ad astenersi
da quelle interdette (haram), in quanto impure. In generale tutti i cibi sono permessi, tranne la
carne di maiale, il sangue versato e gli animali non macellati secondo il metodo rituale:
«Io non trovo in quel che mi è stato rivelato nessuna cosa proibita a un gustante che voglia
gustarla, eccetto bestia morte, sangue versato o carne di porco, chè questo è sozzura, o animali
macellati su cui sia stato invocato altro nome che quello di Dio»29.
Nel Corano si enfatizza il fatto che Dio non intende imporre ai suoi fedeli oneri che essi non
possano sopportare, contrariamente a quanto è, invece, stabilito per gli ebrei, per i quali le
proibizioni alimentari sono sentite come una punizione divina per i peccati commessi. Lo stesso
digiuno che i musulmani devono praticare nel mese lunare del Ramadan e che costituisce il quarto
pilastro dell’Islam, non rappresenta una penitenza, ma una purificazione votata al risveglio della
spiritualità.
L’Islam non è un sistema religioso improntato all’abnegazione o al sacrificio per l’espiazione dei
peccati, per cui anche dal punto di vista dell’alimentazione non è molto appropriato parlare di
“divieti”, quanto piuttosto di prescrizioni aventi una certa razionalità, per quanto “divina”. Partendo
dal tabù del maiale e da tutti i suoi derivati (non bisogna infatti dimenticare lo strutto, ingrediente
28
29
Corano XVI, 72; XIV, 37; VI, 142.
Corano VI, 145.
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base di molti cibi occidentali ed italiani), questo ha una motivazione di tipo igienico: l’animale in
questione, infatti, ha abitudini immonde, quali la coprofagia o il cibarsi di rifiuti in genere. Le sue
carni potrebbero di conseguenza divenire veicolo di malattie per l’uomo. Vi sono anche altre
spiegazioni relativamente a questa prescrizione coranica, quali la natura demoniaca dell’animale
o,al contrario, il valore sacro che il maiale aveva presso alcuni antichi popoli dell’Asia Minore o
dell’Africa30, ma la prima è sicuramente la più accreditata, anche perché consente di non
escludere tutta una serie di considerazioni di carattere antropologico. E’ stato, infatti, messo in
rilievo come, fin dalla preistoria, l’allevamento del maiale sia legato alla sedentarizzazione, in
quanto non producendo lana né latte, mal si adattava alle esigenze delle popolazioni nomadi delle
regioni aride e semi-aride dell’Asia. Nel clima torrido di queste regioni, tra l’altro, il maiale
difficilmente sarebbe potuto sopravvivere alla mancanza d’acqua a causa della disidratazione
troppo rapida della pelle, per cui sorgono dubbi persino sul fatto che il maiale potesse far parte
degli animali allevati dagli arabi delle comunità pre-islamiche. A questo proposito è interessante la
posizione del direttore del Centro di cultura islamica di Bologna31. Secondo la sua opinione di
musulmano, il divieto coranico relativo alla carne di maiale ha una sua ragion d’essere soprattutto
ai giorni nostri. Infatti perché proibire le carni di un animale che all’epoca del profeta Muhammad
non si era soliti, tra gli arabi, allevare e mangiare? Dio avrebbe insomma ispirato nel profeta una
simile prescrizione in previsione della diffusione dell’Islam e del suo incontro con altre civiltà
caratterizzate da usanze diverse: una sorta di regola data ai musulmani per gestire la convivenza
in situazioni e contesti differenti da quelli originari. Inoltre, il direttore ha tenuto a precisare che il
musulmano non deve interrogarsi troppo sul perché, ma deve limitarsi a fare come prescritto, nella
consapevolezza che Dio ha previsto tutto per il bene dei suoi fedeli: il fatto che la carne di maiale
possa recare nocumento all’organismo dell’uomo lo confermerebbe. Per rendere meglio
comprensibile la sua posizione, il direttore ha anche riportato un aneddoto: durante un periodo di
degenza in ospedale, essendo musulmano, aveva espressamente richiesto l’esclusione del maiale
dai suoi pasti, ma accanto a lui c’era anche un altro paziente al quale il maiale era stato proibito,
ma non da Dio (non si trattava di un musulmano), né per motivi religiosi, bensì dal medico e per
motivi di salute!
