Anna PINAMONTI “CAPACITÀ E PROCESSO” I INDICE INTRODUZIONE p. 1 CAPITOLO I L’INCAPACE LEGALE COME PARTE NEL PROCESSO A) L’INTERDETTO NEL PROCESSO DI INTERDIZIONE: 1. Il giudizio d’interdizione: capacità e legittimazione dell’interdicendo p. 5 2. Il giudizio di revoca dell’interdizione prima della legge 6/2004 p. 10 3. (segue) Dopo la legge 6/2004 p. 15 4. Il principio della domanda nei giudizi di interdizione e di inabilitazione p. 16 B) L’INTERDETTO NEI GIUDIZI VERTENTI SU DIRITTI NON PATRIMONIALI: 5. I diritti personalissimi e il problema della loro azionabilità p. 22 6. Azione di divorzio: può l’interdetto agire in giudizio? p. 25 7. (segue) La soluzione della Cassazione p. 29 8. Autorizzazione ad interrompere le cure e questioni di legittimazione p. 34 CAPITOLO II L’INCAPACE NATURALE COME PARTE NEL PROCESSO 1. Premessa d’inquadramento: utilità e problemi dell’istituto dell’incapacità II naturale p. 41 2. Quando il ricovero in manicomio poteva sostituire l’interdizione p. 44 3. La Cassazione sancisce il principio dell’irrilevanza: l’incapacità naturale di un soggetto non ne determina l’incapacità processuale p. 50 4. La regola dell’irrilevanza e gli interessi in gioco p. 55 5. Problematiche costituzionali: è leso il diritto di difesa dell’incapace naturale? p. 56 6. Le soluzioni alternative dei giudici di merito per i casi di urgenza p. 62 7. (segue) La nomina del curatore speciale di cui all’art. 78 c.p.c. p. 63 8. (segue) I “provvedimenti urgenti” del giudice tutelare p. 67 9. Riflessioni e proposte: ciò che ancora non soddisfa gli interpreti p. 69 CAPITOLO III IL NUOVO MODELLO DELL’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO: QUESTIONI PROCESSUALI E PROFILI COMPARATISTICI A) QUESTIONI PROCESSUALI RELATIVE ALL’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO: 1. Inquadramento dell’istituto p. 75 2. La natura del procedimento e il “rompicapo” della difesa tecnica p. 78 3. (segue) Giurisdizione volontaria e difesa tecnica p. 80 4. (segue) Gli elementi da cui dipende la scelta sulla difesa tecnica. p. 89 5. (segue) La soluzione della Cassazione. Critiche e consensi p. 97 6. Procedure di raccordo fra le misure di protezione dei soggetti deboli p. 105 7. (segue) Dall’interdizione all’amministrazione di sostegno p. 107 8. (segue) Dalla revoca dell’interdizione all’amministrazione di sostegno p. 116 9. (segue) Dall’amministrazione di sostegno all’interdizione p. 121 10. (segue) Problemi di sovrapposizione fra procedimenti nel passaggio p. 125 dall’amministrazione di sostegno all’interdizione III B) PROFILI DI DIRITTO COMPARATO: 11. Cenni sulle misure di protezione dei soggetti deboli in una prospettiva comparata p. 129 12. I modelli austriaco e tedesco p. 130 13. Il modello inglese p. 136 CONCLUSIONI E PROSPETTIVE p. 143 BIBLIOGRAFIA p. 159 INDICE DELLE SENTENZE p. 165 IV INTRODUZIONE Un titolo vago e potenzialmente onnicomprensivo come “capacità e processo” necessita di essere chiarito, specificando qual è l’oggetto della ricerca. È bene dire subito che questo non vuole essere uno studio monografico sulla capacità nel processo; non è una dissertazione attorno all’articolo 75 del codice di procedura civile e ai noti concetti di capacità processuale e di legittimazione. L’indagine ha ad oggetto, piuttosto, un insieme di situazioni concrete che riguardano la capacità (rectius, l’incapacità) nel contesto del processo. A che condizioni un incapace legale può stare nel giudizio che lo vede come parte? Può un interdetto proporre la domanda di revoca della propria interdizione? Può divorziare? Un incapace naturale compie validamente gli atti processuali? Il beneficiario dell’amministrazione di sostegno di sostegno è un “incapace”? Ecco alcune delle questioni che hanno fornito lo stimolo per questo studio. L’ambito soggettivo dell’indagine è costituito dalle seguenti categorie di soggetti: gli interdetti, gli inabilitati, i beneficiari dell’amministrazione di sostegno, gli incapaci naturali. Per raggruppare queste categorie sotto un'unica definizione si potrebbe dire: i “soggetti (maggiorenni) privi in tutto o in parte di autonomia”, ricalcando l’espressione usata dal legislatore in apertura del titolo XII del codice civile. L’ambito oggettivo dello studio è costituito dai processi in cui tali soggetti sono parte. Nel capitolo primo si parlerà, innanzitutto, dei giudizi che determinano lo status di incapace legale: saranno oggetto di esame il processo di interdizione e di inabilitazione, con particolare attenzione al ruolo che in esso assumono l’interdicendo e l’inabilitando. Nella seconda sezione dello stesso capitolo saranno analizzati altri peculiari giudizi in cui un incapace legale agisce o è convenuto (ad esempio, il processo di divorzio). Nel capitolo secondo 1 si tratterà, invece, dei processi in cui è parte un incapace naturale: si esamineranno specialmente gli effetti che questa incapacità di fatto produce nel processo, e le problematiche di carattere costituzionale con cui essa risulta inscindibilmente connessa. Nel terzo capitolo l’oggetto d’analisi sarà l’istituto dell’amministrazione di sostegno, introdotto con la legge 6/2004, e in modo particolare saranno esaminati alcuni profili che caratterizzano il relativo procedimento: questo tema costituisce lo snodo principale e più attuale di questa ricerca, perciò esso sarà oggetto di particolare approfondimento. L’argomento di indagine potrebbe, complessivamente, essere definito così: quali caratteristiche peculiari assume il processo in cui è parte un soggetto “debole”. Ancora: che cosa può e che cosa invece non può fare il soggetto “debole” in quanto parte processuale; chi ha il compito di sostituirlo o di fornirgli assistenza nel processo; che rilievo assume, nel procedimento, la sua condizione di infermità o di incapacità. Due puntualizzazioni preliminari sono d’obbligo. Innanzitutto, l’indagine abbraccia un settore che è in profonda evoluzione. La legge 9 gennaio 2004, n. 6 ha operato una riforma di ampio respiro delle misure a protezione dei soggetti deboli: ha introdotto un nuovo istituto, l’amministrazione di sostegno, ed ha operato una riscrittura dell’interdizione e dell’inabilitazione. La riforma ha investito non solo gli aspetti sostanziali degli istituti, novellando il capo I ed il capo II del titolo XII del codice civile, ma ha anche modificato la loro dimensione processuale, e quindi la disciplina contenuta nel codice di rito. Buona parte dei punti che si tratteranno – in particolare, tutto il capitolo terzo – hanno dunque un riferimento normativo molto recente, e molte questioni hanno un assetto ancora da definirsi, dei contorni ancora in fieri. Di un quadro instabile e in trasformazione si può parlare, a maggior ragione, alla luce di un nuovo progetto di riforma, che presto sarà al vaglio delle camere: si tratterà di una riforma, se possibile, ancora più radicale di quella del 2004. La seconda puntualizzazione da fare è la seguente: i temi che si 2 tratteranno non sembrano costituire oggetto di particolare interesse per la dottrina. In particolare, della capacità di agire delle persone e degli aspetti sostanziali degli istituti di protezione si sono occupati alcuni civilisti, che da ben prima della riforma del 2004 avevano evidenziato i punti di forza e (soprattutto) di debolezza del sistema. Molte parole sono state spese, poi, sulla legge di riforma e sull’istituto dell’amministrazione di sostegno, in particolare sulla sua disciplina sostanziale, che è stata ed è tuttora, se così può dirsi, “sotto i riflettori”: ma anche in questo caso ad occuparsene è stata una nicchia di autori particolarmente sensibili a tali temi. Se ci si sposta sul piano processuale il dibattito, come una rete le cui maglie si distanziano, si fa più rado. La riforma del 2004 ha destato l’attenzione di alcuni processualcivilisti, ma lo scambio di opinioni è discontinuo, frammentato: molto è stato detto su una singola questione, quale quella del patrocinio nel procedimento di amministrazione di sostegno, e quasi nulla su altre importanti problematiche. Praticamente ignorata è, poi, la tematica della rilevanza processuale dell’incapacità naturale; del tutto trascurate e, così, sottovalutate le questioni di carattere costituzionale che essa racchiude. Anche i profili comparatistici dell’argomento non risultano particolarmente approfonditi: si danno alcuni scarni contributi sulle misure di protezione dei soggetti deboli vigenti negli ordinamenti europei, ma oggetto di attenzione è solo la dimensione sostanziale, mentre nulla viene detto sulla disciplina processuale. Se le due puntualizzazioni appena effettuate si sommano – la profonda evoluzione che investe il settore da un lato, e la scarsa attenzione del mondo giuridico dall’altro – ne risulta un’indagine piuttosto complessa, un quadro molto articolato e poco lineare, in cui spesso si calpestano terreni poco battuti. Di conseguenza, non si effettuerà una dissertazione ordinata su istituti o su concetti dai tratti ben delineati; non si adotterà un approccio sistematico, ma piuttosto problematico, per riflettere sulle numerose questioni ancora aperte. 3 4 CAPITOLO I L’INCAPACE LEGALE COME PARTE NEL PROCESSO SOMMARIO: A) L’INTERDETTO NEL PROCESSO DI INTERDIZIONE: 1. Il giudizio d’interdizione: capacità e legittimazione dell’interdicendo – 2. Il giudizio di revoca dell’interdizione prima della legge 6/2004. – 3. (segue) Dopo la legge 6/2004. – 4. Il principio della domanda nei giudizi di interdizione e di inabilitazione. B) L’INTERDETTO NEI GIUDIZI VERTENTI SU DIRITTI NON PATRIMONIALI: – 5. I diritti personalissimi e il problema della loro azionabilità. – 6. Azione di divorzio: può l’interdetto agire in giudizio? – 7. (segue) La soluzione della Cassazione. – 8. Autorizzazione ad interrompere le cure e questioni di legittimazione. Sezione A): L’INTERDETTO NEL PROCESSO DI INTERDIZIONE 1. Il giudizio d’interdizione: capacità e legittimazione dell’interdicendo. La sentenza di interdizione determina la perdita della capacità di agire, e quindi anche della capacità processuale, da parte del soggetto destinatario del provvedimento. L’art. 421 c.c. prevede che tali effetti si producano immediatamente, sin dalla pubblicazione della sentenza, senza neanche dover attendere il passaggio in giudicato. Da questo momento in poi è preclusa all’incapace – divenuto incapace legale – ogni valida attività negoziale e processuale. Vi è, tuttavia, un’importante eccezione a tale regola generale, prevista dal codice civile sin dalla sua stesura originaria. L’eccezione è espressa dall’art. 716 c.p.c., inserito fra gli articoli che trattano del procedimento di interdizione. Tale disposizione prevede che l’interdicendo, cioè il soggetto che al termine del processo di interdizione sarà eventualmente dichiarato incapace legale, 5 conservi integra la propria capacità processuale ed integro il potere di compiere gli atti processuali in tale processo. Non solo, perché altrimenti si potrebbe obiettare che non vi è nulla di eccezionale in ciò, osservato che nessun effetto può prodursi in capo all’interdicendo fino a quando non c’è pubblicazione della sentenza: nel potere di compiere da solo tutti gli atti processuali, l’art. 716 c.p.c. comprende anche le impugnazioni, che il soggetto – ora interdetto – potrà esperire in via del tutto autonoma. Anche qualora, nel corso del processo, sia stato nominato un tutore provvisorio dell’incapace ai sensi dell’art. 419 co. 3, limitatamente a tale giudizio la capacità processuale dell’interdicendo non viene toccata, e il tutore provvisorio non assume, in tale contesto, le vesti di rappresentante processuale1. La Cassazione ha più volte colto l’occasione per spiegare questa previsione normativa: l’esigenza è quella di assicurare piena tutela all’interesse del soggetto a mantenere integra la propria capacità di agire, “quale interesse primario, inerente alla sfera dei diritti della personalità dell’individuo”2. Questa esigenza, prosegue la Corte, non sarebbe soddisfatta appieno se il soggetto fosse privato della capacità processuale proprio nel giudizio che decide sulla sua capacità. Il ragionamento della Cassazione è chiaro e condivisibile: un procedimento destinato a concludersi con una sentenza tanto invasiva per il destinatario, non può privarlo di una capacità – quella processuale – prima ancora che sia divenuto definitivo il provvedimento che lo costituisce come incapace. È interessante notare come la Corte parli di “esigenza di tutelare l’interesse a mantenere integra la propria capacità”. Può sembrare ovvio: l’interdicendo è interessato a conservare la propria capacità, dunque gli sia consentito di difendersi appieno. Pare ovvio, eppure questa impostazione stride molto con l’idea di interdizione come strumento di protezione: dottrina e giurisprudenza Cfr. sul punto VENCHIARUTTI, La protezione civilistica dell’incapace, Milano, 1995, p. 198. Così si esprime la Corte di cassazione in Cass., sent. 4 luglio 1967, n. 1643, in Giust. Civ., 1967, I, p. 1616. 1 2 6 sono solite parlare di strumenti di tutela degli incapaci, di protezione dei soggetti deboli, del tutore che, attraverso l’istituto della rappresentanza, tutela l’interdetto e cura i suoi interessi. Viene da chiedersi se l’interdizione sia un istituto, ma anche un procedimento, a favore o contro l’incapace. Questa domanda apre orizzonti fatti di dibattiti sconfinati e di perplessità non ancora sopite, ma che è opportuno non risvegliare completamente. L’impressione è che oggi l’interdizione infastidisca ed imbarazzi quasi tutti: gran parte della dottrina, che da oltre vent’anni la condanna come obsoleta e stigmatizzante; la giurisprudenza, che la applica sempre meno di frequente, ricorrendo invece al nuovo strumento dell’amministrazione di sostegno, più agile ed attento alle esigenze della persona. La riforma attuata dalla legge 6/2004, però, la ha lasciata in vita, pur con modifiche e ritocchi; e nonostante tutto c’è ancora chi ritiene, in ambedue gli altri formanti, che la vecchia, odiata interdizione sia ancora utile, in certi casi3. Da un punto di vista processuale, il procedimento di interdizione è sempre stato oggetto di confronti e di scontri: il nucleo da cui tutte le discussioni si dipartono è la questione dell’interesse tutelato. Qui si torna alla domanda che viene spontaneo porsi, cioè chi o che cosa tuteli l’interdizione, e contro chi o contro cosa si ponga. Se si osserva l’interdizione attraverso la lente del processo, si riescono a mettere a fuoco gli scopi che il legislatore ha inteso attribuire all’istituto 4. Si prendano in esame i numerosi elementi di natura inquisitoria che caratterizzano tale giudizio: poteri ufficiosi del giudice molto incisivi, intervento necessario del pubblico ministero, esame dell’interdicendo Cfr. le perplessità espresse da CHIARLONI, Prime riflessioni su alcuni aspetti della disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno, in FERRANDO (a cura di), L’amministrazione di sostegno. Una nuova protezione dei soggetti deboli, Milano, 2005, p. 153-154; parimenti, rItiene l’interdizione ancora indispensabile MARTINELLI, , Interdizione e amministrazione di sostegno, in FERRANDO (a cura di), ult. cit., p. 140-141. 4 TOMMASEO, Sui profili processuali dell’interdizione e dell’inabilitazione, in Giur. It., 1987, IV, p. 202. 3 7 obbligatorio ma più simile ad un’ispezione giudiziale; chi propone la domanda, con ricorso, non è chiamato a prendere conclusioni ma solo ad esprimere pareri5 (art. 717 c.p.c.). A potenziare questo quadro vi era, originariamente (prima della riforma del 2004), un ulteriore elemento: l’interdizione aveva natura obbligatoria, per cui essa doveva essere pronunciata (art. 414) tutte le volte che se ne ravvisassero le condizioni (e cioè una permanente infermità mentale tale da rendere impossibile il manifestarsi di una volontà libera e consapevole). Da tali caratteristiche emerge chiaramente che sarebbe un “fallace luogo comune”6 scorgere nell’interdizione (soltanto) una forma di tutela degli incapaci. L’analisi del processo di interdizione mostra che essa è anche altro, soprattutto altro. Essa è anzitutto strumento di tutela di un interesse pubblico: l’interesse dell’ordinamento al normale svolgimento del traffico giuridico e dei rapporti intersoggettivi, all’osservanza della disciplina dei rapporti contrattuali, al rispetto delle regole di convivenza sociale. Un soggetto che si pone al di fuori della regole di convivenza sociale e non osserva la disciplina dei rapporti contrattuali desta preoccupazione ed allarme nella società: il legislatore ha individuato nell’interdizione uno strumento per arginare, per contenere questo allarme. Per questo il dettato originario del codice civile prevedeva che, ricorrendone i presupposti, l’interdizione doveva essere pronunciata. Per questo i poteri ufficiosi del giudice sono così pregnanti che in pratica egli non è chiamato a decidere sulla base di una domanda di parte in senso tecnico, ma sulla semplice base della sussistenza di una situazione oggettiva (i presupposti della pronuncia), di cui i legittimati all’azione costituiscono mere “fonti d’informazione”7. Con il ricorso introduttivo, ha affermato un’illustre dottrina, non viene esercitato alcun diritto soggettivo Così si esprime TOMMASEO, Sui profili processuali dell’interdizione e dell’inabilitazione, cit., p. 204. 6 Queste sono, nuovamente, le parole di TOMMASEO, Sui profili processuali dell’interdizione e dell’inabilitazione, cit., p. 204. 7 TOMMASEO, ult. cit., ivi. 5 8 d’azione, semplicemente si mette al corrente il giudice che ci sono le condizioni per provvedere8. È come se si trattasse, diceva già Chiovenda9, di un processo diretto contro l’incapace, e non in suo favore. Fino alla riforma del 9 gennaio 2004, un atro elemento rafforzava questa lettura: l’art. 417 c.c. non prevedeva, nell’elenco dei legittimati a chiedere l’interdizione, lo stesso infermo di mente. Oltre a p.m., tutore o curatore, coniuge, parenti ed affini, non figurava l’incapace. Il silenzio della legge veniva interpretato da parte della dottrina e da una pressoché costante giurisprudenza come un’evidente esclusione10. Un infermo psichico non poteva dunque chiedere la propria interdizione; conservava la capacità processuale, quella sì, una volta che il giudizio fosse stato instaurato da parte di uno dei legittimati, elencati all’art. 417 c.c.. È certo che, in quest’ottica, l’interdizione perdeva anche il più esile valore di protezione: quale protezione si poteva realizzare, se il soggetto da proteggere non poteva richiederla, e doveva invece attendere l’iniziativa di qualcun altro (per esempio sollecitando il p.m.)? Come rileva qualcuno, solo concependo il procedimento più come una sanzione che come una forma di tutela poteva giustificarsi tale esclusione11. Vi era, d’altro canto, una parte minoritaria della dottrina che, fuori dal coro, riteneva impensabile che il legislatore, non menzionando l’infermo, avesse inteso negare la sua legittimazione ad agire12. Costoro argomentavano dal fatto che moltissime norme non dicono solamente perché “non ce n’è bisogno”: e infatti, essi si chiedevano come era possibile escludere dal novero dei legittimati Così affermava già REDENTI, Natura del processo d’interdizione e conseguenze sulle spese, in Scritti e discorsi giuridici di un mezzo secolo, I, Milano, 1962, p. 596. 9 CHIOVENDA, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1965, p. 320: egli parla di “volontà di legge da attuare contro l’interdicendo”. 10 Così ad esempio BRUSCUGLIA, L’interdizione per infermità di mente, Milano, 1983, p. 417 ss.; allo stesso modo PESCARA, Interdizione e inabilitazione, in Trattato di diritto privato, diretto da RESCIGNO, III, 4, Torino, 1982, p. 736. 11 Questa perplessità è sollevata da NAPOLI, L’infermità di mente, l’interdizione, l’inabilitazione. Artt. 414-432, in Il codice civile. Commentario, diretto da SCHLESINGER, Milano, 1995, p. 170. 12 Di questa opinione era, ad esempio, SATTA, Commentario al codice di procedura civile, IV, I, Milano, 1968, sub art. 712, p. 330; quindi anche NAPOLI, L’infermità di mente, l’interdizione, l’inabilitazione, cit., p. 170 ss. 8 9 i soggetti che in primis erano portatori dell’interesse diretto alla dichiarazione giudiziale di incapacità13. Ma quale sia l’interesse in gioco, si è visto, tutto è fuorché una domanda dalle risposte univoche. La legge n. 6 del 2004, apportando rilevanti modifiche alla disciplina dell’interdizione e dell’inabilitazione, è intervenuta a fugare ogni dubbio in tema di legittimazione: il nuovo articolo 417 c.c. ha operato un rinvio agli articoli 414 e 415 c.c. ed ha così incluso esplicitamente l’interdicendo e l’inabilitando tra i soggetti legittimati alle azioni. Un soggetto può oggi validamente proporre ricorso chiedendo di essere interdetto; oltre che conservare la capacità processuale e la legittimazione a compiere gli atti del processo d’interdizione, ora egli è anche positivamente legittimato ad agire per richiederla. La modifica, da un punto di vista pratico, non ha forse un rilievo fondamentale (i casi di soggetti che si rivolgono al giudice per chiedere la propria interdizione erano e restano obiettivamente pochi). La novella, tuttavia, è stata salutata con favore perché dà riconoscimento ad uno degli interessi in gioco (che comunque non è il solo), e pare delineare una nuova fisionomia dell’interdizione, più orientata ad una reale protezione dell’infermo che non alla sua esclusione dalla società civile14. Certamente, chi già prima si era espresso in favore della legittimazione dell’infermo, perché la riteneva l’unica cosa possibile e ragionevole, si sarà chiesto se era proprio necessario un intervento del legislatore per avvallare ciò che pareva così ovvio. 2. Il giudizio di revoca dell’interdizione prima della legge 6/2004. Così si esprime NAPOLI, L’infermità di mente, l’interdizione, l’inabilitazione, cit., p. 170 ss. Questo è quanto sostiene BARCA, La riforma dell’interdizione e dell’inabilitazione, in FERRANDO-LENTI (a cura di), Soggetti deboli e misure di protezione: amministrazione di sostegno e interdizione, Torino, 2006, p. 311. 13 14 10 È utile ripetere che, anche prima dell’intervento legislativo del 2004, parte della dottrina riteneva che gli articoli in tema di legittimazione (in particolare gli artt. 417 c.c., 716 e 720 c.p.c.) dovessero essere interpretati in un senso meno letterale, perché non era possibile che il legislatore volesse escludere proprio i soggetti che intendeva, con tali istituti, tutelare. Il ragionamento era pressappoco questo: se tali soggetti sono portatori di un interesse diretto alla dichiarazione giudiziale di incapacità (elemento questo, come visto nel paragrafo precedente, tutt’altro che pacifico), allora essi devono essere compresi fra i legittimati; se il legislatore non li ha espressamente menzionati è perché era talmente ovvio che fosse così, che non c’era bisogno di una esplicita previsione. Questa logica veniva applicata, alla stessa maniera, in riferimento alla domanda di revoca di interdizione e inabilitazione. Della revoca trattano gli articoli 429 e 430 c.c., nonché l’art. 720 c.p.c.. L’art. 429 c.c. afferma che la revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione può essere chiesta, e disposta, “quando cessa la causa dell’interdizione o dell’inabilitazione”. L’instaurazione di tale giudizio si basa sul mutamento di un presupposto di fatto: il venir meno dell’infermità totale o parziale di mente che aveva condotto alla sentenza di interdizione, ormai passata in giudicato. La revoca si spiega con un principio che sta alla base del sistema delle incapacità “dichiarate”(o legali): quello della tendenziale corrispondenza fra incapacità legale, dichiarata dal giudice, ed incapacità naturale – l’incapacità di intendere e di volere di cui all’art. 428 c.c.. Il principio, d’altra parte, è in linea con quello della reversibilità della causa di incapacità15. L’art. 720 c.p.c. rimanda, per la disciplina del giudizio di revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione, alle norme stabilite per la pronuncia di esse. Dal punto di vista processuale, dunque, la dichiarazione di interdizione e la revoca di essa non si discostano: la domande si propongono con ricorso, e il giudizio è di quel tipo prima descritto, avente caratteristiche marcatamente Per approfondire questo tema, v. NAPOLI, L’infermità di mente, l’interdizione, l’inabilitazione, cit., p. 313. 15 11 inquisitorie16. La prospettiva, rispetto al giudizio di interdizione, ovviamente è invertita, ma gli interessi in gioco sono gli stessi: accanto ad un interesse individuale del soggetto c’è sempre, a fare da contrappeso, quello pubblico, della collettività, che spesso può essere di segno opposto al primo. Della legittimazione attiva a chiedere la revoca dell’interdizione parlano due articoli: uno esplicitamente, l’altro mediante un richiamo alla disciplina sulla pronuncia dell’interdizione. In modo esplicito lo fa l’art. 429 c.c., che elenca i soggetti che possono chiedere la revoca: coniuge, parenti, affini, curatore o tutore, pubblico ministero; non vi è menzione del soggetto interdetto o inabilitato. In maniera implicita lo fa l’art. 417 c.c. che, pur riferendosi alla pronuncia di interdizione, in ragione del rinvio operato dall’art. 720 c.p.c. può riguardare anche il giudizio di revoca della stessa. Neppure l’articolo 417 c.c., fino alla legge 9 gennaio 2004 n.6, come descritto nel paragrafo precedente, includeva fra i legittimati l’interdicendo e l’inabilitando; quindi, coerentemente, non includeva neppure i medesimi soggetti fra i legittimati alla revoca, una volta che la pronuncia fosse passata in giudicato. Tuttavia, parte della dottrina ed anche qualche sentenza delle corti di merito, a partire dagli anni ‘70, si sono pronunciate per l’ammissibilità della istanza di revoca presentata da parte dell’interdetto o dell’inabilitato. Meno controverso è stato il riconoscimento della legittimazione all’inabilitando: la Suprema Corte, già negli anni ’50, afferma che egli subisce soltanto una limitazione della capacità legale, non una perdita totale, dunque egli può presentare ricorso per la revoca, purché assistito dal proprio curatore17. Assai più sfaccettato è stato il dibattito concernente la (legittimazione alla) revoca dell’interdizione. Da presupposti letterali così schiaccianti, in senso Le caratteristiche inquisitorie del procedimento sono menzionate nel paragrafo precedente, facendo particolare riferimento a quanto sostenuto da TOMMASEO, Sui profili processuali dell’interdizione e dell’inabilitazione, cit., p. 201 ss. 17 La sentenza con cui la Cassazione giunge ad affermare ciò è Cass., sent. 10 aprile 1953, n. 939, in Giust. Civ., 1953, p. 1192. 16 12 negativo, come gli articoli sopra esaminati (429 c.c., e 417 c.c. letto assieme al 720 cpc dall’altro) parrebbe difficile discostarsi. Due sono state le vie seguite: 1) considerare la revoca uno degli “atti del procedimento (di interdizione), comprese le impugnazioni”, che per espressa previsione dell’art. 716 c.p.c. l’interdicendo può compiere da solo. Così la domanda di revoca rientra fra uno degli atti del processo, anzi viene assimilata ad una impugnazione18; 2) intendere l’art. 417 c.c. non come una tassativa elencazione dei soggetti legittimati a chiedere la pronuncia dell’interdizione, e quindi anche la revoca della stessa, bensì come l’estensione ad altri soggetti di una legittimazione che non può non spettare all’interdetto stesso, guardando all’organicità del sistema. Entrambe queste vie sono state seguite dal tribunale di Parma, in una sentenza del 1974, che è interessante descrivere brevemente19. Il fatto: un’interdetta fa istanza per la revoca della propria interdizione, il suo tutore interviene ed obbietta che ella non è legittimata. Il tutore sostiene ciò unicamente sulla base dell’implicito richiamo dell’art. 417 c.c., in tema di legittimazione attiva per la pronuncia dell’interdizione; non si menziona l’articolo 429 c.c.. Il ragionamento della corte si fonda su questo assunto: escludere l’interdetto dalla legittimazione a) porterebbe a conseguenze assurde, b) sarebbe frutto di un’interpretazione erronea dell’art. 417 c.c. e dell’art. 720 c.p.c.. L’interpretazione dell’art. 417 c.c. come elenco tassativo dei legittimati sarebbe, secondo la Corte, semplicistica e gratuita, in rispetto di un principio – “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit” – che si rivela essere in questo caso falso e fuorviante; infatti l’art. 417 c.c. non è altro che un’estensione ad altri soggetti (quelli ivi elencati) di una legittimazione che spetta in primis proprio all’interdetto; l’art. 417 c.c. non lo menziona perché “non ce n’era bisogno”, ed infatti esistono molti altri esempi di norme che non dicono una cosa perché la Per tutti, SORACE, voce “Interdizione (Dir. Proc. Civ.)”, in Enc. dir., XXI, Milano, 1971, p. 953 ss. 19 Trib. Parma, 14 febbraio 1974 (sent.), in Giur. it., 1974, 1, II, 898 ss. 18 13 presuppongono come già presente nell’organicità del sistema; lo stesso art. 716 c.p.c. fa salva la capacità dell’interdicendo anche in riferimento alle impugnazioni; se la revoca non è tecnicamente un’impugnazione, ad essa è comunque assimilabile da un punto di vista sostanziale, al di là di ogni formalismo; sarebbe assurdo che l’interdetto potesse appellare la sentenza di interdizione, ma non agire per la revoca; sarebbe assurdo perché, se così fosse, l’interdetto sarebbe in completa balìa del proprio tutore, interessato probabilmente ad escludere la revoca20. Questo, in estrema sintesi, il filo logico seguito dalla Corte. Essa critica ogni formalismo ed ogni interpretazione letterale degli articoli in questione, contesta gli “pseudo-concetti logici” che fino ad allora avevano portato ad escludere l’interdetto dalla legittimazione alla revoca, e si fa paladina degli interessi della persona umana, che “non cessa di essere il più alto valore21”. La sentenza in esame desta moderato interesse: consensi da quella dottrina che già in precedenza si era espressa a favore della legittimazione, critiche da altra parte. Da un punto di vista assiologico il ragionamento della Corte è lodevole ma, si obbietta, il dato normativo non è superabile così facilmente. Le critiche mosse alla sentenza sono state le seguenti: - essa fa riferimento solamente all’art. 417 c.c., in tema di pronuncia di interdizione, perché richiamato dall’art. 720 c.p.c.; non si capisce invece perché non venga neppure menzionato l’art. 429 c.c., che in modo specifico dice chi può chiedere la revoca, e non nomina l’interdetto; questo dato non può essere scavalcato guardando all’organicità del sistema; - la revoca non può considerarsi un mezzo di impugnazione (che l’interdetto è legittimato dall’art. 720 c.p.c. ad esperire), perché essa si riferisce esclusivamente ad un momento successivo alla formazione del giudicato sulla pronuncia di interdizione, e quindi ad un momento in cui tale pronuncia già fa In questi termini si espime SATTA, Commentario al codice di procedura civile, Milano, 1968, p. 351. 21 Questa l’espressione utilizzata nella sentenza dal Tribunale di Parma: v. nota (19). 20 14 stato nei confronti dell’interdetto22. Ciò che può fare l’interdetto, conclude chi critica, è informare il giudice tutelare ai sensi dell’art. 429 c.c. co. 2, il quale, dopo un’adeguata attività di vigilanza, se ritiene siano cessati i presupposti di fatto che avevano portato alla pronuncia dell’interdizione, informerà a sua volta il pubblico ministero perché chieda la revoca. Questo, tuttavia, pare un po’ poco se si considera che l’interdetto è il portatore dell’interesse diretto alla revoca e che, nella prassi, è assai difficile che il giudice tutelare disponga dei mezzi e dei collaboratori idonei per effettuare un’efficace attività di vigilanza. 3. (segue) Dopo la legge 6/2004. Ci si chiede se il quadro sia cambiato, in tema di legittimazione dell’interdetto alla revoca, dopo la riforma contenuta nella legge n. 6 del 2004. Facciamo il punto della situazione, alla luce delle novità introdotte da tale legge, e alla luce di quanto invece è rimasto invariato: a) art. 417 c.c. come modificato: lo stesso infermo, futuro destinatario del provvedimento, è stato legittimato a chiedere la dichiarazione giudiziale di interdizione o di inabilitazione, cioè il provvedimento di cui sarà destinatario; b) art. 406 co. 1 c.c. come modificato: è attribuita la legittimazione attiva per domandare l’istituzione dell’amministrazione di sostegno anche all’interdetto e all’inabilitato, che la richiedano in proprio favore; c) art. 406 co. 2 c.c. come modificato: il ricorso per l’istituzione dell’amministrazione di sostegno in capo ad un soggetto già interdetto od inabilitato deve essere presentato congiuntamente all’istanza di revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione; Le critiche sono riassunte da D’ERCOLE in Giur. it., 1974, 1, II, 898-900, che commenta la sentenza in questione. 22 15 d) l’art. 720 c.p.c., che non è stato toccato dalla riforma, continua a prevedere che per la revoca dell’interdizione e dell’inabilitazione si osservano le norme stabilite per la pronuncia di esse; e) le modifiche apportate all’articolo 429 c.c., che tratta in maniera specifica della revoca, non hanno sfiorato la disciplina della legittimazione ivi contenuta: fra i soggetti menzionati ancora non compaiono l’interdetto e l’inabilitato. Non si dice nulla di controverso se si afferma che la riforma non è riuscita a fare maggior chiarezza. Certo, chi ritiene palese che gli interdetti e gli inabilitati siano legittimati, ha oggi maggiori punti appoggio. In primis, il rinvio (720 c.p.c.) alla disciplina della pronuncia dell’interdizione o inabilitazione richiama anche la disciplina della legittimazione a richiederle, nella sua nuova versione estesa ai futuri destinatari (417 c.c.). Inoltre, in forza di una proprietà transitiva, se l’interdetto è legittimato a chiedere l’istituzione dell’amministrazione di sostegno nei suoi confronti (406 co. 2); se tale richiesta deve essere accompagnata dalla richiesta di revoca dell’interdizione; allora si può concludere che l’interdetto è legittimato a chiedere la revoca della sua interdizione23. La conclusione non tiene conto però di un dato presente in premessa: l’interdetto è sempre legittimato alla revoca? Oppure, come parrebbe da un’applicazione più precisa della proprietà transitiva, solo quando, congiuntamente alla revoca, richiede l’istituzione dell’amministrazione di sostegno? Chi invece, anche prima della riforma, contestava la legittimazione dell’interdetto alla revoca, ha ancora un dato testuale in cui trovare sostegno: l’articolo 429 c.c., chiarissimo ed immutato. 4. Il principio della domanda nei giudizi di interdizione e di Per esempio CALÒ, Amministrazione di sostegno, legge 9 gennaio 2004, n.6, Milano, 2004, p. 13, che tuttavia non nega che “bisogna fare i conti” col fatto che l’art. 429 c.c. non è stato modificato in punto di legittimazione. 23 16 inabilitazione. Ci si è occupati finora di alcuni effetti che conseguono alla dichiarazione di incapacità, dopo la pronuncia della sentenza di interdizione, sul versante del processo: l’incapacità processuale dell’interdetto, fatta eccezione per alcune capacità speciali, e la legittimazione processuale che spetta al tutore per la generalità dei casi. Si è accennato anche al fatto che i giudizi cui tale incapacità consegue, cioè quelli di interdizione e di inabilitazione, presentano delle peculiarità dal punto di vista delle dinamiche processuali e delle forze vengono in gioco: si tratta di giudizi di tipo fortemente inquisitorio, in cui il giudice ha ampi poteri di indagine e di decisione, e in cui si sommano (o si scontrano) due interessi eterogenei, uno individuale, l’altro della collettività. La Corte d’appello di Milano, nel 2001, viene chiamata a decidere se uno dei principi fondamentali del processo civile, cioè il principio della domanda, sia da riferirsi anche a tali giudizi24. Il dibattito che questa questione viene ad aprire o meglio, a riaprire dopo decenni di scontri dottrinali, non è di poco conto, perché ha a che vedere con la natura che s’intende attribuire a questi processi. Il pubblico ministero presso il tribunale presenta ricorso e chiede, in via alternativa, l’interdizione ovvero l’inabilitazione di un soggetto. Viene compiuta l’istruttoria: si procede all’esame obbligatorio dell’interdicendo/inabilitando e viene espletata pure una c.t.u. psichiatrica, volta ad accertare le condizioni mentali del soggetto. In sede di precisazione delle conclusioni il p.m. ricorrente modifica la propria richiesta: chiede la sola inabilitazione, espungendo la richiesta alternativa di interdizione. Il Tribunale, tuttavia, pronuncia l’interdizione. A questo punto il soggetto, ora interdetto, propone appello – e lo può fare perché, si ricorda, egli conserva la propria capacità nel giudizio d’interdizione, anche per le impugnazioni. Egli lamenta 24 App. Milano, 7 marzo 2001, in Fam. dir., 2002, 2, p. 184. 17 due vizi della sentenza di primo grado, entrambi conducenti ad un’erronea dichiarazione di interdizione in luogo dell’inabilitazione: il primo di rito, che consisterebbe nell’ultrapetizione e nella violazione del principio della domanda; il secondo di merito, perché gli esiti dell’esame e le indicazioni mediche offerte dalla c.t.u. erano nel senso di ritenere sufficiente l’inabilitazione. Il caso, si è detto, scoperchia il vaso di pandora: la diatriba sulla natura volontaria oppure contenziosa del procedimento di interdizione e inabilitazione. Sul fronte della dottrina le opinioni espresse sono molto variegate. Tutto dipende da quali caratteristiche del procedimento si vogliono sottolineare: la dottrina maggioritaria lo ha incluso nella giurisdizione volontaria, sottolineando come: a) non sia riscontrabile l’esercizio di un’azione, che faccia seguito alla lesione di un diritto soggettivo; b) non vi sia una domanda in senso tecnico, ma una mera “denuncia processuale” simile a quelle previste dall’art. 345 c.c. per l’apertura della tutela, a seguito della quale il procedimento prosegue con caratteristiche di ufficiosità ed inquisitorietà25. Su questa linea, ma con una lieve variazione sul tema, altri esponenti della dottrina hanno inquadrato il procedimento nell’ambito della giurisdizione “a contenuto oggettivo”, evidenziandone la finalizzazione alla tutela di un interesse pubblico e la doverosità della pronuncia qualora ricorrano determinate circostanze oggettive26. Altri ancora hanno definito il procedimento come “misto” ma con una struttura dominante di tipo contenzioso, evidenziando come si tratti di processi a struttura partecipativa, in cui le parti non rivestono un mero ruolo di informazione al servizio di un giudice con poteri ufficiosi illimitati: esse Così tradizionalmente, e per tutti, SATTA, Commentario al codice di procedura civile, IV, Procedimenti speciali, I, Milano, 1968, p. 329. Per gli altri esponenti della dottrina che hanno sostenuto la tesi della giurisdizione volontaria cfr. VENCHIARUTTI, La protezione civilistica dell’incapace, cit., p. 170. 26 Così TOMMASEO, Sui profili processuali dell’interdizione e dell’inabilitazione, in Giur. it., 1987, IV, p. 205, e I processi a contenuto oggettivo, in Riv. Dir. Civ., 1988, parte I, p. 495 ss. – parte II, p. 685 ss.. 25 18 provocano, bensì, un contraddittorio vero e proprio27. Dalle opinioni appena esposte è facile rilevare come nei processi di interdizione ed inabilitazione convivano, si consenta l’espressione, due anime; e che questa convivenza sia fatta di intersezioni, sovrapposizioni ed adattamenti. Tracciata la cornice del discorso, è opportuno chiedersi che ruolo rivesta il principio della domanda in questo contesto dalle molteplici sfumature; in particolare, che ruolo rivesta tale principio nella sua particolare accezione di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato. La domanda cui la Corte d’appello di Milano era chiamata a rispondere è questa: se debba il giudice attenersi strettamente a quanto le parti chiedono, pena il vizio di ultrapetizione della sentenza, come avviene nei procedimenti contenziosi; oppure se non sia limitato strettamente dalla domanda contenuta nel ricorso, dovendo la sua decisione esclusivamente basarsi su presupposti oggettivi normativamente individuati. La Corte distingue, nei procedimenti di interdizione e inabilitazione, due fasi: quella di ricerca ed acquisizione della prova, da un lato, e quella dell’instaurazione del giudizio, dall’altro. Con riferimento alla prima prevarrebbero gli elementi di volontarietà e di ufficiosità; i poteri ufficiosi del giudice non si estenderebbero invece alla seconda. Infatti, rammenta la Corte, il tribunale non può aprire d’ufficio un procedimento, né una mera segnalazione o denuncia da parte di un privato o persino del pubblico ministero è sufficiente, ma serve che uno di essi assuma “le vesti formali di ricorrente”. Il ricorrente, come parte istante, deve delineare e anzi delimitare in maniera precisa sia l’oggetto sia il titolo su cui il ricorso si fonda (cioè petitum e causa petendi). Riassumendo: il carattere di oggettività del procedimento non inciderebbe sulla definizione della domanda nei suoi elementi costitutivi, che è attività soltanto della parte ricorrente, sia essa parte privata ovvero parte pubblica. La prova univoca di questo ragionamento è individuata dalla Corte Lo stesso TOMMASEO, Sui profili processuali dell’interdizione e dell’inabilitazione, cit., ammette e fa rilevare questa contaminazione dei due modelli di giurisdizione. Cfr. VENCHIARUTTI, La protezione civilistica dell’incapace, cit., p. 170, per tutte le posizioni espresse dalla dottrina. 