L`intervista - Giorgio Bassani

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INCONTRO CON BASSANI.
Giorgio Bassani: l’immaginavo diverso. L’idea che avevo di lui si era
formata con la lettura dei suoi romanzi. Mi appariva indifferentemente
con il volto da ventenne dell’IO narrante del “Giardino dei Finzi Contini” o
con l’aspetto dell’adolescente di “Dietro la porta”. Avevo visto alcune sue
fotografie riprodotte su libri e giornali. E ne avevo sentito la voce alla
radio. Ma proprio non riuscivo a rappresentarmelo come fosse nella
realtà.
Bassani mi riceve, molto gentilmente, nella sua residenza ai Parioli, il
quartiere residenziale per antonomasia di Roma. Si presenta con i suoi
sessantatré anni, sorridente, occhi verdi, capelli radi. Di corporatura media
e tondeggiante, indossa una giacca all’inglese di tweed, come uno dei suoi
personaggi. Nel salotto, dove si svolge la nostra conversazione, libri sparsi
un po’ ovunque, sul divano, sui tavolini, sulla scrivania e disordinatamente
allineati negli scaffali. Per lo più sono suoi romanzi, molti in edizione
straniera, uno persino in caratteri cirillici. Nella libreria spiccano anche
volumi d’arte, una passione che risale agli anni giovanili dell’Università.
Bassani parla con accento indistinto, tipico di chi ha lasciato da tempo il
paese d’origine, perdendone i toni caratteristici. Si accende la pipa e, tra
una tirata e l’altra, risponde pazientemente alle domande.
Ogni tanto viene interrotto da qualche telefonata. Si intuisce subito che è
un uomo particolarmente attivo ed impegnato (accenna a conferenze da
tenere a Firenze e ad appuntamenti editoriali). Così il nostro colloquio non
potrà protrarsi. In meno d’un ora non si può pretendere dunque di
conoscere né l’uomo, né lo scrittore, ma dal breve dialogo, emergono lo
stesso molti aspetti interessanti della sua poetica e certamente si
chiariscono punti fondamentali del romanzo dei Finzi Contini.
La conversazione, per ovvi motivi, si circoscrive alla discussione di questo
testo. Quando chiedo di registrare, Bassani sembra un po’ perplesso. Poi,
da conferenziere navigato, prende il microfono, si accomoda meglio nella
poltrona e risponde senza indugi. Lo scrittore sottolinea i passi salienti,
modulando i toni della voce, talvolta si accende e si infervora, con il
carattere sanguigno e polemico del romagnolo. Soprattutto quando
ribadisce i punti centrali della sua poetica. Ecco, di seguito, la trascrizione
del nostro colloquio.
Domanda: - Professore, ormai le è stato chiesto tutto sul romanzo.
Centinaia di articoli, recensioni, interviste. Le domande più frequenti
vertevano su Micòl, sull’esistenza di questa enigmatica donna e sulla
realtà dei personaggi e dei luoghi dove si è svolta la vicenda. A distanza di
tanti anni (il libro uscì in prima edizione nel 1962. n.d.r.) c’è qualche cosa
che dovrebbe ancora dire, chiarire o aggiungere? Insomma, questi Finzi
Contini sono veramente esistiti e, come qualcuno ha scritto*, si possono
identificare con la famiglia ferrarese dei Finzi Magrini?
Risposta: - Assolutamente no. I Finzi Magrini non esistono. Esistono sì i
Magrini, ma non vi è analogia con questa famiglia. Semmai per quanto
riguarda Micòl, i Finzi Contini e i personaggi descritti nel romanzo,
possiamo dire che sono a metà tra la realtà e l’immaginazione.
Caratteri autentici, attribuibili a persone vere, si mischiano a caratteri
immaginari, scaturiti dalla mia fantasia. Anche se fosse esistita, Micòl
sarebbe pur sempre una proiezione di me.
I Finzi Contini in verità derivano da una famiglia aristocratica romana, i
Caetani di Sermoneta, e i luoghi che mi hanno ispirato l’ambientazione del
romanzo sono il parco che questi nobili possiedono a Ninfe, vicino a Latina
e l’orto botanico di Palazzo Corsi, dietro le Logge di Raffaello, a Trastevere.