Per quanto riguarda gli altri animali, questi, sulla scorta delle prescrizioni coraniche e della
tradizione profetica, sono stati divisi dalle scuole giuridiche islamiche in tre categorie: animali leciti
(halal), proibiti (haram) e riprovevoli (makruh). Si tratta, tuttavia, di una classificazione che risente
delle divergenze esistenti tra queste scuole tradizionali dell’Islam32, divergenze che, è opportuno
precisarlo, nascono non in relazione ai principi fondamentali del diritto islamico, ma
dall’applicazione di questi ultimi a situazioni concrete, a esigenze della vita quotidiana, come nel
caso dell’alimentazione.
In linea generale, sono leciti, in base al passo coranico «vi sono permesse le cose buone» (Cor.
V, 4), gli animali le cui carni sono gradevoli al gusto (pollame, ovini, bovini, ecc.), mentre sono
vietati gli animali la cui carne risulta disgustosa.
In base ad una tradizione del Profeta che divide i quadrupedi in prede e predatori, sono leciti i
primi e lo stesso criterio viene applicato agli uccelli a ai pesci. Questi ultimi sono leciti e possono
essere mangiati anche se trovati morti sull’acqua, in base al passo coranico «V’è lecita la pesca e
Nell’antico Egitto il maiale era identificato prima con Osiride, poi con Seth.
Il centro è membro dell’U.C.O.I.I. (Unione delle comunità ed organizzazioni islamiche in Italia).
32
Nell’ambito dell’ortodossia islamica esistono quattro scuole ufficialmente riconosciute: le scuole hanafita, malichita,
sciafeita e hanbalita. Tutte prendono il nome dai loro fondatori.
30
31
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il cibo che il mare contiene» (Cor. V, 96). Sono, tuttavia, considerati proibiti o riprorevoli i crostacei
e i mitili.
Tra gli animali domestici sono generalmente considerati leciti gli equini e proibiti gli asini.
Tutti gli animali leciti devono essere alimentati con mangimi puri: qualora si cibino
occasionalmente di sterco, prima di consumarne la carne o i prodotti, devono essere sottoposti ad
un periodo di quarantena.
Un altro peculiare divieto è quello relativo alla degustazione del «sangue versato» (Cor. VI, 145).
La prescrizione ha un valore simbolico: il sangue, identificato con la vita stessa dell’animale, non
deve essere mangiato per mettere in evidenza l’assoluto dominio di Dio su ogni essere vivente.
Un’eccezione è fatta per il fegato e la milza, ritenuti coaguli di sangue, in quanto considerati leciti
dal Profeta stesso.
I cibi che per se stessi sarebbero puri, possono essere contaminati dal contatto con un animale o
una sostanza impura. L’impurità del sangue mestruale (Cor. II, 222) porta alla conclusione che
non solo è impura la carne della femmina di animale mestruata, ma che anche la donna mestruata
può contaminare le vivande che prepara.
Per quanto riguarda le bevande, sono proibite tutte quelle che hanno potere inebriante, in primo
luogo il vino. Ciò non era inizialmente nelle intenzioni del profeta33, ma le intemperanze commesse
da alcuni suoi seguaci lo indussero a cambiare idea:
«O voi che credete! In verità il vino, il maysir, le pietre idolatriche, le frecce divinatorie sono
sozzure, opere di Satana…»34.
Una interdizione così netta ha spinto la giurisprudenza ad elaborare una serie di norme collaterali
che proibiscono per analogia l’uso di droghe e sostanze stupefacenti, nonché la compravendita di
alcolici.
Il divieto di consumare alcolici è valido anche nei casi di necessità, a differenza di quanto il Corano
stabilisce per tutti gli altri cibi haram:
«Quanto poi chi vi è costretto per fame e senza volontaria inclinazione al peccato, ebbene Dio è
misericordioso e pietoso»35.
A suggello di questa elencazione di divieti è opportuno proporre le parole tranquillizzanti di Tariq
Ramadan, autorevole islamologo molto noto in Europa, per chiarire che l’Islam è comunque un
sistema che non opprime lo spirito creativo del credente, del quale non mira assolutamente a
mortificare l’esistenza, soprattutto nel confronto e nella convivenza con gli “altri”: «Certo c’è la
preoccupazione di rispettare quello che è effettivamente proibito e quello che non lo è. Ma
l’ossessione della purezza fino a torturarsi lo spirito non traduce l’orientamento degli insegnamenti
dell’Islam. Bisogna restare esigenti, ma sempre in equilibrio tra l’intenzione sincera di fare il
proprio meglio e la necessità di non appesantire inutilmente la vita quotidiana con regole
insormontabili»36.