27 19 nell’art. 418 c.c., che precisa quali siano i poteri dell’autorità giudiziaria nei procedimenti in esame. I commi da analizzare sono solamente il primo e il secondo: il terzo è stato introdotto nel 2004 dalla legge n. 6 ed è relativo all’amministrazione di sostegno, e ai rapporti fra questa e i giudizi di interdizione e inabilitazione28. Il raffronto fra il primo ed il secondo comma sembra davvero costituire la chiave di volta della questione. Il primo prevede che se vi è istanza di interdizione, il giudice può decidere se pronunciare l’interdizione o l’inabilitazione, in base a quanto ritenga più idoneo; questa valutazione di maggiore idoneità si fonda sugli elementi emersi in istruttoria. Il legislatore concede in questo caso ampi poteri ufficiosi al giudice. Il secondo comma descrive l’ipotesi contraria, cioè quella dell’interdizione pronunciata a fronte di una domanda d’inabilitazione – quella, dunque, del caso all’attenzione della Corte. Questa ipotesi è circondata da una serie di cautele, che per il caso inverso non sono previste: non è sufficiente una valutazione del giudice di maggior idoneità della pronuncia di interdizione, è necessario invece che il pubblico ministero formuli una specifica istanza, e che a questa istanza faccia seguito un’apposita istruttoria. La nuova istanza del p.m. non sarebbe, dunque, un mero stimolo ad un potere che il giudice potrebbe esercitare in ogni caso d’ufficio: sarebbe una nuova domanda, senza la quale il giudice che pronunciasse l’interdizione emetterebbe una sentenza viziata. Il trattamento differenziato che il legislatore riserva alle due ipotesi ha delle motivazioni che sono abbastanza intuitive. Un primo motivo, espresso anche dalla Corte, attiene alla maggiore afflittività dell’interdizione, che incide in maniera più forte (anzi pressoché totale) sulla capacità del soggetto rispetto alla pronuncia di inabilitazione. Sarebbe impensabile in effetti, e in odore di incostituzionalità, ritenere che d’ufficio, senza che nessuno lo richieda, un soggetto si veda privato della capacità di agire nella misura massima, quando la Tale disposizione sarà oggetto di esame nel capitolo III, in cui specificamente ci si occuperà dell’amministrazione di sostegno. 28 20 richiesta avanzata era un’altra. C’è anche, però, un motivo più strettamente processuale, che ha vedere con i concetti di petitum e di continenza di cause. È stato osservato, in dottrina, come la differenza che intercorre fra la dichiarazione d’interdizione e quella d’inabilitazione sia essenzialmente di tipo quantitativo: la domanda di inabilitazione sarebbe contenuta in quella di interdizione, secondo un rapporto insieme-sottoinsieme29. Per questo sarebbe consentito al giudice di pronunciare l’inabilitazione anche se il ricorso fosse stato presentato per l’interdizione, non contravvenendo al principio della domanda. Contiene invece un vizio di ultrapetizione la pronuncia d’interdizione che oltrepassa i limiti della richiesta. Nel caso di specie, il p.m. inizialmente presenta una richiesta alternativa: interdizione o inabilitazione. Poi corregge in sede di precisazione delle conclusioni, ed espunge la prima. Quest’operazione è ritenuta dalla Corte del tutto legittima: l’istruttoria proprio a questo serve, a verificare se vi siano le condizioni oggettive per interdire un soggetto. Il pubblico ministero, a seguito dell’esame dell’interdicendo, a seguito dell’espletamento di una consulenza psichiatrica, si rende probabilmente conto che per quel soggetto è sufficiente la misura dell’inabilitazione; legittimamente - anzi doverosamente, se si rispetta il criterio della maggior adeguatezza della misura – corregge la richiesta. Può farlo, perché è in sede di precisazione delle conclusioni che le parti manifestano in modo preciso e definitivo le loro conclusioni, sulla base di quanto è emerso in fase di trattazione ed istruzione30. L’omessa riproposizione di una domanda nell’udienza di precisazione delle conclusioni, è, secondo la giurisprudenza prevalente, presunzione – iuris tantum – di rinuncia alla stessa. Il principio della domanda, in conclusione, è ritenuto pienamente applicabile nei giudizi d’interdizione e di inabilitazione. Tale principio investirebbe due profili: innanzitutto, il profilo del contraddittorio e del diritto di difesa, confermando che un soggetto mai potrebbe essere interdetto laddove 29 30 Cfr. FALCIANO, Giudizio d’interdizione e principi processuali, in Fam. dir., 2002, 2, p.188 V., per tutti, MANDRIOLI, Diritto processuale civile, II, Torino, 2000, p. 142. 21 nei suoi confronti sia stata avanzata solo la richiesta d’inabilitazione; inoltre, quello della necessaria corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, sancito dall’art. 112 c.p.c., la cui violazione integra il vizio di ultrapetizione della sentenza. 22 Sezione B): L’INTERDETTO NEI GIUDIZI VERTENTI SU DIRITTI NON PATRIMONIALI 5. I diritti personalissimi e il problema della loro azionabilità. I casi che saranno affrontati di seguito riguardano la legittimazione del tutore con riferimento a diritti del tutelato che non hanno natura patrimoniale, bensì personale: i cosiddetti diritti personalissimi. È opportuno, per accostarsi a questi casi, capire che caratteristiche abbiano tali diritti e che peculiarità presentino quando vengono accostati all’istituto della rappresentanza. La dottrina ha da tempo enucleato, nell’ambito dei diritti soggettivi, la particolare categoria dei diritti della personalità, o diritti personalissimi: essi scaturiscono da disposizioni fondamentali della Costituzione a tutela della persona, ma anche da convenzioni internazionali e, ancor prima, dai principi generali inviolabili. Sono diritti soggettivi assoluti, non patrimoniali, che presentano le caratteristiche dell’indisponibilità, irrinunzialbilità, inalienabilità, imprescrittibilità31. Oltre ai diritti tipici della personalità (diritto al nome, all’immagine, alla salute, ecc.), vi rientrerebbero anche i cd. diritti familiari: quelli di cd. libertà familiare (ad esempio il diritto di contrarre e sciogliere matrimonio) e quelli di cd. solidarietà familiare (diritto alla fedeltà, alla coabitazione, all’assistenza morale e materiale, agli alimenti)32. Gli atti attraverso cui tali diritti si estrinsecano prenderebbero anch’essi il nome di atti personalissimi: per loro stessa natura richiederebbero di essere posti in essere esclusivamente dai soggetti nella cui sfera giuridica producono i loro effetti, cioè dai titolari dei relativi diritti. Si tratterebbe, dunque, di atti che non sopportano l’intermediazione di un rappresentante33. Sui diritti personalissimi e sulle loro caratteristiche si fa, qui, soltanto un accenno. Per un approfondimento, v. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1983, p. 50 ss. 32 La distinzione fra diritti di libertà familiare e di solidarietà familiare è stata teorizzata da BIANCA, Diritto civile, Milano, 1985, p. 12. 33 Il punto è, per la verità, molto delicato: per un quadro generale delle opinioni espresse in 31 23 Una conclusione parrebbe obbligata, in riferimento all’interdetto: che egli non può, in nessun modo, compierli. Si realizzerebbe, nel caso dell’interdetto, una vera e propria compenetrazione tra capacità giuridica e capacità di agire: un soggetto dichiarato interdetto non solo perderebbe la capacità di compiere gli atti necessari per il loro esercizio ma, in ragione della loro incompatibilità col meccanismo rappresentativo, perderebbe in pratica anche la loro titolarità. L’incapacità di agire si tradurrebbe, dunque, in incapacità giuridica34. L’art. 357 c.c. attribuisce al tutore il compito di “cura della persona” dell’interdetto (oltre che del minore, in base al dettato dell’art. 424 c.c.) e la rappresentanza di quest’ultimo “in tutti gli atti civili”. Alla luce di quanto appena affermato, la rappresentanza in tutti gli atti civile si riferirebbe ai soli atti di natura patrimoniale35. Questa conclusione varrebbe, allo stesso modo, sia per gli atti sostanziali che per l’attività processuale: nelle azioni a carattere personale, e non patrimoniale, la rappresentanza del tutore non potrebbe operare; l’incapacità processuale dell’interdetto si tradurrebbe nell’impossibilità assoluta di agire in giudizio36. Vi sono, tuttavia, delle ipotesi legislative in cui pare che il tutore possa far valere in giudizio dei diritti personali del tutelato. L’art. 245 c.c. prevede che il tutore possa promuovere l’azione di disconoscimento di paternità per l’interdetto; egli può, in base all’art. 264 c.c., essere autorizzato ad impugnare il riconoscimento in nome del figlio interdetto o, ex art. 273, essere autorizzato a chiedere la dichiarazione giudiziale di paternità in nome del tutelato; può impugnare il matrimonio dell’interdetto ex art. 119 c.c., se il tutelato era già stato interdetto al tempo del matrimonio o se solamente sussisteva l’infermità mentale. La legge 140/78, all’art. 13, prevede che il tutore possa richiedere al dottrina, v. VENCHIARUTTI, La protezione civilistica dell’incapace, cit., p. 303. 34 Così afferma, giustificando in maniera puntuale, CICCHITELLI, La capacità dell’interdetto di esercitare le azioni relative allo status coniugale, in Giust. Civ., 2001, I, 4, p. 2754. 35 Questo è quanto afferma, per tutti, STELLA RICHTER, L’istituto del divorzio in Italia e le esperienze giuridiche europee, Milano, 1976, cit., p. 82. 36 Sempre STELLA RICHTER, L’istituto del divorzio in Italia e le esperienze giuridiche europee, cit., p. 82. 24 giudice tutelare l’autorizzazione all’aborto per la donna interdetta. Gli interpreti si sono spesso confrontati sulla natura e il significato da attribuire alle ipotesi appena menzionate: in particolare, il dibattito è sorto dal confronto con la previsione generale dell’art. 357 c.c.: in essa si parla di “atti civili”, e l’intento sembra quello di limitare la rappresentanza del tutore ad essi, ma al contempo attribuisce al tutore il compito di “cura della persona”. Se da un lato la norma pare restringere l’ambito della funzione sostitutiva del tutore, dall’altro vi affianca un’espressione dalla vocazione onnicomprensiva, che pare invece estenderla37. Questi rilievi hanno portato gli interpreti a dividersi. Così sono state intese tali disposizioni: a) come ipotesi eccezionali in cui il tutore esercita un diritto personalissimo dell’interdetto, in deroga al principio per cui la rappresentanza legale del tutore è limitata ai soli atti di natura patrimoniale: questa è la tesi tradizionale, che a contrario deduce la generale non legittimazione del tutore a porre in essere atti personalissimi a tutela dell’interdetto38; b) come semplici estrinsecazioni del potere-dovere di cura della persona ex art. 357 c.c.: questa originale posizione troverebbe parziale riscontro in una recente pronuncia della Cassazione, che ha ricompreso nel potere/dovere di cura che spetta al tutore anche il potere di esprimere o rifiutare il consenso al trattamento terapeutico39. Un’ulteriore possibile lettura, che si pone su altro piano rispetto alle precedenti, potrebbe essere quella di intenderle come ipotesi – certo eccezionali e tassative – in cui vi è un potere di azione scollegato dalla situazione Così GRAZIOSO, Su la legittimazione attiva e la rappresentanza processuale dell’interdetto infermo di mente in relazione all’azione di divorzio, in Dir. Fam., 2001, 4, p. 1425. 38 Così STELLA RICHTER, L’istituto del divorzio, cit., p. 82. 39 Cfr. quanto sostenuto da App. Milano, 31 dicembre 1999, in Foro it., 2000, I, 2022; in tale direzione anche GRAZIOSO, Su la legittimazione attiva e la rappresentanza processuale dell’interdetto infermo di mente in relazione all’azione di divorzio, cit., p. 1427. 37 25 sostanziale sottostante: il legislatore legittima il tutore in via straordinaria ad agire per tutelare un interesse pubblico; non opererebbe quindi, in base a questa ricostruzione, il meccanismo della rappresentanza processuale. Tutti queste ragioni saranno trattate, nei paragrafi successivi, in riferimento a diverse problematiche processuali che coinvolgono diritti personali del tutelato: l’azione di divorzio; la legittimazione del tutore alla richiesta di autorizzazioni per compiere atti che incidono profondamente sul diritto alla salute dell’interdetto. 6. Azione di divorzio: può l’interdetto agire in giudizio? In base ad un’espressa previsione normativa, l’interdetto non può contrarre matrimonio (art. 85 c.c.). Da un lato, ciò rientra nelle ordinarie conseguenze della perdita della capacità di agire – e quindi della capacità a contrarre – che l’interdizione comporta. Dall’altro, questa incapacità è più forte delle altre, perché essendo il matrimonio un negozio cd. “personalissimo”,che può essere compiuto solo ed esclusivamente dal titolare del diritto, neppure l’intervento del tutore come rappresentante legale può sopperirvi: all’interdetto questa possibilità è preclusa in via assoluta. La pronuncia di interdizione può anche intervenire dopo il matrimonio: in questo caso la problematica si sposta sulle azioni relative allo scioglimento del vincolo matrimoniale, in particolare sull’azione di divorzio. La domanda che qui ci si pone è cosa succede in tema di legittimazione e di rappresentanza quando, intervenuta la pronuncia di interdizione dopo il matrimonio, uno dei due coniugi intenda chiedere il divorzio. Se l’azione è proposta dal coniuge non interdetto, nei confronti del coniuge interdetto che quindi sta nel processo in veste di convenuto, l’art. 4 co. 5 della l. 898/1970, come rinovellata, prevede l’obbligo a carico del Presidente del tribunale, di nominare un curatore speciale all’interdetto convenuto; la 26 stessa previsione vale anche nel caso di convenuto infermo di mente non interdetto40. Il coniuge interdetto sarebbe dotato di legittimazione passiva (legitimatio ad causam) ma non, ovviamente, di capacità processuale: il suo rappresentante processuale per questa specifica azione sarebbe non il tutore, come nella generalità dei casi, ma un curatore speciale appositamente nominato. Riguardo invece alla possibilità che sia il coniuge interdetto ad agire in giudizio, il legislatore tace: l’art. 4 co. 5 si riferisce esclusivamente all’interdetto convenuto. Nel vigore di tale silenzio, la giurisprudenza, fino ad una recente pronuncia della Cassazione, si è sempre orientata nel senso di escludere la possibilità per l’interdetto di essere parte attrice nell’azione di divorzio41. La dottrina si è invece divisa sul punto, aprendo un acceso dibattito. Per procedere con rigore sistematico ed evitare il rischio di sovrapporre i concetti, è opportuno distinguere i due principali profili entro cui il dibattito si muove42: 1) la legittimazione attiva, cioè se l’interdetto possa essere titolare dell’ azione di divorzio – questo è un profilo che attiene alla legitimatio ad causam; 2) la rappresentanza processuale, ovvero come e attraverso chi eventualmente l’interdetto possa stare in giudizio, visto che come tale è privo della capacità processuale che gli consentirebbe di stare in giudizio autonomamente – questo profilo attiene invece alla legitimatio ad processum. Il primo profilo attiene all’an, il secondo al quomodo, e i due aspetti sono in rapporto di consequenzialità: solo rispondendo positivamente alla prima questione, cioè ritenendo configurabile la legittimazione attiva del coniuge interdetto, è logico chiedersi chi lo rappresenti in giudizio. Entrambi gli aspetti costituiscono presupposti processuali, ma implicano una priorità logica ben A questa specifica disposizione, che equipara l’incapace naturale all’interdetto (incapace legale), verrà dedicata specifica attenzione nel capitolo II, § 7. 41 Per esempio App. Napoli, 16 ottobre 1976, in Dir. Eccl., 1977, II, p. 414; anche Trib. Padova, 9 febbraio 1994, in Foro pad., 1995, I, p. 106 ha negato la legittimazione processuale del tutore nel processo di divorzio, motivandola sulla base della natura personalissima dell’azione. 42 GRAZIOSO, Su la legittimazione attiva e la rappresentanza processuale dell’interdetto infermo di mente in relazione all’azione di divorzio, in Dir. Fam., 2001, 4, p. 1416. 40 27 precisa. Riguardo alla questione sub (1) la dottrina era tradizionalmente divisa su due posizioni. Secondo alcuni, l’interdetto non era dotato di legittimazione attiva: infatti i requisiti per contrarre sono gli stessi necessari allo scioglimento del contratto, perciò a colui che non può contrarre matrimonio sarebbe parimenti negata la possibilità di sciogliersi da tale vincolo43. Inoltre, anche in base al noto principio ubi lex dixit voluit ubit tacuit noluit, si argomentava che il legislatore della legge 898/1970 parlava chiaramente del solo interdetto convenuto, e che la regola ivi espressa era posta in esclusiva tutela del coniuge capace, per permettergli di portare a buon fine la propria azione senza incappare in sanzioni di nullità o inammissibilità della domanda44. La giurisprudenza, di legittimità come di merito, proseguiva sicura nei solchi tracciati da tale dottrina e dal silenzio della legge. Altra parte della dottrina, invece, criticava una soluzione che voleva passarsi per obbligata: se la legge forniva all’interdetto la capacità di subire l’azione di divorzio, perché egli non poteva proporla? Si sarebbe creata un’intollerabile disparità di trattamento fra il coniuge capace ed il coniuge interdetto, che per ottenere il divorzio sarebbe stato obbligato ad attendere l’iniziativa altrui45. Oltre a ciò, parte della dottrina inquadrava il discorso nell’ottica del pricipio di difesa, art. 24 Cost: sarebbe stato lasciato privo di difesa il soggetto più debole, in quanto attore46. All’interno di questo orientamento dottrinale, che vedeva con favore l’attribuzione della legittimazione attiva in capo al coniuge interdetto, si davano risposte differenziate alla questione sub 2), ossia al quomodo di stare in giudizio Ad esempio BARBIERA, Il divorzio dopo la riforma del diritto di famiglia, in SCIALOJABRANCA, Commentario del codice civile, 1979, p. 259. 44 Uno dei principali esponenti di tale orientamento è stato BARBIERA, Il divorzio dopo la riforma del diritto di famiglia, cit., p. 161. 45 SATTA-PUNZI, Diritto processuale civile, Padova, 1987, p. 952: l’autore pone alla base del suo ragionamento proprio sulla disparità di trattamento che si verrebbe a creare fra i due coniugi; ne deduce, a contrario, la legittimazione attiva del coniuge interdetto. 46 Questo è quanto fa osservare SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia. Il matrimonio, Torino, 1978, p. 762: anche quest’autore ha sostenuto che l’interdetto è dotato di legittimazione attiva all’azione di divorzio. 43 28 dell’interdetto-attore. Vi era chi riteneva che egli dovesse stare in giudizio a mezzo del suo rappresentante legale, il tutore, in quanto dotato di poteri generali di rappresentanza attinenti ad interessi non solo patrimoniali, ed in quanto nella legge sul divorzio non era contenuto nessuno specifico divieto in merito47. Altra parte della dottrina invece negava che la legittimazione processuale spettasse al tutore, ponendo l’attenzione sul concetto di atti e di diritti personalissimi: in riferimento ad essi la rappresentanza – processuale o sostanziale – non spetterebbe al tutore. Il concetto di diritto personalissimo in realtà, è stato utilizzato in maniera ibrida, effettuando un’operazione logica poco rigorosa: siccome il tutore, si diceva, non ha in generale la rappresentanza per gli atti personalissimi – e cioè non ha la legitimatio ad processum in riferimento a tali atti –, allora l’interdetto è privo della legittimazione attiva – ad causam – necessaria per proporre l’azione di divorzio. Così facendo, i termini della questione venivano invertiti e la conseguenza diventava causa. Lo scontro coinvolgeva anche il profilo passivo dell’interdetto- convenuto, nonostante una chiara disposizione normativa – come lo è il comma 4 dell’art. 5 l. 898/70 – sembrasse dissipare ogni dubbio48. Le ragioni dell’oscillante interpretazione data a tale disposizione risiedono in un’altra disposizione, l’art. 78 co. 2 c.p.c.: esso fissa, come presupposto per la nomina di un curatore speciale al rappresentato, l’esistenza di un conflitto d’interessi con il rappresentante – in questo caso, il tutore. Alla luce di tale norma, il fronte della dottrina si era diviso anche su questo punto: da un lato, chi riteneva che la nomina di un curatore speciale ad hoc per l’interdetto-convenuto fosse sempre obbligatoria49; dall’altro, chi invece sosteneva che la nomina del curatore sarebbe stata necessaria solo nel caso di conflitto di interessi fra l’interdetto e il proprio tutore (per esempio, si supponga, l’altro coniuge), mentre nel caso di SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia. Il matrimonio, Torino, 1978, p. 762. Cfr. sul punto, quanto riportato da GRAZIOSO, Su la legittimazione attiva e la rappresentanza processuale dell’interdetto infermo di mente in relazione all’azione di divorzio, cit., p. 1414: l’autore descrive in maniera sintetica il quadro complessivo delle opinioni espresse in dottrina sul punto. 49 Di quest’opinione A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, Milano, 1988, III, p. 239. 47 48 29 assenza di conflitto il tutore avrebbe potuto assumere le consuete vesti di rappresentante processuale dell’interdetto-convenuto50. 7. (segue) La soluzione della Cassazione. Finora si è parlato al passato. Il dato legislativo non ha subito modifiche, ma nel 2000 la Cassazione si è pronunciata su questi temi in una direzione che è stata definita “assolutamente innovativa”51. Richiamando la traccia sistematica seguita finora, si può così schematizzare la decisione della Corte: 1) l’interdetto è dotato di legittimazione attiva a proporre l’azione di divorzio; 2) egli agisce in giudizio a mezzo di un curatore speciale, come rappresentante processuale ad hoc nominato dal giudice. È utile ricostruire le dinamiche processuali e riportare le motivazioni che hanno condotto alla sentenza in esame52. Il tutore di un interdetto, in veste di suo rappresentante legale, propone la domanda di divorzio per il suo rappresentato; i giudici di merito, il tribunale prima e la Corte d’appello poi, rigettano in rito la domanda dichiarandone l’improponibilità; la parte attrice fa ricorso per cassazione. I motivi che conducono il giudice dell’appello alla dichiarazione di irricevibilità, e quelli su cui il ricorrente fonda l’impugnativa per cassazione sono, per la maggior parte, simmetrici, cioè opposti: risulta agevole analizzarli congiuntamente per enucleare i punti più delicati del contraddittorio fra l’attore e le Corti. Il punto primo ruota attorno al nebbioso concetto di diritti personalissimi. Secondo la Corte d’appello, la generica rappresentanza attribuita dall’art. 357 Per tutti, TOMMASEO, Commento all’art. 4 l. 898/70, in CIAN-OPPO-TRABUCCHI, Commentario al diritto italiano della famiglia, Padova, 1993, VI, I, p. 273. 51 In questi termini valuta la sentenza GRAZIOSO, Su la legittimazione attiva e la rappresentanza processuale dell’interdetto infermo di mente in relazione all’azione di divorzio, cit., p. 1413. 52 Cass., sent. 21 luglio 2000, n. 9582, in Dir. Fam., 2001, 4, p. 1404. 50 30 c.c. al tutore dell’interdetto non si estende agli atti relativi ai diritti personalissimi. È vero che la legge, in casi tassativi e peculiari, conferisce al tutore la rappresentanza anche per taluni di questi atti (artt. 245, 264, 273 c.c.), ma ciò non fa altro che confermare la natura eccezionale, tassativa e non residuale, di queste particolari ipotesi. Il ricorrente mette in dubbio che una tale categoria di diritti esista: oltre alle disposizioni del codice che attribuiscono la rappresentanza al tutore per il compimento di atti di natura personale e non patrimoniale (gli stessi articoli menzionati dalla Corte), l’art. 126 c.c. prevede che il giudice anche d’ufficio possa disporre la separazione personale dei coniugi interdetti, e siccome ciò che è valido per la separazione vale anche per l’azione di divorzio, allora non può certo ritenersi personalissimo un diritto esercitabile anche ‘ufficio. Punto secondo: l’art. 119 c.c., in base al quale il tutore può impugnare il matrimonio dell’interdetto, sempre in veste di rappresentante legale di costui, per vizio del consenso del rappresentato. È curioso notare come questo articolo inspiegabilmente sia portato a sostegno di due tesi contrapposte. La Corte d’appello sostiene che l’espressa previsione della legittimazione del tutore ad impugnare il matrimonio per vizi originari del consenso, implicitamente esclude la legittimazione alla generale richiesta di scioglimento, fondata su eventi sopravvenuti dopo l’atto-contratto di matrimonio. Il ricorrente, all’opposto, afferma che se al tutore è riconosciuta la possibilità di impugnare il matrimonio, a maggior ragione non dovrebbe essergli negata quella di agire per il divorzio. Punto terzo: il legame esistente fra capacità di contrarre e capacità di sciogliere il contratto. La Corte d’appello sottolinea il parallelismo fra l’incapacità dell’interdetto a contrarre e la conseguente incapacità a sciogliere il vincolo matrimoniale. Il ricorrente, sostenuto dalle affermazioni di gran parte della dottrina53, afferma all’opposto che la simmetria tra dette incapacità è da Per esempio, tradizionalmente, SATTA-PUNZI, Diritto processuale civile, cit., p. 952 ; così anche SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia. Il matrimonio, cit., p.762. 53 31 ritenersi valida in riferimento ai minori, ma non agli interdetti giudiziali. In effetti una differenza c’è, perché ben poteva contrarre chi all’epoca del matrimonio non era ancora interdetto ma lo sarebbe divenuto successivamente, sicché in questo caso più che di simmetria si dovrebbe parlare di asimmetria fra le due attività: capacità di obbligarsi e impossibilità a svincolarsi. Il ricorrente aggiunge ulteriori motivi di impugnazione, e in particolare sostiene: che se l’interdetto può subire l’azione di divorzio in base all’art. 4 co. 5 l. 898/70, non si comprende perché non possa proporla in via di azione; che se gli si negasse la legittimazione attiva si produrrebbe un’ingiusta disparità di trattamento fra i coniugi, considerato che il coniuge interdetto non potrebbe far altro che attendere l’iniziativa allo scioglimento del vincolo da parte del coniuge capace; che questa disparità produrrebbe l’illegittimità costituzionale degli artt. 150 c.c. e 4 e 5 della l. 898/70 per violazione del principio di uguaglianza e del diritto di difesa, sanciti rispettivamente dagli art. 3 e 24 Cost.. Viene sollevata, quindi, questione di legittimità costituzionale in riferimento ai suddetti articoli. La Cassazione rigetta tutti i motivi di ricorso. La decisone della Suprema Corte è, certo, innovativa; ma lo è solo in parte. Di nuovo, risulta utile distinguere fra legitimatio ad causam dell’interdetto (1) e legitimatio ad processum del tutore (2). 1) La novità della pronuncia si manifesta su questo punto. La Corte, con un’interpretazione che essa stessa definisce “adeguatrice”oltre che analogica, estende l’applicazione della norma contenuta nell’art. 4 co 5 all’ipotesi in cui sia il coniuge interdetto ad agire per il divorzio. Effettivamente, se non si riconoscesse all’interdetto la possibilità di chiedere il divorzio (ovviamente a mezzo di un rappresentante) si realizzerebbero delle disparità di trattamento: non solo nei confronti del coniuge capace, ma anche rispetto all’interdettoconvenuto. Ciò sarebbe del tutto ingiustificato, perché la legittimazione dell’interdetto sarebbe concessa, o viceversa negata, sulla base di un elemento accidentale, quale la volontà ed il comportamento processuale dell’altro 32 coniuge. L’eccezione di incostituzionalità viene rigettata, perché quest’interpretazione adeguatrice la supera e priva di utilità un’eventuale pronuncia additiva di incostituzionalità. In questo modo viene garantito all’interdetto un “diritto al divorzio” a trecentosessanta gradi, indipendente dalla sua posizione processuale e soprattutto indipendente dal contegno dell’altro coniuge. 2) La Corte stabilisce che la rappresentanza processuale dell’interdetto per l’azione di divorzio non spetti al tutore, che l’art. 357 c.c. individua come generico rappresentante sia su piano sostanziale che processuale: tale generica previsione non comprende gli atti personalissimi. Su questo punto la Corte richiama le argomentazioni del giudice di merito sopra riportate: il fatto che nel codice civile vi siano particolari disposizioni che espressamente, in via eccezionale e tassativa, attribuiscono al tutore la rappresentanza per specifici atti di natura personale (ad esempio gli artt. 245, 264, 273 c.c.) non fa che dimostrare la generale non-operatività della rappresentanza del tutore in riferimento a tali atti. La legge stabilisce che l’interdetto-convenuto sia rappresentato da un curatore speciale nel giudizio di divorzio: così deve avvenire anche per l’interdetto-attore, cui il presidente del Tribunale nomina un curatore ad hoc che lo rappresenti in quel processo. Sul punto (2) la Corte si è dimostrata più conservatrice. Essa ha destato le critiche di chi riteneva fosse “più logico” che si affermasse la legittimazione processuale del tutore, come rappresentante generale dell’interdetto, anche nel giudizio di divorzio; e che si riservasse la nomina del curatore speciale al solo caso di conflitto di interessi fra interdetto e tutore, come parrebbe più plausibile da una lettura congiunta dell’art. 4 co. 5 l. 898/70 e del comma 2 dell’art. 78 c.p.c.54. Oltre che più plausibile, sia permesso di aggiungere, parrebbe anche più opportuno e conveniente, a patto che si considerino come valori l’economia processuale e la semplificazione. La Corte invece sancisce l’obbligatorietà della Per esempio GRAZIOSO, Su la legittimazione attiva e la rappresentanza processuale dell’interdetto infermo di mente in relazione all’azione di divorzio, cit., p. 1413 ss., nel suo commento alla sentenza critica duramente la decisone “conservatrice” della Cassazione. 54 33 nomina di tale curatore speciale, indipendentemente dalla verifica dell’esistenza di un conflitto di interessi col tutore. Non manca chi ha criticato la sentenza in riferimento al suo profilo più innovativo, quello che ha affermato la legittimazione attiva dell’interdetto. Sono stati analizzati due commenti alla sentenza in esame, ed essi esprimono pareri radicalmente opposti: l’uno appoggia la soluzione innovativa sub (1) e contesta la decisione sub (2), nei termini prima descritti55; l’altro, al contrario, ritiene la soluzione sub (2) del tutto condivisibile, e invece disapprova l’estensione della legittimazione attiva all’interdetto56. Anche quest’ultima critica merita di essere menzionata. La soluzione della Corte, benché condivisibile dal punto di vista dell’equità e dell’accettabilità sociale, si fonda su operazioni logiche poco trasparenti57. Due sono gli elementi che si contestano: il primo riguarda l’interpretazione analogica che la Corte effettua, il secondo attiene all’asserita disparità di trattamento (con pericolo di violazione dell’art. 3 Cost.) fra coniuge capace e coniuge interdetto. L’estensione analogica non è consentita per le norme di carattere eccezionale, ex art. 14 delle preleggi: ciò che bisogna chiedersi è se l’art. 4 co. 5 l. 898/70 sia norma di carattere eccezionale rispetto ad una disciplina più generale. La norma generale è costituita dal comma 2 dell’art. 78 c.p.c., che prevede la nomina del curatore speciale nel solo caso di conflitto di interessi fra tutore e interdetto. Ora, in base alla soluzione data dalla stessa Corte al punto (2), l’art. 4 co. 5 l. 898/70 è da interpretarsi nel senso che la nomina del curatore ad hoc è sempre obbligata e l’assenza di conflitto d’interessi non rileva; se ne GRAZIOSO, Su la legittimazione attiva e la rappresentanza processuale dell’interdetto infermo di mente in relazione all’azione di divorzio, cit., p. 1413 ss. 56 CICCHITELLI, La capacità dell’interdetto di esercitare le azioni relative allo status coniugale, cit., p. 2757 ss. 57 Lo stesso GRAZIOSO, Su la legittimazione attiva e la rappresentanza processuale dell’interdetto infermo di mente in relazione all’azione di divorzio, cit., p. 1413 ss., benché ritenga che la sentenza in commento rappresenti “un importante passo, nel senso di riconoscere la legittimazione processuale attiva dell’interdetto all’azione divorzile” (e dunque esprima una valutazione opposta a quella di CICCHITELLI, ult. cit.), ritiene discutibile l’interpretazione analogica effettuata dalla Corte, sulla base di una “frettolosa e sostanzialmente immotivata disapplicazione dell’art. 14 delle preleggi”. 55 34 deduce il carattere speciale, derogatorio, della norma. La coerenza avrebbe voluto che si scegliesse una di queste due strade, alternativamente: a) interpretare l’art. 4 co. 5 conformemente all’art. 78 c.p.c. co. 2, come necessità di nomina del curatore subordinata alla verifica del conflitto d’interessi, e quindi legittimamente effettuare un’interpretazione analogica “adeguatrice”che consente anche al coniuge interdetto di agire per chiedere il divorzio; b) se si interpreta l’art. 4 co. 5 nel senso che un curatore speciale va nominato sempre e comunque, allora l’estensione in via analogica della norma all’interdetto-attore è da escludersi, e nessuna apertura è consentita, per quanto costituzionalmente adeguata e socialmente accettabile. Quanto all’asserita disparità di trattamento, che la Corte afferma di rimuovere con un’interpretazione costituzionalmente orientata, non è mancata questa obiezione: che il trattamento è diverso perché la situazione del coniuge interdetto e quella del coniuge capace sono diverse; che “l’interdetto è una persona in tutto e per tutto uguale alle altre ma ha perso, suo malgrado, un bene preziosissimo: la salute mentale”58. L’interdetto dichiarato tale dopo la celebrazione del matrimonio si vede privato della capacità giuridica come qualsiasi altro interdetto giudiziale, con l’unica differenza che la sopravvenuta incapacità va a toccare anche le situazioni giuridiche determinate dallo status matrimoniale. La Corte, con motivazioni “buoniste”, forse attente alle problematiche sociali ma poco alla coerenza giuridica, non si rende conto di quanto sia pericoloso parlare di disparità di trattamento in un siffatto contesto, perché allora molte delle preclusioni dettate dalla legge per gli interdetti sarebbero “in odore di incostituzionalità”59. Così si esprime CICCHITELLI, La capacità dell’interdetto di esercitare le azioni relative allo status coniugale, cit., p. 2756: l’autore si mostra fortemente critico verso la decisione in esame e verso le motivazioni che la Corte adduce, forse appaganti sul piano della razionalità sociale e politica, ma del tutto prive di congruenza giuridica. 59 Di nuovo CICCHITELLI, La capacità dell’interdetto di esercitare le azioni relative allo status coniugale, cit., p. 2756. 58 35 8. Autorizzazione ad interrompere le cure e questioni di legittimazione. Ecco un altro caso che si snoda per sentieri sdrucciolevoli, quelli dei diritti personalissimi, del conflitto di interessi di cui al comma 2 dell’art. 78 c.p.c., e di una legittimazione contesa: fra il tutore, come rappresentante legale generale, ed un curatore nominato ad hoc. Il delicatissimo scenario in cui il fatto si compie vede una donna interdetta, da anni in coma vegetativo permanente, e suo padre, che è anche il suo tutore; questi chiede al giudice l’autorizzazione per interrompere le cure della figlia, e in particolare l’alimentazione artificiale, facendo rilevare l’irreversibilità delle sue condizioni. La domanda viene rigettata dalle Corti di merito: non perché il tutore non sia legittimato, ma perché il trattamento per cui si richiede l’autorizzazione è considerato illegittimo. Il padre-tutore fa ricorso per cassazione60. L’elemento procedurale da cui la decisione prende le mosse è la mancata notificazione del ricorso, da parte del tutore-ricorrente, ad alcun contraddittore; questo difetto viene rilevato dal Procuratore generale, che eccepisce l’inammissibilità del ricorso. La Corte si rifà ad un proprio precedente, in cui aveva affermato che l’avvenuta notificazione del ricorso è normalmente un requisito di ammissibilità dello stesso61. Normalmente, nel senso che in un procedimento di natura non contenziosa, unilaterale, in cui non sia in gioco altro interesse che quello del ricorrente, è ovvio che il ricorso non debba – anzi, non possa – essere notificato ad alcuno. La Corte si chiede se in questo caso siano individuabili interessi contrapposti a quelli del ricorrente, che comportino la notificazione del ricorso a chi ne è portatore: risposta affermativa. Il controinteressato sarebbe la stessa 60 61 Cass., ord. 20 aprile 2005, n. 8291, in Fam. dir., 2005, 5, p. 481. Cass., sent. 27 aprile 2002, n. 6167, in Foro it., 2002, I, 3139. 36 figlia inferma. Vi sarebbe, secondo la Corte, un conflitto fra l’interesse del tutore e quello della persona sottoposta a tutela: un conflitto per lo meno potenziale, nel senso che le rispettive concezioni della vita e della morte potrebbero non coincidere, e ciò che il tutore intende chiedere per la tutelata potrebbe essere difforme da ciò che la tutelata vuole per sé. Atteso che questi interessi potrebbero essere di segno opposto, la norma da applicarsi è l’art. 78 c.p.c., che di fronte ad un conflitto d’interessi tutore-tutelato prevede la nomina di un curatore speciale in capo a quest’ultimo. Il ricorrente, quindi, avrebbe dovuto notificare il ricorso al controinteressato, cioè al curatore speciale, in quanto rappresentante speciale degli interessi dell’interdetta. La Corte emette ordinanza di inammissibilità del ricorso per mancata notifica al controinteressato. Essa non si pronuncia né sulla legittimità della richiesta, nè sulla legittimazione del tutore (profili che possono peraltro essere sovrapposti perché, comunque il discorso sia formulato, si tratta di capire che cosa rientri nell’ambito della cura della persona di cui parla l’art. 357 c.c.). Questi profili sono questioni di merito, dice la Corte, e in quanto tali non possono essere oggetto d’esame in sede di ricorso per cassazione. È stato analizzato un commento fortemente critico nei confronti delle posizioni espresse dalla Corte nell’ordinanza62: in verità, queste critiche sembrano così fondate da meritare un approfondimento. A rigor di logica (ma forse, di una logica troppo spontanea e troppo poco sofisticata per il giudice di legittimità) parrebbe che la Cassazione avesse di fronte a sé le seguenti alternative: rigettare, ritenendo il trattamento illegittimo o il difetto di legittimazione del tutore; accogliere, affermando che il trattamento è legittimo e che il tutore risulta legittimato a richiederlo. La Corte non percorre alcuna di queste vie, ma si fa strada per intricati sentieri, che indubbiamente hanno il vantaggio, dice chi critica, di sottrarsi Il commento alla sentenza che è stato analizzato è quello di FIGONE, Poteri del tutore, diritti del malato in coma vegetativo e questioni processuali, in Fam. dir., 2005, 6, p. 674. 