Non avrei mai potuto scrivere “Il Giardino” se non avessi conosciuto il
magnifico parco dei Sermoneta e non avessi frequentato, con una certa
assiduità, l’orto botanico capitolino. Il giardino è dunque una sintesi, una
“summa”, delle varie donne che ho conosciuto nella mia giovinezza, che
ho amato e che ho avuto vicino e di Margherita Caetani. I caratteri di
quelle donne, che naturalmente non nomino e di Margherita,
costituiscono il personaggio-Micòl. E’ una donna perfettamente ideale,
quindi non esiste. Ripeto, è una proiezione sempre dell’autore. Così non
avrei potuto scrivere il libro se non avessi conosciuto quelle donne e non
fossi potuto penetrare nel giardino delle Ninfe.
Anche i personaggi minori sono in realtà mie creazioni, prodotti della mia
fantasia, forme del mio sentimento, il poeta non può fare a meno di
creare personaggi-forme del suo sentimento, quindi in parte veri, in parte
inventati. Guai se fosse il contrario, perché diventerebbero dei puri
pupazzi.
Domanda: - Analizzando il testo ho individuato due punti cardine della
struttura narrativa: il piano della memoria e il carattere sostanzialmente
“ambiguo” sia dei personaggi che della vicenda. Spiego subito l’accezione
del termine “ambiguo” che uso in senso lato e positivo. Ciò che accade nel
racconto, non si ha mai la certezza che sia veramente accaduto. Ad
esempio, che cosa ci sia stato tra Micòl e Malnate, nessuno lo sa.
Sussistono gli indizi che presuppongono un rapporto tra i due, ma manca
una diretta constatazione, del protagonista, quindi del Narratore e dei
lettori. Rimane, insomma, il dubbio.
E gli stessi personaggi, come si può vedere dall’analisi dei singoli, sono
contradditori, complessi e persino enigmatici. E’ d’accordo su queste
considerazioni?
Risposta: - Sì, certo. L’ambiguità però è dovuta non al fatto che io ami
l’ambiguità, ma al fatto che io intenda essere credibile. Io racconto cose di
cui effettivamente non so, né posso sapere. Se avessi saputo veramente,
non avrei potuto scrivere il romanzo. Io parlo di persone che si suppone
siano realmente vissute. E siccome ritengo che l’io profondo sia ineffabile,
non posso permettermi di indagare, di dire di sentimenti che non posso
sapere, né conosco.
Domanda: - A questo punto le chiedo se il film, che non rispetta questo
carattere di ambiguità, ma mostra e dice tutto chiaramente, non tradisca
un aspetto fondamentale del romanzo.
Risposta: - Il film infatti non è credibile, non è attendibile. L’ambiguità del
romanzo è dovuta ad una precisa persuasione. D’altra parte se avessi
saputo una vicenda di questo tipo, non l’avrei raccontata. Scusi, lei
racconterebbe al pubblico la storia di una persona che ha molto amato?
Ma scherziamo? Io racconto un fatto del genere. Perché lo racconto? Ah,
perché sono un artista! Ma noo!! Io ho potuto raccontare la storia perché
non la so. Uno degli elementi fondamentali che consentono a me di
raccontarla è che non la conosco nei suoi termini reali, non la conosco
perché non posso saperla.
Domanda: - Il piano della memoria nel film risulta al quanto posticcio.
L’istanza narrativa si svolge in senso diacronico, lasciando pochi spazi a
brevi flash-back che hanno il compito di ricordare avvenimenti passati.
Invece nel testo letterario i livelli temporali e il discorso della memoria
rivestono un’ importanza ben diversa, giocando un ruolo portante nella
struttura della narrazione.
Risposta: - Sì, però attenzione. La memoria non è la memoria di Proust,
non è la madeleine. E’ la memoria di uno storicista, di uno che pretende di
scrivere la storia di un avvenimento che appartiene alla sua vita privata.
Quindi per forza io cerco di recuperare il passato, parte per il gusto di
essa, ma al tempo stesso per la volontà morale di conoscerlo.