Il rituale della macellazione della carne halal (consentita), è un metodo coranico che impone una
specifica tecnica di produzione di alimenti provenienti da bovini.
Il problema rispetto a questa tradizione viene a galla nell’ ambito dell’ immigrazione posto che,
giunti ormai alla terza generazione, gli stranieri di fede islamica sono pienamente entrati nel
33
Vi sono, infatti, nel Corano alcuni versetti, che lodano i pregi del vino e invitano i fedeli a goderne. Vedi, ad esempio,
Cor. XVI, 69.
34
Cor.V, 90.
35
Cor. V, 3.
36
Tariq Ramadan e Jacques Neirynk, Possiamo vivere con l’Islam?, Imperia, Edizioni Al Hikma, 2000.
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circuito della piccola impresa cittadina attraverso l’ apertura e la gestione di esercizi commerciali
ormai numerosi e perlopiù fondati sulla vendita di prodotti tipici, in questo caso etnici.
Rispetto al fenomeno dell’ imprenditoria musulmana, sarebbe sociologicamente interessante
stabilire le reali motivazioni di spinta all’ apertura di tali esercizi; una via potrebbe essere quella del
mancato inserimento dell’ immigrato che per reazione e per un eccessivo attaccamento alle
proprie radici apre un esercizio capace di coinvolgere e di attirare altri stranieri della stessa fede; l’
altra via possibile vedrebbe l’ immigrato inserito anche nel contesto economico imprenditoriale fino
al punto di accettare il rischio di mettere sul mercato prodotti che, oltre a rendere noti usi e
costumi propri dell’ Islam, potrebbero avere successi commerciali; si pensi al cus – cus o al
quebab.
Le macellerie islamiche si fondano totalmente sulla tecnica di macellazione il cui principio è
estrapolabile dal Corano stesso:
“vi sono interdetti gli animali morti di morte naturale, il sangue e la carne del maiale, gli animali su
cui sia stato invocato all’atto dell’uccisione un nome diverso da quello di Dio, gli animali soffocati,
ammazzati a colpi di bastone, morti per caduta o per colpi di corna, quelli che bestie feroci abbiano
divorato in parte” (Corano V, 4).
La macellazione rituale consiste nello sgozzare, in nome di Dio, un animale la cui carne è
permessa”37. Montoni, pecore, capre, caproni, galline, polli ed altri gallinacci devono essere
necessariamente sgozzati e non uccisi con un pugnale; i bovini possono invece essere sgozzati o
pugnalati.
E’ proibita la carne di tutti i carnivori e di tutti i rapaci, quella degli asini domestici e dei muli.
Per la macellazione rituale la bestia deve essere sdraiata sul lato sinistro, con la testa rivolta verso
la Mecca, con le gambe legate, ad eccezione di quella posteriore. La testa viene prima sollevata
con la mano sinistra e poi recisa con utensile affilatissimo e con un unico taglio da sinistra a destra
che non deve intaccare la spina dorsale e non deve essere ritirata.
La morte avviene per recisione di trachea, esofago e vena giugulare, e per dissanguamento. Se la
bestia non muore subito è considerata non più macellabile.
Al macellaio viene richiesto di essere pubere o in età di ragione, ed essere in possesso delle sue
facoltà mentali mentre, almeno teoricamente, non è un ostacolo se è donna, cristiano o ebreo; per
ogni bestia uccisa, va sempre calcolata una quota di denaro per lui.
Il macellaio deve recitare la formula “Bismillah Allahu Akbar” al momento del taglio che avviene
con la mano destra, avendo cura di far cadere la testa dell’animale verso la Mecca: per questa sua
funzione qualcuno addirittura lo considera “un imam un po’ particolare”. Il sangue dell’animale
viene ovviamente buttato via e la bestia stessa viene messa “a sgocciare” per qualche tempo.
Infine, per garantire che l’uccisione è realmente avvenuta secondo rituale, la carne viene timbrata
in modo appropriato.