62 37 all’acceso dibattito che in questi anni coinvolge l’etica, la medicina e il diritto. Il primo nodo da sciogliere è che cosa significhi conflitto di interessi ex art. 78 c.p.c.. Esso è da intendersi come un contrasto, anche solamente potenziale, tra rappresentante e rappresentato, laddove il rappresentante persegua o abbia la possibilità di perseguire un proprio fine personale, incompatibile e anzi contrario a quello del rappresentato. Un classico caso di conflitto è quello del rappresentante e del rappresentato comproprietari per quote di un immobile, nel momento in cui si proceda alla divisione; oppure quello, per avvicinarci alla fattispecie in esame, del tutore-genitore che, chiedendo una buona morte per la figlia, aspiri in realtà all’acquisizione del suo patrimonio per successione. Esso pare ravvisabile, insomma, in tutte quelle ipotesi in cui: a) vengono in rilievo gli interessi propri, personali del rappresentante-tutore; b) essi potrebbero assumere segno opposto a quelli propri dell’interdetto- rappresentato. Quello a cui ci si trova di fronte non è un conflitto d’interessi nel senso appena descritto, che è in realtà l’unico senso da attribuire all’art. 78 co. 2 c.p.c.. Nel caso esaminato pare sussistere, semmai, una “divergenza valutativa dell’atto da compiere”63, fra ciò che il tutore ritiene giusto per il tutelato e ciò che il tutelato ritiene, o meglio riterrebbe se fosse nelle condizioni di esprimere la propria volontà, giusto per sé. Tuttavia questa divergenza valutativa, a ben vedere, non sembra rientrare fra le “patologie” del rapporto tutore-tutelato: essa è ravvisabile anche nei casi in cui il legislatore espressamente legittima il tutore ad esercitare diritti personalissimi del tutelato (si pensi nuovamente alle previsioni degli artt. 119, 245, 264, 273 c.c.). Lo stesso padre-tutore avrebbe potuto chiedere, previa autorizzazione, l’annullamento del matrimonio della figlia interdetta ex art. 119 c.c.: e magari la figlia avrebbe desiderato, invece, mantenere in vita il vincolo matrimoniale. Oltre alle ipotesi previste dal codice, si pensi a quella descritta dall’art. 13 della legge 22 maggio 1978, n. 194, in base alla quale il tutore è legittimato a Rende bene l’idea l’espressione utilizzata da FIGONE, Poteri del tutore, diritti del malato in coma vegetativo e questioni processuali, cit., p. 674. 63 38 chiedere al giudice tutelare l’autorizzazione all’aborto per la donna interdetta: di nuovo, non è escluso che vi siano divergenze valutative fra ciò che il tutore chiede e ciò che la donna, per ipotesi in stato vegetativo (com’ è nel caso in esame) vorsrebbe, se solo si potesse esprimere. A queste divergenze di valutazione, tuttavia, il legislatore non fa conseguire la nomina di un curatore speciale: le considera, probabilmente, fisiologiche e non patologiche, questioni di certo delicate che sono parte del delicato ruolo del tutore. La ricostruzione della fattispecie come conflitto d’interessi, quindi, non pare corretta. Si assuma, tuttavia, che lo sia, e che sia nominato un curatore speciale all’interdetta applicando l’art. 78 c.p.c.: quale sarebbe il suo ruolo? Verrebbe da dire, il ruolo di chi assume la rappresentanza dell’incapace in relazione allo specifico atto per cui è nominato; di colui che si sostituisce al tutore per il compimento di un atto determinato. Non è questa, però, la risposta data dalla Corte. Ecco l’iter argomentativo che essa segue: si doveva nominare un curatore speciale; questi doveva esser messo nelle condizioni di partecipare al processo come contraddittore necessario, portatore degli interessi dell’interdetta; il ricorso è inammissibile perchè il tutore non lo ha notificato al curatore così nominato. La Corte non sembra intendere il curatore speciale come un sostituto ad hoc del tutore, bensì piuttosto come un “contraddittore dell’istante, portavoce di chi non è in grado di esprimere la sua volontà”. Nello stesso processo, paradossalmente, due soggetti starebbero in giudizio in nome e per conto dell’interdetta, ma in potenziale conflitto reciproco. L’ultimo elemento da valutare è se effettivamente costituisca questione di merito, insuscettibile di verifica in sede di ricorso per cassazione, la questione della legittimazione del tutore. Rispondere a detta questione significherebbe stabilire se l’azione esercitata sia da comprendere nel potere generale di cura della persona, spettante al tutore in base al combinato disposto degli artt. 357 e 424 c.c.. Le critiche mosse alla sentenza sostengono che non si tratti di una questione di fatto, come tale preclusa alla Corte, bensì di un problema di 39 interpretazione di norme giuridiche, quindi di stretto diritto64. In base a queste considerazioni, la Corte avrebbe potuto pronunciarsi sulla questione senza invadere la sfera del fatto, che non le spetta. Ecco le risposte che essa avrebbe potuto dare al quesito: a) il tutore è legittimato ad agire per richiedere l’autorizzazione a sospendere interventi non più terapeutici, ma piuttosto di accanimento terapeutico, perché tale potere è da ritenersi compreso nella cura (in senso lato) della persona; b) il tutore non è legittimato perché la cura della persona di cui agli artt. 357 e 424 c.c. non può essere interpretata in un senso così ampio, ma sono legittimati altri soggetti, per esempio i familiari più stretti in quanto portatori, diversamente dal tutore, di sentimenti di affetto e solidarietà nei confronti del congiunto malato; c) l’intervento per cui si chiede l’autorizzazione è illegittimo in ogni caso, a prescindere da chi lo compia, perciò né i familiari né tanto meno il tutore sono legittimati a richiedere l’autorizzazione. Così intende la questione FIGONE, Poteri del tutore, diritti del malato in coma vegetativo e questioni processuali cit., p. 675. 64 40 41 CAPITOLO II L’INCAPACE NATURALE COME PARTE NEL PROCESSO SOMMARIO: 1. Premessa d’inquadramento: utilità e problemi dell’istituto dell’incapacità naturale. – 2. Quando il ricovero in manicomio poteva sostituire l’interdizione. – 3. La Cassazione sancisce il principio dell’irrilevanza: l’incapacità naturale di un soggetto non ne determina l’incapacità processuale. – 4. La regola dell’irrilevanza e gli interessi in gioco. – 5. Problematiche costituzionali: è leso il diritto di difesa dell’incapace naturale? – 6. Le soluzioni alternative dei giudici di merito per i casi di urgenza. – 7. (segue) La nomina del curatore speciale di cui all’art. 78 c.p.c. – 8. (segue) I “provvedimenti urgenti” del giudice tutelare. – 9. Riflessioni e proposte: ciò che ancora non soddisfa gli interpreti . 1. Premessa d’inquadramento: utilità e problemi dell’istituto dell’incapacità naturale. L’incapacità non è solo quella accertata e dichiarata dal giudice nelle sentenze di interdizione e di inabilitazione, che prende il nome di incapacità legale. Il legislatore ha previsto un’altra forma di incapacità, che in dottrina si è soliti chiamare incapacità naturale. Essa non si fonda su alcuna dichiarazione giudiziale: consiste in una semplice condizione di fatto, non incisa da alcun provvedimento. Se per la dichiarazione giudiziale di interdizione o d’inabilitazione la sussistenza di una condizione di fatto è un semplice presupposto, l’incapacità naturale è essa stessa un fatto. In quanto fatto, il legislatore non la disciplina direttamente, ma disciplina le sue conseguenze in vari articoli sparsi nel codice civile. Certamente quello dotato di più ampia applicabilità è l’art. 428 c.c., che disciplina l’impugnabilità degli atti e dei contratti conclusi da persona incapace d’intendere o di volere. 42 Il presupposto è l’incapacità di intendere o di volere; la conseguenza è l’esperibilità dell’azione di annullamento da parte della persona medesima, dei suoi eredi o aventi causa. A seconda che si tratti di atto unilaterale o di contratto poi, si sommano altri presupposti: il grave pregiudizio per l’autore, in riferimento ai primi; per i secondi, oltre al pregiudizio serve provare la malafede dell’altro contraente. L’articolo parla di “incapacità di intendere o di volere”: l’una fa riferimento alla sfera intellettiva del comprendere, l’altra alla sfera della volontà. Le due espressioni sono accostate in maniera disgiuntiva: non occorre il concorso di entrambe, è sufficiente la sussistenza di una sola di esse ai fini dell’annullamento. L’articolo in questione è uno fra i più discussi che il codice civile contenga. Esso ha introdotto un’importante novità nell’ordinamento, perché nel vecchio codice del 1865 non vi era traccia di una misura siffatta. Il vecchio codice si limitava ad ammettere l’annullamento degli atti compiuti dall’interdetto anteriormente alla pronuncia d’interdizione, in presenza di determinati presupposti: si prevedeva solamente l’annullabilità degli atti anteriori all’interdizione, là dove il soggetto già a quel tempo si trovasse nello stato d’incapacità che avrebbe poi condotto alla dichiarazione giudiziale. A disciplinare in via generale l’incapacità naturale, non seguita da interdizione, provvedevano dottrina e giurisprudenza, che la inquadravano nella mancanza di un elemento essenziale del negozio giuridico – il consenso - , che come tale produce la nullità dell’atto65. Nei primi anni successivi all’entrata in vigore dell’attuale codice, in verità, parte della giurisprudenza e della dottrina faticava ad attribuire rilievo giuridico all’incapacità di fatto, non seguita da alcuna pronuncia giudiziale Questo l’orientamento maggioritario sia in dottrina che in giurisprudenza nel vigore del codice abrogato: cfr. VENCHIARUTTI, La protezione civilistica dell’incapace, cit., p. 390. L’autore riporta la posizione della dottrina dominante, la quale sosteneva che “là dove nel soggetto, per disordine psichico pur momentaneo, mancava l’attitudine a comprendere la portata dell’atto e a formare, in libertà di coscienza, la propria volontà, il negozio doveva considerarsi senz’altro affetto da nullità”. 65 43 interdittiva e nemmeno fondata sugli stessi presupposti dell’interdizione: perciò si applicava l’art. 428 con molta cautela, e solo nelle ipotesi in cui la condizione d’incapacità avrebbe potuto condurre ad una pronuncia di interdizione, se fosse stata abituale e non solo temporanea: dunque, solo nelle ipotesi di grave infermità mentale66. L’interpretazione della norma è progressivamente mutata. La Cassazione ha più volte affermato che, ai fini dell’annullamento ex art. 428, non occorre provare la sussistenza di una malattia che escluda in modo totale le facoltà psichiche del soggetto: è necessario e sufficiente un “perturbamento psichico anche transitorio e non dipendente da una precisa forma patologica67”, che comprometta le facoltà intellettive o volitive del soggetto, anche senza escluderle del tutto. Per i contratti, è sufficiente che il contraente non fosse capace, al momento della stipulazione, “di rendersi conto delle conseguenze che gli sarebbero derivate dal contratto”68. In questo contesto, assumono rilievo anche situazioni che di certo non potrebbero condurre ad una pronuncia d’interdizione: anche disturbi fisici come un trauma cranico o un’emorragia cerebrale o altre gravi malattie nonché, secondo alcuni studiosi, anche l’ipnosi e il sonnambulismo69. Infine, sono da rammentare le finalità dell’istituto. Anche qui entrano in gioco le stesse forze che abbiamo visto scontrarsi nel giudizio d’interdizione: la finalità di protezione del soggetto debole da un lato, e quella di garantire la certezza dei rapporti giuridici. L’annullamento è previsto a tutela dell’incapace; ma i requisiti ulteriori rispetto all’incapacità, previsti dall’art. 428 c.c. per ottenere tale annullamento, sono posti a tutela della collettività, che chiede la certezza dei rapporti giuridici. La prova della gravità del pregiudizio, oltre a Cfr. VENCHIARUTTI, La protezione civilistica dell’incapace, cit., p. 398 per tutte le posizioni espresse da dottrina e giurisprudenza. L’autore afferma che, in generale, “la protezione dell’incapace naturale continuava ad essere intesa, da giudici e studiosi, quale rimedio concesso all’interdetto”. Un chiaro esempio di tale prassi giurisprudenziale è Cass., 5 febbraio 1970, n.240, in RGC, 1970, Obbligazioni e contratti, n. 18. 67 Cass. 13.11.1991, n. 12117, in Foro It., 1992, I, 2, p. 2456. 68 Cass. 13.11.1991, n. 12117, ult. cit. 69 Cfr. VENCHIARUTTI, La protezione civilistica dell’incapace, cit., p. 402 ss: l’autore fa riferimento soprattutto all’orientamento di SACCO-DE NOVA, Il contratto, I e II, p. 367, in Il trattato di diritto civile diretto da Sacco, Torino, 1993. 66 44 quella della malafede per i contratti, costituisce il contrappeso di carattere pubblicistico ad un istituto di tutela individuale. Un altro elemento di compensazione può essere individuato nella stessa soluzione dell’annullamento, soggetto a prescrizione quinquennale, in luogo della nullità assoluta. Né questa soluzione, più duttile ed efficace, toglie nulla all’esigenza di protezione del soggetto: si ricorda, infatti, che se dopo cinque anni egli non potrà più chiedere l’annullamento, potrà comunque eccepirlo sempre in via di eccezione. Finora si è parlato del ruolo che riveste l’incapacità naturale sul piano sostanziale, e in particolare dell’incidenza di essa sugli atti di diritto sostanziale. Ora ci si sposterà sul piano del processo. Una cosa va subito premessa: nel codice di rito non vi è nessun articolo che, al pari dell’art. 428 c.c. o di altre disposizioni di natura sostanziale, definisca e delimiti l’incidenza dell’incapacità naturale. Un ruolo chiarificatore è stato svolto, nel corso degli anni, dalla giurisprudenza: in questo campo non solo la Cassazione ha avuto una funzione importante, ma anche le corti di merito hanno integrato il dato positivo offrendo soluzioni originali. Inoltre, pure il giudice delle leggi è stato più volte chiamato ad esprimersi. Per queste ragioni, non si può affrontare il discorso della rilevanza processuale dell’incapacità naturale se non analizzando casi, discutendo esempi ed infine riflettendo sulla validità delle soluzioni proposte. La “rassegna di giurisprudenza” che sarà offerta prenderà le mosse da una pronuncia della Cassazione del 1968: un tempo, apparentemente remoto, in cui l’incapace naturale era il “matto” da ricoverare in manicomio in base alla legge 36 del 1904. I casi successivi tratteranno invece della sostanziale irrilevanza dell’incapacità naturale nel processo, e dei problemi che essa comporta. 2. Quando il ricovero in manicomio poteva sostituire l’interdizione. 45 La sentenza che si analizzerà è stata resa famosa da un commento, carico di sdegno e di critiche per l’andamento della giustizia italiana, di Virgilio Andrioli, pubblicato sul Foro italiano del 1968 in commento alla sentenza70. Il caso all’esame della Corte è uno dei tanti sorti nel contesto di quegli anni. Lo scenario giuridico è quello della legge 36/1904, intitolata: “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati”. Il contesto storico è quello dei tristemente famosi manicomi e dei soggetti che lì venivano internati. Per comprendere le vicende all’attenzione della Corte, è opportuno capire che cosa prevedeva la legge 36/1904 per gli internati e che cosa succedeva in pratica. All’art. 1 era previsto che dovessero essere custoditi e curati in un manicomio i soggetti affetti da alienazione mentale per qualunque causa, se: a) pericolosi a sé o agli altri; b) di pubblico scandalo; c) la loro custodia non fosse agevole al di fuori dei manicomi. Gli alienati di cui parla la legge potevano essere soggetti già interdetti o inabilitati; oppure, e più frequentemente, persone nei cui confronti non era intervenuta nessuna dichiarazione giudiziale di incapacità: quindi, perfettamente capaci di agire. L’ammissione nel manicomio si configurava come un vero e proprio procedimento giurisdizionale71, che si apriva con l’istanza dei soggetti legittimati a richiederla e si chiudeva con un provvedimento dell’autorità giudiziaria. L’ammissione provvisoria poteva essere chiesta al pretore dai parenti, ed egli la disponeva soltanto sulla base di un certificato medico presentato congiuntamente all’istanza. L’internamento definitivo poteva essere deciso dal Tribunale solo in un secondo momento: dopo un periodo di osservazione (al massimo di un mese) del soggetto internato in via provvisoria; dopo che il direttore del manicomio avesse presentato una relazione al p.m.; dopo che il p.m. si fosse determinato a fare istanza, al Tribunale in camera di consiglio, per l’internamento definitivo. Si Cass., sent. 13 maggio 1968, n. 1490, riportata con il commento di ANDRIOLI, O’miereco d’e’pazze, in Foro it., 1968, I, pp. 2163 ss. 71 Si trattava di un tipico procedimento di giurisdizione volontaria: per un chiarimento sulla nozione di giurisdizione volontaria, vedi cap. III, § 3. 70 46 trattava di un procedimento di natura chiaramente camerale, oggettiva, che si svolgeva senza alcun contraddittorio. Il provvedimento di internamento definitivo non comportava, di per se stesso, alcuna incidenza sulla capacità di agire del soggetto, che poteva quindi restare pienamente capace. Rientrava nella discrezionalità del giudice l’opportunità di includere, nello stesso provvedimento, la nomina di un tutore provvisorio per l’internato: solo in questo caso costui, benché non interdetto, si sarebbe visto privato della capacità di agire. Quindi, si può affermare che la perdita della capacità d’agire dell’internato era puramente eventuale e rimessa ad una valutazione di opportunità effettuata dal Tribunale. La nomina di un rappresentante provvisorio non è stato un elemento peculiare dell’oggi abrogata legge 36: anche i procedimenti di interdizione e di inabilitazione conoscono questa figura, da nominarsi anche d’ufficio, secondo ragioni di opportunità (art. 717 c.p.c.). Una differenza tuttavia sussiste. Nel caso dell’art. 717 c.p.c., tuttora in vigore, il rappresentante provvisorio è nominato nel contesto del procedimento che porterà (probabilmente) alla pronuncia giudiziale di interdizione: al rappresentante provvisorio sarà sostituito quello definitivo, e ciò che si crea è una semplice anticipazione degli effetti che la sentenza produrrà. Anche in base al dettato della legge 36/1904, alla nomina del tutore provvisorio sarebbe dovuta seguire, fisiologicamente, una regolare istruttoria finalizzata alla pronuncia dell’interdizione: così sembra affermare l’art. 2, laddove prevede che la nomina del rappresentante provvisorio dispieghi i suoi effetti “sino a che l’autorità giudiziaria non abbia pronunziato l’interdizione”. Tuttavia, la nomina del tutore provvisorio rimaneva una misura autonoma e perfettamente efficace, come chiarito dalla Cassazione nella sentenza in esame, anche qualora il p.m., pur essendo tenuto a farlo, non avesse successivamente promosso il ricorso per l’interdizione. Questa ipotesi, in realtà, non era affatto eccezionale. La prassi era spesso questa: di nominare un tutore provvisorio congiuntamente al provvedimento di internamento definitivo, senza poi a ciò far seguire alcunché, nessuna istruttoria 47 e nessuna sentenza. Il “vantaggio” era indubbio: con un solo provvedimento, emesso sulla base di una semplice relazione del direttore del manicomio, si conseguivano gli stessi risultati di una pronuncia di interdizione – cioè la privazione totale della capacità di agire – senza le seccature del lungo e complesso procedimento d’interdizione. E senza, ovviamente, le sue garanzie: in primis, l’esame obbligatorio dell’interdicendo da parte del giudice. Anche quando si fosse inteso privare di effetti il provvedimento, e rendere il soggetto nuovamente capace di agire, il procedimento era molto più snello: era sufficiente che il Tribunale dichiarasse il licenziamento definitivo dal manicomio su istanza del direttore o dei parenti (sentito comunque il direttore), a fronte del procedimento di revoca dell’interdizione, per cui l’art. 720 co. 2 c.p.c. prevede l’applicazione delle norme stabilite per la pronuncia di essa. Tutto ciò costituisce l’antefatto, e lo sfondo, del caso all’attenzione della Corte. Un soggetto, l’attore nella controversia in esame, era stato per ben due volte internato in via definitiva in un manicomio e per ben due volte dimesso in via di esperimento: l’art. 3 della legge 36/1904 prevedeva infatti che lo stesso direttore del manicomio potesse, con un suo provvedimento tempestivamente comunicato all’autorità giudiziaria, ordinare il licenziamento in via di prova “dell’alienato che abbia raggiunto un notevole grado di miglioramento”. Congiuntamente all’ordine di ricovero definitivo, gli era stato nominato un rappresentante provvisorio: la moglie. I due ricoveri erano durati, nell’insieme, pochi mesi; le cosiddette dimissioni “sperimentali” erano durate, complessivamente, nove anni: nel frattempo, né era stato avviato un procedimento d’interdizione, né vi era stata istanza per il licenziamento definitivo. Il soggetto viveva di una pensione di invalido di guerra che l’amministrazione del tesoro gli corrispondeva, versandola su un conto intestato alla moglie, in quanto tutrice provvisoria. Ma i due si separano, e l’amministrazione del tesoro sospende l’erogazione della pensione del marito, in attesa che un nuovo rappresentante provvisorio sia nominato. Per quattro 48 anni non si provvede ad alcuna nuova nomina, e il soggetto rimane senza pensione. Egli agisce in giudizio contro l’amministrazione del tesoro, per vederla condannare al pagamento dei ratei non corrisposti e far ripristinare l’intestazione del libretto a suo nome. L’amministrazione convenuta eccepisce il difetto assoluto di capacità processuale dell’attore. Le corti di merito fanno propria la tesi della convenuta dichiarando la nullità della citazione per difetto di legittimazione processuale dell’attore. La Cassazione compie un ragionamento in apparenza molto lineare, riassuntivo del dato letterale della legge e di alcune sue precedenti pronunce. Il ricovero definitivo non importa la perdita della capacità di agire; essa consegue alla eventuale nomina del tutore provvisorio; tale nomina può aversi tanto nel procedimento d’interdizione quanto col provvedimento col quale il Tribunale autorizza la custodia definitiva; in quest’ultimo caso, se ad essa non segue, “per inerzia del p.m.”, il giudizio d’interdizione, l’ufficio del tutore provvisorio cesserà col provvedimento del Tribunale di licenziamento definitivo dell’alienato guarito; l’ufficio del tutore provvisorio non cessa invece col licenziamento in via di esperimento. Il licenziamento in prova, benché durato nove anni a fronte di un ricovero di sei mesi complessivi, non produce alcun effetto sulla capacità, o meglio sull’incapacità, del soggetto: se il tutore provvisorio era stato nominato, questi resta il rappresentante legale e il tutelato resta incapace di agire, anche se non interdetto. Il ricorrente è privo della capacità processuale, e il ricorso è rigettato. La soluzione data dalla Corte, apparentemente correttissima e inattaccabile, raggiunge un apice di ingiustizia sostanziale che è ai limiti del paradosso. Questo lo si percepisce ictu oculi: un soggetto conduce da anni un’esistenza libera e “normale”. Non è interdetto, ma non può fare nulla: non riceve più la pensione, e non può agire in giudizio per riaverla. Nessuno si adopera per chiederne l’interdizione; nessuno si accolla l’impiccio di chiederne le dimissioni definitive dal manicomio, a nessuno viene in mente che forse 49 sarebbe opportuno nominare un nuovo tutore provvisorio, visto che forse la ex-moglie non è la persona più idonea a rivestire questo ruolo. Le vicende si svolgono, a quanto sembra, nell’inerzia generale. Secondo Andrioli, le cose avrebbero dovuto andare diversamente fin dall’inizio. Le due procure che hanno richiesto l’internamento definitivo avrebbero dovuto promuovere il giudizio d’interdizione, che avrebbe almeno dato la garanzia all’interdicendo di avere un processo serio che decida sulla sua capacità, con un’istruttoria seria e con l’obbligo per il giudice di sentirlo. I giudici di merito avrebbero potuto sollecitare la procura, fino ad allora inerte, a promuovere tale giudizio: il giudice del processo d’interdizione avrebbe potuto nominare un tutore provvisorio diverso dalla ex-moglie, legittimato a far valere in giudizio i diritti del soggetto. Il direttore del manicomio d’altra parte, fa un esperimento che dura nove anni ma non si cura mai di concluderlo, sollecitando i certificati medici che avrebbero potuto portare al licenziamento definitivo. Qui si innesta un meccanismo sottile e perverso, che la legge 36 forse non aveva ben calcolato: l’esperimento in via di prova esonerava i direttori dei manicomi da qualsiasi responsabilità che altrimenti gli spettava. È naturale immaginare che il protrarsi oltremisura dell’esperimento non preoccupava i direttori72. Anche dopo, secondo Andrioli, le vie d’uscita da questa situazione c’erano: bastava guardare alle soluzioni offerte dal codice di rito. In base all’art. 182, commi 1 e 2 c.p.c., il giudice verifica d’ufficio la regolare costituzione delle parti e, quando rileva un difetto di rappresentanza, può assegnare alle parti un termine per la costituzione della persona del rappresentante. Secondo l’art. 78 Sempre ANDRIOLI, O’miereco d’e’pazze, cit., p. 2165, fortemente critico su questo punto, afferma con forza che “sino a quando la dimissione degli infermi per esperimento somministrerà ai direttori dei manicomi l’espediente per sfuggire alle responsabilità, che la legge del 1904 e il regolamento ddel 1909 gli impone (…) non ci sarà zelo di difensori della Costituzione che valga”. L’autore fa riferimento ad un orientamento della Corte Costituzionale di quegli anni, ed in particolare ad una pronuncia (Corte Cost., sent. 27 giugno 1968, n. 74, in Foro it. 1968, I, p. 2056) con cui la Corte dichiara la parziale incostituzionalità della legge sui manicomi, facendo “opera di adeguamento della patria legislazione al canone dell’inviolabilità del diritto di difesa”. 72 50 c.p.c. un curatore speciale può essere nominato all’incapace quando vi siano ragioni d’urgenza e manchi la persona cui spetta la rappresentanza. Il Tribunale e la Corte d’appello chiamate a decidere la controversia in esame avrebbero potuto/dovuto seguire una delle vie prospettate da queste disposizioni. La prima: concedere un termine perché il rappresentante provvisorio (la moglie) si costituisse; meglio ancora, concedere un termine perché fosse nominato un altro tutore provvisorio all’attore, diverso dalla exmoglie, da parte del giudice che aveva provveduto all’internamento definitivo. Certo in quest’ipotesi era inclusa un’attività di interazione fra i giudici dei due procedimenti, che la lettera dell’art. 182 c.p.c. non impone di compiere. La seconda: nominare direttamente un curatore speciale all’attore ex art. 78 c.p.c.. Questa via risultava ancora più immediata, perché in questo caso la nomina poteva essere fatta subito da parte del giudice investito della controversia73. Neanche la Corte di cassazione aveva le mani legate nel decidere il caso: avrebbe potuto (o dovuto?) cassare la sentenza d’appello per violazione dei suddetti articoli 78 e 182 del codice di rito, dato che il giudice di merito avrebbe potuto (o dovuto?) darvi applicazione, e ricondurre la vicenda “sulla via della giustizia sostanziale”74. 3. La Cassazione sancisce il principio dell’irrilevanza: l’incapacità naturale di un soggetto non ne determina l’incapacità processuale. L’interrogativo cui la sentenza in esame75 risponde è il seguente: se anche Secondo ANDRIOLI, O’miereco d’e’pazze, cit., p. 2165, non vi sarà giustizia sostanziale “sino a quando giudici istruttori e difensori non si gioveranno delle norme del codice di rito, nelle quali la dottrina ha visto i mezzi di collaborazione tra magistrati e parti per la realizzazione di concreta giustizia”. 74 ANDRIOLI, O’miereco d’e’pazze, cit., p. 2165. L’autore sostiene che “la Cassazione, prendendo spunto dalla violazione degli artt. 78 e 182 del codice di rito, avrebbe potuto ricondurre (la vicenda) sulla via della giustizia sostanziale”. 75 Cass., sent. 4 giugno 1975, n. 2227, in Foro it., 1976, I, p. 98. 73 51 gli incapaci naturali, oltre che gli incapaci legali, siano privi della capacità processuale ex art 75 c.p.c. e debbano quindi stare in giudizio a mezzo di un soggetto che li assista o li rappresenti. Tale sentenza è la prima a fornire una spiegazione completa sul ruolo dell’incapacità naturale nel processo, ed è interessante il raffronto tra il ragionamento da essa seguito e quello, di segno opposto, seguito dalla Corte d’appello. La capacità di intendere e di volere di cui si discute nel caso in esame è quella di un soggetto in età avanzata, che chiede al Tribunale lo scioglimento del proprio matrimonio, già da tempo di fatto cessato. La coniuge convenuta non ci sta, fa rilevare che il marito si trova in condizioni mentali precarie a causa di una malattia che da poco lo ha colpito, e chiede che la sua capacità venga giudizialmente accertata. Il giudice di prime cure risponde che, dalla documentazione fornita, l’attore risulta pienamente capace: un’ulteriore indagine sulla capacità non serve; la domanda dell’attore può essere accolta. In base alle motivazioni che fornisce, il Tribunale dà ragione alla tesi della convenuta: che la capacità naturale sia un presupposto necessario per poter stare in giudizio. Nel merito poi, ritiene che tale capacità sussista. La convenuta, forte della posizione assunta dal Tribunale, che da un punto di vista giuridico le dava ragione, fa appello contestando il merito della decisione: di nuovo sostiene che il marito-attore non è capace d’intendere o di volere ex art. 428 c.c., e quindi non può stare in giudizio. La Corte d’appello compie un’operazione molto interessante. A differenza del giudice di primo grado, prende in serio esame l’articolo 428 c.c.: non solo dal punto di vista del presupposto soggettivo – la capacità d’intendere e di volere –, ma anche da quello oggettivo del “grave pregiudizio” necessario per far annullare un atto di diritto sostanziale. Non solo riafferma la piena capacità naturale dell’attore, ma ritiene anche che nessun grave pregiudizio sarebbe potuto derivare all’attore dallo scioglimento del matrimonio. Un atto processuale come la domanda giudiziale viene considerato 52 alla stregua di un atto di diritto sostanziale, annullabile da parte di chi lo ha concluso quando era incapace di intendere o di volere e allorché l’atto gli abbia causato un grave pregiudizio. Né l’appellante né la Corte d’appello fanno chiarezza sulle modalità con cui potrebbe essere annullato un atto di natura processuale, come lo è una domanda giudiziale o una sentenza. Ciò che importa rilevare è che la Corte compie, a ben vedere, un’equiparazione fra gli atti di diritto sostanziale, annullabili in base all’art. 428, e una domanda giudiziale. Questa equiparazione verrà ripresa successivamente da parte della dottrina, che sosterrà la necessità di individuare anche per gli atti processuali una norma simile a quella contenuta nell’art. 428 c.c.76. Di nuovo, la moglie impugna muovendo censure relative alla congruità della prova: a) delle condizioni fisio-psichiche del marito; b) del grave pregiudizio che dalla domanda di divorzio sarebbe derivato al suo autore. Le censure formali sono ovviamente, di legittimità (in particolare, di legittimità della prova); in sostanza però, l’obiezione è sempre nel merito, perché ciò che si contesta è la capacità naturale dell’attore, che il giudice d’appello non avrebbe consentito di provare adeguatamente. La sentenza della Cassazione è esemplare per concisione e chiarezza: infatti, pur non essendo stata la prima a pronunciarsi sulla questione, essa ha per anni costituito il precedente per antonomasia sulla rilevanza processuale dell’incapacità naturale. La Corte rileva come il giudice dell’appello abbia risposto alle eccezioni della convenuta nel merito, accertando in via incidentale la capacità naturale dell’attore. La domanda che la Corte si pone in via preliminare è: doveva farlo? Poteva farlo? La risposta che dà è negativa. I punti salienti del ragionamento della Cassazione costituiscono, ciascuno, una piccola massima, e queste massime formano una sorta di “decalogo” sulla rilevanza dell’incapacità naturale nel processo civile. 1) L’art. 75 del codice di rito è stato concepito come pienamente autonomo Confronta, sul punto, quanto esposto nel § 9 di questo capitolo: sarà ripreso l’interrogativo sull’opportunità di una norma simile a quella contenuta nell’art. 428 c.c. anche per gli atti del processo. 76 53 rispetto all’art. 428 c.c. e non è da valutarsi né da interpretarsi alla stregua di questo. I giudici di merito hanno errato ritenendo che l’incapacità naturale dell’attore dovesse intendersi in base al disposto dell’art. 428. 2) La domanda giudiziale, infatti, a differenza degli atti di natura sostanziale, non è un atto fra le parti soltanto, non è solo rivolto alla controparte né produce soltanto gli effetti voluti dall’autore; essa è rivolta soprattutto al giudice, e si incardina in un rapporto che ha natura pubblica, in cui la volontà del privato non è l’unica a determinare gli effetti dell’atto. 3) La validità degli atti processuali è dunque da valutarsi secondo le regole proprie dell’ordinamento processuale. Gli atti che invece, pur compiuti nel contesto del processo, hanno natura sostanziale, restano soggetti al regime per essi previsto dal codice civile. Ciò che importa è la natura dell’atto, e non l’ambito in cui è compiuto. 4) L’art. 75 c.p.c. attribuisce al giudice il compito di accertare se le parti sono “capaci di stare in giudizio”, e riconosce tale capacità nel “libero esercizio dei diritti che si fanno valere”. Quando si riferisce ai soggetti privi della capacità di stare in giudizio come ai soggetti che hanno perduto tale libero esercizio, richiama una condizione giuridica e non una condizione fisiopsichica. 5) Coloro che, in base all’art. 75 c.p.c., pur avendo raggiunto la maggiore età, non hanno la capacità processuale sono: l’interdetto e l’inabilitato, dalla data di pubblicazione della sentenza di interdizione o inabilitazione (421 c.c.); l’interdicendo e l’inabilitando a cui sia stato nominato un tutore/curatore provvisorio nel corso del giudizio sulla loro capacità (419, co. 3 c.c.); l’ internato in manicomio a cui sia stato nominato un tutore provvisorio (legge 36/1904 art. 2). Per i primi due casi è comunque fatta salva all’interdicendo e all’inabilitando la capacità processuale nel processo d’interdizione o inabilitazione (cfr. cap. I, § 1). La terza ipotesi, ampiamente descritta nel paragrafo precedente di questo capitolo, è stata soppressa a causa dell’abrogazione della legge che la prevedeva. 54 6) La ragione dell’irrilevanza dell’incapacità naturale ai fini della capacità processuale è la seguente: a contrario, sarebbe assurdo richiedere che un soggetto, prima di proporre una domanda giudiziale, dovesse svolgere un’indagine sulle condizioni fisio-psichiche della controparte. L’incapacità legale è invece facilmente constatabile, in quanto risulta dai registri delle tutele e delle curatele, nonché dai registri dello stato civile. 7) Nessun giudice può quindi effettuare accertamenti incidentali sulla capacità: essa può essere incisa soltanto dalla sentenza di interdizione, in via definitiva, o dai provvedimenti provvisori menzionati. Tale divieto costituisce una garanzia per i soggetti. 8) A confermare tale interpretazione dell’art. 75 c.p.c. sono gli stessi lavori preparatori alla stesura del codice di rito. Prima dell’approvazione del testo definitivo, erano stati presentati alcuni progetti che, fra le cause di incapacità processuale, includevano anche qualche cosa di simile alla incapacità naturale. Questo mostra come un dibattito sul rilievo della incapacità naturale nel processo vi era stato, quindi la scelta dell’irrilevanza di essa non costituisce un elemento obbligato, ma piuttosto una scelta di opportunità che il legislatore, ponderandone le conseguenze, ha compiuto. Lo schema Rocco, all’art. 11, prevedeva che “l’incertezza e l’incapacità di agire” privasse un soggetto della capacità processuale; il progetto Redenti menzionava anche la persona “notoriamente inferma di mente”; il progetto preliminare Solmi estendeva l’applicazione della norma “all’infermo di mente anche se non interdetto”. Tutte queste disposizioni furono cancellate nei progetti successivi e il testo definitivo non ne contiene traccia. Ciò conferma proprio il fatto che non vi siano dubbi sull’interpretazione da dare all’art. 75 c.p.c., nel senso di escludere qualsiasi accertamento incidentale sulla capacità, e di attribuire rilievo alla sola incapacità giudizialmente dichiarata. 9) Conclusione: all’incapacità naturale di un soggetto non consegue la perdita della sua capacità processuale, che rimane integra fino a che nei suoi confronti non sia stata pronunciata sentenza d’interdizione o non gli sia stato 55 nominato un tutore provvisorio; nessun accertamento incidentale sulla capacità può essere compiuto, ai fini della verifica della capacità processuale. 10) Obiezione: potrebbe contestarsi che, in base all’interpretazione data, gli incapaci naturali sarebbero privi di qualsiasi strumento di difesa, e privi di tutela. Si pensi al caso di un soggetto infermo di mente che sia convenuto in giudizio: egli magari non si rende neppure conto che nei suoi confronti è stato instaurato un processo; viene da chiedersi come possa, da solo, senza avvalersi della rappresentanza di alcuno e senza l’ausilio di un assistente, difendersi in maniera adeguata. La Corte stessa, nella sentenza, si pone questa domanda; ma risolve la questione molto sbrigativamente, affermando che le persone legittimate possono sempre promuovere, a favore dell’incapace naturale, il giudizio d’interdizione e sollecitare, una volta che esso sia stato instaurato, la nomina del tutore provvisorio ex art. 419 co. 3 c.c.. La questione, in realtà, non è risolta: nel paragrafo 5 sarà analizzato un caso in cui essa è sottoposta, in maniera quasi identica, alla Corte costituzionale. 4. La regola dell’irrilevanza e gli interessi in gioco. La regola dell’irrilevanza dell’incapacità naturale nel processo è una medaglia a due facce. Una faccia rappresenta gli interessi dell’incapace naturale; l’altra, quelli della sua controparte processuale e, per estensione, quelli della collettività. Potremmo chiamare la prima: garanzia del diritto di difesa; e la seconda, interesse alla legalità, prevedibilità e rapidità della decisione. Ogni faccia è divisa in due: metà bianca, e metà nera. Metà rappresenta le incidenze positive di tale regola su ciascuno di questi interessi; metà le incidenze negative, o problematiche. Per prima cosa, si abbia in mente il diritto di difesa dell’incapace naturale nel processo, in particolar modo si pensi al caso dell’incapace convenuto. Alla regola dell’irrilevanza consegue che nessun soggetto possa essere privato della 56 capacità processuale in via incidentale in qualsiasi processo, ma che ciò possa avvenire soltanto mediante un giudizio – quello d’interdizione – in cui è obbligatoriamente previsto l’esame dell’infermo di mente , e nel quale lo stesso può compiere da solo tutti gli atti del procedimento. Questa è, certo, una specificazione del diritto di difesa: costituisce, in fondo, una garanzia per l’incapace naturale. D’altra parte, però, l’irrilevanza potrebbe incidere negativamente su questo diritto: l’incapace naturale, più che di garanzie, ha bisogno di tutele e di protezione. Considerare irrilevante il suo stato psicofisico, che magari non gli consente di rendersi neppure conto che nei suoi confronti è stato instaurato un processo, significa lasciarlo privo di ausili, privo della possibilità di difendersi adeguatamente. Sull’altra faccia della medaglia sta la controparte, che cita in giudizio l’incapace naturale. Essa rappresenta la collettività, quello che è chiamato interesse pubblico. Il principio dell’irrilevanza ha il grande merito di evitare, a chi voglia proporre una domanda giudiziale, l’impossibile compito di indagare sulle condizioni psico-fisiche della controparte; è sufficiente andare a sfogliare i registri delle tutele o quelli di stato civile, e citare in giudizio il rappresentante legale se si apprende che la controparte è interdetta o gli è stato nominato un rappresentante provvisorio; altrimenti, il convenuto infermo di mente è valido destinatario di consegne e notificazioni, e sta personalmente in giudizio. D’altra parte, l’interesse dell’ipotetico attore – coincidente con l’interesse pubblico – è anche quello alla prosecuzione del processo in tempi rapidi e senza interruzioni. Avere come controparte un rappresentante legale, un tutore, certo dà più garanzie all’attore; se la controparte è inferma di mente ma non è interdetta, e quindi nessuno la assiste o la rappresenta, il rischio è che il processo rallenti, o si paralizzi. Soprattutto, questo rischio si avvererebbe se il processo fosse interrotto, nell’attesa che un rappresentante legale, anche provvisorio, fosse nominato all’incapace. Una delle ragioni di rallentamento del processo è quindi l’avverarsi di una causa di interruzione: il problema è capire se sia causa d’interruzione la stessa incapacità naturale di una delle parti. 