Domanda: - L’analisi strutturale del racconto ha evidenziato un gran
numero di livelli temporali. Quando ha scritto il romanzo aveva
predeterminato un piano della fabula e uno dell’intreccio? Sembrerebbe
di sì. Il calendario è rispettato al millesimo; giorni, mesi e anni collimano
perfettamente, non si trova una sfasatura cronologica e gli episodi si
incastrano come scatole cinesi. Un’operazione del genere appare davvero
come alta chirurgia letteraria.
Risposta: - No, perché mi sforzavo di essere attendibile. La precisione non
è un fatto della mia testa. Io posso anche aver compilato elenchi di tempi
e di cose, ma un risultato di questo genere nasce sempre dalla pretesa di
raccontare una storia vera.
Vera in tutti i sensi, in termini temporali, psicologici, morali. Per forza i
tempi, i giorni dovevano essere esatti.
Domanda: - La memoria di solito non è precisa. Col passare del tempo i
ricordi sbiadiscono, sfumano, si annebbiano e vengono mediati dal
presente. Non avverte il contrasto di ricordare il passato con l’esattezza
del presente?
Risposta: - Sì, ma io sono uno storicista. Volevo fare la storia. E allora uno
storicista se non bada al tempo, ai giorni, alle date… Scusi, abbia pazienza!
Certo c’è l’afflato, diciamo sentimentale, ma c’è la volontà dello storicista.
Si ricordi che io sono anche un saggista e dunque al romanzo applico le
pretese del saggismo, della filologia.
Domanda: - Ancora ho notato, nell’analisi semiologica, l’importanza del
telefono, il ruolo che questo oggetto svolge nei meccanismi dell’azione e
nel campo dei significati.
Risposta: - E’ vero, il telefono è molto importante (perché è uno
strumento di forza mentale) in un libro di questo tipo fatto di unioni e di
separazioni. Il muro. Lei pensi alla fatica che io faccio, che il Narratore fa,
per entrare nel giardino. Lì sì che uno schema è costruito apposta. Di fatto
io parto da Roma (scrivo da un luogo centrale della nazione e della
lingua). Stando a Roma scrivo la gita a Cerveteri. Dopodiché comincio a
partire da Roma per arrivare a Ferrara. Ma a Ferrara, a cui sono già
pervenuto con le “Storie ferraresi” (che sono la prima parte del “Romanzo
di Ferrara”, ma che non mi hanno permesso di entrare nel cuore della
città) sono entrato, rimanendo però ai margini, non entrandoci mai io
personalmente. Fintanto che io arrivo al muro. La prima parte del
“Giardino” non va oltre il muro. Poi entro. Nella seconda parte si entra nel
giardino, ma non si arriva alla casa. Nella terza parte si entra nella casa,
ma non si arriva ancora alla fine. Ah, per arrivare al centro… Nella quarta
parte si arriva alla camera di Micòl dove il viaggio è finalmente compiuto.
Senonché arrivato dentro la camera di Micòl accade un fatto: io non entro
in Micòl. Non la “scopo” per dirla in termini chiari.
Quindi è la storia di un viaggio verso la verità e di un fallimento, di uno
scacco finale.
Ed è per questo che io racconto la storia, scrivo il libro.
La vicenda scorre piano, piano, fino al nodo fondamentale per possedere
tutta la realtà. E la realtà non la possiedo, non la posso possedere perché
c’è lo scacco.
Questo fa parte della mia filosofia che è di tipo idealistico: la realtà non si
può possedere tutta fino in fondo. Quindi è una specie di “fabula”
idealistica.
Il telefono in un contesto di questo tipo, è uno strumento magico, perché
unisce e divide. Ed è proprio quello strumento che permette di entrare
nella camera di Micòl ed è soprattutto quella cosa che entra dentro senza
entrarci!
Il romanzo dei Finzi Contini, in sostanza, è la storia di un tentativo di
penetrazione, di entrare dentro una realtà. Ed è la storia di un fallimento:
non si può entrare!
Il telefono dunque è il simbolo di questa entrata, ma non è totale.
Domanda: - Qualcuno ha detto che il romanzo è la storia di Micòl, altri
hanno posto l’accento sulla sfortunata vicenda d’amore tra Giorgio, cioè
l’IO Narrante (scusi il lapsus) e Micòl, altri ancora che si tratti di un
affresco di Ferrara e dell’Italia di quel periodo. Non sono poi passati in
secondo piano i temi delle persecuzioni razziali e della comunità israelitica
ferrarese, o quello, assai suggestivo per ogni scrittore, della saga familiare.