In materia di macellazione e del più generale trattamento degli animali sottoposti all’uccisione a fini
alimentari, la legislazione nazionale ha visto continui mutamenti in materia a partire da quella che
per lungo tempo era rimasta la normativa di riferimento, il r. d 21 luglio 1927, n. 1586 in cui all’
articolo 9 si stabiliva che la macellazione degli animali doveva essere adottata con procedimenti
finalizzati alla rapidità della morte dell’ animale come apparecchi esplodenti a proiettile captivo o
con la enervazione, cioè la recisione del midollo allungato; immediatamente dopo tale operazione
doveva seguire la recisione dei grossi vasi sanguigni del collo per l’ ottenimento della
dissanguazione; tutte le operazioni venivano eseguite da personale di sicura abilità autorizzato.
37
Al Djazairi Abu Bakr Djabar, La Via del musulmano, 2000.
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Nel 1974, con direttiva numero 577, la Comunità europea interveniva in materia, stabilendo un
criterio generale per tutti i paesi membri per evitare disparità tali da compromettere direttamente il
funzionamento del mercato comune e per definire limitazioni a comportamenti crudeli nei confronti
degli animali attraverso lo strumento dello stordimento obbligatorio prima di procedere alla
macellazione38; la nota innovativa si rinveniva all’ articolo 4 in cui si trovava la presenza di
deroghe, sempre se ritenute opportune, per tipologie di macellazione rituale, basata su una certa
prescrizione dettata dal culto, le quali avrebbero potuto evitare la suddetta fase
dello stordimento.
Il Parlamento si adeguava alla Direttiva, ricalcandone il contenuto delle disposizioni, con la Legge
n. 439 del 1978, mentre dopo due anni il Governo recepiva le deroghe riguardanti i metodi rituali
con il Decreto Ministeriale (innovativo e sorprendente visto il periodo non certo caratterizzato dal
fortissimo ingresso musulmano nel territorio) 11 giugno 198039 dal titolo “ autorizzazione alla
macellazione degli animali secondo i riti religiosi ebraico ed islamico”.
In questo Decreto spiccano le seguenti condizione delle deroghe:
“Articolo 1 :
Si autorizza la macellazione senza preventivo stordimento eseguita secondo i riti ebraico ed
islamico da parte delle rispettive comunità.
Articolo 2 :
La macellazione deve essere effettuata da personale qualificato che sia perfettamente a
conoscenza ed addestrato nell'esecuzione dei rispettivi metodi rituali. L'operazione dovrà essere
effettuata mediante un coltello affilatissimo in modo che possano essere recisi con un unico taglio
contemporaneamente l'esofago, la trachea ed i grossi vasi sanguigni del collo.
Articolo 3 :
Nel corso della operazione debbono essere adottate tutte le precauzioni atte ad evitare il più
possibile sofferenze ed ogni stato di eccitazione non necessario. A tal fine gli animali debbono
essere introdotti nella sala di macellazione solo quando tutti i preparativi siano stati completati. Il
contenimento, la preparazione e la iugulazione dei medesimi debbono essere eseguiti senza alcun
indugio” .
Il Decreto attribuiva grande rilievo alle prescrizioni islamiche ( ed ebraiche) in concordia con la
Cee, provocando inevitabili, e in alcuni aspetti giustificati, obiezioni40 sopite nel tempo e riemerse
con l’ emanazione di una nuova direttiva Cee nel 1993 sul tema, recepita dall’ Italia solo nel 1998
con il Decreto Legislativo n. 333 in cui vengono decisamente stabiliti i metodi leciti per la
macellazione; questi che seguono sembrano le novità più importanti apportati dalla nuova
normativa.
Definizione dei termini ( articolo 2) :
La Cee definiva lo stordimento un procedimento effettuato per mezzo di uno strumento meccanico, dell’ elettricità o
dell’ anestesia con il gas senza ripercussioni sulla salubrità delle carni e delle frattaglie e che provocasse nell’ animale
uno stato di stordimento e incoscienza persistente fino alla macellazione.
39
Pubblicato in G. U n. 168, 20 giugno 1980.
40
Il dibattito ha assunto due posizioni antitetiche: la prima difendeva il contenuto del Decreto per lo spirito di
integrazione sociale scaturito dall’ apertura all’ Islam e in nome della libertà religiosa e della difesa degli animali
convinti della positività del metodo musulmano e della sua assoluta non lesività; la seconda attaccava il testo in difesa
dell’ animale consapevole del dolore patito causato dal rito.
Tra questi ultimi, V. G. Vignoli, La protezione giuridica degli animali di interesse zootecnico, in Rivista di diritto
agrario, 1986, dichiara: “ il doveroso rispetto delle credenze di minoranze religiose, ancorché esigue, non giustifica l’
ammissione legislativa di metodi ripugnanti alla grande maggioranza della popolazione e addirittura peggiorativi
rispetto a quelli indicati dalla legislazione in materia”.