57 La Corte costituzionale, con due sentenze che si andranno ad esaminare, ha posto sul piatto della bilancia questi interessi, con le loro molteplici sfaccettature, e ha stabilito quale di essi, di volta in volta, prevalga. 5. Problematiche costituzionali: è leso il diritto di difesa dell’incapace naturale? In una questione posta all’attenzione della Corte costituzionale nel 198777, il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 75 co. 2 nella parte in cui non include fra i soggetti privi della capacità processuale gli infermi di mente, incapaci naturali. Vi sarebbe violazione: a) del diritto di difesa ex art. 24 Cost.; b) del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.. L’uguaglianza che si assume violata è quella fra incapaci naturali e incapaci legali, laddove la medesima situazione di fatto – l’infermità mentale – darebbe vita a un trattamento giuridico diverso: gli incapaci naturali, a differenza degli incapaci legali, sono sprovvisti di un rappresentante legale, anche provvisorio, che stia in giudizio per essi e ne assuma le difese. Il diritto di difesa, che anche si assume leso, è inteso nel senso di possibilità concreta di difendere i propri interessi, che all’incapace naturale non verrebbe offerta. Con una concisa ordinanza la Corte costituzionale cerca di cancellare ogni dubbio, dichiarando la manifesta infondatezza della questione. Nessuna disparità di trattamento si crea fra incapaci naturali ed incapaci legali, dal momento che le situazioni sono fra loro diverse e quindi richiedono una differente disciplina: la limitazione della capacità processuale si giustifica solo nei casi in cui l’infermità sia tale da poter dar luogo all’interdizione o inabilitazione. La Corte non ravvisa neppure un contrasto fra la norma impugnata e l’art. 24 Cost., anzi afferma che il diritto di difesa sarebbe garantito proprio dal fatto che nessuna limitazione della capacità processuale può aversi, 77 Corte cost., ord. 19 gennaio 1988 n. 41, in Giur. Cost., 1988, p. 109. 58 se non nell’ambito dei giudizi d’inabilitazione e d’interdizione, a seguito di regolare istruttoria. Non si sa come, ma il principio della difesa sancito dall’art. 24 co. 1 Cost. è posto a sostegno di tesi opposte, che evidentemente non concordano sul significato da attribuire ai termini. Fra la difesa come tutela e la difesa come garanzia, il giudice a quo accoglie il primo significato, mentre la Corte opta per il secondo, giungendo ovviamente a conclusioni opposte a quelle prospettate. A distanza di quattro anni la questione si ripropone, anche se non in maniera identica: questa volta si discute della legittimità di un altro articolo, il 300 c.p.c., e si tira in campo l’istituto dell’interruzione del processo; ma il parametro costituzionale di riferimento è sempre lo stesso: l’art. 24 Cost78. Per comprendere i termini della questione è opportuno chiarire la ratio e le linee cardine dell’istituto. Il codice di procedura civile, nella sezione intitolata “Dell’interruzione del processo” (artt. 299-305 c.p.c.) disciplina le conseguenze che alcuni fatti extra-processuali producono sul piano del processo. La conseguenza consiste in uno stato di quiescenza processuale, che rende impossibile il compimento degli ulteriori atti ed interrompe i termini in corso. I fatti che la producono sono accomunati dalla caratteristica di incidere tutti sulla possibilità della parte di difendersi adeguatamente in giudizio: in particolare, gli eventi che determinano l’interruzione provocano tutti una menomazione di tale possibilità79. Gli artt. 299 e 301 c.p.c., letti “in orizzontale”, prevedono come cause d’interruzione: la morte di una parte, del suo rappresentante legale o del difensore di una delle parti; la radiazione o sospensione dall’albo del difensore di una delle parti; la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti o del suo rappresentante legale; la cessazione della rappresentanza legale. Si è detto che l’interruzione interviene in situazioni in cui l’opportunità per una parte di difendersi sarebbe seriamente compromessa; si può affermare quindi che tale istituto è posto a tutela del principio del contraddittorio, a Corte cost., sent. 2 novembre 1992, n. 468, in Foro it., 1993, I, p. 1043 e in Giur. it., 1994, I, p. 20, con nota di DALMOTTO. 79 Così SALETTI, in Enc. Giur., voce Interruzione del processo, p. 1. 78 59 garanzia della sua effettività80. L’art. 299 c.p.c., laddove prevede come causa d’interruzione la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti, rinvia all’art. 75 c.p.c., che dal novero dei soggetti capaci di stare in giudizio esclude soltanto gli incapaci legali, che hanno perduto il libero esercizio dei diritti, mentre lascia intatta la capacità processuale degli incapaci naturali. Gli artt. 299 e 75 c.p.c., letti congiuntamente, non considerano come causa d’interruzione del processo l’incapacità “di fatto”. Evidentemente, il legislatore non ha considerato l’incapacità naturale come un qualcosa che compromette seriamente l’effettività del contraddittorio. La questione di legittimità costituzionale si origina nel contesto di un giudizio di divisione ereditaria, in cui la parte convenuta era incapace naturale (nella specie, si trattava di un soggetto affetto da sindrome di Down). Il processo si svolge in contumacia perché il convenuto non è neppure in grado di accorgersi che un processo è stato instaurato nei suoi confronti. Secondo il giudice a quo, l’art. 300 c.p.c. (che in modo specifico riguarda l’interruzione per eventi che interessano il convenuto contumace), letto congiuntamente all’art. 75 c.p.c., non offrirebbe all’incapace naturale gli strumenti necessari per difendersi adeguatamente: il diritto di difesa risulterebbe compromesso, e così pure il principio del giusto processo81. La via che il giudice a quo prospetta, per ovviare a ciò, è una sentenza additiva della Corte costituzionale, che dichiari l’illegittimità degli articoli menzionati nella parte in cui non prevedono, se nel processo è convenuto un incapace naturale: a) l’interruzione del processo; b) conseguentemente, la segnalazione del fatto al pubblico ministero, affinché provveda alla nomina di un curatore provvisorio. LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, II, 4° ed., Milano, 1981, p. 195. DALMOTTO, che commenta la sentenza in esame in Giur. it., 1994, I, p. 20. L’autore, che sembra supportare la tesi del giudice a quo, afferma che ”verrebbe così leso il diritto di difesa, e più in generale il principio del giusto processo” e prosegue sostenendo che “in effetti, come ammettere che l’incapace naturale possa efficacemente proteggere in sede processuale i propri interessi, quando magari non è neanche in grado di accorgersi che nei suoi confronti un processo è stato instaurato?”. 80 81 60 La via indicata dal giudice a quo non è del tutto nuova. Nel 1986 una questione analoga era stata giudicata fondata dalla Corte82. Il caso riguardava un soggetto scomparso in base all’art. 48 c.c.; la questione di costituzionalità sollevata riguardava sempre l’istituto dell’interruzione del processo, dato che gli articoli in materia d’interruzione neppure menzionano, fra le cause interruttive, la scomparsa del convenuto. Anche in questo caso il parametro di riferimento era l’art. 24 della Costituzione, l’inviolabilità del diritto alla difesa. La Corte aveva ritenuto la questione fondata: aveva ritenuto che il diritto di difesa dello scomparso verrebbe palesemente violato se il giudice, il quale avverte una situazione di scomparsa, non potesse interrompere il processo e conseguentemente informare il pubblico ministero; quest’ultimo, venuto a conoscenza della situazione di scomparsa, ha il potere-dovere di fare istanza al Tribunale competente per la nomina di un curatore speciale allo scomparso che, come stabilito dall’art. 48 c.c., rappresenti la persona in giudizio; il processo interrotto potrà poi essere riassunto dal curatore stesso o dai controinteressati. Il giudice a quo cerca di riportare la Corte sui suoi passi, descrivendo i due casi – quello dello scomparso e quello dell’incapace naturale – come sostanzialmente analoghi. Effettivamente, i due casi sono analoghi. Non lo sono, a parere della Corte costituzionale, le soluzioni normative che il codice e leggi speciali offrono alle due questioni. Nel caso dello scomparso una pronuncia additiva era necessaria perché nessun altro rimedio era apprestato a tutela del convenuto scomparso, o se c’era risultava del tutto insufficiente (così si era pronunciata la Corte sulla possibilità, prevista dall’art. 48 c.c., che fossero i contraddittori dello scomparso a fare istanza per la nomina del curatore speciale a costui). Nel caso dell’incapace naturale, invece, la Corte ritiene che l’ordinamento appresti già efficaci strumenti per la tutela processuale dell’infermo non ancora interdetto o inabilitato. Tali strumenti sarebbero: 1) l’art. 73 del regio decreto 12/1941, in base al quale al p.m. è attribuita in via generale la tutela dei diritti degli incapaci: questo potere si manifesta nella 82 Corte cost., sent. 16 ottobre 1986, n. 220, in Foro it., 1986, I p. 2669. 61 richiesta, nei casi d’urgenza, dei “necessari provvedimenti cautelari”. Su questa norma, forse un po’desueta, la Corte fonda il ruolo del p.m. nell’attuazione del giusto processo. Questo potere generale troverebbe specificazione, a sua volta, nelle seguenti disposizioni: 2)l’art. 70, ultimo comma, c.p.c., in cui si prevede che il p.m. possa intervenire nei processi in cui ravvisi un interesse pubblico; la tutela degli incapaci corrisponde, dice la Corte, ad un interesse pubblico; quindi il p.m. è legittimato ad intervenire in tutti i giudizi in cui sia parte un incapace naturale; 3) l’art. 71 c.p.c. che, come conseguenza della norma contenuta nell’articolo 70, prevede che il giudice possa comunicare gli atti al p.m., così da facilitare in concreto l’esercizio di questo potere di intervento. Le disposizioni volte alla protezione anche processuale dell’incapace naturale, insomma, non mancherebbero; e il vigile custode dell’effettività di tale protezione sarebbe il pubblico ministero. Una pronuncia additiva che incorpori fra le cause d’interruzione del processo anche l’incapacità naturale, dunque, non è necessaria. Di più: non sarebbe giustificata. Andrebbe a ledere un altro interesse, quello della controparte, che vuole che il processo prosegua e si concluda nel tempo più breve possibile. L’interesse alla prosecuzione del processo è giudicato, in questo caso, prevalente, dato che il diritto alla difesa è adeguatamente garantito dalle norme di cui si è detto83. Le critiche alla decisione giungono copiose. Riassumendole tutte in unica espressione, si potrebbe dire così: che un conto è la tutela, un conto è l’effettività della stessa; che non sono le astratte previsioni di protezione dell’incapace a mancare nell’ordinamento; che non mancano le norme che attribuiscono facoltà di protezione; che non mancano i poteri; a mancare sono i doveri, e l’effettività COSTANTINO, Il giubileo del medico dei pazzi: l’incapace naturale nel processo civile, in Foro it., 1993, I, p. 1044. Anche questo autore commenta la sentenza della Cassazione, e lo fa in termini piuttosto critici. Egli afferma comunque che la stessa disciplina legislativa dell’interruzione del processo, “nella parte in cui ignora l’incapacità naturale, attribuisce esclusiva prevalenza all’interesse alla prosecuzione del processo”. 83 62 della protezione. Certo, la Corte può sindacare solo le leggi, e non la prassi di un sistema che non va. Ma è proprio la legge a rendere la protezione dell’incapace naturale del tutto eventuale, laddove in concreto la affida a dei poteri discrezionali: in base all’art. 71 co. 2, il giudice può comunicare al p.m. gli atti del processo, affinché costui possa intervenire; il p.m., a sua volta, può decidere di intervenire; nel giudizio d’interdizione o inabilitazione che il p.m. ritenga opportuno promuovere, il giudice può nominare un tutore o curatore provvisorio. La soluzione che la Corte individua, ritenendola soddisfacente, si basa sull’esercizio “a catena” di poteri discrezionali. Ci si chiede come un diritto fondamentale, qual è quello di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione, possa esser ritenuto sufficientemente garantito, quando la sua tutela effettiva è rimessa ad una valutazione discrezionale, di opportunità, da parte del p.m. o del giudice84. 6. Le soluzioni alternative dei giudici di merito per i casi di urgenza. Neppure ad alcuni giudici di merito la soluzione della Corte costituzionale è sembrata soddisfacente. Intervenire sull’istituto dell’interruzione del processo, ampliandone la portata oggettiva, forse non era una via percorribile; tuttavia, non si poteva neanche affermare che gli strumenti che l’ordinamento offriva fossero idonei e soddisfacenti, come invece ha sostenuto la Corte. Oltre al problema dell’effettività di cui si è parlato, per il quale una serie di poteri discrezionali difficilmente offrono una valida tutela, si Così, in termini alquanto polemici, si esprime COSTANTINO, Il giubileo del medico dei pazzi: l’incapace naturale nel processo civile, cit., p. 1047: “(…) il processo, infatti, implica l’applicazione di regole predeterminate e (…) costituisce un essenziale strumento di democrazia, in quanto dovrebbe servire a rendere prevedibile la decisione, rendendo trasparenti e verificabili le regole del «giudizio»” (l’autore traccia la distinzione tra processo e giudizio); ancora “con specifico riferimento alla questione affrontata dalla Corte costituzionale, le esigenze di tutela dell’incapace naturale o sono affatto irrilevanti, oppure meritano di essere considerate in sede legislativa”, perché “non appare, invece, ammissibile che siano affidate all’esercizio meramente discrezionale dei poteri ufficiosi del giudice”. 84 63 pone il problema dell’urgenza: in situazioni in cui è necessario provvedere in tempi molto brevi, fornendo un ausilio all’incapace naturale, l’iter procedurale che la Corte stessa prospetta non è certo la risposta adatta. Questo iter, che partirebbe con la comunicazione degli atti da parte del giudice al p.m., e si chiuderebbe, dopo l’avvio del procedimento d’interdizione, con la nomina di un rappresentante provvisorio, nella migliore delle ipotesi potrebbe durare alcuni mesi. La soluzione, oltre che eventuale, si profila come piuttosto lenta. Vi sono casi in cui non si può attendere così a lungo: pena, ancora una volta, un’irrimediabile lesione del diritto alla difesa. Si pensi al caso di un soggetto che si trovi in stato di coma profondo a seguito di un incidente stradale; egli è totalmente privo della capacità di intendere e di volere, e non può materialmente far valere le proprie ragioni in un processo. Non è interdetto: magari solo perché non c’è stato tempo, dopo l’incidente, di promuovere il giudizio, o perché si sperava che le condizioni di salute dell’infermo sarebbero presto migliorate, o perché il giudizio d’interdizione ha un costo e questo costo non poteva essere sostenuto. C’è bisogno di agire con urgenza per il risarcimento dei danni contro le compagnie assicurative, i proprietari e i conducenti dei veicoli che hanno provocato il sinistro; oppure, con ancora più tempestività, bisogna intervenire nei giudizi di risarcimento promossi da altri danneggiati. L’infermo è privo di un soggetto che rappresenti i suoi interessi in giudizio; ma promuovere l’interdizione e attendere la nomina del tutore provvisorio non consentirebbe di agire o di intervenire “in tempo”: in tempo, per esempio, per garantirsi un risarcimento. Ad alcuni giudici di merito sembra iniquo che l’ordinamento non risponda a queste richieste di provvedere subito, e che non possa essere utilizzato un altro strumento, più agile e veloce del procedimento d’interdizione. Le decisioni che si prenderanno in esame sono contenute in decreti, del Tribunale e del giudice tutelare, emessi nel 1997, qualche anno dopo la sentenza della Corte costituzionale sopra descritta. I casi e i fatti sono pressoché identici, entrambi originatisi da un sinistro stradale, con un danneggiato in stato di 64 coma. 7. (segue) La nomina del curatore speciale di cui all’art. 78 c.p.c. La prima soluzione innovativa è offerta dal Tribunale di Cuneo 85. La madre dell’infermo fa istanza al Tribunale chiedendo di essere nominata curatrice speciale del figlio, ex art. 78 c.p.c., così da poter agire in suo nome per il risarcimento; vista l’urgenza, che è presupposto necessario per tale nomina, il giudice ritiene la domanda ammissibile e nomina la madre come curatrice. La questione verte sull’interpretazione da dare all’art. 78 c.p.c., in particolare al primo comma. Mentre il secondo comma, più volte menzionato nel capitolo precedente, si riferisce al peculiare caso del conflitto d’interessi fra rappresentante e rappresentato, il comma primo descrive ciò che avviene allorché “manca la persona a cui spetta la rappresentanza o l’assistenza”: in tale ipotesi può essere nominato all’incapace un curatore speciale, perchè lo rappresenti o lo assista “finchè subentri colui al quale spetta la rappresentanza o l’assistenza”. Bisogna capire quale significato attribuire al verbo “mancare”, utilizzato dal legislatore per il rappresentante o l’assistente dell’incapace: se manchi perché non c’è ancora – non è stato ancora nominato -, oppure perché sia venuto meno, per qualche anomala ragione, colui che già era rappresentante o assistente. Quest’ultimo è il significato che la Corte di cassazione ha costantemente utilizzato. I motivi sono diversi: a) la lettera dell’articolo sembra riferirsi esclusivamente al venir meno del soggetto che già aveva l’assistenza o la rappresentanza; b) se l’art. 75 c.p.c. contiene la regola generale per cui solo gli incapaci legali perdono la capacità processuale, sarebbe assurdo ritenere che l’art. 78, sul solo presupposto dell’urgenza, vi deroghi; c) il progetto preliminare al codice di rito prevedeva espressamente la nomina di un curatore speciale per l’incapace naturale, e se non si vuole considerare una svista la 85 Trib. Cuneo, 28 novembre 1997 (decr.), in Giur. it, 1998, III, p. 1846. 65 modifica apportata al progetto definitivo, allora è da ritenere che il legislatore abbia inteso limitare soggettivamente l’applicazione dell’art. 78 ai soli incapaci legali. Vi è, a ben vedere, un caso in cui il legislatore ha espressamente previsto che sia nominato un curatore speciale al malato di mente non interdetto: si tratta della norma contenuta nell’art. 4 co. 5 della l. 898/70 in tema di scioglimento del matrimonio. Come si è ampiamente osservato ante86, la lettera di tale disposizione prevede che, nel processo di divorzio, al convenuto “malato di mente o legalmente incapace” è nominato un curatore speciale. Nell’analisi compiuta nel capitolo I, § 6 e § 7, è stato evidenziato il profilo della rappresentanza processuale del soggetto “legalmente incapace”, cioè dell’interdetto, e l’estensione che la Corte di cassazione ha compiuto applicando la disciplina anche all’interdetto-attore; qui importa invece mettere in luce l’eccezionalità di questa disposizione legislativa nella parte in cui estende la tutela apprestata all’interdetto anche al malato di mente. La malattia mentale, in realtà, non esaurisce la sfera dell’incapacità naturale, che è molto più vasta, ma ne costituisce una species. L’eccezione è rappresentata dal fatto che è riconosciuta rilevanza processuale anche ad una condizione psico-fisica. L’eccezionalità della norma, tuttavia, conferma il suo carattere derogatorio rispetto ad una regola che va in senso opposto. La pronuncia del Tribunale di Cuneo, in breve, si pone in contrasto con una costante giurisprudenza di legittimità. Neppure in dottrina ci si sente di supportarla87. Altre corti di merito non seguono questa originale linea, preferendo mantenersi sulle posizioni della Cassazione. Qualche giudice, però, ancora non si è rassegnato al fatto che l’art. 78 Cfr. l’analisi di tale disposizione compiuta nel cap. I, § 6 e § 7. VULLO, Nuove prospettive per la tutela processuale dell’incapace naturale, in Giur. it. 1998, III, p. 1846: l’autore prende in considerazione la soluzione “originale” del Tribunale di Cuneo, ma conclude che bisogna prendere atto ”dell’impossibilità di avvalersi del procedimento di nomina del curatore speciale ex art. 78 del codice di rito”; sostiene comunque che “l’interprete deve farsi carico di cercare in altri istituti lo strumento più adatto alla tutela dei diritti dell’incapace naturale”. 86 87 66 proprio non possa costituire l’appiglio per una tutela processuale dell’incapace naturale. Il Tribunale di Asti, di recente, si è rivolto alla Corte costituzionale, dubitando della legittimità dell’articolo in questione nella parte in cui, “secondo il diritto vivente”, non prevede la nomina di un curatore speciale anche per l’incapace naturale; il riferimento è sempre agli articoli 3 e 24 della Costituzione. Il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. sarebbe violato, a detta del giudice a quo, non solo per disparità di trattamento rispetto all’incapace legale (interdetto o inabilitato, che potrebbe beneficiare della nomina del curatore speciale), ma anche all’incapace naturale che sia parte in un processo di divorzio, per quanto prevede la ben nota disciplina sul divorzio (art. 4, co. 5, l. 898/70). Gli sforzi ermeneutici e persuasivi del giudice a quo non producono risultati: la Corte costituzionale dichiara la questione manifestamente infondata88. Ribadisce ancora una volta che l’art. 78 si riferisce solo al soggetto la cui incapacità sia stata giudizialmente accertata; e che nessuna pronuncia additiva si impone, poiché nessuna disposizione costituzionale risulta violata. Da un lato, infatti, la norma contenuta nella legge speciale in materia di divorzio, in quanto norma eccezionale, non può costituire parametro cui rapportare la disciplina generale; dall’altro lato, di nuovo si ripete che non è vero che l’ordinamento non appresti tutela all’incapace naturale. In sostanza, la Corte nel 2006 emette una pronuncia perfettamente in linea con quella di quasi quindici anni prima, allorquando – nel 199289 –era stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di altre norme, ma sempre in riferimento alla protezione processuale dell’incapace naturale. Tuttavia, le ragioni che la Corte offre per sostenere una pronuncia di infondatezza mutano. Nel 1992 il perno della tutela dell’incapace naturale era – sempre e comunque – il giudizio di interdizione: la protezione si realizzava con la nomina del tutore provvisorio, una volta proposta istanza per l’interdizione. Corte Cost., ord. 3 maggio 2006, n. 198, in www.consultaonline.it. Si fa riferimento a Corte cost., sent. 2 novembre 1992, n. 468, in Foro it., 1993, I, p. 1043, oggetto di esame nel § 5. 88 89 67 Nel 2004 le cose cambiano: la legge 9 gennaio, n. 6, introduce una nuova forma di protezione dei soggetti che, con una terminologia tutta nuova, definisce “privi in tutto o in parte di autonomia”: l’istituto dell’amministrazione di sostegno. Essa non solo si affianca alle due misure già esistenti, ma si profila come la misura di protezione per antonomasia, destinata a sostituire, nella grande maggioranza della prassi applicativa, le altre. La Corte costituzionale, nel 2006, non poteva non farvi menzione. Se già prima i mezzi di tutela dell’incapace naturale erano ritenuti sufficienti, ora lo “strumentario” si è ampliato notevolmente. Gli strumenti normativi a tutela dell’incapace naturale, “specie a seguito della legge 9 gennaio 2004, n. 6, … prendono già in considerazione – anche attraverso provvedimenti provvisori – l’esigenza che tale protezione consegua ad un procedimento adeguato”90. Si vuole insomma che qualsiasi limitazione, anche provvisoria, della capacità processuale, sia il frutto ponderato di un procedimento. La motivazione dell’ordinanza, nella sua concisione e stringatezza, non esplicita quali siano queste forme di protezione che si concretano in “provvedimenti provvisori” e che quindi si attagliano alle situazioni di urgenza. Si può pensare, ragionevolmente, che la Corte faccia riferimento all’art. 405 co. 3 c.c., in base al quale il giudice tutelare chiamato a decidere sull’istanza di nomina di un amministratore di sostegno può adottare, anche d’ufficio, i provvedimenti urgenti e può nominare un amministratore di sostegno provvisorio individuando gli atti che può compiere: uno di questi potrebbe essere la rappresentanza o l’assistenza processuale in un giudizio in corso. Dell’amministrazione di sostegno si parlerà più approfonditamente nel capitolo successivo. Ciò che importa rilevare è che il giudice delle leggi ha avuto un argomento in più per riaffermare la sua consolidata posizione: l’incapace naturale risulta già tutelato dall’ordinamento, e l’art. 78 c.p.c. non si tocca. 90 Corte Cost., ord. 3 maggio 2006, n. 198, in www.consultaonline.it. 68 8. (segue) I “provvedimenti urgenti” del giudice tutelare. Nello stesso anno, quasi contemporaneamente, la stessa richiesta viene presentata al Tribunale di Torino: si chiede che ad un soggetto in stato di coma, non interdetto, venga nominato un curatore speciale che lo rappresenti nei giudizi risarcitori. La richiesta questa volta è rigettata91. Il caso, tuttavia, ha un seguito. I familiari dell’infermo si rivolgono al giudice tutelare (l’allora pretore, che rivestiva anche questa funzione): questa volta i ricorrenti si limitano a chiedere “i provvedimenti del caso”, senza specificare quale specifico provvedimento né sulla base di quali norme debba essere emanato. L’urgenza di provvedere, in questo caso, era doppia. In primis, nello stesso sinistro che aveva causato l’infermità del soggetto vi era un altro danneggiato; questi, aveva agito contro la compagnia assicurativa, e aveva chiesto la condanna ad una provvisionale che, se accolta integralmente, avrebbe assorbito completamente il massimale assicurativo (art. 24 della legge 990/69); il soggetto in stato di coma avrebbe dovuto essere presente all’udienza di comparizione, fissata di lì a poco per la decisione sulla provvisionale, per poter concorrere alla spartizione del massimale assicurativo; se non fosse comparso, avrebbe rischiato di veder vanificato il suo diritto al risarcimento. Inoltre, vi era un’urgenza economica: le cure mediche e l’assistenza comportavano spese ingenti, per le quali i familiari non disponevano delle somme necessarie. Ottenere un risarcimento significava dare al malato una possibilità di cura. La richiesta dei “provvedimenti del caso” dà ampio spazio di movimento al giudice. Se la procedura d’interdizione è troppo lenta per la tempestività che il caso richiede, se dell’art. 78 c.p.c. non ci si può avvalere, il giudice di Torino individua altre norme, più adatte alla tutela immediata dei diritti dell’incapace naturale. Sulla base di queste, decreta la nomina di un “amministratore provvisorio del patrimonio” a cui conferisce la rappresentanza processuale 91 Trib. Torino, 22 ottobre 1997 (decr.), in Giur. it., 1998, III, p. 1849. 69 dell’infermo92. Gli strumenti normativi individuati sono: 1) l’art. 35, comma 6, della legge 833/78. La legge abolitiva dei manicomi prevede che il giudice tutelare possa adottare “i provvedimenti urgenti” occorrenti “per conservare e amministrare il patrimonio dell’infermo” che sia stato sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio. Il giudice di Torino ritiene che la situazione degli infermi di mente sottoposti a trattamento sanitario obbligatorio sia analoga a quella dei soggetti in coma profondo; ritiene legittima un’estensione analogica dal lato soggettivo; ritiene che tra i provvedimenti urgenti rientri la nomina di un rappresentante provvisorio. 2) l’art. 361 c.c., che riguarda i “provvedimenti urgenti” nell’ambito della tutela dei minori. Esso consente al giudice tutelare di adottare genericamente i provvedimenti urgenti per la cura del minore o del suo patrimonio; in base all’art. 424 c.c., tale norma è applicabile anche alla tutela degli interdetti; secondo la prevalente giurisprudenza di merito, tale potere include anche quello di nominare un tutore provvisorio addirittura prima che sia proposta l’istanza di interdizione. Se si accoglie l’interpretazione prevalente dell’art. 361 c.c., le due disposizioni normative hanno un contenuto praticamente identico: l’urgenza, come presupposto; come oggetto, si parla genericamente di “provvedimenti urgenti”; il soggetto attivo che appresta la tutela è sempre il giudice tutelare. Se la sentenza della Corte costituzionale del 1992 poneva in risalto il ruolo del p.m. come vigile protettore degli interessi degli incapaci naturali, il giudice di Torino evidenzia la figura del giudice tutelare, sotto una luce nuova. La tutela che egli appresta è quella in via d’urgenza, che le norme suddette gli consentono di offrire; al di fuori dei casi d’urgenza, è il p.m. a tutelare la l’incapace naturale, promuovendo il giudizio d’interdizione (417 c.c.). Questa è la distinzione dei ruoli che emergerebbe da una lettura congiunta delle disposizioni codicistiche e dell’art. 35, co. 6 della l. 833/78. Il giudice tutelare di Torino ritiene dunque che sia in suo potere 92 Pretura Torino, 11 novembre 1997 (decr.), in Giur. it., 1998, III, p. 1850. 70 intervenire, in un caso in cui l’impellenza è fuor di dubbio, nominando un rappresentante provvisorio sulla base delle norme descritte. A questa figura ci si riferisce nel decreto col nome di “amministratore provvisorio del patrimonio” e di “amministratore provvisorio di sostegno”: è una terminologia che deriva soltanto dalla prassi applicativa dell’art. 35 l. 833/78, ma non si ritrova nel testo della legge né in alcuna disposizione legislativa. Sulle norme citate, e in particolare sull’art. 35 della l. 833/78, il giudice tutelare di Torino fonda una tutela processuale degli incapaci dal carattere nuovo ed originale, colmando una lacuna del sistema codicistico93. 9. Riflessioni e proposte: ciò che ancora non soddisfa gli interpreti. Qualcosa ancora non soddisfa parte degli interpreti. Non vi è dubbio che il nostro codice di rito sancisca la regola dell’irrilevanza nel processo dell’incapacità naturale. Gli artt. 75 e 78 c.p.c. si riferiscono ai soli incapaci “dichiarati”. L’incapacità naturale, fino a quando non sia stata accertata nel procedimento d’interdizione o inabilitazione, o fino a quando all’interno di tali procedimenti non venga nominato un tutore o un curatore provvisorio, non assume rilievo nel processo. L’art. 4 co. 5 della l. 898/70 in materia di divorzio, laddove prevede la nomina di un curatore speciale al convenuto “malato di mente”, costituisce disciplina eccezionale, derogatoria, che conferma l’opposta regola generale. Non solo la Corte di cassazione ha più volte sottolineato la regola dell’irrilevanza; anche la giurisprudenza costituzionale la ha sancita come principio. In riferimento all’opportunità di rendere l’incapacità naturale causa d’interruzione del VULLO, Nuove prospettive per la tutela processuale dell’incapace naturale, cit, p. 1848, giudica apprezzabile la soluzione offerta dal Tribunale di Torino, “per aver valorizzato, con una motivazione distesa e convincente, le ragioni di natura ordinamentale che sono sottese all’impegno interpretativo e sistematico volto ad attribuire rilievo alla nozione di incapacità naturale nel contesto del processo civile”. 93 71 processo, il giudice delle leggi ha ritenuto prevalente l’interesse della controparte alla prosecuzione del processo. Il diritto di difesa dell’incapace naturale sarebbe garantito comunque, con altri mezzi. Gli altri mezzi, però, per profili diversi non risultano appaganti 94. Alla luce di tutte le sentenze riportate, alla luce di un dibattito “a singhiozzo” che dura da decenni, è opportuno fare il punto della situazione: verranno qui riportate le soluzioni già descritte, con le relative critiche. Prima soluzione: dare applicazione agli artt. 70, ultimo comma, e 71 co. 2, c.p.c., come suggerito dalla Corte costituzionale. Il giudice esercita la sua facoltà di comunicare al p.m. gli atti del processo in cui è parte un incapace naturale; il p.m. esercita la sua facoltà di intervenire in detto processo. Poi, il p.m. promuove l’azione d’interdizione, e chiede la nomina di un tutore provvisorio. Critiche: è la via più “ortodossa”, ma è macchinosa e lenta e non si attaglia alle situazioni di urgenza. Seconda soluzione: applicare l’art. 78 c.p.c., interpretandolo liberamente come norma di tutela generale degli incapaci, anche naturali, nelle situazioni di urgenza. Critiche: contrasta con la lettera dell’articolo in questione e dell’art. 75 c.p.c., contrasta con quanto si appalesa da una lettura dei lavori preparatori al codice di rito, contrasta con una costante giurisprudenza di legittimità. Terza soluzione: estendere l’applicazione di norme originariamente dettate per contesti particolari e per situazioni d’urgenza(l’art. 361 c.c. e l’art. 35 co. 6 l. 833/78), che conferiscono al giudice tutelare un generico potere di provvedere; applicarle analogicamente in virtù del fatto che non si tratta di norme derogatorie ed eccezionali, benché riferite ad ambiti peculiari; dar forma a questo generico potere attraverso la nomina di un cosiddetto “amministratore provvisorio”che abbia anche la rappresentanza processuale dell’incapace naturale. Critiche: anche se si tratta di una via legittima, non è del tutto soddisfacente fondare la tutela dell’incapace naturale sull’applicazione Di questa opinione è anche MAURINI, L’incapacità naturale, in Le monografie di contratto e impresa, a cura di Galgano, Padova, 2002, p. 189. 94 72 analogica di norme speciali95. Tutte le soluzioni fin qui descritte, comunque siano valutate, opererebbero ex ante, e cioè in vista di una tutela processuale dell’incapace naturale, affinché egli possa far valere le proprie ragioni in modo pieno, possa difendersi utilizzando tutti gli strumenti che l’ordinamento offre, come qualsiasi altro soggetto che sia parte in un processo. Vi è anche chi ha proposto una soluzione ex post, un rimedio. Se l’ordinamento non offre valide tutele preventive all’incapace naturale, almeno – si è detto – dovrebbe essergli consentito di lamentare il vizio di quegli atti processuali lesivi dei suoi interessi, compiuti mentre egli si trovava in stato d’incapacità naturale e non era stato posto in condizione di difendersi. Nel caso del 1975 analizzato nel par. 3 (giunto poi all’attenzione della Cassazione), la Corte d’appello chiamata a decidere aveva accolto un’impostazione simile: aveva ritenuto che un atto processuale potesse essere annullato se ricorrevano i presupposti dell’art. 428 c.c.. Un atto processuale come la domanda giudiziale era stato valutato alla stregua di un atto di diritto sostanziale, annullabile da parte di chi lo ha concluso quando era incapace di intendere o di volere e allorché l’atto gli abbia causato un grave pregiudizio. Nel caso di specie, tuttavia, la Corte d’appello aveva ritenuto che non ricorressero i presupposti per l’annullamento dell’atto processuale viziato, e quindi non si era preoccupata di chiarire le modalità con cui esso sarebbe potuto avvenire. La Cassazione aveva poi bocciato l’impostazione della Corte d’appello affermando, come più volte ribadito, che gli atti processuali sottostanno a regole proprie, perché il diritto processuale vede coinvolto un interesse pubblico – non solo quello privato delle parti –, e che nessuna norma analoga al 428 c.c. era prevista per gli atti processuali. Questa critica è stata espressa da VULLO, Nuove prospettive per la tutela processuale dell’incapace naturale, p. 1848: l’autore, pur giudicando apprezzabile tale soluzione per i motivi ricordati in nota (29), afferma tuttavia che accontentarsi di fondare la tutela dell’incapace naturale sull’applicazione analogica delle norme speciali menzionate è “una via certamente praticabile, legittima e, allo stato delle cose, anche opportuna, ma non ancora del tutto appagante ”. 95 73 In dottrina, tuttavia, la tesi del giudice d’appello è stata ripresa ed approfondita. L’incapace naturale può compiere atti di diritto sostanziale: tali atti sono efficaci, e validi se e finché non decida di chiederne l’annullamento. Dalla regola dell’irrilevanza discende che egli può compiere efficacemente anche atti processuali: per esempio, può essere destinatario o consegnatario di valide notificazioni, può comparire personalmente in sede d’interrogatorio libero. Tuttavia, mentre egli può dolersi degli effetti pregiudizievoli che gli atti sostanziali producono, seppure a condizioni restrittive, altrettanto non può fare per gli atti processuali96. Ciò appare, a parere di tale dottrina, ingiustificato. Viene considerato irragionevole che un contratto concluso da un incapace naturale possa essere impugnato e annullato, ma non possa invece esserlo l’atto di un processo. Chi avanza queste perplessità ritiene che, da questo punto di vista, non passi alcuna importante differenza fra il piano sostanziale e quello processuale: è vero che quest’ultimo ha regole proprie, date dalla rilevanza pubblicistica dell’attività che si compie, ma in questo caso le analogie prevalgono, e l’esigenza di tutela pure. Tale dottrina97 vede una possibile soluzione nel rimedio previsto dall’art. 395 c.p.c.: la revocazione della sentenza. Tra quelli che l’articolo prevede come motivi di revocazione di una sentenza, solo il “dolo della parte” (art. 395 n. 1) rientra fra i vizi della volontà che possono portare, sul piano sostanziale, all’annullamento del contratto (ex art. 1425 c.c.). Non è causa di revocazione, in base al dritto vigente, alcun altro vizio che derivi dallo stato psico-fisico di una delle parti. In ciò tale dottrina vede una lacuna dell’ordinamento: una lacuna da COSTANTINO, Il giubileo del medico dei pazzi: l’incapace naturale nel processo civile, cit., p. 1048. Si fa riferimento a quanto afferma COSTANTINO, Il giubileo del medico dei pazzi: l’incapace naturale nel processo civile, cit., 1043 ss.; l’opinione dell’autore sembra essere particolarmente autorevole, perché altri esponenti di dottrina, occupandosi del tema dell’incapacità naturale nel processo, la riportano pedissequamente: ad es., DALMOTTO, nel commento a Corte cost. sent. 2 novembre 1992, n. 468, in Giur. it., 1994, I, p. 20; MAURINI, L’incapacità naturale, cit., p. 191 e nota (9); VULLO, Nuove prospettive per la tutela processuale dell’incapace naturale, p. 1848 e nota (25). 96 97 74 colmare, per ossequio ai più volte menzionati articoli 3 e 24 della Costituzione. Di nuovo, ad essere minacciati sarebbero il diritto di difesa e il principio di parità di trattamento. Quello che si auspica, così affermando, è un intervento additivo della Corte costituzionale, che dichiari illegittimo l’art. 395 c.p.c. per la parte in cui non include l’incapacità naturale fra i motivi di revocazione. 