Probabilmente il romanzo non è formato da uno o più di questi temi, ma
da tutti quanti assieme che ne costituiscono allo stesso tempo lo sfondo e
il proscenio. Tuttavia vorrei chiederle, se un piano, tra i vari, emerge
privilegiato.
Risposta: - E’ la mia storia! Il piano privilegiato è quello del poeta. Io
racconto di me. Micòl non è altro che una parte di me. “Madame Bovary
c’est moi!” dice Flaubert. Ma naturalmente è la mia storia, la storia della
mia vita, della mia sensibilità, e soprattutto della mia idea generale del
mondo, cioè della mia filosofia.
Quindi non ha alcun rapporto con Proust. La mia filosofia insomma è
quella di uno storicista. Proust è ben altra cosa…
Domanda: - Il romanzo si presenta molto bene ad un’analisi semiologica
delle stagioni. L’estate, la vera estate, con il sole, il cielo limpido e il caldo
la troviamo una volta sola, nell’incontro del ’29 tra l’IO Narrante e Micòl. I
due sono ancora ragazzini. Estate, simbolo dunque di vita, di adolescenza,
di gioia e di amore. Nel racconto non capiterà più. L’Io narrante penetra
nel giardino negli ultimi giorni d’estate del ‘38 e la vicenda scivola
nell’autunno. I colori tendono a sfumare, si smorzano in tinte sempre più
grigie. Sino a quando piove e si rompe l’incanto della stagione clemente. A
livello narrativo è l’inizio del precipitare degli avvenimenti.
La giovinezza se ne va insieme all’autunno, per lasciare il posto all’inverno,
al freddo, alla deportazione, alla morte dei Finzi Contini, di Malnate e alla
presa di coscienza del protagonista. Il giardino appare come un paesaggio
lunare, nel bianco candore della neve. Gli alberi sono scheletriti. L’inverno
e la morte passano travolgendo tutto e tutti.
Pensa che sia lecito questo tipo di analisi e trova corrette queste
affermazioni?
Risposta: - Sì, sono d’accordo. Certo, tutto è calcolato, tutto è significante.
Nel testo ogni particolare significa. Ma ritengo che ogni libro “poetico”,
che abbia pretese di essere “poetico”, sia così.
Io non sono un mestierante. Ho scritto il Giardino perché volevo parlare
di me. “Parvissima licet”, come ha detto il nostro sommo e grande Dante.
E’ un po’ lo stesso rapporto: Dante ha la pretesa di voler essere un vero
poeta, ma con la sua cultura e le sue preoccupazioni filosofiche e
religiose. La Commedia è sì la storia del Paradiso, dell’Inferno, ma è
soprattutto la sua storia “mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via
era smarrita”. Lui parla di sé. Allo stesso modo nel romanzo dei Finzi
Contini io parlo di me, il personaggio fondamentale non è né Micòl, né
Ferrara, SONO IO!
Nella vaghezza, nell’imprecisione, nella riluttanza a dire “IO” che ha la
letteratura del ‘900, e non senza motivo, spero di aver riconquistato il
diritto di dire “IO”, dopo il Romanticismo, il Decadentismo e così via. Ecco
cos’è.
Domanda: - Un’ultima domanda sull’Io Narrante quando racconta i suoi
studi universitari, Bologna, il professor Longhi, etc. I vari riferimenti
biografici sparsi qua e là nel romanzo, corrispondono alla sua vita?
Risposta: - Quasi. Non l’ho fatto per fare dell’autobiografia mi serviva per
dare credibilità al personaggio che dice IO, che è uno che ha fatto la mia
storia. Assomiglia molto da vicino a me. E lo stesso professor Ermanno mi
assomiglia molto, è parte di me. Quindi mi sono servito dei miei studi
universitari per attribuirli all’IO Narrante.
Roma, 27 Aprile 1979
*Arnaldo Geraldini, L’inquietante Micòl non è dunque esistita?, in Corriere
d’informazione, Milano, 1962.
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