38
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“ immobilizzazione: qualsiasi sistema inteso a limitare i movimenti degli animali per facilitare uno
stordimento o abbattimento efficaci;
stordimento: qualsiasi procedimento che, praticato sugli animali, determina rapidamente uno stato
di incoscienza che si protrae fino a quando non
intervenga la morte;
abbattimento: qualsiasi procedimento che produca la morte dell'animale;
macellazione: l'uccisione dell'animale mediante dissanguamento;
autorità competente: il Ministero della sanità, il servizio veterinario della regione o provincia
autonoma, il veterinario ufficiale quale definito all'articolo 2, comma 1, lettera g) , del decreto
legislativo 18 aprile 1994, n. 286, e successive modifiche; tuttavia per le macellazioni secondo
determinati riti religiosi, l'autorità competente in materia di applicazione e controllo delle
disposizioni particolari relative alla macellazione secondo i rispettivi riti religiosi è l'autorità religiosa
per conto della quale sono effettuate le macellazioni; questa opera sotto la responsabilità del
veterinario ufficiale per le altre disposizioni contenute nel presente decreto.
I titolari degli stabilimenti di macellazione presso i quali si intende macellare secondo determinati
riti religiosi comunicano all'autorità sanitaria veterinaria territorialmente competente, per il
successivo inoltro al Ministero della sanità, di essere in possesso dei requisiti prescritti” .
Rimane la deroga rispetto alla macellazione rituale esposta nell’ articolo 2, poiché il decreto
stabilisce che le disposizioni riguardanti l’ obbligo di stordimento “non si applicano alle macellazioni
che avvengono secondo i riti religiosi”.
Le operazioni di trasferimento, stabulazione, immobilizzazione, stordimento, macellazione o
abbattimento di animali possono essere effettuate solo da persone in possesso della preparazione
teorica e pratica necessaria a svolgere tali attività in modo umanitario ed efficace. Il personale che
esegue le operazioni relative allo stordimento deve essere in possesso di un adeguato grado di
qualificazione attestato dalla azienda unità sanitaria locale competente anche attraverso appositi
corsi di formazione.
Questo il quadro legislativo di riferimento; parallelamente, le associazioni islamiche italiane, nelle
bozze di intesa, proclamano una conquista già avvenuta nel 1980, e utilizzano tale vittoria nelle
richieste di tutela delle prescrizioni religiose: l’ articolo 6 della bozza d’ intesa dell’ UCOII stabilisce
che “ la macellazione eseguita secondo il rito islamico continua ad essere regolata dal decreto
ministeriale 11 giugno 1980, in conformità alla legge e alla tradizione islamica”, fondando tale
convinzione sul fatto che da un lato dal 1980 ad oggi nessun intervento ministeriale in materia ha
mutato il contenuto di quello originario, dall’ altro il decreto legislativo del 1998 sembra
palesemente ricomprendere la facoltà di deroga, determinando in certi punti forse più chiarezza,
come nel caso della titolarità del fedele responsabile della qualità di autorità competente.
Ferma restando una residua competenza regionale in tema di prevenzione sanitaria, il tema in
merito al permesso di macellazione rituale islamica ha acceso discussioni a livello locale sulla
legittimità di tali operazioni; in particolare proprio in Consiglio Regionale Emilia Romagna l’ ex
assessore alla Sanità Giovanni Bissoni, rispondendo in aula a due interrogazioni presentate da
due consiglieri41 che chiedevano delucidazioni sull’ attuale stato in Regione del trattamento degli
animali in operazioni di macellazione rituale, ha dichiarato: “ spetta comunque al veterinario
ufficiale dell’impianto presso il quale sono macellati animali secondo particolari riti religiosi, che
deve essere inserito, previo accertamento dei requisiti richiesti, nell’ apposito elenco ministeriale,
verificare il rispetto delle disposizioni previste dal Decreto in questione per evitare inutili sofferenze
41
I consiglieri regionali erano Alberto Balboni di A. N e Maurizio Parma di Lega Nord. Il contenuto della risposta data
dall’ Assessore è consultabile nel link dei comunicati stampa ( Bologna, 1 dicembre 2000) del sito www.regione.emiliaromagna.it.