75 76 CAPITOLO III IL NUOVO MODELLO DELL’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO: QUESTIONI PROCESSUALI E PROFILI COMPARATISTICI SOMMARIO: A) QUESTIONI PROCESSUALI RELATIVE ALL’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO: 1. Inquadramento dell’istituto. – 2. La natura del procedimento e il “rompicapo” della difesa tecnica. – 3. (segue) Giurisdizione volontaria e difesa tecnica. – 4. (segue) Gli elementi da cui dipende la scelta sulla difesa tecnica. – 5. (segue) La soluzione della Cassazione. Critiche e consensi. – 6. Procedure di raccordo fra le misure di protezione dei soggetti deboli. – 7. (segue) Dall’interdizione all’amministrazione di sostegno. – 8. (segue) Dalla revoca dell’interdizione all’amministrazione di sostegno. – 9. (segue) Dall’amministrazione di sostegno all’interdizione. – 10. (segue) Problemi di sovrapposizione fra procedimenti nel passaggio dall’amministrazione di sostegno all’interdizione. B) PROFILI DI DIRITTO COMPARATO: – 11. Cenni sulle misure di protezione dei soggetti deboli in una prospettiva comparata. – 12. I modelli austriaco e tedesco. – 13. Il modello inglese. Sezione A): QUESTIONI PROCESSUALI RELATIVE ALL’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO 1. Inquadramento dell’istituto. Fino a questo punto si è parlato di incapaci legali e di incapaci naturali. Si è parlato di un’incapacità giudizialmente accertata e dichiarata, da un lato, e di un’incapacità che sussiste solo come situazione di fatto, e che nel processo è normalmente priva di rilevanza giuridica, dall’altro. Questo universo bipolare è stato di recente oggetto di una rivoluzione. A fianco delle figure fino a qui descritte, dell’interdetto, dell’inabilitato e 77 dell’incapace naturale, oggi se ne affianca un’altra: quella del beneficiario dell’amministrazione di sostegno. L’istituto dell’amministrazione di sostegno, introdotto con la legge 9 gennaio 2004, n. 6, si giustappone a quelli preesistenti e costituisce un importante tassello fra gli strumenti che il legislatore della riforma ha definito come “misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia”. La scelta del legislatore è stata quella, appunto, di non abrogare i vecchi istituti di protezione: la riforma è avvenuta per addizione, anziché per sostituzione98: purtroppo secondo alcuni, per fortuna secondo altri. Interdizione ed inabilitazione sono state mantenute in vita, seppur con delle modifiche rilevanti. In questa sede non ci si occuperà in maniera specifica delle caratteristiche sostanziali e dei presupposti applicativi dell’amministrazione di sostegno, che pure incidentalmente emergeranno. Neppure si tratterà degli obiettivi della legge e dell’acceso dibattito che ha preceduto la sua approvazione. L’approccio sarà pragmatico e volto all’esplicazione di questioni puntuali che attengono allo svolgimento del processo. Verranno trattati alcuni distinti profili processuali relativi al procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno. Fatta questa limitazione degli argomenti che si tratteranno, è tuttavia opportuno fare preliminarmente un rapido inquadramento dell’istituto e dei suoi aspetti più originali. I principali criteri che hanno ispirato il legislatore sono stati: - quello dell’estrema duttilità della misura, che può incidere con modi e tempi differenziati da individuo a individuo: il principio è quello del maggiore adattamento possibile alle necessità, esigenze, bisogni del beneficiario; - quello di preservare la capacità di agire, come regola, e di limitarla Questa è l’espressione usata da CHIARLONI, Prime riflessioni su alcuni aspetti della disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno, in FERRANDO (a cura di) L’amminstrazione di sostegno. Una nuova forma di protezione dei soggetti deboli, Milano, 2005, p. 149: l’autore aggiunge all’espressione anche un “purtroppo”. 98 78 solo laddove occorra e nella misura minore possibile99; - quello della massima salvaguardia possibile per l’autodeterminazione della persona; - quello dell’attenzione alla cura della persona, e non soltanto del suo patrimonio100. Anche dal punto di vista processuale, il legislatore ha seguito importanti criteri guida: quello della celerità e della semplificazione del procedimento, della abbreviazione dei tempi di decisione, dell’instaurazione di un rapporto diretto con il giudice tutelare, che è il giudice cui la legge demanda pressoché in toto la cura degli interessi del beneficiario. Questo è stato l’intento, sul versante sostanziale: di innovare, di introdurre un qualcosa di completamente inedito per la protezione dei soggetti “deboli”. Inedita, a ben vedere, appare anche la struttura del procedimento (ma questo si avrà modo di approfondirlo infra, nei paragrafi successivi)101. L’introduzione di questa figura ha fatto anche sorgere problematiche questioni interpretative. Sul piano del diritto sostanziale, i problemi si sono presentati soprattutto nello stabilire quale sia l’ambito di applicazione del nuovo istituto. Amministrazione di sostegno, interdizione ed inabilitazione, secondo quanto concordemente affermato dalla Corte di cassazione102 e dalla Consulta103, hanno un ambito di applicazione loro proprio, preciso, definito e “non usurpabile”. Cfr. per esempio BONILINI, I presupposti dell’amministrazione di sostegno, in BONILINICHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, Padova, 2007, p. 46. 100 Per un’analisi più approfondita di tali criteri-principi, qui soltanto abbozzati, si veda la sentenza della corte di cassazione, Cass. 12 giugno 2006 n. 13584, in Fam. dir., 2007, I, p. 31 ss., in cui la Corte si sofferma ampiamente e in maniera esauriente su tali punti. Cfr. anche CAMPESE, L’istituzione dell’amministrazione di sostegno e le modifiche in materia di interdizione e inabilitazione, in Fam. dir., 2004, 2, p. 126 ss. 101 Precisamente in questo senso – cioè sottolineando l’estrema novità del procedimento e la sua non riconducibilità nell’ambito delle regole generali – si è espressa la Corte di cassazione, in Cass., sez. I, 29 novembre 2006, n. 25366, in Fam. dir., 2007, I, p.19 ss. 102 Di nuovo si cita Cass. 12 giugno 2006 n. 13584, in Fam. dir., 2007, I, p. 31 ss., in cui la Corte effettua una “perimetrazione” degli istituti. 103 Ci si riferisce alla nota pronuncia – nonché la prima in tema di amministrazione di sostegno – Corte Cost., 9 dicembre 2005, n. 440, in Fam. dir., 2006, p. 121. 99 79 Abrogare i vecchi istituti, da questo punto di vista, avrebbe creato meno dilemmi interpretativi. La convivenza fra le tre misure pare essere un delicato equilibrio, che si gioca su un filo molto sottile. Sul versante del processo, le divergenze interpretative ed i problemi applicativi sono sorti a causa della struttura del procedimento, che si articola su disposizioni notevolmente eterogenee, e si presenta estremamente peculiare e sui generis.104 2. La natura del procedimento e il “rompicapo” della difesa tecnica. Non si sbaglia se si afferma che l’aspetto più problematico del procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno è quello relativo all’obbligatorietà della difesa tecnica. Il legislatore non si è espresso al riguardo: la riforma introduttiva dell’istituto non ha specificato se il ricorrente, che si rivolge al giudice tutelare chiedendo la nomina dell’amministratore di sostegno, debba farsi assistere da un avvocato. La discussione si è aperta fin dalle prime applicazioni dell’istituto, introdotto nel gennaio 2004, e nel corso di tre anni dottrina e giurisprudenza hanno offerto un ampio ventaglio di opinioni e di argomentazioni più o meno convincenti, che fanno propendere per una soluzione o per l’altra. In via preliminare, va detto che il rilievo che la questione assume non è meramente teorico e fine a se stesso, ma implica importanti conseguenze sul piano applicativo: la sanzione che consegue al difetto della difesa tecnica, laddove essa è obbligatoria, consiste, secondo un costante orientamento della Cassazione, nella nullità insanabile dell’atto introduttivo105. Bisogna subito specificare che il problema riguarda esclusivamente il VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell'amministrazione di sostegno, in Fam. dir., 2006, 4, p. 431. 105 Cass., 9 settembre 2002, n. 13069, in Arch. Giur. Circolaz., 2002, p. 920; Cass., 16 marzo 1999, n. 2316, in Fam. dir., 1999, p. 324. 104 80 ricorso introduttivo del procedimento, quello da proporsi a norma dell’art. 404 c.c. al giudice tutelare, con cui si richiede la nomina dell’amministratore di sostegno, nonché l’istanza di revoca presentata a norma dell’art. 413 c.c. e il reclamo alla Corte d’appello ex art. 720-bis. Il dibattito non coinvolge: a) l’eventuale ricorso per cassazione ex art. 720-bis co. 3 c.p.c., (di cui si dirà oltre), per cui è pacifica la sussistenza dell’onere del patrocinio106; b) i procedimenti meramente autorizzativi e attinenti alla gestione di un’amministrazione di sostegno già esistente, ossia le richieste di autorizzazione che l’amministratore di sostegno già nominato ed operante rivolge al giudice tutelare: la dottrina pressoché unanime, ed una costante giurisprudenza ritengono che in questi casi la difesa tecnica sia meramente facoltativa107. Nel silenzio della riforma legislativa, la prima operazione da compiere è quella di analizzare le disposizioni generali, contenute nel codice di rito, in tema di patrocinio. L’art. 82 co. 3 c.p.c. sancisce la regola generale (e residuale) dell’obbligatorietà del patrocinio di un procuratore legalmente esercente: questo vale per i giudizi “davanti al tribunale e alla corte d’appello” e “salvi i casi in cui la legge dispone altrimenti”. La disposizione sancisce una regola, e fa immediato riferimento a delle eccezioni. Stando alla lettera dell’articolo, le eccezioni parrebbero riguardare delle deroghe, tassative, che la legge espressamente enuncia. Se così fosse, certamente l’obbligo di farsi assistere da un avvocato sussisterebbe anche per l’amministrazione di sostegno visto che, si VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno, in Fam. dir., 2006, 4, p. 431 ss; DE ROMA, L’onere del patrocinio nel procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno: un problema ancora aperto, in Giur. it., 2007, 3. 107 Sul punto concordano tutti gli esponenti di dottrina: sia coloro che escludono la necessità della difesa tecnica per il procedimento di nomina, ad es. CHIZZINI, Procedimenti di istituzione e revoca dell’amministrazione di sostegno, in BONILINI-CHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, cit., p. 429; VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno, cit., p. 431 ss.; sia coloro che la affermano, ad es. TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica, in Fam. dir., 2004, 6, p. 611. Alla luce di quanto si dirà nel paragrafo successivo (§ 3), questi procedimenti meramente autorizzativi e di gestione rientrano a pieno titolo nella giurisdizione volontaria in senso tradizionale, in quanto le forme camerali sono utilizzate per un oggetto diverso da diritti o status, che non coinvolge interessi contrapposti; si tratta dunque del tipico caso in cui, secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, l’onere del patrocinio non sussiste. Cfr., sul punto, § 3. 106 81 ripete, la legge non prevede alcunché al riguardo. L’orientamento prevalente, tuttavia, si muove su altri binari, più elastici e permeabili all’interpretazione. Questo è stato sostenuto: che se il codice parla di “stare in giudizio” con il patrocinio di un difensore, l’espressione “stare in giudizio” è riferita ad una controversia, cioè ad un processo che veda delle parti contrapposte fra loro. Laddove non vi sia un giudizio in senso proprio, vale a dire un contenzioso, la regola dell’obbligatorietà del patrocinio non si applica; dunque, sono esclusi dall’operatività della norma i procedimenti a carattere non contenzioso, cioè quelli di giurisdizione cd. volontaria108. Se si aderisce a questo orientamento, classificare il procedimento di amministrazione di sostegno come un procedimento di giurisdizione volontaria significa escluderlo dall’ambito di applicazione della regola dell’art. 82 c.p.c.. Si rende indispensabile, a questo punto, aprire una parentesi per chiarire il legame che intercorre fra la regola del patrocinio e quel particolare settore della giurisdizione civile chiamato, appunto, giurisdizione volontaria. 3. (segue) Giurisdizione volontaria e difesa tecnica. Per trattare la tematica del rapporto fra giurisdizione volontaria e patrocinio, vanno affrontate due questioni cruciali: innanzitutto, bisogna comprendere quando un dato procedimento possa essere definito “volontario”; quindi, occorre porre in evidenza quale sia la ratio della regola del patrocinio (il L’orientamento risale a REDENTI, Diritto processuale civile, III, Milano, 1954, p. 354. è stato poi sviluppato da FAZZALARI, voce “giurisdizione volontaria” in Enc. Dir., Milano, 1970; COSTA, Manuale di diritto processuale civile, Torino, 1980, p. 658; CHIARLONI, Contrasti tra diritto alla difesa e obbligo della difesa: un paradosso del formalismo concettualista, in Riv. Dir. Proc. 1982, p. 641 ss.; giudicano questo orientamento preferibile anche JANNUZZI-LOREFICE, Manuale della volontaria giurisdizione, Milano, 2004, p. 36. Bisogna precisare che questo orientamento, che oggi sembra essere il prevalente, non è l’unico presente in dottrina, e vi sono stati anzi autorevoli voci che vi si sono opposte in modo risoluto, ritenendo necessaria la difesa tecnica anche nei giudizi volontari: in epoca risalente CARNELUTTI, Istituzioni del processo civile italiano, III, Roma, 1956, p. 178; ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, IV, Napoli, 1964, p. 435 ss; più recentemente MICHELI, voce “camera di consiglio” (diritto processuale civile) in Enc. Dir., Milano, 1970. 108 82 suo scopo, e che cosa tutela). Alla luce di quanto emergerà, si potranno rapportare le due questioni, ed esaminare come la regola del patrocinio sia collegata alle caratteristiche del procedimento. Tracciare i contorni della giurisdizione volontaria, e quindi definire che cosa sia, è uno dei problemi più spinosi ed intricati che ha tormentato la dottrina processualista dagli anni ’50 ad oggi109. Lo scontro di opinioni si è svolto su più fronti: sulla natura dell’attività - descritta da alcuni come attività amministrativa affidata a giudici, da altri come vera e propria attività giurisdizionale -, sulla forma procedimentale, sull’oggetto, sui poteri del giudicante, sul ruolo dei soggetti coinvolti. Un approccio cauto e prudente al tema suggerisce di evitare le definizioni unitarie e “monolitiche”, e di preferire un approccio più “sfaccettato”: questo significa descrivere la giurisdizione volontaria in base alla lente che si utilizza per osservarla, in base all’angolatura da cui la si guarda. Se si assume un punto di vista di tipo funzionale (qual è la funzione del procedimento, qual è l’oggetto che si tutela), si può affermare che mentre la giurisdizione ordinaria-contenziosa si occupa della tutela giurisdizionale dei diritti, attuandola nel contraddittorio fra le parti, la giurisdizione volontaria è quella volta ad incidere non su diritti o su status, bensì su situazioni soggettive, definite “minori”110, (riconducibili alla figura degli interessi legittimi o degli interessi semplici), ritenute comunque meritevoli di protezione Gli autori che, tradizionalmente, si sono occupati in maniera più approfondita della giurisdizione volontaria (della sua natura, dei suoi confini, delle problematiche che essa solleva) sono i seguenti: FAZZALARI, La giurisdizione volontaria, Padova, 1953; ID., voce “giurisdizione volontaria” in Enc. Dir., Milano, 1970; ALLORIO, Saggio polemico sulla “giurisdizione” volontaria, in Riv. tirm. Dir. e proc. civ., 1948, p. 487 ss.; ID., Nuove riflessioni critiche in tema di giurisdizione e giudicato, in Riv. dir. civ., 1957, I, p. 1 ss.; MICHELI, Per una revisione della nozione di giurisdizione volontaria, in Riv. dir. proc., 1947, I, p. 18 ss; ID., Prospettive critiche in tema di giurisdizione volontaria, in Scritti in onore di Francesco Carnelutti, Padova, 1950, p. 371 ss.; ID., Significato e termini della giurisdizione volontaria, in Riv. dir. proc., 1957, p. 526 ss. In tempi più recenti ha ripercorso queste problematiche CERINO CANOVA, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, in AA.VV., Studi in onore di Enrico Allorio, I, Milano, 1989, p. 7 ss., pubblicato anche in Riv. dir. civ., 1987, p. 431 ss. 110 Così COMOGLIO, Difesa e contraddittorio nei procedimenti in camera di consiglio, in Riv. dir. proc., 1997, 3, p. 721. 109 83 dall’ordinamento giuridico111. Se si assume un punto di vista formale (come si struttura il procedimento), invece, la giurisdizione volontaria è generalmente quella a cui si applicano le disposizioni degli artt. 737-742 c.p.c.., relative ai procedimenti in camera di consiglio: domanda proposta nella forma del ricorso, assenza del contraddittorio orale tipico del processo contenzioso, assenza di pubbliche udienze, forme semplificate e più elastiche, celerità e snellezza del rito, estesi poteri ufficiosi e discrezionali del giudice sia in fase probatoria che in fase di decisione112. Infine, da un punto di vista “strutturale” (quali sono le caratteristiche del provvedimento finale), un procedimento di giurisdizione volontaria è tale se si conclude con un provvedimento sempre modificabile e revocabile, privo del carattere di incontrovertibilità che è proprio della cosa giudicata 113. Ora, nel senso tradizionale e pieno del termine, la giurisdizione volontaria è la risultante della sovrapposizione di queste tre angolature: un procedimento è volontario quando la forma camerale è utilizzata per la tutela di situazioni non riconducibili a diritti o a status, quando non entrano in gioco interessi contrapposti, e quando il provvedimento finale è sempre revocabile e Questo punto di vista, cd. sostanziale o oggettivo, è stato privilegiato da una parte (forse maggioritaria) della dottrina che si è occupata di questo tema: ad es., un approccio “sensibile alla sostanza del processo” più che alla forma è stato assunto da CERINO CANOVA, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, cit., p. 439; l’espressione dell’autore, peraltro, fa da eco ad un’altra più risalente e molto autorevole opinione: CHIOVENDA, Sulla natura contenziosa e sui conseguenti effetti dei provvedimenti emessi dal Tribunale in base all’art. 153 del codice del commercio, in Saggi di diritto processuale civile, I, Roma, 1930, p. 311 sostiene che “per distinguere gli atti di giurisdizione contenziosa dagli atti di giurisdizione volontaria, bisogna guardare alla sostanza piuttosto che alla forma”. 112 Il punto di vista cosiddetto formale è stato privilegiato da ALLORIO, Saggio polemico sulla “giurisdizione” volontaria, cit.; sulla stessa linea ATTARDI, Diritto processuale civile, Padova, 1999, p. 30 ss; così anche ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, p. 54 ss. 113 Sulla inidoneità al giudicato dei provvedimenti di giurisdizione volontaria sembra esservi accordo in dottrina: cfr. CERINO CANOVA, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, cit., § 6.; JANNUZZI-LOREFICE, Manuale della volontaria giurisdizione, p. 20. Questa communis opinio non è tuttavia incontrastata: essa è stata relativizzata da MICHELI, Efficacia, validità e revocabilità dei provvedimenti di giurisdizione volontaria, in Riv. Dir. Proc., 1982, p. 191 ss. 111 84 modificabile, dunque inidoneo a passare in giudicato114. Oltre alla giurisdizione volontaria vera e propria, tuttavia, esiste – ed è stata sempre più estesa dal legislatore nel corso degli anni - una zona “grigia” in cui le tre componenti non si sovrappongono: così, l’ordinamento processuale conosce dei procedimenti che, pur incidendo su diritti o status e implicando una controversia vera e propria, per espressa volontà legislativa si svolgono in camera di consiglio seguendo la disciplina degli artt. 737 e seguenti del codice di rito. In questi casi115 il legislatore ha inteso applicare, per motivi di semplificazione e di maggior celerità, le regole del procedimento camerale (dotate appunto di tali caratteristiche) a giudizi con parti contrapposte, che vertono su diritti o su status116. Torniamo ora alla regola del patrocinio, sancita dall’art. 82 c.p.c.. È utile metterne in evidenza lo scopo; in questo modo si potrà capire se e come in alcuni procedimenti l’esigenza del patrocinio possa venir meno, e quindi se e in quali casi la regola possa essere soggetta a deroghe. La questione del patrocinio è strettamente collegata a due principi costituzionali di fondamentale importanza per il processo civile: da un lato, il principio di difesa sancito dall’art. 24; dall’altro, il principio del contraddittorio, e della sua effettività, di cui all’art. 111 della Costituzione117. Il processo Tratta in maniera approfondita la questione della sovrapposizione fra il piano formale e quello sostanziale CERINO CANOVA, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, cit., § 13. 115 Solo a titolo esemplificativo, ciò vale per i provvedimenti concernenti la nomina o la revoca di rappresentanti ed amministratori, e i casi concernenti l’esercizio della potestà o della tutela: v. JANNUZZI-LOREFICE, Manuale della volontaria giurisdizione, cit., p. 13. 116 Il dibattito sulla legittimità e sulla opportunità del crescente ricorso, da parte del legislatore, alle forme camerali per giudizi veri e propri, che contrappongono interessi di soggetti diversi, era ad è molto acceso. Opinioni critiche nei confronti di questa tendenza da parte del legislatore, non solo italiano, sono state espresse da: CERINO CANOVA, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, cit., § 16; MANDRIOLI, In tema di onere del patrocinio nei procedimenti camerali, in Giur. It., 1988, I, 1, c. 979. Viceversa, vi è stato chi ha ritenuto le forme camerali completamente slegate dalla sostanza del procedimento, e perfettamente impiegabili anche procedimenti su diritti: così MICHELI, Per una revisione della nozione di giurisdizione volontaria, in Riv. Dir. Proc., 1947, I, p. 116. 117 Così CONSOLO-LUISO (a cura di), Codice di procedura civile commentato, I, Milano, 2007, sub art. 24 Cost., § 6: il diritto di difesa è definito come “la combinazione tra rispetto del contraddittorio (…) ed intervento di un difensore tecnico”. 114 85 “giusto”di cui parla la Costituzione è una sorta di incastro fra questi elementi: il potere di azione e di difesa attribuito alle parti deve essere effettivo e paritario; solo così può instaurarsi un contraddittorio reale fra chi chiede in giudizio e chi vi resiste. L’assistenza tecnica di un difensore riesce a garantire il confronto dialettico e paritario fra soggetti portatori – nel processo – di interessi contrapposti, in funzione dei rispettivi diritti di azione, di difesa e di prova118. Da queste argomentazioni, la dottrina prevalente – come già anticipato – ha dedotto che la regola dell’obbligatorietà della difesa tecnica sta a presidio dell’effettività del contraddittorio; se in un procedimento il contraddittorio manca perché, strutturalmente, non vi sono parti portatrici di interessi contrapposti, allora viene meno anche la necessità del patrocinio119. Questo senza dubbio vale per quei procedimenti che sono stati definiti come giurisdizione volontaria “in senso tradizionale”, in cui la forma (camerale) si accompagna ad un oggetto non contenzioso (non diritti o status, ma situazioni soggettive minori). Diversa è invece la situazione di quei procedimenti che rientrano nella menzionata zona grigia, che presentano le forme camerali, eppure implicano, sostanzialmente, un contenzioso (o perché hanno ad oggetto un vero e proprio diritto soggettivo, o perché in ogni caso coinvolgono degli interessi contrapposti). La logica fin qui seguita imporrebbe, in questi casi, l’applicazione della regola generale dell’art. 82 c.p.c.: e infatti, se la deroga alla regola dell’obbligatorietà del patrocinio si fonda sull’assenza di “giudizio” (nel senso di parti contrapposte), quando invece il giudizio c’è, perché vi sono interessi in conflitto, la deroga non dovrebbe operare, indipendentemente dalle forme camerali adottate dal legislatore120. L’onere del patrocinio sarebbe Di nuovo, CONSOLO-LUISO (a cura di), Codice di procedura civile commentato, I, ult. cit., ivi. Per un approfondimento delle problematiche costituzionali sollevate dai procedimenti di volontaria giurisdizione – al di là della questione del patrocinio – vedi TROCKER, Processo civile e Costituzione (problemi di diritto italiano e tedesco), Milano, 1974. 119 La dottrina a cui si fa riferimento è quella già citata sub nota (11). 120 Questa è la conclusione di MANDRIOLI, In tema di onere del patrocinio nei procedimenti camerali, cit., c. 978 ss. L’autore si pone in modo critico nei confronti della posizione espressa dalla Cassazione (vedi nota successiva), che sostiene l’inapplicabilità della regola dell’art. 82 c.p.c. a tutti i procedimenti in camera di consiglio, anche vertenti su diritti o status e quindi 118 86 collegato alla sostanza del procedimento, al suo oggetto, e sarebbe invece svincolato dalla sua forma. Una posizione diversa è stata adottata dalla Cassazione in una pronuncia del 1987121. Leggendo solo la massima della sentenza, in realtà, la Corte sembra far propria la posizione della dottrina prevalente: viene sancita, in via generale, la non applicabilità della regola del patrocinio ai procedimenti di giurisdizione volontaria, che non sono giudizi in senso proprio perché non implicano un contenzioso. Esaminando, però, in maniera approfondita il testo della sentenza, si comprende come la Corte attribuisca rilievo determinante alla discrezionalità ed alla scelta del legislatore che, di volta in volta, ha ritenuto di adottare il modello camerale, concepito fondamentalmente per la giurisdizione volontaria in senso più stretto, anche per altre ipotesi in cui vi è una controversia vera e propria. La forma camerale sarebbe, secondo la Corte, comunque rilevante, indipendentemente dall’oggetto. La scelta del procedimento camerale implica l’attribuzione al giudice di poteri di decisione molto estesi; a ciò consegue la non operatività del principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato e del principio juxta alligata et probata. L’inapplicabilità di questi rigorosi principi, il carattere inquisitorio del procedimento, la possibilità che il giudice supplisca alla incompleta attività delle parti rende legittima – sostiene la Corte – una attenuazione del diritto di difesa e giustifica la deroga a quelle regole che ne sono il corollario: in primis, la regola del patrocinio. La pronuncia della Corte è stata accusata di incoerenza122: dapprima la Corte afferma che il presupposto per la inapplicabilità dell’art. 82 c.p.c. è l’assenza di controversia, ma poi nega questo assunto nel momento stesso in cui sostanzialmente contenziosi. L’autore, in sintesi, afferma: applicando una logica rigorosa, non si può fondare la deroga all’art. 82 c.p.c. sull’assenza di contenzioso, e poi giungere ad sostenere che l’obbligo del patrocinio non sussiste in tutti i procedimenti camerali purché siano, anche se implicano un contenzioso. 121 Cass., 3 luglio 1987, n. 5814, in Giur. It., 1988, I, c. 978 ss, con nota critica di MANDRIOLI, ult. cit. 122 Come già anticipato, le critiche sono state espresse da MANDRIOLI, ult. cit., nella nota alla sentenza. 87 sostiene che occorre prendere atto della discrezionalità del legislatore, e che va attribuito rilievo alle forme (camerali) da lui scelte. La Cassazione, è stato detto, prima fonda l’esigenza del patrocinio su un presupposto sostanziale, e poi dà rilevanza ad un elemento esclusivamente formale. Posto in questi termini, effettivamente il ragionamento sembra mancare di logicità. Tuttavia, la sentenza può essere letta anche in un altro modo, che consente di attribuirle maggior coerenza. La Corte, è vero, non ripudia il ragionamento “sostanziale” della dottrina maggioritaria, che fonda la deroga all’art. 82 sull’assenza di giudizio nel senso di parti contrapposte; solamente, essa lo affianca ad un altro di carattere più “formale”, che dà rilievo alle caratteristiche inquisitorie delle forme camerali, per tutti i casi in cui un procedimento camerale verta su diritti o abbia natura contenziosa. Nella giurisdizione volontaria in senso proprio, la deroga alla regola del patrocinio è motivata precipuamente dalla assenza di contenzioso; nei procedimenti camerali appartenenti alla “zona grigia”, che non possono essere definiti volontari perché hanno ad oggetto diritti o status, la deroga si fonda invece sulla forma del procedimento, che attribuisce al giudice ampi poteri di istruzione e decisione. In questi casi, l’inquisitorietà del procedimento riporta “in pari” il diritto di difesa che, altrimenti, risulterebbe illegittimamente compresso. In un certo modo, dunque, il ragionamento della Corte è coerente. Esso però, desta delle perplessità sotto un altro profilo. Secondo la Corte, la difesa tecnica non è presupposto ineliminabile del giusto processo, e neppure del giusto processo contenzioso, che verta su diritti; laddove al giudice siano attribuiti ampi poteri di decisione e di supplenza all’attività della parte, si può fare a meno dell’assistenza del difensore, senza che ciò implichi una riduzione di garanzie o di tutele. Così argomentando, si arriva a dire che il diritto di difesa dell’art. 24 e il diritto al contraddittorio di cui all’art. 111 Cost. possono essere adeguatamente garantiti dal patrocinio di un difensore ovvero, in via alternativa, dall’attività di un giudice dagli ampi poteri probatori e decisori. Questo assunto, che è il diretto corollario del ragionamento della Corte, 88 non può non disorientare l’interprete. Se i poteri inquisitori del giudice e il patrocinio del difensore sono equipollenti, ai fini del rispetto del diritto di difesa e del contraddittorio, allora è sempre legittima la scelta del legislatore di “togliere da una parte” – “cameralizzando” il procedimento e rendendo facoltativo il patrocinio di un difensore – e di “aggiungere dall’altra” – incrementando i poteri e gli ambiti di intervento del giudice. Il contrasto di posizioni fra la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza della Cassazione solleva dubbi e domande. L’intento che qui ci si propone non è tuttavia, quello di trovare risposte, ma quello, più modesto, di riflettere su quanto emerge da questo dibattito. Si possono fare due considerazioni: la prima considerazione è sulla legittimità della scelta legislativa di adottare le forme camerali per un procedimento su diritti soggettivi; la seconda riguarda la legittimità/opportunità che un procedimento su diritti (ancorché camerale) si svolga senza il patrocinio di un difensore. La prima è una considerazione che sta “a monte” ed attiene ai limiti della discrezionalità del legislatore. La dottrina si è sovente interrogata sulla legittimità dell’adozione delle forme camerali per la tutela di diritti soggettivi o status. L’atteggiamento prevalente è stato piuttosto critico: il diritto soggettivo, è stato detto, è una figura che riassume in sé una prevalenza attribuita al suo titolare, sia nei rapporti sostanziali sia nel processo; l’adozione delle forme camerali e, conseguentemente, il fatto che tale diritto non sia assistito dall’autorità del giudicato, implicano una frattura fra ordinamento materiale e giudizio, ed implicano lo svuotamento del diritto stesso sul piano del processo123. La Costituzione impone, all’opposto, una saldatura fra forme processuali e diritto sostanziale. Gli articoli 24 e 111, infatti, delineano una trama processuale ben precisa per il giusto processo sui diritti soggettivi e sugli Così CERINO CANOVA, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, cit., § 14. (L’autore si rifà alle teorie di ALLORIO, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziario, Milano, 1957, p. 81 ss., nonché ad uno scritto di CALAMANDREI, Abolizione del processo civile?, in Riv. Dir. Proc. Civ.,1938, I, p. 336 ss). Così anche, sostanzialmente, MANDRIOLI, In tema di onere del patrocinio nei procedimenti camerali, cit., c. 979. 123 89 status: principio della domanda, regola di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato, iniziativa di parte nell’attività probatoria, idoneità del provvedimento al passaggio in giudicato124. Secondo l’orientamento prevalente, dunque, il giudizio che abbia ad oggetto diritti soggettivi o status è incompatibile (non con le forme camerali in generale125, ma piuttosto) con quei lineamenti del rito camerale che comprimono il contraddittorio, il diritto di difesa e i rimedi avverso il provvedimento finale. Vi è anche un orientamento contrario, che ritiene perfettamente legittimo un procedimento camerale su diritti126. Bisogna chiarire però che, anche da parte dei sostenitori di tale tesi, la tendenza è quella di ritenere comunque necessaria l’addizione di molteplici garanzie per correggere (alterandolo) il modello camerale di cui agli artt. 737 e seguenti, rendendolo per così dire “costituzionalmente orientato”; sicché il procedimento camerale vertente su diritti assumerebbe dei tratti peculiari che lo differenzierebbero alquanto dallo scarno paradigma camerale127. In conclusione i due orientamenti propongono, a livello operativo, delle soluzioni che non sono affatto agli antipodi, ma anzi sembrano avvicinarsi molto: il primo afferma che le forme camerali per la tutela dei diritti sono illegittime (solo) allorché implicano una compressione del contraddittorio; il secondo sostiene, in generale, che il procedimento camerale su diritti è legittimo, purché sia dotato di un complesso di garanzie formali che si rendono indispensabili per il rispetto del contraddittorio. Ancora CERINO CANOVA, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, cit., § 15, p. 474. 125 Ancora CERINO CANOVA, ult. cit., spiega come la disciplina camerale sia in realtà una somma di disposizioni che non si implicano in maniera reciproca: vi sono dunque, anche secondo questo orientamento critico, alcuni elementi del procedimento camerale che risultano pienamente compatibili con la tutela dei diritti (per esempio, la forma di ricorso dell’atto introduttivo). 126 Così tradizionalmente MICHELI, Per una revisione della nozione di giurisdizione volontaria, cit., p. 18 ss.; dello stesso autore, cfr. gli altri scritti citati nelle note (12) e (16). 127 Per esempio MALTESE, Giurisdizione volontaria, procedimento camerale tipico, etc., in Giur. It., 1986, IV, c. 127 ss. 124 90 La seconda considerazione che ci si è proposti di fare sta, da un punto di vista logico, “a valle” di quella appena svolta. Si è visto che entrambi gli orientamenti dottrinali di cui si è parlato giungono a ritenere che un processo su diritti debba svolgersi necessariamente con delle garanzie formali, indispensabili per il rispetto del contraddittorio; ci si chiede ora se, fra quelle garanzie formali, rientri anche l’obbligo del patrocinio. Per dirlo in altri termini, ci si chiede se il giusto processo di cui parla l’art. 111 vertente su diritti (specialmente dopo la riforma costituzionale del 1993, che ha introdotto proprio l’espressione “giusto processo”) possa legittimamente svolgersi senza che le parti siano patrocinate da un difensore. Queste problematiche si riducono, sul piano operativo, ad un quesito: la mancanza di limitazioni al potere giudiziale di indagine, propria dei procedimenti in camera di consiglio, è ragione sufficiente per escludere (o comunque per rendere facoltativo) il patrocinio di un difensore, e quindi un’autonoma partecipazione degli interessati? La Cassazione, si è visto, sembra alludere ad una risposta affermativa128. Una autorevole dottrina risponde invece negativamente129. Questo, in sintesi estrema, il ragionamento seguito: ritenuto che l’art. 24 Cost. assicura un’autonoma facoltà di deduzione e di difesa; ritenuto che un provvedimento vertente su diritti, quindi avente contenuto decisorio, deve essere necessariamente adottato con la partecipazione di coloro i cui diritti saranno incisi dalla efficacia di tale provvedimento; ritenuto che tale partecipazione può essere adeguatamente garantita solo dalla assistenza tecnica di un difensore, allora si conclude per la necessità del patrocinio in tutti i procedimenti camerali su diritti. Una conclusione, a questo punto, si impone: nel rispondere al quesito La Corte, si è già detto, non è affatto esplicita nell’affermare questo assunto. Non si vuole attribuire alla Corte un discorso che, in effetti, non ha fatto; è lecito comunque riportare la conclusione a cui la Corte, pur non affermandola espressamente, pare alludere, ovvero sia il corollario che direttamente discende dal filo argomentativo seguito in sentenza. 129 TROCKER, Processo civile e Costituzione (problemi di diritto italiano e tedesco), cit., p. 403. 128 91 “Quando si può derogare alla regola dell’obbligatorietà del patrocinio?” nessun fattore sembra essere unanimemente riconosciuto come determinante. Molteplici sembrano essere tali fattori, e molteplici le opinioni. L’oggetto del procedimento, la forma dello stesso, le caratteristiche del provvedimento finale: tutti questi elementi sembrano influire, in modi e con peso differente, sulla questione della difesa tecnica. Nessuno di essi sembra però avere un peso esclusivo né sembra essere, da solo, risolutivo. 4. (segue) Gli elementi da cui dipende la scelta sulla difesa tecnica. Quello fin qui descritto è il quadro generale, più o meno completo, degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali circa l’applicabilità della regola del patrocinio ai procedimenti camerali. Torniamo ora al punto di partenza, che costituisce l’oggetto della nostra indagine: l’istituto dell’amministrazione di sostegno. Occorre il patrocinio di un difensore, a pena di nullità dell’atto introduttivo, per ricorrere al giudice tutelare chiedendo la nomina dell’amministratore di sostegno? Alla luce di quanto è stato approfondito attorno al rapporto patrocinioprocedimenti camerali, per rispondere a questo quesito occorre indagare sulla natura del procedimento, appurando se esso abbia ad oggetto diritti o status, quale sia la forma che il legislatore ha per esso stabilito, e se il decreto di nomina sia provvedimento idoneo a passare in giudicato. Verranno di seguito elencati i fattori che sembrano dotati di maggior peso in riferimento alla natura del procedimento di amministrazione di sostegno, e di conseguenza in merito alla obbligatorietà della difesa tecnica in tale procedimento. Va comunque fin da subito evidenziato che, come si è visto, nessuno di questi aspetti è dotato di rilevanza esclusiva e le soluzioni offerte dagli esponenti della dottrina giurisprudenza sono molto spesso tra loro configgenti. 92 1) Il quantum di difformità o di conformità fra il procedimento in esame e quelli di interdizione e inabilitazione. L’art. 720-bis co. 1 c.p.c. prevede che ai procedimenti in materia di amministrazione di sostegno si applichino, in quanto compatibili, alcune delle disposizioni dettate per i procedimenti di interdizione ed inabilitazione. Quest’assimilazione comporta che, anche nel procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, la domanda si presenti con ricorso; l’intervento del p.m. sia obbligatorio; possa aversi una nomina provvisoria nel corso del procedimento; il provvedimento finale sia revocabile se i presupposti di fatto mutano. A norma dell’art. 411 c.c. inoltre, si applicano all’amministrazione di sostegno le stesse norme dettate per la scelta del tutore (349-353 c.c.), per la gestione della tutela, per la gratuità dell’ufficio e per la responsabilità del suo titolare (374-378 c.c.). Sussistono, d’altra parte, difformità notevoli. Solo a titolo esemplificativo basti ricordare che: il giudice competente in tema di amministrazione di sostegno è il giudice tutelare e non il tribunale; il procedimento si chiude con un decreto e non con una sentenza; i poteri ufficiosi del giudice sono ancora più marcati che nel giudizio d’interdizione – per esempio il giudice può in ogni momento determinarsi a modificare il decreto di nomina (art. 413 co. 4 c.c.). Ora, non vi è dubbio – e dottrina e giurisprudenza sono concordi nell’affermarlo – che, nei giudizi di interdizione ed inabilitazione, sia obbligatorio farsi assistere da un avvocato130. Per questo motivo, ritenere prevalenti gli elementi di affinità su quelli di difformità, significa ritenere sussistente l’obbligo del patrocinio anche nel procedimento de quo; al contrario, il prevalere degli elementi di differenza rende più agevole affermare che nel procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno non serve farsi assistere da un avvocato. 2) L’incidenza sulla capacità di agire del beneficiario. Questo fatto è dato per pacifico al di là delle diatribe sulla natura dei procedimenti: ad esempio Cass., 14 aprile 1994, n. 3491, in Giur. it., 1994, I, 1, c. 1697 ss.; vedi anche VELLANI, voce Interdizione e inabilitazione, in Enc. Giur., XVII, Roma, 1988. 130 93 L’obbligatorietà del patrocinio è posta a presidio del diritto di difesa, costituzionalmente garantito, e del rispetto del contraddittorio, soprattutto nel suo profilo della partecipazione effettiva al procedimento. Se un procedimento incide sulla capacità del soggetto e sul suo status, indiscutibilmente vi è necessità di un complesso di garanzie, che assicurino una protezione sufficiente contro le ingerenze della pubblica autorità e la parità delle armi fra le parti: una di queste è proprio la difesa tecnica, che non può mancare. Ciò è vero soprattutto per quei procedimenti camerali che della giurisdizione volontaria hanno solo le forme, ma in realtà vertono su diritti (cfr. § 3) 131. Ciò è vero, in primis, per i procedimenti di interdizione ed inabilitazione, variabilmente qualificati come giurisdizione volontaria o contenziosa nell’ultimo mezzo secolo132, ma che certamente incidono sullo status della persona. La legge 6/2004, introduttiva dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, esordisce chiarendo la propria finalità: quella di tutelare i soggetti privi di autonomia “con la minore limitazione possibile della capacità d’agire”(art. 1). Poi precisa che il beneficiario “conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno” e in ogni caso per “gli atti necessari a soddisfare le esigenze della vita quotidiana” (art. 7, attuale art. 409 c.c.). L’obiettivo dell’istituto non è quello di incidere su diritti o status, ma quello di “gestire” gli interessi del beneficiario133: la legge non vuol fare del beneficiario un nuovo incapace134. Tuttavia, anche se lo status del beneficiario non viene toccato in blocco, non si può negare che la sua capacità di agire subisca delle limitazioni: la duttilità estrema dell’istituto, che ne rappresenta la Per esempio Cass. 27 febbraio 1989, n. 1066 in cui si ritiene comunque necessario applicare quelle “forme necessarie per costituzionalizzare la cameralizzazione della procedura in materie estranee al suo terreno di elezione, onde renderla compatibile con i precetti costituzionali”; nello stesso senso Corte Cost. 16-30 gennaio 2002, n.1 (sent.) che in questi casi attenua in via interpretativa il deficit di garanzie del modello camerale, quando il legislatore lo abbia esteso a procedimenti che abbiano ad oggetto diritti. 132 Cfr. l’accenno a tale dibattito svolto nel cap. I, § 1. 133 VULLO, Onere del patrocinio e procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, cit., p. 1780. 134 CALÒ, Amministrazione di sostegno, legge 9 gennaio 2004 n. 6, Milano, 2004, p. 87. 131 94 novità, consente di limitare allo stretto necessario le ipotesi di rappresentanza esclusiva e di assistenza necessaria da parte dell’amministratore di sostegno, ma non di escluderle. Se insomma l’amministrazione di sostegno non incide sulla capacità come unicum, di certo incide su distinte capacità – al plurale: il beneficiario, per usare le parole di certa dottrina, è un ibrido, un “quasicapace”135. Delle due l’una: se si pone l’accento sul fatto che l’istituto finisce comunque per incidere sulla capacità di agire del soggetto, e se si qualifica la capacità d’agire come un vero e proprio diritto soggettivo136, allora la difesa tecnica non può essere meramente facoltativa; se invece si enfatizzano gli scopi dell’istituto, che intende differenziarsi dai precedenti per un supporto solo “gestionale” e non ablativo137, si perverrà alla conclusione che non vi è obbligo di patrocinio. 3) La disposizione del comma 4 dell’art. 411 c.c.. In base ad essa, al beneficiario dell’amministrazione di sostegno possono essere estesi effetti, limitazioni o decadenze previste dalla legge per l’interdetto o l’inabilitato. La norma prospetta: che all’occorrenza il decreto di nomina abbia un’incidenza più marcata sulla capacità del beneficiario; che vi possa essere, almeno potenzialmente, una linea ininterrotta, un continuum fra amministrazione di sostegno (e le incapacità che essa comporta in misura variabile) e interdizione (che determina un’incapacità al cento per cento, ed in misura fissa). Se anche si ammette che non vi è sovrapposizione fra l’ambito di applicazione degli istituti, che si mantengono funzionalmente distinti - come Cfr. BONILINI, Capacità del beneficiario e compiti dell’amministratore di sostegno, in BONILINICHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, cit., p. 198 ss., molto critico nei confronti delle litoti e degli eufemismi usati nel testo della legge, rassicuranti per chi “abbia paura delle parole”: fa paura chiamare un soggetto “incapace” e allora si forgia un “quasi-capace”. 136 Cfr. TOMMASEO, Ancora sulla difesa tecnica nell’amministrazione di sostegno, cit., p. 184 e nota (17): l’autore cita la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che interpreta l’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo nel senso di considerare la capacità d’agire come un “vero e proprio diritto all’attività giuridica”. 137 VULLO, Onere del patrocinio e procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, cit., p. 1781. 135 95 stabilito dalla Corte di cassazione in una recente pronuncia 138 -, non si può negare tuttavia che la linea di confine fra un’amministrazione di sostegno “dilatata” e l’interdizione non è poi così netta. Ciò è ancor più vero se si tiene conto di un’altra disposizione, che si muove in senso opposto: ai sensi dell’art. 427 c.c., come novellato, la sentenza d’interdizione o d’inabilitazione può stabilire che l’interdetto/inabilitato conservi la capacità per determinati atti. Percepire le “misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia”139 come un orizzonte che sfuma, senza soluzione di continuità, dalla capacità piena fino alla totale incapacità, porta ad assumere posizioni più garantiste, e quindi ad affermare l’obbligatorietà della difesa tecnica anche per il procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno: a parità di effetti, parità di garanzie 140. 4) La previsione della ricorribilità per cassazione ex art. 111 Cost. avverso il decreto della Corte d’appello pronunciatasi in sede di reclamo. Il giudice tutelare nomina l’amministratore di sostegno con decreto; contro di esso viene proposto reclamo (ai sensi dell’art. 739 c.p.c..) alla Corte d’Appello, che decide a sua volta con decreto; contro di esso, l’art. 720-bis co. 3 ammette il ricorso in cassazione. Non si discute sul fatto che la difesa tecnica sia necessaria in tale grado di giudizio, dato che ciò risulta pacifico141. Ci si interroga invece sulle influenze che tale previsione ha sull’intero procedimento di nomina: di regola, infatti, per i procedimenti camerali di giurisdizione volontaria la garanzia del ricorso in cassazione non è prevista. Se non si tenesse conto di tale disposizione, dal dettato dell’art. 413 c.c. (v. supra, infra) si dovrebbe concludere che il decreto di nomina è sempre pienamente revocabile e quindi inidoneo al giudicato; bisogna però fare i conti con la peculiarità della ricorribilità per cassazione. Cass. 12 giugno 2006, n. 13584, in Fam. dir., 2007, I, p. 31 ss. Così recita il titolo XII del codice civile, come modificato dalla legge n. 6/2004. 140 Questo è quanto ammettono anche i sostenitori della non necessarietà del patrocinio: ad es. cfr. VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno, cit., § 4. 141 Cfr. nota (9). 138 139 96 Ci si chiede se con tale disposizione il legislatore abbia voluto: a) confermare la natura contenziosa del procedimento, e la sostanziale omogeneità con quelli di interdizione e inabilitazione, dato che tutti si concludono con provvedimenti ablativi tali da incidere con autorità di giudicato su diritti soggettivi142; b) compiere una scelta (niente affatto dovuta) a favore del garantismo processuale e di una applicazione controllata dell’istituto in esame, in quanto la funzione nomofilattica della Corte di cassazione risulta fondamentale anche in ambiti non contenziosi, e per provvedimenti che comunque restano inidonei a divenire cosa giudicata143. Chi sostiene quest’ultima tesi fa rilevare come, in ogni caso, la previsione della ricorribilità per cassazione non sia sufficiente per qualificare un giudizio come contenzioso: di per sé sola, tale previsione non basterebbe comunque a dotare della pienezza delle garanzie un procedimento che vertesse su diritti144. Ribadisce chi invece è dell’opinione opposta: se non è elemento sufficiente, è comunque conferma dell’affinità con la struttura di interdizione ed inabilitazione, ed è conferma di un formalismo del procedimento che fa senza dubbio propendere per la tesi dell’obbligatorietà della difesa tecnica145. 5) La struttura unilaterale del procedimento. Questa caratteristica assume un rilievo determinante laddove, in base ad un’interpretazione restrittiva di parte della dottrina, si ritenga che la deroga all’obbligo del patrocinio si appicchi ai soli procedimenti di giurisdizione volontaria unilaterali146. Questa interpretazione troverebbe fondamento e conferma nelle previsioni contenute in una recente riforma: nella nuova disciplina del processo societario è stato espressamente escluso l’obbligo della TOMMASEO, Ancora sulla difesa tecnica nell’amministrazione di sostegno, cit., p. 185, e p. 184 laddove parla di capacità di agire come di “vero e proprio diritto all’attività giuridica”. 143 Così CHIZZINI, Procedimenti di istituzione e revoca dell’amministrazione di sostegno, in BONILINI-CHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, cit., p. 392; VULLO, Onere del patrocinio e procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, cit., p. 1782. 144 VULLO, Onere del patrocinio e procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, cit., p. 1782. 145 TOMMASEO, Ancora sulla difesa tecnica nell’amministrazione di sostegno, cit., p. 185. 146 Cfr. TOMMASEO., Ancora sulla difesa tecnica nell’amministrazione di sostegno, cit., p. 183 e nota (6). 142 97 difesa tecnica per i soli procedimenti camerali di giurisdizione volontaria unilaterali147. A tale norma la dottrina in esame ha conferito un notevole peso sistematico, che porta ad intenderla come regola generalmente valida per i procedimenti di giurisdizione volontaria. Anche ammettendo, quindi, che l’apertura dell’amministrazione di sostegno dia vita ad un giudizio di natura volontaria, bisognerebbe dimostrare l’unilateralità di tale procedimento per poterne dedurre l’esclusione dell’obbligo del patrocinio. Vi è da intendersi, però, su quale sia il criterio di distinzione fra procedimenti unilaterali e procedimenti bi- o plurilaterali. L’orientamento tradizionale fonda questa partizione sugli effetti del provvedimento finale 148: il procedimento è unilaterale quando unica è la parte destinataria di tali effetti; in base a questa lettura, il procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno presenterebbe sempre la caratteristica dell’unilateralità149. Non concorda la dottrina sopra menzionata, secondo cui la struttura partecipativa del giudizio deve essere misurata avuto riguardo ai soggetti degli atti del processo; in quest’ottica, se Tizio, legittimato ex art. 406 c.c., presenta ricorso perché sia nominato un amministratore di sostegno all’inabile Caio, il procedimento assume struttura plurilaterale e il ricorrente va considerato, a tutti gli effetti, parte del procedimento150. In un solo caso i due orientamenti troverebbero un punto d’accordo: quando sia lo stesso inabile a chiedere per se stesso l’apertura dell’amministrazione di sostegno, ipotesi in cui il procedimento sarebbe senza Così dispone l’art. 25, co. 3, D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, in base al quale se il provvedimento deve essere emesso nei confronti di più parti, si applicano le norme generali in tema di patrocinio. 148 Questa posizione risale ad ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, p. 57 ss.: l’autore traccia una distinzione fondata sugli effetti del provvedimento ed analizza uno ad uno i procedimenti che, in base a tale criterio, possono essere qualificati come unilaterali. 149 Così in sostanza afferma CHIZZINI, Procedimenti di istituzione e revoca dell’amministrazione di sostegno, in BONILINI-CHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, cit., p. 415 ss.; l’autore si rifà allo stesso ANDRIOLI, Diritto processuale civile, cit., p. 57 ss. 150 Certamente, trattasi di una parte molto speciale: l’art. 406 c.c. le conferisce una legittimazione straordinaria, slegata dalla soggezione agli effetti del provvedimento, a mezzo della quale si intende tutelare l’interesse pubblico. Cfr., sul punto, TOMMASEO, I processi a contenuto oggettivo, parte I, in Riv. Dir. Civ., 1988, p. 685 ss. 147 98 dubbio unilaterale. 6) La variabile della “miglior tutela del soggetto beneficiario”. Come spesso accade, due soluzioni opposte vengono invocate per un identico scopo: in questo caso lo scopo è quello della massima protezione possibile del beneficiario dell’amministrazione di sostegno151. Per chi sostiene la tesi della mera facoltatività della difesa tecnica, la “miglior tutela” si attuerebbe nell’accesso diretto e non oneroso alla giustizia, nello stretto e personale rapporto col giudice tutelare. Per chi al contrario ritiene prevalenti gli elementi di natura contenziosa nel procedimento – che coinvolgerebbe un diritto soggettivo della persona, quale la sua capacità di agire152 –, è essenziale che le parti siano assistite da un difensore, come strumento essenziale per la piena effettività del diritto di difesa153. L’obbligo del patrocinio è stato conteso in un “tira e molla” che lo ha inteso, alternativamente, come ostacolo ed onere eccessivo, o come piena attuazione del diritto di difesa. Non solo la dottrina, ma anche la giurisprudenza, nei tre anni successivi all’introduzione dell’istituto, si è variamente posizionata su questo “pendolo interpretativo”. Alcune corti di merito si sono pronunciate per la sussistenza dell’obbligo del patrocinio nel procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno154, fornendo motivazioni valide ed appaganti; altri tribunali ed altre Corti d’appello si sono espresse nella direzione opposta, ritenendo l’obbligo non sussistente, e fornendo ragioni altrettanto buone155. Il 29 novembre 2006 è intervenuta la Cassazione sul punto, con una Così si esprime VULLO, Onere del patrocinio e procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, cit., p. 1777. 152 Come sostenuto da TOMMASEO, v. nota (45). 153 Di nuovo VULLO, Onere del patrocinio e procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, cit., p. 1777. 154 Le pronunce più note in questo senso sono: App. Milano, 9 gennaio 2006, (decr.), in Fam. dir., 2006, p. 280 ss.; App. Milano, 15 febbraio 2005, in Fam. pers. e succ., 2005, p. 23 ss.; App. Milano, 11 gennaio 2005, (decr.), in Fam. dir., 2005, p. 178 ss.; Trib. Padova, 21 maggio 2004, (decr.), in Fam. dir., 2004, p. 607 ss. 155 Per esempio App. Venezia, 16 gennaio 2006, (decr.), in Fam. dir., 2006, p. 275; Trib. Modena, 22 febbraio 2005, (decr.), in Fam. dir., 2005, p. 180 ss. 151 99 pronuncia dall’intento chiarificatore. Nel paragrafo successivo si valuterà se la chiarezza tanto ambita è stata raggiunta. 5. (segue) La soluzione della Cassazione. Critiche e consensi. A quasi tre anni dall’introduzione dell’istituto, si pronuncia la Cassazione sulla questione della difesa tecnica156. La pronuncia della Corte si struttura così: detta una regola, che opera in via generale, in situazioni che rientrano nella “fisiologia” dell’istituto; e detta un’eccezione, che si riferisce a quelle ipotesi che fuoriescono dalla dimensione fisiologica. L’istituto dell’amministrazione di sostegno si configura, secondo la Corte, come un contenitore neutro, in cui sono riunite fattispecie fra loro ontologicamente diverse. Questa diversità imporrebbe la necessità di compiere un distinguo all’interno dei procedimenti per la nomina dell’amministratore di sostegno, e imporrebbe l’adozione di soluzioni differenziate, che implicano delle strutture processuali differenziate. La distinzione si fonderebbe sul contenuto che si intende imprimere al provvedimento finale (decreto di nomina), e in particolare sulla sua attitudine o inattitudine ad incidere sui diritti fondamentali della persona. Nella generalità dei casi l’amministrazione di sostegno non incide su di essi: l’istituto ha solo finalità di sostegno, per l’appunto, di “mera assistenza, a volte solo fattuale”. In questi casi le esigenze di celerità, semplificazione prevarrebbero su quelle di difesa, visto che non vi sono “diritti da difendere” né incapacità da accertare, ma solo interessi da gestire, e il patrocinio sarebbe puramente facoltativo. Vi sono però ipotesi diverse, in cui il beneficiario abbisogna di una protezione maggiore, e ciò comporta un intervento ablativo sui su quelli che la Corte definisce diritti fondamentali. L’applicazione dell’art. 411 co. 4 rappresenta l’ipotesi emblematica di questa seconda species. In questi casi, in cui 156 Cass., 29 novembre 2006, n. 25366, in Fam. dir., 2007, 1, p. 19 ss. 100 necessariamente è toccata la sfera di autonomia del soggetto e quindi, come dice la Corte, i suoi diritti fondamentali, le parti dovranno essere assistite da un avvocato. Gli interessi in gioco – da un lato quello alla semplificazione, celerità, non onerosità del procedimento, dall’altro quello dell’effettività della difesa e del contraddittorio – troverebbero un diverso bilanciamento a seconda del contenuto del provvedimento finale. Di regola, dunque, il patrocinio di un difensore non è necessario: le parti (lo stesso inabile o uno degli altri soggetti legittimati) non hanno l’obbligo di stare in giudizio col ministero di un difensore; questo vale tranne che, ovviamente, per il ricorso in cassazione. In via eccezionale, la difesa tecnica diviene obbligatoria nelle ipotesi in cui, su richiesta di parte o per iniziativa ufficiosa del giudice, la misura abbia contenuto tale da incidere sui “diritti fondamentali della persona”: ciò avverrebbe in particolare quando, in base alla previsione dell’art. 411 c.p.c., al beneficiario siano estesi effetti, limitazioni o decadenze previste per l’interdetto o l’inabilitato. Questa pronuncia, in apparenza salomonica, ha suscitato reazioni contrapposte nel mondo giuridico. Critiche e dissensi sono stati espressi da gran parte degli esponenti di dottrina – appartenenti sia a quel filone che escludeva l’obbligo della difesa tecnica sia a quello che la reputava sempre necessaria – questa volta unanimi nel definire insoddisfacenti le conclusioni a cui perviene la Suprema Corte. Valutazioni di favore sono invece giunte da altri fronti: in primis, da parte della Corte costituzionale, che in una recentissima pronuncia ha avallato la soluzione della Cassazione; inoltre, da parte di quella porzione del mondo giuridico che ha recentemente redatto un progetto di legge per l’abrogazione dell’interdizione e dell’inabilitazione. Critiche La sentenza è stata commentata da due esponenti di dottrina, il primo 101 sostenitore della tesi della necessità del patrocinio157, il secondo dell’opinione opposta158. Il raffronto fra i due commenti fa emergere come i giudizi e le perplessità espresse siano in gran parte le stesse. Le critiche mosse alla sentenza sono di due tipi: le prime attengono al criterio scriminante, adottato dalla Corte per distinguere quei procedimenti in cui la difesa tecnica è obbligatoria e quelli in cui non lo è; le seconde attengono all’opportunità stessa di effettuare un distinguo. Il criterio distintivo adottato dalla Corte è giudicato problematico su più fronti. Entrambi i commentatori della sentenza giudicano del tutto irragionevole costruire un criterio che consente di valutare l’obbligatorietà della difesa tecnica solo “a posteriori”: solo in base, cioè, al contenuto del provvedimento finale159. A procedimento instaurato, alla luce dei risultati dell’istruttoria, il giudice si determina ad adottare un provvedimento con alcuni effetti ablativi propri dell’interdizione o dell’inabilitazione: il ricorrente può però trovarsi privo del patrocinio di un avvocato, perché in base alle richieste da lui avanzate il decreto avrebbe dovuto avere un contenuto meramente “gestionale”, e non ablativo. Solo a questo punto scatta l’obbligo della difesa tecnica. Il giudice solleciterà le parti a nominarsi un difensore (in base alla previsione dell’art. 182 c.p..c.). Il ragionamento della Corte si arresta a questo punto, ma in base alle regole generali si può dedurre che: se le parti nomineranno il difensore il procedimento potrà proseguire, e in tal modo sarà evitata l’empasse della sopravvenuta nullità; se non lo faranno, opererà la sanzione della nullità del procedimento. È stato rilevato come la sequenza appena descritta abbia in sé qualche cosa di anomalo. Anzitutto, la nullità che si produce nel caso in cui le parti TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica in un’ambigua sentenza della cassazione, in Fam. dir., 2007, 1, p. 25 ss. 158 CHIZZINI, Brevi annotazioni in tema di difesa tecnica nell’amministrazione di sostegno, in Fam. dir., 2007, 2, p. 121 ss. 159 Così CHIZZINI, Brevi annotazioni in tema di difesa tecnica nell’amministrazione di sostegno, cit., p. 123; sostanzialmente allo stesso modo si esprime TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica in un’ambigua sentenza della cassazione, cit., p. 27 e in particolare nota (10). 157 102 rifiutino di nominare un difensore lite pendente travolgerà inevitabilmente anche gli atti introduttivi del procedimento e gli atti istruttori, altrimenti validi, con un effetto “retroattivo” che palesemente contrasta con il principio generale di propagazione delle nullità processuali, per cui “la nullità di un atto non importa quella degli atti precedenti … che ne sono indipendenti” (art. 159 c.p.c.)160. In secondo luogo, stabilendo che l’onere della difesa tecnica si fonda sul contenuto del provvedimento, e quindi su una determinazione del giudice, la soluzione della Cassazione si pone in contrasto con i principi generali, per cui tendenzialmente l’obbligo del patrocinio è stabilito su dati oggettivi (ad esempio la competenza o la natura del procedimento)161. Il criterio distintivo adottato dalla Corte viene contestato anche sotto un altro profilo: quello dell’incidenza del provvedimento sui “diritti fondamentali” della persona. Non si poteva trovare una regola di più dubbia interpretazione, né un espressione più vaga di questa162. Non è certo di aiuto all’interprete affidarsi ad un criterio dai tratti così indefiniti ed al centro di una continua diatriba. Se poi si considera come diritto fondamentale lo stesso “diritto all’attività economica”, come più volte ha sostenuto la Corte di Giustizia delle Comunità Europee163, il criterio distintivo perderebbe qualsiasi efficacia: sarebbe infatti quanto mai difficile trovare un provvedimento del giudice tutelare che non abbia alcuna incidenza su tale diritto. Oltre a ciò, vi è il problema di identificare se e in che termini vi sia sovrapposizione fra l’incidenza sui diritti umani del beneficiario e Questa perplessità e sollevata da TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica in un’ambigua sentenza della cassazione, cit., p. 29-30. 161 Di nuovo TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica in un’ambigua sentenza della cassazione, cit., p. 27. 162 Cfr. CHIZZINI, Brevi annotazioni in tema di difesa tecnica nell’amministrazione di sostegno, cit., p. 123, e in particolare nota (11): l’autore si esprime in termini fortemente critici nei confronti di questa espressione – diritti fondamentali –, da sempre peraltro utilizzata in altri contesti e con altri significati. Anche TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica in un’ambigua sentenza della cassazione, cit., p. 27, seppur in toni meno accesi, valuta negativamente l’utilizzo di un tale criterio, che ritiene“dai contorni tutt’altro che definiti”. 163 Sostiene ciò una giurisprudenza costante della Corte di giustizia delle Comunità Europee, e una buona parte della dottrina vi fa seguito: ad es., GROSSI, Introduzione ad uno studio sui diritti inviolabili nella Costituzione italiana, Padova, 1972, p. 176. 160 103 l’applicazione dell’art. 411 co. 4. c.c.. Tutte le volte che il giudice tutelare estende al beneficiario uno degli effetti, limitazioni, decadenze, previste dalla legge per l’interdetto o l’inabilitato si avrebbe una ricaduta sui diritti umani del beneficiario stesso? E viceversa, qualsiasi incidenza su tali diritti sarebbe riconducibile all’applicazione dell’art. 411 c.c.? Non sembra di poter dare risposta affermativa ad alcuna delle domande164. Per un verso, non tutti gli effetti dell’interdizione o dell’inabilitazione sono tali da gravare sui diritti umani fondamentali; per l’altro, vi sono misure, non contemplate dalla disciplina dei due vecchi istituti protettivi, che certamente comprimono i diritti fondamentali e che il giudice tutelare potrebbe disporre nei confronti del beneficiario: si pensi, ad esempio, alle misure che attengono alla “cura”della persona del beneficiario, che in certi casi possono assumere un contenuto tale da riconoscere all’amministratore il potere di sostituire il suo consenso a quello dell’inabile, anche in ambiti molto delicati165. Non è dunque né necessaria né sufficiente, ai fini di stabilire se vi sia l’onere della difesa tecnica, la determinazione del giudice ad estendere al beneficiario una qualche previsione tipica dell’interdizione o dell’inabilitazione. Le critiche della dottrina non si arrestano al livello del tipo di criterio distintivo adottato dalla Corte; esse affondano ancor più alla base, e cioè all’opportunità stessa di distinguere, all’interno di un medesimo istituto e di un medesimo procedimento, fra ipotesi per cui il patrocinio di un difensore è necessario ed ipotesi per cui non lo è. La dottrina favorevole all’esclusione dell’obbligatorietà del patrocinio commenta così: il procedimento, comunque si concluda, non viene mai ad accertare l’incapacità di agire del beneficiario; esso interviene soltanto sulla mera gestione dei suoi interessi con un provvedimento che, in ogni caso, non ha un contenuto di accertamento e non è idoneo al TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica in un’ambigua sentenza della cassazione, cit., p. 28. 165 Per esempio, in giurisprudenza, v. Trib. Modena, 15 settembre 2004, in Fam. dir., 2005, p. 85 ss., cui segue una nota di RUSCELLO, Amministrazione di sostegno e consenso ai trattamenti terapeutici. 164 104 giudicato; la struttura del processo dev’essere unica, e le forme uniche 166. La dottrina che invece professa l’obbligatorietà del patrocinio contesta il sistema del tutto irrazionale che la soluzione offerta dalla Corte viene a costruire: perché non tentare di costruire un raccordo fra l’istituto e i principi del sistema, anziché rassegnarsi ad affermare “l’atipicità del modello rispetto al sistema procedimentale”167 e la sua assoluta incompatibilità con le regole generali? Si crea una figura così anomala, che nessun aiuto in sede d’interpretazione può essere fornito dalle regole generali stabilite per i procedimenti di giurisdizione volontaria o contenziosa, e si finisce per affidare la scelta della necessità o meno del patrocinio alla valutazione del singolo giudice. Ciò che si prospetta, in pratica, è una totale libertà dei singoli giudici tutelari di stabilire se e quando il ricorrente debba stare in giudizio assistito da un difensore. Consensi Ad avallare la soluzione della Corte di cassazione è intervenuta una recente pronuncia della Corte costituzionale168. La Corte è stata chiamata a pronunciarsi in via incidentale sulla legittimità degli articoli 407, 408 c.c. e 716 c.p.c., nella parte in cui non prevedono come obbligatoria, a favore della persona interessata, l’assistenza tecnica di un patrocinatore legale nel procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno; le norme di riferimento sono gli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione. Il giudice si è rivolto alla Corte contestando, in estrema sintesi: che l’amministrazione di sostegno, benché meno invasiva di interdizione ed inabilitazione, incide comunque sulla capacità di agire del beneficiario; che ogni volta che oggetto del procedimento CHIZZINI, Brevi annotazioni in tema di difesa tecnica nell’amministrazione di sostegno, cit., p. 124. Così si esprime la Corte di cassazione nella sentenza in esame. 168 Corte Cost., ord. 19 aprile 2007, n. 128, pubblicata sul sito www.dirittoegiustizia.it e ora anche in Fam. dir., 2007, 7, p. 667 ss., seguita da una nota di VULLO, La Corte Costituzionale si pronuncia in materia di amministrazione di sostegno e difesa tecnica. 166 167 105 sia una situazione soggettiva incidente sulla capacità legale, la regola dell’obbligatorietà del patrocinio è imprescindibile; che nessun rilievo sulla regola del patrocinio avrebbe l’uso delle forme camerali, dovendosi piuttosto guardare all’”oggetto sostanziale”del procedimento. La Corte dichiara il ricorso manifestamente inammissibile perché il giudice a quo ha “omesso di verificare la possibilità di pervenire ad una interpretazione conforme a Costituzione”: questa possibilità è offerta proprio dalla soluzione offerta dalla Cassazione, contenuta nella sentenza 25366/2006. La Consulta cita pedissequamente il principio di diritto della sentenza della Cassazione, e invita il giudice a quo ad applicare, nel caso concreto, il distinguo sopra descritto fra ipotesi per cui è richiesta la difesa tecnica ed ipotesi che, all’opposto, non la richiedono. La tesi della Cassazione ha avuto un altro riscontro in termini positivi. Nel gennaio 2007 è stata redatto un progetto di legge per l’abrogazione dell’interdizione e dell’inabilitazione, la cd. “bozza Cendon” (testo provvisorio)169. Il progetto, oltre ad abrogare i vecchi istituti protettivi, ha l’intento di completare e perfezionare la disciplina sostanziale e processuale dell’amministrazione di sostegno, che così diverrebbe l’unica misura di tutela dei soggetti deboli, ad amplissimo raggio di azione. Per quanto riguarda la questione del patrocinio, la bozza accoglie in toto la soluzione della Cassazione fondata sulla distinzione appena descritta, fra provvedimenti che comprimono diritti fondamentali della persona e provvedimenti che invece non hanno su di essi alcuna ricaduta, con finalità e contenuti solamente gestionali. Questa distinzione è necessaria, secondo Cendon, e motivata dalla “doppia anima” dell’istituto170. Questa doppia anima si fonda sulla diversità della “clientela”che l’amministrazione di sostegno ha – soprattutto una volta divenuta l’unico strumento di protezione dei soggetti: da un lato persone che “vanno davvero incapacitate…per il loro bene”perché si trovano in condizioni fisio-psichiche di Il testo della cd. “bozza Cendon” per l’abrogazione dell’interdizione e dell’inabilitazione si trova sul sito www.personaedanno.it. 170 Cfr. nella “bozza Cendon” sez. II, § 2.20. 169 106 particolare gravità, e dall’altro “clientela di tipo leggero”171 solamente bisognevole di un sostegno gestionale. Il progetto prevede l’introduzione, all’art. 716 co. 2 c.p.c., di una disposizione siffatta: “In ogni fase del procedimento, il giudice tutelare qualora, con riferimento esclusivo all’interesse del beneficiario, ritenga di stabilire divieti, limitazioni o decadenze incidenti su diritti fondamentali della persona, invita il beneficiario a nominare un difensore… A tal fine, il giudice tutelare concede all’interessato un termine per la nomina del difensore, rinviando ad una udienza successiva l’assunzione dei provvedimenti in relazione ai quali è disposta la difesa tecnica”. Come nella soluzione della Cassazione, è il giudice a stabilire quali siano i casi in cui la difesa tecnica è obbligatoria. Abrogate interdizione ed inabilitazione, ovviamente sparisce qualsiasi riferimento all’estensione di “effetti, limitazioni, decadenze previste dalla legge per l’interdetto o l’inabilitato”: si parla, parafrasando la pronuncia della Cassazione, soltanto di incidenza sui diritti fondamentali della persona. Parte della dottrina aveva criticato questa impostazione, che si porrebbe in contrasto netto coi principi generali, in base ai quali tendenzialmente l’obbligo del patrocinio è stabilito su dati oggettivi172; è interessante, e bizzarro al contempo, notare come la “bozza Cendon” consideri tale scelta “logica ed armonica”, nell’ottica di un diritto “dal basso” che si fonda sullo stretto rapporto fra le parti ed il giudice tutelare e che “si sostanzia, sul piano processuale, nella scelta di rimettere allo stesso giudice tutelare il compito di valutare, di volta in volta, se sarà necessario far capo alla difesa tecnica “. Del tutto peculiari sono poi le conseguenze che il testo della bozza ricollega alla mancata nomina del difensore nel tempo assegnato dal giudice tutelare: l’art. 716 co. 3 c.p.c. come modificato stabilirebbe che “La mancata nomina del difensore, da parte del beneficiario o dell’amministratore di sostegno, nel Queste sono le parole di CENDON, nella “Bozza per l’abrogazione dell’interdizione e dell’inabilitazione” (testo provvisorio), sez. II, § 2.20 e sez. III, § 3.13. 172 TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica in un’ambigua sentenza della cassazione, cit., p. 27. 171 107 termine assegnato, legittima il giudice tutelare a stabilire i divieti, le limitazioni o le decadenze in relazione ai quali egli aveva disposto la nomina del difensore”. Non si produrrebbe alcuna sanzione di nullità, con i correlati rischi di “ingessamento” del procedimento: semplicemente, il giudice potrebbe procedere senza il timore di incorrere nella spada di Damocle della nullità del procedimento. Si può dire che il diritto alla difesa è rimesso alla buona volontà della parte, la quale se intende tutelarlo dovrà nominare un difensore nel tempo assegnatole, e altrimenti non potrà lamentarne la violazione. 6. Procedure di raccordo fra le misure di protezione dei soggetti deboli. Il fatto che l’ordinamento preveda due modelli diversi per la tutela dei soggetti deboli – da un lato i vecchi istituti di tutela e dall’altro la novità dell’amministrazione di sostegno – e quindi due procedimenti diversi, non è scevro di problemi dal punto di vista del coordinamento processuale fra queste misure. Il problema si pone soprattutto a causa del fatto che i procedimenti sono attribuiti a giudici diversi: sul ricorso per l’interdizione e l’ inabilitazione decide il tribunale in composizione collegiale, mentre in materia di amministrazione di sostegno è competente il giudice tutelare, che è organo monocratico173. Trovare un coordinamento processuale fra i procedimenti significa trovare delle forme, delle modalità che consentano il “passaggio” da un procedimento all’altro, qualora il giudice ne rilevi la necessità o l’opportunità. È opportuno, innanzitutto, osservare quali sono i dati normativi da cui il È bene notare, per precisione, che questa diversità di attribuzioni non attiene alla competenza in senso tecnico (benché sia lo stesso legislatore a parlare, impropriamente, di competenza) perché i due organi appartengono al medesimo ufficio giudiziario: trattasi semplicemente di ripartizione di compiti fra gli organi di un medesimo ufficio. Questa precisazione è importante perché implica tutta una serie di conseguenza, non da ultima quella dell’impossibilità di esperire regolamento di competenza: così CHIARLONI, Prime riflessioni su alcuni aspetti della disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno, in FERRANDO (a cura di), L’amministrazione di sostegno. Una nuova forma di protezione dei soggetti deboli, cit., p. 152. 173 108 discorso prende le mosse. Il codice, come novellato, configura la possibilità di forme di collegamento in due sensi: dal procedimento di interdizione a quello di nomina dell’amministratore di sostegno, e viceversa. Gli artt. 418, co. 3 e 429, co. 3 c.c. descrivono un movimento nella prima direzione. L’art. 418, co. 3 stabilisce che il tribunale, nel corso del giudizio di interdizione o inabilitazione, “dispone la trasmissione del procedimento al giudice tutelare” qualora appaia “opportuno applicare l’amministrazione di sostegno”; in questa evenienza il giudice competente per l’interdizione o l’inabilitazione “può adottare i provvedimenti urgenti di cui al quarto comma dell’art. 405 c.c.”. L’art. 429, co. 3, c.c. prevede che “se nel corso del giudizio per la revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione appare opportuno che, successivamente alla revoca, il soggetto sia assistito dall’amministratore di sostegno, il tribunale, d’ufficio o ad istanza di parte, dispone la trasmissione degli atti al giudice tutelare”. L’art. 413, co. 4 c.c., descrive il transito in senso inverso: dall’amministrazione di sostegno verso l’interdizione o l’inabilitazione. Quando il giudice tutelare rileva che l’amministrazione di sostegno sia “inidonea a realizzare la piena tutela del beneficiario”, dichiara la cessazione della misura; in tal caso, ”se ritiene che si debba promuovere giudizio d’interdizione o inabilitazione, ne informa il pubblico ministero affinché vi provveda”. È agevole notare come non vi sia piena simmetria fra le due ipotesi: non solo dal punto di vista dei contenuti, e quindi delle modalità di passaggio – elementi che si avrà modo di approfondire – ma, ancor prima, perché per avere un parallelismo completo servirebbe una disposizione che invece manca. Il “transito” verso l’amministrazione di sostegno può avvenire sia partendo dal procedimento di interdizione174 (art. 418 c.c.) sia dal procedimento di revoca della stessa (art. 429 c.c.); per il passaggio inverso, invece, il codice parla solo della possibilità di promuovere il giudizio d’interdizione in sede di cessazione dell’amministrazione di sostegno, ma nessuna menzione è fatta dell’ipotesi che Per contrazione, d’ora in avanti si parlerà solo di interdizione, ma lo stesso discorso vale per l’inabilitazione: quindi ove scritto “interdizione” è da intendersi “interdizione e inabilitazione”. 174 109 questo passaggio avvenga in sede di apertura della stessa. Per agevolare l’analisi che seguirà, è opportuno schematizzare così le ipotesi di raccordo esistenti: a) dall’interdizione all’amministrazione di sostegno: il giudice “trasmette il procedimento” al giudice tutelare (418, co. 3); b) dalla revoca dell’interdizione all’amministrazione di sostegno: il tribunale “trasmette gli atti” al giudice tutelare (429, co. 3); c) dalla cessazione dell’amministrazione di sostegno (e in via interpretativa, anche dall’apertura della stessa) all’interdizione: il giudice tutelare “informa il pubblico ministero” affinché provveda a promuovere l’interdizione (413, co. 4). Nei paragrafi che seguono verranno esaminati, singolarmente, questi tre meccanismi di coordinamento. 7. (segue) Dall’interdizione all’amministrazione di sostegno. L’art. 418 c.c., in particolare il suo terzo comma, è forse la norma più controversa della breve vita dell’amministrazione di sostegno. I dubbi che desta la previsione in esso contenuta si riducono sostanzialmente a tre interrogativi: 1) quale giudice (persona fisica o collegio) può in concreto decidere per la trasmissione del procedimento al giudice tutelare; 2) quale provvedimento deve adottare detto giudice per effettuare la trasmissione; 3) che norme applicare in caso di contrasto fra l’apprezzamento del tribunale e quello del giudice tutelare. Le tre questioni saranno analizzate separatamente, nell’ordine. 