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all’ animale nel corso della macellazione […]; lo stesso decreto definisce anche un’ autorità
religiosa che ha il compito di attestare la conformità delle macellazioni ai vari riti religiosi,
prevedendo comunque che sia tale autorità che gli operatori da essa incaricati operino sotto la
responsabilità del Veterinario Ufficiale dello stabilimento, sempre presente durante le operazioni di
macellazione negli stabilimenti riconosciuti a livello ministeriale [ … ] ; nell’ elenco ministeriale
risultano a tutt’ oggi inseriti dieci stabilimenti di macellazione dell’ Emilia Romagna” . 42
Conclusioni
Le macellerie islamiche in Italia oggi sono ormai numerosissime; in base agli ultimi dati statistici
rilevati dal Ministero della salute nel 2003 esistono circa 100 strutture di macellazione in deroga (
un quinto totale dei macelli italiani) in cui è possibile abbattere i capi animali secondo il rito
islamico descritto.
Rispetto a tale fenomeno che segna definitivamente – a mio modesto avviso – l’ingresso totale
dell’ imprenditoria musulmana nel mercato italiano, occorre porre alcune considerazioni finali.
- prendendo spunto da quanto affermato nella prima parte del mio intervento, sono certo che il
“network islamico” in Italia sia nato e stia crescendo per il tramite del fattore religioso che opera
come trait d’union tra gli immigrati provenienti dai paesi di forte influenza islamica;
- sono però altrettanto certo che, se è vero che la moschea ha avuto (ed ha tuttora) un ruolo fisico
di incontro e re – incontro etnico religioso in contesto immigrato, è altrettanto assodato che
ulteriore fattore di ri – unione sotto un unico network islamico siano oggi più che mai le macellerie
rivenditrici di carne halal;
- quest’ultimo fenomeno fa sì che la Umma musulmana immigrata possa da un lato avere un
chiaro punto di riferimento religioso culturale nelle città ( la macelleria halal richiama l’immigrato
musulmano al rispetto delle prescrizioni coraniche) dall’altro possa inserirsi nel mercato
economico italiano come alternativa forma di imprenditoria concorrente rispetto al paniere della
vendita di prodotti alimentari;
- i motivi per cui queste forme di impresa sono nate e sono in continua evoluzione sono a mio
avviso dovuti da un lato al mancato inserimento dell’ immigrato che per reazione e per un
eccessivo attaccamento alle proprie radici decida di aprire un esercizio capace di coinvolgere e di
attirare altri stranieri della stessa fede, dall’altro l’ avvenuto inserimento anche nel contesto
economico imprenditoriale fino al punto di accettare il rischio di mettere sul mercato prodotti che,
oltre a rendere noti usi e costumi propri dell’ Islam, potrebbero avere successi commerciali.
**Studio Legale de Capoa & Associati
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Decisamente diverso è apparso il tono di una mozione urgente al Presidente del Consiglio Regionale Lombardia del
22 gennaio 2001 in cui due firmatari della Lega Nord chiedevano di vietare su tutto il territorio regionale la
macellazione e la vendita di carni macellate senza il preventivo stordimento dell’ animale, di richiamare i comuni al
rispetto della normativa commerciale vigente, di mettere in atto da parte delle competenti autorità sanitarie locali,
particolari e rigidi controlli in occasione della festa del Sacrificio, per impedire la macellazione abusiva di ovini, di
spronare il Governo Italiano alla revoca del decreto ministeriale dell’ 11/6/1980, sull’ esempio di Germania, Austria,
Svezia, Olanda.
In Liguria, a Novi Ligure ( si legga la notizia su www.mucca.it) il Consiglio Comunale si era schierato totalmente contro
la macellazione, votando all’ unanimità una richiesta di accertamento della possibilità di sospensione della pratica
rituale islamica.
Sede legale: 00196 ROMA - Via Flaminia,
213
Tel. 06/32.12.00.98 - Fax 06/32.62.82.66
Presidente: Avv. Mario Pavone [email protected]
Direzione generale: 72017 Ostuni -Via Mazzini,
116
Tel./fax 0831-33.84.90
Segreteria generale: 85100 Potenza - Via Portasalza,
10
Tel./fax 0971-27.31.97
Avv. Mariagrazia Ruggieri [email protected]
ANIMI
Associazione Nazionale per l’immigrazione
PRESIDENZA
Diritto musulmano e dei paesi islamici
Università degli Studi di Bologna
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