1) I dubbi sull’identità del giudice che effettua la trasmissione si originano dal fatto che il procedimento d’interdizione può essere suddiviso in fasi autonome, e che queste fasi spettano a giudici diversi. Si ha una prima fase preliminare che costituisce una sorta di filtro, per arrestare a questo stadio le 110 domande manifestamente infondate175: questo primo compito spetta al presidente del tribunale (713 c.p.c.). Lo stadio successivo consiste nell’istruzione della causa, che è attribuita al giudice istruttore – al quale viene trasmesso il fascicolo (art. 714 c.p.c.). La decisione, che assume la forma di sentenza, viene infine adottata dal tribunale in composizione collegiale. Ci si chiede fin da che momento, nel corso del procedimento d’interdizione, possa avvenire la trasmissione al giudice tutelare. Il testo dell’art. 418 parla di trasmissione “nel corso del giudizio d’interdizione o inabilitazione”: da ciò parrebbe che essa possa avvenire fin da subito, fin dalla pendenza del procedimento176, e quindi anche ad opera del presidente del tribunale nella sua funzione di vagliare la non manifesta infondatezza della domanda177. Vi sono però altri elementi che portano ad escludere questa possibilità: in primis, lo stesso comma dell’art. 418, che parla di una valutazione di opportunità dell’amministrazione di sostegno (“se…appare opportuno”) che il giudice deve effettuare. Questo riscontro di opportunità ha un peso notevole sull’andamento del procedimento, e non sembra attagliarsi al vaglio presidenziale, tradizionalmente inteso con semplici funzioni di schermo contro le domande manifestamente infondate, senza spazio a valutazioni di opportunità. Inoltre, viene da pensare che una valutazione di opportunità ponderata, su quale misura di protezione sia più indicata per un determinato soggetto, possa essere effettuata solo dopo aver sentito l’inabile (attraverso l’esame dell’interdicendo) e dopo aver ascoltato gli informatori (419 c.c.); “passare la palla” al giudice tutelare, soltanto sulla base di quanto è detto nel ricorso e sulla base degli atti contenuti nei fascicoli delle parti, sembra quanto Così RAMPAZZI GONNET, voce “Procedimento di interdizione e inabilitazione”, in Digesto Civ., XIV, Torino, 1996, p. 597; allo stesso modo si esprime ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, 3° ed., Napoli, 1964, IV, p. 356. 176 È utile ricordare che il processo di interdizione, come ogni altro processo che inizi con ricorso, si considera pendente dal momento del deposito del ricorso stesso, e perciò ancora prima della notifica all’inabile ed ai suoi parenti (art. 713, co. 2 c.p.c.). 177 MASONI, Correlazioni processuali tra il giudizio di interdizione ed inabilitazione e il procedimento istitutivo dell’amministrazione di sostegno, di cui alla L. 9 gennaio 2004, n.6: primi contrasti interpretativi, in Giur. it., 2005, p. 2137. 175 111 mai sconveniente. Vi è anche chi ritiene che la decisione non possa esser presa neppure dal giudice istruttore, bensì soltanto dal collegio in sede di decisione: questo dovrebbe avvenire in virtù dell’applicazione analogica di una regola generale, quella dettata dell’art. 281-septies c.p.c. per la rimessione della causa al giudice monocratico178. Esposte le varie opinioni su questo punto, non può dirsi ancora chiusa la questione dell’identità del giudice che effettua la trasmissione del procedimento: è lecito chiedersi, visto che la legge nulla esclude e nulla stabilisce al riguardo, se possa trattarsi anche del giudice d’appello. Si pensi ad un caso del genere: in primo grado è stata pronunciata una sentenza d’interdizione; contro di essa viene proposto appello; ci si chiede se possa la Corte d’appello investita del gravame ritenere più opportuna la misura dell’amministrazione di sostegno e “passare la palla”, a questo punto, al giudice tutelare. Rispondere affermativamente significa far regredire il procedimento, farlo tornare in primo grado: le funzioni di giudice tutelare sono infatti attribuite soltanto a giudici incardinati presso il tribunale (344 c.c.), non anche presso le Corti d’appello. Ci si scontra, a questo punto, con un dato normativo che parla molto chiaro: l’art. 354 c.c., la cui lettera stabilisce che il giudice d’appello non può rimettere la causa al primo giudice al di fuori dei casi tassativamente previsti179 (artt. 353 e 354 c.p.c.). Se dunque questa via non è praticabile, ci si chiede che cosa sia in potere di fare il giudice d’appello, ove ritenga che la misura dell’interdizione sia troppo forte, troppo limitativa, e che sia sufficiente quella dell’amministrazione di sostegno. Vi è chi ipotizza che possa essere la stessa Corte d’appello a Questa sembra essere l’opinione di DANOVI, Il procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno (l. 9 gennaio 2004, n. 6), in Riv. Dir. Proc., 2004, p.804; l’autore affama, tuttavia, che esigenze di speditezza e di economia processuale farebbero propendere per l’attribuzione della funzione anche al giudice istruttore. 179 MANDRIOLI, Diritto processuale civile, II, Il processo di cognizione, 15° ed., Torino, 2003, p. 459; lo stesso autore precisa che tuttavia la giurisprudenza ha in alcuni casi interpretato estensivamente il dato normativo. 178 112 convertire l’interdizione in amministrazione di sostegno180: si tratterebbe di una sorta di “riforma allargata” che il giudice di secondo grado, secondo questa interpretazione, potrebbe compiere. 2) La seconda questione controversa riguarda la forma del provvedimento con cui il tribunale trasmette il procedimento al giudice tutelare. Parte della dottrina e della giurisprudenza affermano che il passaggio vada disposto con una semplice ordinanza; altri invece sostengono sia necessaria la pronuncia di una sentenza di rigetto della richiesta d’interdizione, a cui poi fa seguito un’ordinanza per la trasmissione del fascicolo al giudice tutelare. Il nodo interpretativo da cui le perplessità si originano è rappresentato dall’espressione “trasmissione del procedimento”. Questa espressione non ha precedenti, non trova riscontri in nessun’altra disposizione legislativa: la dottrina unanimemente la definisce come impropria181, e come indice della scarsa attenzione del legislatore della riforma verso il tecnicismo che connota il processo182. È stato fatto notare come oggetto di trasmissione siano sempre atti o fascicoli, mai cause o procedimenti 183(questi sono semmai oggetto di riassunzione o prosecuzione): un’espressione più “ortodossa” è utilizzata ad esempio dall’art. 429 c.c. che, descrivendo il passaggio dal giudizio di revoca dell’interdizione a quello di apertura dell’amministrazione di sostegno, parla di “trasmissione degli atti” al giudice tutelare,. Alcuni interpreti ritengono, tuttavia, che l’espressione, per quanto scorretta, abbia un significato ed una valenza peculiari. La locuzione “trasmettere un procedimento” fa pensare immediatamente alla rimessione ad altro giudice di un giudizio ancora pendente, non ancora concluso. Anche il confronto con l’art. 429 c.c. porta a concludere che, se non è una svista del MASONI, Correlazioni processuali tra il giudizio di interdizione ed inabilitazione e il procedimento istitutivo dell’amministrazione di sostegno, cit., p. 2138. 181 TOMMASEO, L’amministrazione di sostegno al vaglio della Corte costituzionale, in Fam. dir., 2006, 2, p. 121. 182 MASONI, Correlazioni processuali tra il giudizio di interdizione ed inabilitazione e il procedimento istitutivo dell’amministrazione di sostegno, p. 2138. 183 TOMMASEO, L’amministrazione di sostegno al vaglio della Corte costituzionale, cit., p. 121 e in particolare nota (15). 180 113 legislatore l’aver utilizzato due espressioni diverse, allora questa disparità deve manifestarsi con l’emanazione di provvedimenti differenti: sentenza per il caso dell’art. 429 c.c., che si riferisce alla “trasmissione degli atti” del procedimento di revoca, ormai concluso e definito; ordinanza per l’art. 418, che riguarda una trasmissione nell’ambito di un procedimento ancora aperto, e nell’ambito di un unico giudizio in cui si distinguono due fasi con riti diversi184. Secondo questa tesi, dunque, il passaggio al giudice tutelare è qualificabile come un mutamento del rito, nel contesto di un giudizio che rimane unitario185. Il provvedimento che lo dispone è privo di carattere decisorio, e può quindi assumere le forme dell’ordinanza186. Non concordano altri esponenti della dottrina e della giurisprudenza, che ritengono indispensabile che il passaggio avvenga con sentenza. Costoro argomentano, a contrario, che avvalersi dello strumento dell’ordinanza per disporre il passaggio sarebbe illegittimo, o quanto meno irrispettoso delle garanzie processuali che spettano al ricorrente. Sulle ragioni di tale illegittimità non vi è però piena concordia. Secondo alcuni, disporre la trasmissione con ordinanza costituirebbe un’omissione di pronuncia sulla domanda di interdizione, in violazione del divieto del non liquet (art. 112 c.p.c.). Secondo altri il provvedimento di trasmissione verrebbe a costituire, di fatto, un rigetto nel merito della domanda, e sarebbe quanto mai inopportuno affidare ad un’ordinanza endoprocedimentale la produzione di un simile effetto. Questa seconda opinione sembra particolarmente interessante e merita di essere approfondita. L’assunto da cui essa parte è che il tribunale, trasmettendo MARTINELLI, Interdizione e amministrazione di sostegno, in FERRANDO (a cura di), L’amministrazione di sostegno. Una nuova forma di protezione dei soggetti deboli, cit., p. 146. 185 Altre ipotesi di mutamento del rito sono rinvenibili nel nostro ordinamento processuale. Questo è quanto avviene, ad esempio: nel procedimento per convalida di sfratto, col passaggio da una fase speciale ad un’altra a cognizione piena, che avviene quando l’intimato fa opposizione (art. 667 c.p.c.); nel giudizio di separazione personale fra coniugi, col passaggio dalla fase di conciliazione, svoltasi davanti al presidente del tribunale, a quella contenziosa dinnanzi al giudice istruttore (artt. 708 c.p.c. e 4, co. 8, l. 898/1970). 186 TOMMASEO, L’amministrazione di sostegno al vaglio della Corte costituzionale, cit., p. 121 e nota (18). 184 114 il procedimento al giudice tutelare, contemporaneamente rigetta la domanda del ricorrente: e la rigetta nel merito, perché lo fa sulla base di una valutazione di inopportunità e di inidoneità della misura (o ,meglio, sulla base di una valutazione di maggior opportunità ed idoneità di una misura diversa). Dunque, il provvedimento con cui è disposto il passaggio non ha affatto natura interlocutoria ed endoprocedimentale; si tratta invece di un provvedimento dal contenuto decisorio. Ora, un’ordinanza di regola non è impugnabile. Attribuire la forma dell’ordinanza ad una pronuncia sostanzialmente decisoria significa farla sfuggire a qualsiasi controllo e rendere insindacabili le scelte di opportunità che vi stanno alla base187. Ciò appare ancora più iniquo se si raffrontano due ipotesi: se il tribunale semplicemente rigetta la domanda d’interdizione, la pronuncia in forma di sentenza è impugnabile con i mezzi ordinari; se il tribunale (rigetta la domanda e) trasmette al giudice tutelare ex art. 418 c.c., allora nessuna impugnazione sarebbe esperibile avverso questa decisione188. Eppure, in entrambe le ipotesi, la domanda è rigettata. L’insindacabilità di questa “ordinanza decisoria” sarebbe davvero totale: infatti, il decreto emesso dal giudice tutelare a seguito della trasmissione potrà certo essere impugnato con il mezzo del reclamo, ai sensi dell’art. 720-bis c.p.c., ma pare improbabile che il giudice chiamato a decidere sul reclamo (la Corte d’appello) possa sindacare anche la scelta del tribunale di trasmettere il procedimento al giudice tutelare189. In base a questa interpretazione, dunque, l’unica via legittima, perché più ragionevole e garantista, è quella della sentenza. Anche la Corte costituzionale, nell’obiter di una sentenza del 2005190 (la prima che vaglia la legittimità Si ricorda che l’unica, limitatissima forma di controllo sulle ordinanze endoprocedimentali non revocabili è costituita dalla correzione ex art. 287 c.p.c., da parte del giudice che l’ha pronunciata, nei soli casi in cui sia incorso in omissioni od errori materiali o di calcolo. 188 Di nuovo VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell'amministrazione di sostegno, cit., § 5. 189 Così sostiene VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell'amministrazione di sostegno, cit., § 5; contra, però, MASONI, Correlazioni processuali tra il giudizio di interdizione ed inabilitazione e il procedimento istitutivo dell’amministrazione di sostegno, cit., p. 2140. 190 Corte Cost., 9 dicembre 2005, n. 440, in Fam. dir., 2006, p. 121 ss, cui fa seguito la più volte 187 115 costituzionale dell’istituto dell’amministrazione di sostegno), sembra supportare questa tesi191. La Corte, affrontando il tema dei raccordi processuali fra interdizione e amministrazione di sostegno, incluso quindi l’art. 418 c.c., afferma che “i provvedimenti di entrambi gli organi sono impugnabili innanzi alla Corte d’appello, rispettivamente con il reclamo contro il decreto del giudice tutelare (art. 720-bis) e con l’appello contro la sentenza del tribunale”; inoltre dichiara che il Tribunale “apre direttamente” il procedimento di amministrazione di sostegno, lasciando intendere che si tratti di un giudizio autonomo e diverso rispetto a quello di interdizione192. Optare per una soluzione o per l’altra non è affatto indifferente sul piano pratico. Le conseguenze di tale opzione attengono, ad esempio: – alla utilizzabilità dell’attività istruttoria tribunale prima della trasmissione: compiuta dal solo la tesi della continuità del procedimento – e quindi dell’ordinanza– ha come conseguenza la piena e sicura utilizzabilità, da parte del giudice tutelare, delle attività istruttorie compiute in precedenza dal tribunale (si potrebbe per esempio evitare una nuova audizione del soggetto beneficiario, già sentito dal giudice istruttore in sede di esame dell’interdicendo); all’opposto, emettere sentenza implicherebbe, di regola, escludere l’utilizzabilità del materiale probatorio già acquisito193; – alla efficacia della originaria procura alle liti conferita al difensore, dopo il passaggio: solo la via della continuità – e citata nota di TOMMASEO, L'amministrazione di sostegno al vaglio della Corte Costituzionale. 191 Si è detto “sembra supportare questa tesi” perché in realtà, le affermazioni della Corte non sono cristalline: TOMMASEO, ult. cit., per esempio rileva che non è chiaro quale sia il senso ultimo delle affermazioni che la Corte fa obiter, visto che non tutte paiono supportare la tesi dei due giudizi separati. 192 Così interpreta l’obiter della sentenza della Consulta VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell'amministrazione di sostegno, cit., § 5. 193 MASONI, Correlazioni processuali tra il giudizio di interdizione ed inabilitazione e il procedimento istitutivo dell’amministrazione di sostegno, cit., p. 2139. 116 quindi dell’ordinanza – rende superfluo il rilascio di una nuova procura, visto che il ricorso è in tal caso retto dal ricorso introduttivo originario; – alla necessità o meno della presentazione di una nuova nota d’iscrizione della causa a ruolo avanti al giudice tutelare; di nuovo, solo la via dell’ordinanza renderebbe superflua una nuova iscrizione194. Anche su questo punto, dottrina e giurisprudenza sembrano lontane dall’aver raggiunto un accordo. Alcuni tribunali, con il supporto di parte del mondo accademico, scelgono la strada della continuità processuale e quindi dell’ordinanza, con i notevoli vantaggi pratici che tale scelta comporta; altri giudici ed altri esponenti di dottrina ritengono necessario definire il giudizio d’interdizione con sentenza di rigetto nel merito per i motivi –peraltro validi e difficilmente confutabili – descritti sopra, e rimettere il fascicolo al giudice tutelare con separata ordinanza. 3) Il terzo quesito su cui la dottrina si è confrontata riguarda la possibilità per il giudice tutelare, una volta ricevuto il fascicolo dal tribunale adito con la domanda di interdizione, di dissentire con le indicazioni di quest’ultimo. Il caso è il seguente: il tribunale trasmette il procedimento al giudice tutelare perché ritiene più opportuna l’apertura dell’amministrazione di sostegno rispetto ad una pronuncia d’interdizione; il giudice tutelare non si trova d’accordo con le valutazioni del tribunale, oppure – pur d’accordo con esse – rileva che la situazione di fatto nel frattempo è mutata ed ora è più opportuno interdire. La dottrina ha assunto diverse posizioni riguardo al seguito che possa avere il procedimento. Innanzitutto, si è escluso che il giudice tutelare sia MASONI, Correlazioni processuali tra il giudizio di interdizione ed inabilitazione e il procedimento istitutivo dell’amministrazione di sostegno, cit., p. 2139; VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell'amministrazione di sostegno, cit., § 5. Gli autori si soffermano esattamente sugli stessi punti, ed elencano le stesse conseguenze che la scelta in un senso o nell’atro produce. Le conclusioni a cui i due autori pervengono sono, però, opposte: mentre per il primo prevalgono le ragioni di celerità e di economia processuale, che indubbiamente fanno propendere per la tesi dell’ordinanza, per il secondo tali vantaggi non sembrano in grado di superare la necessità di controllo che solo la pronuncia di una sentenza garantisce. 194 117 costretto ad istituire l’amministrazione di sostegno “forzosamente”, pur non essendo convinto della bontà della misura195. Allo stesso modo, si è unanimemente escluso che il giudice tutelare possa direttamente e semplicemente ri-trasmettere gli atti al giudice istruttore del tribunale: ciò contrasterebbe con la previsione dell’art. 413 c.c. che esige il coinvolgimento del pubblico ministero per il passaggio “dal basso verso l’alto”, cioè dal giudice tutelare al tribunale196. Appurato ciò, si profilano due possibili soluzioni: a) il giudice tutelare si trova di fronte all’alternativa secca di accogliere la richiesta o di rigettare con decreto motivato; quindi in caso di dissenso può solo emettere un decreto che rigetta nel merito la richiesta 197. Anche tale decreto sarà impugnabile a mezzo del reclamo alla Corte d’appello (art. 720-bis): è comunque dibattuto se, in sede di reclamo, possa essere oggetto di sindacato la valutazione e decisione del giudice superiore di trasmettere il procedimento al giudice tutelare198. b) il giudice tutelare ha la possibilità di far “rimbalzare” il procedimento di nuovo verso l’alto, cioè verso il tribunale, applicando estensivamente il meccanismo dell’art.. 413 c.c.: il giudice tutelare informa ritualmente il pubblico ministero affinché questi dia impulso al giudizio d’interdizione. L’art. 413 è dettato in riferimento al giudizio di cessazione dell'amministrazione di sostegno, ma parte degli interpreti lo reputano applicabile in ogni altro caso in cui il giudice tutelare valuti l’inopportunità di tale misura e, al contempo, ritenga sussistano i presupposti dell’interdizione199. In tale prospettiva, si fa MASONI, Correlazioni processuali tra il giudizio di interdizione ed inabilitazione e procedimento istitutivo dell’amministrazione di sostegno, cit., p. 2140: ciò contrasterebbe palesemente con il dettato dell’art. 110 Cost. per cui “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”. 196 Tale punto sarà approfondito in questo capitolo, § 9. 197 Di questa opinione pare essere MASONI, Correlazioni processuali tra il giudizio di interdizione ed inabilitazione e procedimento istitutivo dell’amministrazione di sostegno, cit., p. 2140. 198 La questione – se in sede di reclamo avverso il decreto del giudice tutelare possa sindacarsi anche la decisione del tribunale che gli ha trasmesso il procedimento – è già stata accennata nel punto 2) di questo paragrafo. Risposta affermativa è data da MASONI, p. 2140, ma il resto della dottrina sembra essere dell’opinione contraria, per esempio il già citato VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell'amministrazione di sostegno, cit., § 5. 199 Così TOMMASEO, L'amministrazione di sostegno al vaglio della Corte Costituzionale, cit., p. 126, nota (14); così anche VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell'amministrazione di 195 118 notare che l’art. 413 c.c. non distingue, quanto alla possibilità di informare il pubblico ministero, se il procedimento di amministrazione di sostegno sia stato direttamente instaurato davanti al giudice tutelare o sia pervenuto a quest'organo dal tribunale ai sensi dell’art. 418 c.c.. 8. (segue) Dalla revoca dell’interdizione all’amministrazione di sostegno. L’inidoneità della dichiarazione di interdizione e la maggior opportunità dell’amministrazione di sostegno possono emergere non solo durante il giudizio di interdizione, ma anche dopo, una volta che il soggetto sia stato dichiarato interdetto200. Questo si verifica, nella pratica, in due ipotesi. In primis, ciò avviene quando è mutata la situazione di fatto che aveva determinato l’interdizione: le condizioni del soggetto inabile possono essersi evolute, ed apparire tali da non richiedere più una misura così invasiva; al contempo, però, può apparire opportuno fornire al soggetto un ausilio per la gestione di singole attività, per il compimento di determinati atti. Inoltre, ciò si verifica quando, pur non essendo mutata la condizione psico-fisica del soggetto, è cambiata la qualificazione giuridica di essa a seguito della riforma, e della nuova “perimetrazione” degli istituti: molti casi in cui un tempo si interveniva con interdizione o inabilitazione, oggi rientrano indiscutibilmente nell’ambito di applicazione della nuova misura201. sostegno, cit., § 5; MASONI, Correlazioni processuali tra il giudizio di interdizione ed inabilitazione e il procedimento istitutivo dell’amministrazione di sostegno, cit., p. 2140 ritiene però che questa soluzione comporti tempi tecnici troppo lunghi: in effetti, non si può dar torto a questo appunto, che si somma a quello della totale libertà e discrezionalità del p.m. di instaurare il giudizio di interdizione. 200 Si ricorda che la sentenza di interdizione produce i suoi effetti a partire dalla data di pubblicazione, non serve quindi attendere il passaggio in giudicato: cfr. cap. I, § 1. 201 Ciò avviene in tutti i casi in cui il soggetto può esser meglio tutelato con l’amministrazione di sostegno, in base al criterio funzionale della maggior adeguatezza nel caso specifico enunciato dalla Cassazione. Il giudice di legittimità ha sancito il criterio “funzionale” o dell’adeguatezza per distinguere l’ambito di applicazione dell’interdizione, da un lato, e dell’amministrazione di 119 In entrambi i casi il legislatore profila, come soluzione, il concorso di due procedimenti: quello di revoca dell’interdizione e quello di apertura dell’amministrazione di sostegno. L’art. 429 c.c., al terzo comma prevede che il tribunale disponga la trasmissione degli atti al giudice tutelare qualora, durante il giudizio di revoca, emerga l’opportunità che il soggetto sia assistito da un amministratore di sostegno per il tempo successivo alla revoca 202. Per essere compresa pienamente, questa previsione deve essere letta congiuntamente ad altre due: in base all’art. 405, co. 3, c.c., se l’interessato è interdetto o inabilitato, il decreto di nomina produce i suoi effetti dalla pubblicazione della sentenza di revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione; in base all’art 406, co. 2, c.c., se il ricorso per la nomina dell’amministratore di sostegno riguarda una persona interdetta o inabilitata, deve essere proposto congiuntamente alla domanda di revoca dell’interdizione o inabilitazione, davanti al giudice competente per quest’ultima. Ora bisogna ricostruire il quadro che la sovrapposizione di queste norme tratteggia. Iniziamo con una constatazione che può apparire ovvia: sul piano sostanziale le misure di tutela dei soggetti deboli sono fra loro alternative; l’amministrazione di sostegno non può intervenire nei confronti di un soggetto già interdetto, né può essere interdetto colui che sia beneficiario di un’amministrazione di sostegno. Diversamente, sul piano processuale possono aversi delle sovrapposizioni di procedimenti, purché essi siano ritualmente instaurati203. La condizione che rende possibile questa sovrapposizione consiste in questo: il ricorso con cui si chiede l’apertura dell’amministrazione di sostegno sostegno, dall’altro: Cass., 12 giugno 2006, n. 13584, in Fam. dir., 2007, I, p. 31, seguita da una nota di SESTA, Amministrazione di sostegno e interdizione: quale bilanciamento fra interessi personali e patrimoniali del beneficiario? L’autore commenta in termini critici la sentenza della Suprema Corte. 202 L’art. 429, co. 3, c.c., recita così: “Se nel corso del giudizio per la revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione appare opportuno che, successivamente alla revoca, il soggetto sia assistito dall’amministratore di sostegno, il tribunale, d’ufficio o ad istanza di parte, dispone la trasmissione degli atti al giudice tutelare”. 203 CHIZZINI, Procedimenti di istituzione e revoca dell’amministrazione di sostegno, in BONILINICHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, cit., p. 409-410. 120 deve essere presentato congiuntamente alla richiesta di revoca dell’interdizione. Ciò significa: innanzitutto, che non si può prima chiedere la nomina dell’amministratore di sostegno (ex art. 407 c.c.) e solo poi, in caso di accoglimento della richiesta, riservarsi l’opportunità di agire per la revoca dell’interdizione; quindi, che la preventiva domanda di revoca costituisce un requisito per l’apertura dell’amministrazione di sostegno. Quanto al valore di tale “requisito”, le opinioni della dottrina non sono unanimi. Vi è chi ritiene che si tratti di una condizione di procedibilità dell’azione, sicché in assenza di una congiunta richiesta di revoca il ricorso per l’amministrazione di sostegno deve essere dichiarato improcedibile204. Altri sostengono invece che tale presupposto riguardi il merito della domanda: in assenza della richiesta di revoca, la domanda di ammissione all’amministrazione di sostegno sarebbe infondata (e non inammissibile o improcedibile), perché risulterebbe che il soggetto necessita della più incisiva misura dell’interdizione205. La domanda che bisogna porsi, a questo punto, è chi sia o chi siano i giudici chiamati a decidere su queste domande e, nel caso si tratti di giudici diversi, come si coordini la loro rispettiva attività. Fermo restando che sull’istanza di revoca decide il tribunale, il quesito è a quale giudice spetti statuire sulla richiesta di nomina dell’amministratore di sostegno. Le tre disposizioni sopra citate (artt. 405 comma 3, 406 comma 2, 429 comma 3) sono difficili da coordinare su questo punto. Da un lato, si stabilisce che entrambe le domande vanno proposte al giudice che decide sulla revoca (quindi, al tribunale); dall’altro, si parla di trasmissione degli atti al giudice tutelare; infine, si fa riferimento ad un’efficacia differita del decreto di nomina, che inizia a produrre effetti dalla pubblicazione della sentenza di revoca CAMPESE, L’istituzione dell’amministrazione di sostegno e le modifiche in materia di interdizione e inabilitazione, cit., p. 133. 205 Ciò avverrebbe in ragione del vincolo del giudice tutelare al giudicato sull’interdizione: CHIZZINI, Procedimenti di istituzione e revoca dell’amministrazione di sostegno, in BONILINICHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, cit., p. 410 e nota (103). 204 121 dell’interdizione. Gli interpreti sono giunti a conclusioni differenti, a seconda del dato normativo che hanno voluto valorizzare e di quello che, invece, hanno ritenuto di trascurare. Un primo orientamento ha valorizzato la disposizione in base alla quale entrambe le domande vanno proposte “congiuntamente”dinnanzi al tribunale. Essa è stata intesa come una statuizione sulla competenza 206: il tribunale sarebbe eccezionalmente competente a decidere anche sull’istanza per l’ amministrazione di sostegno207. Tale interpretazione ha certamente delle conseguenze vantaggiose: l’attribuzione ad un giudice unico consente di evitare il potenziale conflitto fra le pronunce di due giudici diversi. Essa, tuttavia, non riesce a giustificare il dettato dell’art. 429, in cui si dice che il tribunale “trasmette gli atti al giudice tutelare”: non sia capisce a che scopo sia prevista questa trasmissione, se tanto è il tribunale a dover decidere su entrambe le istanze. La conclusione appena descritta appare problematica anche alla luce di un altro dato. Il comma 3 dell’art. 418 – come si è ampiamente visto nel paragrafo precedente – stabilisce quanto segue: durante il giudizio di interdizione, qualora appaia opportuno applicare l’amministrazione di sostegno, il tribunale non può direttamente applicare tale misura, ma deve trasmettere il procedimento al giudice tutelare perché statuisca su di essa. Sarebbe davvero bizzarro affermare che il tribunale non può applicare l’amministrazione di sostegno nel corso del giudizio di interdizione, ma può invece farlo nel corso del giudizio di revoca della stessa. Altri commentatori hanno imboccato una via opposta alla prima, ritenendo che le due domande continuino a proporsi ai rispettivi giudici competenti per esse: l’istanza di interdizione al tribunale, quella di Si parla di competenza ma in realtà il termine, come già ricordato, è non è usato in senso tecnico: giudice tutelare e tribunale sono organi appartenenti al medesimo ufficio giudiziario, quindi al più si può parlare di spostamento di attribuzioni. 207 Questa è la via prospettata da M. MORETTI, in DOSSETTI-M.MORETTI-C.MORETTI, L’amministrazione di sostegno e la nuova disciplina dell’interdizione e dell’inabilitazione, Milano, 2004, p. 52. 206 122 amministrazione di sostegno al giudice tutelare208. L’avverbio “congiuntamente” sarebbe da intendersi solo nel senso cronologico del termine. Si avrebbero dunque due procedimenti distinti, avviati separatamente dinnanzi a due organi giudicanti diversi, che potrebbero dar vita ad un conflitto di decisioni: a questa evenienza porrebbe rimedio l’art. 405, stabilendo che il decreto del giudice tutelare può produrre i suoi effetti solo dalla pubblicazione della sentenza di revoca (e quindi solo in caso di accoglimento della relativa richiesta). Questo orientamento ha il pregio di valorizzare il dettato dell’art. 405 c.c.. Tuttavia, esso presta il fianco ad una critica molto forte: quella di trascurare la disposizione dell’art. 406, che a chiare lettere afferma come i due ricorsi debbano essere presentati non solo congiuntamente (in senso cronologico), ma anche davanti ad un medesimo giudice – quello competente per la revoca. La terza conclusione, infine, è che con l’art. 406 il legislatore non abbia inteso affatto intervenire sulla competenza, ma solo indicare una particolare modalità di proposizione della domanda. In base a questo orientamento, le due richieste devono essere presentate congiuntamente dinnanzi al tribunale; questo organo è però competente a decidere sulla sola richiesta di revoca dell’interdizione, sicché solo su questa si pronuncerà; successivamente, e solo in caso di accoglimento, trasmetterà gli atti al giudice tutelare, il quale statuirà sull’istanza di nomina dell’amministratore di sostegno209. La tesi appena descritta è quella che sembra coordinare al meglio i dati normativi, e che al contempo riesce a non incidere sulle regole generali in materia di competenza. In base ad essa, il giudice tutelare rimane competente in via esclusiva in materia di amministrazione di sostegno; semplicemente, la relativa istanza deve essere presentata al tribunale assieme a quella di revoca. Si hanno dunque due procedimenti distinti: il primo si svolge interamente dinnanzi al tribunale, e termina con la sentenza di revoca dell’interdizione; il CAMPESE, L’istituzione dell’amministrazione di sostegno e le modifiche in materia di interdizione e inabilitazione, cit., p. 133 e nota (34). 209 Questa è la tesi di CHIZZINI, in BONILINI-CHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, cit., p. 401-402. 208 123 secondo è aperto dal tribunale che, d’ufficio o su domanda di parte, trasmette gli atti al giudice tutelare perché decida sull’istanza di nomina dell’amministratore di sostegno. Secondo questo orientamento, tale trasmissione ha ad oggetto una copia del fascicolo d’ufficio (che contiene gli atti del procedimento di revoca), e il suo scopo è quello di agevolare l’attività istruttoria del giudice tutelare e di facilitarne la decisione. 9. (segue) Dall’amministrazione di sostegno all’interdizione. Si inverta ora la direzione del ragionamento. Un soggetto è beneficiario dell’amministrazione di sostegno, ma la misura si rivela inefficace, inadeguata; sembra opportuno ricorrere all’interdizione, misura più invasiva ma in certi casi insostituibile210. Ciò può verificarsi in due particolari ipotesi. Innanzitutto, può accadere che il giudice tutelare, chiamato a decidere sull’istanza di nomina dell’amministratore di sostegno, ritenga che la misura richiesta sia inidonea ad assicurare un’adeguata protezione del beneficiario e creda, al contempo, che sussistano le ragioni per promuovere l’azione di interdizione o di inabilitazione. Oppure, ciò può verificarsi durante il giudizio di revoca dell’amministrazione Che l’interdizione sia una misura insostituibile, in alcuni casi peculiari in cui il soggetto non potrebbe essere adeguatamente tutelato da alcuna altra forma di tutela, è quanto sostengono alcuni interpreti, con l’avallo della Cassazione e della Corte Costituzionale. Cfr. le note pronunce: Cass. 12 giugno 2006 n. 13584, in Fam. dir., 2007, I, p. 31 ss.; Corte Cost., 9 dicembre 2005, n. 440, in Fam. dir., 2006, p. 121. Per la dottrina, cfr. ad esempio MARTINELLI, Interdizione e amministrazione di sostegno, in FERRANDO (a cura di), L’amministrazione di sostegno. Una nuova forma di protezione dei soggetti deboli, cit., p. 140 ss. Dell’opinione contraria, ovviamente, coloro che sostengono l’opportunità di abrogare l’interdizione: in primis, CENDON, Un altro diritto per i soggetti deboli. L’amministrazione di sostegno e la vita di tutti i giorni, in FERRANDO (a cura di), L’amministrazione di sostegno, cit., p. 54 ss. 210 124 di sostegno: nel corso di questo peculiare procedimento – che può essere instaurato anche d’ufficio (art. 413, co. 4, c.c.) – lo stesso giudice tutelare può ritenere opportuno che il soggetto ora beneficiario venga interdetto. In entrambi i casi si rende necessario un meccanismo che, al pari dell’ipotesi inversa descritta nei precedenti paragrafi, consenta il “transito” da un giudice all’altro. Il legislatore è intervenuto a disciplinare soltanto una fra queste due ipotesi: quella che si origina nel contesto della revoca dell’amministrazione di sostegno. L’art. 413 co. 4 c.c. stabilisce che, se la l’amministrazione di sostegno si rivela, nel caso specifico, inopportuna, il giudice tutelare è chiamato ad intervenire in questi modi: a) dichiara la cessazione della misura; b) se in aggiunta ritiene sussistano i presupposti per promuovere l’interdizione, informa il pubblico ministero affinché vi provveda. Nulla è stabilito, invece, riguardo all’ipotesi in cui sia il giudice tutelare che apre il procedimento a rilevare l’inopportunità della misura richiesta, da un lato, e l’opportunità della misura più invasiva, dall’altro. Agli interpreti non sembra, tuttavia, che il principio ubi lex dixit voluit, ubi tacquit noluit sia applicabile al contesto in esame211. Non vi è ragione, si è detto, perché il medesimo giudice tutelare possa valutare l’opportunità dell’interdizione solo nel corso della revoca dell’amministrazione di sostegno, e non possa farlo prima, nel corso della nomina: dovrebbe poterlo fare, anzi, a maggior ragione, perché ciò eviterebbe ulteriori, dispendiosi passaggi successivi. Inoltre, non si capirebbe perché il legislatore, mentre in una direzione ha previsto procedure di raccordo a partire sia dal procedimento di interdizione sia da quello di revoca della stessa (rispettivamente, gli artt. 418 e Così TOMMASEO, L’amministrazione di sostegno al vaglio della Corte costituzionale, cit., p. 121 e nota (14); concorda VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell'amministrazione di sostegno, cit., p. 431, favorevole ad un’applicazione estensiva della norma contenuta nell’art. 413, co. 4, c.c. anche al procedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno; allo stesso modo anche PASSANANTE, Il procedimento in materia di amministrazione di sostegno, in FERRANDOLENTI (a cura di), Soggetti deboli e misure di protezione, amministrazione di sostegno e interdizione, Torino, 2006, p. 274. 211 125 429 c.c.), nella direzione opposta abbia previsto un passaggio solo dal procedimento di revoca dell’amministrazione di sostegno, e non da quello di apertura della stessa. Anche la Corte costituzionale, in un obiter della più volte citata sentenza 440/2005, sembra essersi espressa in tal senso212. Ammettiamo, dunque, che il meccanismo di raccordo del comma 4 dell’art. 413 c.c. sia applicabile da parte del giudice tutelare sia nel corso del procedimento di apertura sia nel corso di quello di revoca dell’amministrazione di sostegno. Bisogna ora capire in che cosa consiste tale raccordo. Il giudice tutelare, stabilisce la disposizione, informa il p.m.; questi, poi, potrà promuovere il giudizio di interdizione. Il legislatore questa volta parla chiaro: il giudice tutelare si limita a comunicare al p.m. che, in base alle sue valutazioni, il soggetto va interdetto; il p.m., ricevuta questa informazione, dovrà a sua volta considerare la fattispecie e, solo se lo riterrà, farà istanza di interdizione al tribunale. Ne consegue che: – si hanno due procedimenti distinti, che si aprono e si concludono dinnanzi ai rispettivi organi giudicanti (il giudice tutelare per la revoca o la nomina dell’amministratore di sostegno, il tribunale per l’interdizione); – non vi è alcun rapporto diretto tra giudice tutelare e tribunale, alcuna trasmissione degli atti né, tanto meno, del procedimento; – il raccordo può avvenire solo ed esclusivamente per il tramite del p.m.: è il p.m. che apre il giudizio di interdizione, con apposita istanza; ancor più, è il p.m. a decidere se proporre istanza, perché l’informazione ricevuta dal giudice tutelare non lo obbliga affatto a proporla, lo vincola semmai a prendere in considerazione l’ipotesi di farlo. Alla luce di queste considerazioni, sembra quasi forzato parlare di “procedura di raccordo”, perché non si ha nessun passaggio, nessuna 212 Corte Cost., 9 dicembre 2005, n. 440, in Fam. dir., 2006, p. 121 ss. 126 “trasmissione”: l’unico elemento di coordinamento fra i due procedimenti è costituito dall’informazione che il giudice dà al p.m., ma il resto – tutto quello che accade dopo, di fronte al tribunale – è totalmente svincolato dal primo procedimento dinnanzi al giudice tutelare. È chiaro come vi sia una totale asimmetria fra i meccanismi di raccordo nell’una e nell’altra direzione, fra l’ipotesi in cui sia il tribunale a ravvisare l’opportunità di applicare l’amministrazione di sostegno e l’ipotesi inversa, in cui il sia invece giudice tutelare, nel corso dell’apertura o della revoca dell’amministrazione di sostegno, a ritenere necessaria la pronuncia di interdizione213. Nel primo caso si ha una trasmissione del procedimento o degli atti del procedimento, ed è il tribunale ad aprire, con la sua statuizione, il giudizio dinnanzi al giudice tutelare; nel caso opposto il giudice tutelare non può far nulla direttamente, può solo informare il p.m. perché si attivi e promuova l’interdizione. Alcuni esponenti della dottrina hanno giudicato irragionevole ed ingiustificata la difformità di disciplina appena descritta: i due casi, si è detto, sono perfettamente simmetrici, quindi dovrebbero essere regolati allo stesso modo214. A me sembra, però, che su questa asserita simmetria sia necessaria una riflessione. Nel capitolo primo (cap. I, § 4.) si era parlato del principio della domanda in rapporto ai procedimenti di interdizione e inabilitazione; era stata analizzata una sentenza della Cassazione che stabiliva come tale principio, nella sua particolare accezione di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, fosse applicabile anche a tali giudizi. La Corte aveva fatto riferimento al concetto di continenza, ed al fatto che la domanda di interdizione “contiene” la VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell'amministrazione di sostegno, cit., § 5. Così VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell'amministrazione di sostegno, cit., § 5; allo stesso modo anche CHIARLONI, Prime riflessioni su alcuni aspetti della disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno, in FERRANDO (a cura di), L’amministrazione di sostegno. Una nuova forma di protezione dei soggetti deboli, cit., p. 152-153; così pure PASSANANTE, Il procedimento in materia di amministrazione di sostegno, in FERRANDO-LENTI (a cura di), Soggetti deboli e misure di protezione, amministrazione di sostegno e interdizione, cit., p. 275. 213 214 127 domanda di inabilitazione: dunque, non può essere pronunciata sentenza di interdizione a fronte di una richiesta di inabilitazione, mentre è possibile il contrario. Porre in termini di stretta continenza anche il rapporto fra interdizione/inabilitazione ed amministrazione di sostegno sarebbe una semplificazione comoda, ma non del tutto corretta: i rapporti fra le misure di tutela (fra i loro presupposti e i loro ambiti di applicazione) sono, invero, più articolati e complessi. Tuttavia, non pare scorretto parlare di continenza in riferimento agli effetti di tali misure, e in particolare alla loro incidenza sulla capacità di agire. L’amministrazione di sostegno incide sulla capacità del beneficiario soltanto in via eventuale, in misura variabile e solo per gli atti specificamente indicati nel decreto di nomina; l’inabilitazione vi incide per tutti gli atti di straordinaria amministrazione; l’interdizione la esclude in maniera totale, per tutti i tipi di atti. Non sembra sbagliato affermare che, tendenzialmente, gli effetti dell’amministrazione di sostegno sono “contenuti” negli effetti prodotti da una sentenza di interdizione o di inabilitazione. Questa considerazione ci riporta al principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato. Una pronuncia di interdizione (con i noti effetti totalizzanti) che avvenga sulla base di una semplice trasmissione di atti dal giudice tutelare al tribunale, a fronte di un’istanza per l’amministrazione di sostegno, violerebbe palesemente tale principio. Ecco perché il giudice tutelare non può direttamente aprire il procedimento dinnanzi al tribunale, ma deve attendere che sia il p.m. a farlo: il p.m., come parte legittimata ad instaurare il giudizio d’interdizione, formula una nuova domanda. Questa conclusione, ovviamente, è valida solo a patto che il principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato sia ritenuto applicabile anche al giudizio di nomina dell’amministratore di sostegno. Sembra preferibile, tuttavia, almeno prendere in considerazione questa ipotesi, prima di concludere 128 per la totale irragionevolezza del dato normativo215. 10. (segue) Problemi di sovrapposizione fra procedimenti nel passaggio dall’amministrazione di sostegno all’interdizione. Può accadere, in base a quanto è emerso nel paragrafo precedente, che vi sia un concorso fra i due procedimenti. Il giudice tutelare, valutata l’inidoneità dell’amministrazione di sostegno, prima ancora di averne dichiarata la cessazione (o di aver rigettato l’istanza di nomina) può informare il p.m. dell’opportunità di avviare il procedimento di interdizione; questi può tempestivamente proporre istanza di interdizione al tribunale. In questo caso i due giudizi si sovrappongono, e procedono paralleli. La loro reciproca autonomia può far sì che si producano degli “inconvenienti”: il tribunale può, per ipotesi, pronunciarsi sull’istanza di interdizione prima che il giudice tutelare abbia dichiarato la cessazione dell’amministrazione di sostegno; oppure, può accadere che l’amministrazione di sostegno venga revocata, e che successivamente il tribunale rigetti la domanda di interdizione proposta dal p.m.. In entrambe queste ipotesi, a fornire un rimedio è sempre il comma 4 dell’art. 413 c.c. che, nella sua parte finale, statuisce: “l’amministrazione di sostegno cessa con la con la nomina del tutore o del curatore provvisorio ai sensi dell’art. 419, ovvero con la dichiarazione di 215 È opportuno riportare fedelmente le parole degli esponenti della dottrina che hanno giudicato irragionevole la scelta del legislatore di differenziare la disciplina dei meccanismi di raccordo. VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell'amministrazione di sostegno, cit., § 5 ha affermato che “si tratta (…) di una difformità di disciplina francamente incomprensibile, considerato che la natura senz'altro giurisdizionale di entrambi gli organi avrebbe imposto analoghi meccanismi di raccordo”. CHIARLONI, Prime riflessioni su alcuni aspetti della disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno, cit., p. 153, asserisce che dal quadro legislativo “scaturisce (…) una differenza di disciplina tra due ipotesi perfettamente simmetriche, di cui non è agevole capire i motivi”. Anche PASSANANTE, Il procedimento in materia di amministrazione di sostegno, cit., p. 275, ripete il concetto di “simmetria perfetta” fra le due situazioni e definisce ”oscure” le ragioni della scelta del legislatore di introdurre due meccanismi differenti. 129 interdizione o di inabilitazione”. Questa previsione ha due risvolti. Il primo è che la dichiarazione di interdizione da parte del tribunale rende superflua la successiva dichiarazione di cessazione dell’amministrazione di sostegno da parte del giudice tutelare. Il secondo è che l’efficacia del provvedimento di revoca dell’amministrazione di sostegno è soggetta a condizione sospensiva, la quale consiste nella pubblicazione della sentenza di interdizione, o almeno nella nomina del tutore provvisorio; se la domanda non è accolta, non si verifica un presupposto di efficacia per la dichiarazione di revoca; dunque, l’amministrazione di sostegno permane in vita216. Si può dire quindi che la condizione sospensiva è l’espediente procedurale che consente di superare situazioni di impasse, prodotte dalla sovrapposizione fra il procedimento di revoca dell’amministrazione di sostegno e quello di interdizione. È possibile, però, sulla base di quanto sostiene la dottrina prevalente217, che la sovrapposizione si abbia fra il procedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno e quello di interdizione. Ciò avviene quando il giudice tutelare, nel corso del procedimento di nomina, informa il p.m. dell’opportunità di interdire, quindi rigetta il ricorso; ed il tribunale, investito della domanda di interdizione, rigetta a sua volta. Il giudice tutelare rigetta perché ritiene che l’amministrazione di sostegno tuteli “troppo poco”, il tribunale rigetta perché ritiene che l’interdizione tuteli “troppo”: come risultato, l’inabile si trova sprovvisto di qualsiasi tutela. Viene da chiedersi quale rimedio possa soccorrere in questa circostanza. La soluzione offerta dall’art. 413 co. 4, dettata per la cessazione dell’amministrazione di sostegno, comporta che l’efficacia del decreto di revoca Queste considerazioni sono svolte da CHIZZINI, I procedimenti di istituzione e revoca dell’amministrazione di sostegno, in CHIZZINI-BONILINI, L’amministrazione di sostegno, cit., p. 412 e 474. 217 Gli interpreti, pressoché all’unanimità, sostengono che non vi sia ragione per ritenere che il giudice tutelare possa valutare l’opportunità dell’interdizione solo nell’ambito del giudizio di revoca, ma non in quello di apertura dell’amministrazione di sostegno (come invece un’interpretazione letterale dell’art. 413, co. 4 sembrerebbe far credere). Cfr., a tal proposito, il § 9 di questo capitolo e in particolare la nota (114) per tutti i riferimenti alla dottrina. 216 130 sia sospesa fino alla pronuncia di interdizione, e quindi comporta la perpetuatio della amministrazione di sostegno se l’interdizione non è pronunciata. Nel caso appena esposto, però, se la domanda di interdizione non è accolta, non vi è alcun provvedimento da far “permanere in vita” per assicurare al soggetto una tutela, visto che il rigetto del giudice tutelare è intervenuto proprio sulla richiesta di tale provvedimento. Gli interpreti sembrano non aver preso in considerazione questo problema. Di primo acchito verrebbe da suggerire questa soluzione: il giudice tutelare deve attendere che il tribunale si pronunci sull’interdizione, prima di rigettare la richiesta di nomina dell’amministratore di sostegno. Ciò, tuttavia, potrebbe voler dire attendere parecchi mesi, magari un anno o più: il giudice tutelare dovrebbe sospendere il processo. A questo punto, però, si presentano due ordini di problemi: il primo, che la sospensione potrebbe avvenire solo nel caso in cui fossero le parti a richiederla (296 c.p.c.), atteso che non ci si trova in un caso di sospensione necessaria del procedimento (art. 295 c.p.c); il secondo, che il soggetto inabile rimarrebbe sprovvisto, nel frattempo, di qualsiasi tutela. Questo ultimo inconveniente, a ben vedere, potrebbe essere evitato applicando l’art. 405 comma 4 c.c.: qualora ne sussista la necessità, recita l’articolo, il giudice tutelare può nominare un amministratore di sostegno provvisorio, indicando gli atti che costui è autorizzato a compiere. Una volta promosso il giudizio d’interdizione da parte del p.m., dunque, il giudice tutelare potrebbe nominare un amministratore di sostegno provvisorio e aspettare la pronuncia del tribunale: per lo meno, così facendo si eviterebbe di lasciare l’inabile privo di tutela nelle more del giudizio. Se il tribunale rigetta, tuttavia, cosa può fare il giudice tutelare? Può egli accogliere l’istanza di amministrazione di sostegno, pur non convinto della adeguatezza di tale misura, soltanto perché – per dirla in termini pragmatici – “è meglio una misura inadeguata che nessuna misura di tutela”? Rispondere affermativamente ha delle conseguenze pericolose: vorrebbe dire che gli istituti 131 protettivi non hanno un proprio ambito di applicazione oggettivo e predefinito; significherebbe che questo ambito si definisce di volta in volta, sulla base di quel che decide il giudice dell’interdizione; significherebbe che l’amministrazione di sostegno si applica tutte le volte in cui non applicarla sarebbe peggio. 132 Sezione B): PROFILI DI DIRITTO COMPARATO 11. Cenni sulle misure di protezione dei soggetti deboli in una prospettiva comparata. Si è parlato finora di un istituto – l’amministrazione di sostegno – approvato ed entrato in vigore nell’ordinamento italiano nel 2004 e, dunque, piuttosto “giovane” e relativamente nuovo. Se tuttavia, come contesto di riferimento, si assume non l’Italia ma l’Europa, ci si accorge che l’amministrazione di sostegno non è affatto una novità. Per meglio dire, non costituiscono una novità i principi fondamentali che la regolano, le idee-guida che hanno condotto alla sua approvazione, soprattutto non è una novità l’introduzione di un modello alternativo rispetto alla “vecchia” interdizione. L’Italia, anzi, è stata uno degli ultimi paesi europei ad aver riformato il sistema di protezione dei soggetti deboli, e ad essersi allineata ad orientamenti di politica del diritto che si sono affermati – e ora consolidati – negli ultimi trent’anni in Europa218. Le esigenze che hanno condotto all’approvazione della legge sull’amministrazione di sostegno – come quella dell’effettiva protezione del soggetto debole (e non dal soggetto debole), della valorizzazione dei suoi spazi di autonomia, della flessibilità e della “personalizzazione” del regime di tutela civilistica – sono state avvertite già a partire dagli anni ’60; soprattutto, già a partire da quell’epoca si è iniziato a percepire l’inadeguatezza del modello di tutela rigido di matrice romanistica, tradizionalmente legato ad una cultura fondata sulla segregazione manicomiale219. La trasformazione del diritto positivo, tuttavia, ha richiesto tempi tecnici più o meno lunghi, variabili da paese a paese, che complessivamente hanno Così LENTI, Amministrazione di sostegno e misure di protezione dei soggetti deboli. Modelli a confronto, in FERRANDO-LENTI, Soggetti deboli e misure di protezione. Amministrazione di sostegno e interdizione, cit., p. 45. 219 Sull’argomento, cfr. LENTI, ult. cit., p.45 ss. 218 133 coperto quasi un quarantennio. Per prima nel contesto europeo si è mossa la Francia, con la riforma del 1968 che ha introdotto l’istituto della sauvegarde de justice; per ultime l’Italia nel 2004, con la legge sull’amministrazione di sostegno, e l’Inghilterra nel 2005 con il Mental Capacity Act. Per offrire un’idea più completa del concetto di “misura di protezione dei soggetti deboli” è sembrato opportuno confrontarlo con il significato che esso assume all’interno di altri ordinamenti. Saranno presi in considerazione gli ordinamenti austriaco, tedesco ed inglese. La scelta di analizzare questi tre modelli non è casuale: essi presentano delle peculiarità che li distinguono in maniera marcata dal modello italiano. Gli ordinamenti tedesco ed austriaco hanno operato la scelta, unica nel contesto dei paesi dell’Europa continentale, di abrogare gli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, fondando il sistema su di un unico strumento di tutela, applicabile “a trecentosessanta gradi”, estremamente flessibile. Il modello inglese, in quanto frutto della compenetrazione fra i principi derivati dalla common law e il diritto di fonte legislativa, si muove su binari concettualmente assai lontani da quelli dell’ordinamento italiano e in generale degli ordinamenti di civil law; a parte questa ovvia considerazione, che forse è solo “di facciata”, la differenza sostanziale rispetto al modello italiano sta nel fatto che l’ordinamento inglese affida la tutela dei soggetti deboli quasi interamente ad uno strumento di diritto privato, avente natura negoziale, lasciando agli interventi di carattere pubblicistico un ruolo del tutto marginale. 12. I modelli austriaco e tedesco L’esperienza austriaca e quella tedesca sono maturate in tempi diversi, hanno seguito schemi e modelli in parte diversi, si sono sviluppate su linee differenti: l’Austria ha riformato la disciplina della protezione civilistica dei 134 soggetti deboli già nel 1983, mentre la legge tedesca di riforma è stata approvata diversi anni dopo, nel 1990220. La macro-scelta che ha contraddistinto queste due leggi di riforma è stata, tuttavia, comune: quella di abrogare i tradizionali strumenti dell’interdizione e inabilitazione, precedentemente vigenti in entrambi gli ordinamenti, e di fondare il sistema su un istituto unico, estremamente flessibile. Questa scelta radicale, si ribadisce, rimane unica nel contesto dell’Europa continentale: la Francia, la Spagna, e da ultimo l’Italia, hanno imboccato una via meno radicale, decidendo di lasciare in vita i vecchi istituti di matrice romanistica, seppur con ritocchi più o meno marcati, e di affiancare ad essi uno strumento nuovo, destinato però, nella prassi, a sostituire i precedenti in misura sempre maggiore. Le riforme tedesca ed austriaca sono state, potremmo dire, riforme “per sottrazione”, a differenza di quelle francese, spagnola, e da ultimo italiana, che hanno invece operato “per addizione”. Saranno analizzati sinteticamente i tratti fondamentali del modello austriaco e di quello tedesco, ponendoli a confronto e cercando di evidenziarne somiglianze e differenze. Gli istituti. In Austria ed in Germania non esistono più le figure dell’interdizione e dell’inabilitazione. L’istituto austriaco di protezione dei soggetti deboli (behinderte Personen) prende il nome di Sachwaltershaft, il curatore/amministratore è il Sachwalter. Il corrispettivo istituto tedesco prende invece il nome di Betreuung, l’assistente/curatore è il Betreuer, il beneficiario è il Betroffene. Sia nell’ordinamento austriaco che in quello tedesco la normativa di riforma è stata inserita nel codice civile: rispettivamente, ai paragrafi 269 ss. Sulla tutela civilistica dei soggetti deboli nell’orinamente austriaco, e in particolare sulla riforma del 1983, cfr.: VECCHI, La riforma austriaca della tutela degli incapaci, in Riv. Dir. Civ., 1987, I, p. 37 ss.; LENTI, Amministrazione di sostegno e misure di protezione dei soggetti deboli. Modelli a confronto, in FERRANDO-LENTI, Soggetti deboli e misure di protezione. Amministrazione di sostegno e interdizione, cit., p. 65 ss.; CALÒ, Amministrazione di sostegno, legge 9 gennaio 2004 n. 6, cit., p. 27. Sul modello tedesco, cfr.: WILL, La protezione del sofferente psichico nell’esperienza tedesca, in FERRANDO-VISINTINI (a cura di), Follia e diritto, Torino, 2003, p. 159 ss.; LENTI, Modelli a confronto, in FERRANDO-LENTI (a cura di), Soggetti deboli e misure di protezione. Amministrazione di sostegno e interdizione, cit., p. 68 ss; CARUSO, L’assistenza nell’ordinamento tedesco, in NAPOLI (a cura di), Gli incapaci maggiorenni, cit., p. 173 ss. 220 135 dell’ABGB, ed ai paragrafi 1896 ss. del BGB. I soggetti beneficiari. Il par. 273 (1) dell’ABGB stabilisce che i destinatari della Sachwalterschaft austriaca possono essere i soggetti adulti (volljahrige Personen) che soffrono di una malattia psichica o di una minorazione mentale (psychischen Krankheit […] oder geistig behindert); è esclusa quindi qualsiasi disabilità di tipo fisico. A questi soggetti il Sachwalter “deve” essere nominato (so ist […] dazu ein Sachwalter zu bestellen), quando vi sia un pericolo di pregiudizio per tutti o alcuni dei suoi affari (Angelegenheiten): la nomina ha dunque il carattere dell’obbligatorietà. Diversamente, il par. 1896 del BGB attribuisce rilevanza sia alla psychische, geistige, seelische Krankenheit, sia alla körperliche Behinderung: l’istituto è configurabile non solo quando vi siano disturbi mentali, ma anche semplicemente impedimenti di tipo fisico, similmente a quanto è previsto dall’art. 404 del codice civile italiano per l’amministrazione di sostegno. I modelli tedesco ed italiano hanno dunque un ambito soggettivo di applicazione più ampio rispetto a quello austriaco. Sia nell’ordinamento austriaco che in quello tedesco, ulteriore presupposto per l’applicazione della misura di tutela è l’impossibilità di gestire i propri affari: la malattia o l’impedimento non ha rilievo se non incide sulla sfera “gestionale”, sulla capacità di occuparsi autonomamente dei propri affari. Carattere sussidiario. In entrambi gli ordinamenti l’applicazione della misura di tutela segue un principio di sussidiarietà: viene applicata soltanto se strettamente necessaria (erforderlich) ed a vantaggio del sofferente psichico. Il par. 273 (2) ABGB prevede che questa necessità è esclusa quando il sofferente psichico abbia già la possibilità di essere adeguatamente assistito nel contesto famigliare o in appositi istituti di cura, o più precisamente quando sia già “messo nelle condizioni di occuparsi dei suoi affari” (durch andere Hilfe […] in die Lage versetzt werden kann, seine Angelegenheiten zu besorgen). L’assistenza di fatto diviene dunque rilevante, addirittura in termini tali da precludere l’avvio della procedura della Sachwalterschaft qualora essa sia adeguatamente svolta, 136 avendo come obbiettivo l’interesse e il vantaggio del sofferente psichico221. Nell’ordinamento tedesco il principio di sussidiarietà opera nel senso di attribuire massima importanza all’autodeterminazione del soggetto. Così, il par. 1896 (2) BGB reputa non necessaria l’apertura della Betreuung qualora si possa far fronte agli affari del soggetto per mezzo di un Bevollmächtigte, cioè un procuratore, o per mezzo di altri strumenti, per i quali “non sia prevista la nomina di un rappresentante legale” (bei denen kei gesetzlicher Vertreter bestellt wird): dunque, attraverso strumenti negoziali. Si può concludere quindi che l’assistenza privata, messa in atto con gli strumenti contrattuali, è preferita rispetto a quella pubblica, attuata attraverso un procedimento giudiziale. La disciplina italiana si discosta, su questo punto, da entrambi gli ordinamenti: diversamente dal sistema austriaco, nessuna rilevanza è attribuita alla assistenza di fatto, né tanto meno essa è ostativa all’avvio della procedura di amministrazione di sostegno, anzi tendenzialmente si auspica che tutte la situazioni di assistenza de facto si trasformino in amministrazioni di sostegno; diversamente dall’ordinamento tedesco, l’amministrazione di sostegno italiana non è istituto sussidiaria ad alcuno strumento negoziale di tutela. Capacità di agire. Il par. 273 (a) dell’ABGB stabilisce che, nell’ambito di operatività della Sachwalterschaft, il soggetto beneficiario non ha il potere di disporre né di assumere obbligazioni (weder verfoegen, noch sich verpflichten). Dunque, il beneficiario perde, in riferimento alle attività coperte dalla Sahwalterschaft., la capacità di agire. È previsto tuttavia che il giudice possa autorizzare il beneficiario, nel provvedimento di assegnazione della Sachwalterschaft, a disporre autonomamente di cose determinate o di parti del reddito, se non è messo in pericolo il bene del soggetto (das Wohl der behinderte Person nicht gefährdet wird). La Betreuung invece, almeno in teoria, può non incidere affatto sulla capacità d’agire del beneficiario222. Non vi è infatti alcuna norma che faccia 221 222 VECCHI, La riforma austriaca della tutela degli incapaci, cit., p. 39. Cfr. WILL, La protezione del sofferente psichico nell’esperienza tedesca, p. 159; CALÒ, 137 riferimento ad una compromissione di tale capacità: il giudice, semplicemente, non è tenuto ad occuparsi della capacità di capacità di agire del Betroffene223, che dunque può rimanere pienamente capace. Questo, però, in teoria; in pratica, invece, molto raramente si avrà una Betreuung “neutra” sul piano della capacità di agire. La Betreuung può essere imposta, infatti, solo a chi è completamente o totalmente incapace di agire: il par. 1896 (1a) stabilisce che a nessun soggetto possa essere imposto un Betreuer contro la sua libera volontà (gegen den freien Willen). Se “libera volontà” significa possibilità di autodeterminarsi in modo consapevole224, allora si può concludere che a nessun soggetto capace di agire potrà essere sottoposto a Betreuung contro la sua volontà; al contempo, è anche piuttosto difficile immaginare che sia lo stesso soggetto pienamente capace a richiederla225. Disciplina degli atti. Per gli affari coperti dalla Sachwalterschaft, si è detto, la capacità di agire del beneficiario viene incisa: la modalità di tale incisione è la necessità del consenso del Sachwalter per compiere atti di disposizione o per assumere obbligazioni (par. 273 (a) (1)). Tale consenso può essere sia espresso sia tacito (stillweigende Einwilligung). Sussistono, tuttavia, due ordini di attività che il beneficiario può porre in essere autonomamente, anche senza il consenso del Sachwalter: innanzitutto, trattasi degli atti della vita quotidiana, che servono a soddisfare le esigenze minime ed ordinarie del soggetto (Angelegenheiten des täglichen Lebens) (similmente a quanto prevede la disciplina italiana dell’amministrazione di sostegno, ex art. 409, co. 2 c.c.); in secondo luogo, il consenso non è necessario per concludere negozi che non implicano l’assunzione di obbligazioni – ad esempio, l’accettazione di promesse o di donazioni, che comportino solo un vantaggio per il beneficiario (par. 865 (1) Amministrazione di sostegno, legge 9 gennaio 2004 n. 6, cit., p. 32. 223 Questa l’espressione utilizzata da WILL, La protezione del sofferente psichico nell’esperienza tedesca, cit., p. 159. 224 LENTI, Amministrazione di sostegno e misure di protezione dei soggetti deboli. Modelli a confronto in FERRANDO-LENTI (a cura di), Soggetti deboli e misure di protezione. Amministrazione di sostegno e interdizione, cit., p. 69. 225 Sempre WILL, La protezione del sofferente psichico nell’esperienza tedesca, cit., p. 159. 138 ABGB). Nell’ordinamento tedesco, invece, lo strumento del consenso dell’amministratore agli atti conclusi dal beneficiario non rappresenta la regola, bensì l’eccezione. Poiché in linea teorica la capacità di agire non viene meno con la nomina del Betreuer, assistente ed assistito sono entrambi competenti, nell’ambito delle attività coperte dall’istituto: entrambi possono obbligarsi, contrarre, disporre, e la Betreuung assume i contorni di una “rappresentanza aggiutiva”, in cui la competenza del rappresentante si sovrappone a quella del rappresentato. La possibilità di decisioni contrastanti ed i rischi che essa comporta sono scongiurate dalla previsione del par. 1903 BGB: in casi eccezionali, qualora occorra prevenire una situazione di pericolo per la persona o il patrimonio dell’assistito, il giudice può stabilire una “riserva di consenso preventivo”(Einwilligungsvorbehalt): in tal caso l’assistito dovrà ottenere il preventivo consenso del proprio Betreuer per il compimento di atti negoziali. Legittimazione attiva. Vi è un elemento del tutto peculiare che accomuna il modello austriaco e quello tedesco: il procedimento per la nomina rispettivamente, del Sachwalter e del Betreuer può essere aperto solo su istanza dell’interessato, cioè del futuro beneficiario, oppure d’ufficio. Il par. 273 (1) ABGB e il par. 1896 (1) BGB contengono esattamente la stessa espressione: la nomina avviene auf ihren/seinen Antrag oder von Amts, cioè su sua (del destinatario) richiesta o d’ufficio. La legittimazione attiva, dunque, non spetta ad alcun altro soggetto al di fuori dell’interessato, neppure ai famigliari, che potranno eventualmente sollecitare l’apertura ex officio. Si tratta di un elemento che non è meramente procedurale, ma che si ripercuote su tutto l’istituto, sul suo scopo, sulle sue funzioni. Il fatto di escludere la legittimazione di qualsiasi altro soggetto che non sia il beneficiario ha in sé due significati. Il primo, è che nessun altro interesse rileva, nel procedimento, tranne quello del beneficiario. Il secondo è una conferma del principio di sussidiarietà che caratterizza i due modelli: la Sachwalterschaft e la Betreuung sono istituti residuali, sussidiari, che possono operare solo nei casi in cui il soggetto non sia già adeguatamente 139 tutelato de facto (Austria) o attraverso strumenti negoziali (Germania). L’elemento della legittimazione all’azione, connesso a quello della sussidiarietà, allontana molto i modelli appena esaminati rispetto a quello italiano dell’amministrazione di sostegno, che prevede un lungo elenco di soggetti legittimati; fra l’altro, in Italia la legittimazione dello stesso soggetto debole a chiedere per se stesso una misura di tutela – sia essa l’amministrazione di sostegno, l’interdizione o l’inabilitazione – è una novità apportata dalla riforma, mentre prima del 2004 l’interdicendo e l’inabilitando addirittura non comparivano nel novero dei legittimati226. L’idea stessa di sussidiarietà è totalmente estranea ai fondamenti, ai principi, alla struttura dell’amministrazione di sostegno: sia il tenore del testo legislativo, sia la linea seguita in giurisprudenza, supportata da gran parte del mondo accademico, sembrano auspicare una sua applicazione sempre più frequente, in primis operando una sostituzione de facto dell’interdizione, e comunque coprendo tutte quelle situazioni in cui è potenzialmente applicabile. 13. Il modello inglese All’inizio del 2003 il giurista inglese Phil Bates scriveva: “(…) questo è un momento davvero stimolante per i giuristi che si occupano di salute mentale, sia in Inghilterra che in Italia”227. In entrambi gli ordinamenti si respirava infatti un’aria di cambiamento, che avrebbe portato ad importanti interventi di riforma: in Italia, la ben nota legge 6/2004 introduttiva dell’amministrazione di sostegno, in Inghilterra il Mental Capacità Act del 2005. L’esigenza di dare una svolta rispetto al modello tradizionale di protezione civilistica dei soggetti deboli si fondava però su ragioni differenti in Su questo punto si è già ampiamente discusso nel cap. I, § 1). BATES, Responsabilità e protezione della persone con disturbi mentali nel diritto inglese, in FERRANDO-VISINTINI (a cura di), Follia e diritto, cit., p. 174 ss.; l’espressione riportata è a p. 188. 226 227 140 Italia e in Inghilterra: nel nostro ordinamento occorreva trovare un’alternativa ai rigidi e per molti versi superati istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, vi era l’esigenza di uno strumento flessibile e attento alle esigenze della persona più che a quelle della società; in Inghilterra, l’esigenza era quella di razionalizzare, di ordinare un insieme caotico (e a volte poco accessibile, perchè estremamente frammentato) di misure giuridiche stratificatesi nel tempo, di varia origine. Vi sono, tuttavia, dei principi di fondo che hanno accomunato i due interventi legislativi: l’accresciuta attenzione per la persona del soggetto debole, rispetto all’interesse per la conservazione del suo patrimonio o per altri aspetti quali, ad esempio, la sua “ospedalizzazione”; l’intento di predisporre degli strumenti giuridici il più possibile elastici e “personalizzabili” ma al tempo stesso accessibili, certi, effettivi. Prima della riforma legislativa del 2005, non vi era in Inghilterra una legislazione esaustiva in materia di salute mentale e di tutela dei soggetti deboli. La disciplina si presentava molto frammentata: vi erano alcune regole e principi sparsi ricavati dal diritto giurisprudenziale, costituenti la common law, da un lato, ed una serie di leggi speciali, prive di un disegno unitario che conferisse loro organicità, ciascuna vertente su un di un particolare risvolto giuridico del disagio psichico, dall’altro lato. La common law tradizionale si fonda su principi di massima flessibilità e di massima attenzione per l’autodeterminazione dell’individuo, che possono essere così riassunti: la diagnosi di una patologia psichiatrica non comporta, di per sé, l’incapacità giuridica; non esiste un concetto generale di incapacità o di capacità; un soggetto può avere la capacità di intendere sufficiente per assumere delle determinate decisioni ma non delle altre. Sulla base di questi principi, un soggetto affetto da schizofrenia paranoide cronica è stato ritenuto perfettamente capace di intendere in riferimento ad una decisone riguardante la sua salute: il soggetto aveva espresso la volontà di rifiutare il consenso all’amputazione di un arto, nonostante fosse stato informato del fatto che, senza l’intervento, gli restavano poche possibilità di sopravvivere; il giudice ha 141 ritenuto il soggetto capace di comprendere le informazioni e gli avvertimenti forniti, capace di intendere le conseguenze delle sue scelte, e dunque la sua decisione inattaccabile perché rientrante nel suo diritto all’autodeterminazione228. Per quanto riguarda il diritto di origine legislativa, sempre Bates fa notare come, prima del 2005, gli Acts emanati dal parlamento inglese si erano occupati dei soggetti affetti da infermità mentale solo in riferimento a circostanze “patologiche”229: pericolosità sociale, responsabilità penale e civile da reato (Insanity Act del 1964 e successivo Insanity and Unfitness to Plead Act del 1991), ricoveri coatti, trattamenti sanitari obbligatori (il Metal Health Act del 1959 e successivamente riformato nel 1983). L’aspetto “fisiologico”, della quotidianità, della tutela civilistica, dell’assistenza, degli strumenti per supplire all’incapacità era in gran parte trascurato dalla legislazione inglese. Non vi era nulla di simile alla nostra tutela: il Metal Health Act parlava sì di guardianship, termine traducibile come tutela, ma si trattava di un istituto applicabile ad un numero estremamente ristretto di casi e per un numero limitato di attività. Lo stesso Mental Health Act prevedeva una procedura con cui il giudice poteva a) amministrare direttamente le proprietà degli infermi di mente incapaci di gestire i propri affari, oppure b) nominare un receiver che sostituisse il soggetto nella gestione dei suoi beni, agendo in suo nome. La procedura era però molto costosa, piuttosto macchinosa, dunque in concreto quasi mai utilizzata. Nel 2003, dunque, Bates dice che si sta vivendo un momento di grande fervore di idee: si sente l’esigenza che il legislatore intervenga in un’area ancora sostanzialmente non coperta dal diritto di origine legislativa, quale quella della tutela civilistica dei soggetti vulnerabili; si auspica un intervento che conferisca razionalità e completezza al sistema, pur senza minare la sua intrinseca flessibilità. A riportare il caso è sempre BATES, Responsabilità e protezione della persone con disturbi mentali nel diritto inglese, p. 176. 229 Sempre BATES, Responsabilità e protezione della persone con disturbi mentali nel diritto inglese, p. 174-175. 228 142 Nel 2005, un anno dopo l’approvazione della legge italiana di riforma, è entrato in vigore il Mental Capacity Act. Essa è, ad oggi, la legge più importante che tratta della condizione giuridica delle persone prive di capacità (persons who lack capacity); i principi in essa contenuti, per molti versi ripresi dal diritto giurisprudenziale, costituiscono oggi le norme fondamentali sulla tutela civilistica degli incapaci. È opportuno analizzare la legge in maniera puntuale, concentrandoci su: i principi; i soggetti destinatari; il concetto di incapacità;gli strumenti per supplire all’incapacità. Il Mental Capacity Act si apre elencando i principi cardine su cui si fonda l’intervento legislativo: essi sono, in gran parte, ripresi dalla common law e riformulati. La section 1 detta una regola di “presunzione generale di capacità”, che intende salvaguardare al massimo l’autodeterminazione della persona: l’incapacità non si presume mai, ma va accertata atto per atto; una persona è capace finchè non venga accertato che essa è priva della capacità (unless it is established that he lacks capacity). La capacità nel diritto inglese non è mai astratta, non è la capacità di intendere in generale, ma è legata al potere concreto di prendere decisoni; incapacità significa impossibilità ad autodeterminarsi, cioè incapacità di compiere delle scelte per se stessi: la person who lack capacity è indicata come quella che, in riferimento ad uno specifico affare (in relation to a matter), si rivela unable to make a decision for himself (sect. 2). Vale la pena notare come quest’incapacità di compiere delle decisioni possa consistere non solo in una impossibilità “interna”, di comprendere le informazioni utili per la decisione, di ricordarle anche per un tempo limitato, e di valutarle cogliendone l’importanza, bensì anche in una incapacità “esterna”, di esprimere in qualche modo – anche non verbale – la propria decisione (comunicate his decision) (sect. 3). È esclusa dal campo di applicazione del Mental Capacity Act qualsiasi disabilità di natura fisica: viene specificato che l’incapacità di compiere decisioni riguardanti se stessi deve essere causata da una disturbance in the functioning in the mind or brain (sect. 2). 143 Dunque, un individuo è di regola capace di autodeterminarsi, su nessun soggetto grava una presunzione di incapacità; incapace è chi in concreto non riesce a compiere una decisione a causa di un’infermità mentale; l’incapacità è commisurata in riferimento ad una decisione determinata; un soggetto può essere considerato capace in riferimento ad un atto, ma essere privo della capacità per compierne un altro. Gli strumenti di tutela civilistica previsti per i soggetti privi di capacità sono: in via principale, a) il lasting power of attorney (LPA); in via residuale, ove non operi il primo, b) l’intervento diretto della Court of Protection, ovvero c) l’intervento di un deputy nominato dalla Court of Protection. Il lasting power of attorney (sect. 9) è lo strumento giuridico che intende supplire alla maggior parte dei casi di incapacità. Si tratta di uno strumento contrattuale con il quale individuo (donor), nel momento in cui è ancora capace, conferisce ad uno o a più soggetti determinati (donee o donees) il potere di assumere decisioni concernenti la sua persona, i suoi beni o i suoi affari allorquando il donor non avrà più la capacità per compierli. Il LPA, che è una sorta di mandato in vista della propria futura incapacità, può dunque riguardare: sia la sfera patrimoniale che quella personale; sia tutto l’insieme dei rapporti facenti capo al donor, sia singoli atti. È opportuno notare come i donees possano essere, per espressa previsione legislativa, più di uno (per esempio uno che si occupa della sfera personale e l’altro di quella patrimoniale), e questo a differenza dell’ordinamento italiano in cui l’art. 408 c.c. non prevede questa possibilità (ma neppure la esclude); il donee che abbia come incarico la gestione della sfera patrimoniale o di un singola attività a carattere patrimoniale possa essere sia una persona fisica (individual) sia un ente (trust corporation) (sect. 10). Il donee può prendere una decisone che va contro la libertà di autodeterminazione del donor solo se il questi è, in quel preciso momento e in relazione a quel determinato affare, effettivamente privo della capacità per compierlo e solo se l’atto appare necessario per evitare un pregiudizio al donor (if it is necessary to do the act in order to prevent harm) (sect. 11). 144 Laddove vi sia un LPA, l’autorità giudiziaria è competente a vagliare la validità del mandato, ad autorizzare determinati atti del donee (ad es. per le donazioni), a revocare il mandato se il donee viola i suoi doveri; il merito dell’attività di gestione del mandato è, tuttavia, tendenzialmente rimesso al donee. Laddove invece una persona manchi di capacità ma non abbia conferito un mandato, il giudice interviene con due possiblità di azione: può direttamente assumere delle decisioni in nome del soggetto debole beneficiario (make the decision on his behalf) oppure incaricare una persona (deputy) indicandone le direttive ed i limiti. Sia la corte, sia il soggetto da essa incaricato possono agire solo in riferimento a singoli affari, volta per volta, e non alla generalità dei rapporti facenti capo al soggetto debole, diversamente da quanto può avvenire con un lasting power of attorney (sect. 16). Anche riguardo a questo profilo la disciplina dimostra la massima attenzione per l’autodeterminazione del soggetto, laddove prevede che l’incaricato giudiziale non può prendere una determinata decisione se il beneficiario appare capace di assumerla da solo (sect. 20). Sia la nomina di un mandatario attraverso un LPA, sia la nomina di un deputy da parte della Court of Protection non hanno l’effetto di privare il soggetto debole della capacità. Il Mental Capacity Act riprende concetti e principi già presenti nel diritto giurisprudenziale, ma sviluppa anche idee nuove, frutto del lungo dibattito che in Inghilterra come in Italia ha preceduto la riforma, decisamente orientate verso una maggiore attenzione per la persona. Inedita è ad esempio l’importanza che il legislatore inglese conferisce a concetti come quello di best interest del soggetto debole (sect. 4), che chi agisce in suo nome è sempre tenuto a prendere in considerazione, a quello di wishes and feelings del beneficiario (e qui rieccheggia l’espressione della legge 6/2004, per cui “l’amministratore di sostegno deve tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario”, art. 410 c.c.), all’idea di far partecipare il beneficiario il più possibile al compimento delle attività e all’assunzione della decisioni che lo riguardano (incourage the 145 person to partecipate as fully as possible). Tuttavia, il principio che sembra costituire il perno di questo modello di tutela, rimane il principio di autodeterminazione, che il Mental Capacity Act non fa altro che riprendere da una tradizione giurisprudenziale lunghissima: per il sistema inglese è lo stesso soggetto che, in vista della propria futura incapacità, regola “il da farsi” per il futuro, attraverso uno strumento negoziale, decidendo in quali casi e con che modalità debba operare chi lo sostituirà. Gli interventi giudiziali sono pensati come marginali e suppletivi, per controllare l’operato del mandatario o per supplire ai casi di mancato conferimento del mandato che, evidentemente, costituiscono non la regola ma piuttosto l’eccezione. 146 147 CONCLUSIONI E PROSPETTIVE Le previsioni che si erano fatte in sede introduttiva sono state, credo, confermate nel corso della trattazione: la capacità delle persone fisiche, vista attraverso la lente del processo, assume una morfologia molto disomogenea, complessa, dai contorni frastagliati, a volte indefiniti. Si è parlato di diverse situazioni soggettive e delle diverse misure di tutela che l’ordinamento prevede. Sono stati esaminati due modelli di intervento: uno “rigido”, totalizzante, che incide sullo status del soggetto, ed è ablativo della capacità di agire; un altro “elastico”, attento alle esigenze della persona oltre che a quelle del patrimonio, attento a limitare la sua capacità di agire nella misura minore possibile. Sono stati analizzati e confrontati, soprattutto, due modelli processuali: uno fondato sull’accertamento dell’infermità mentale del soggetto; l’altro, che ha come unico scopo la gestione degli interessi del beneficiario. Si è parlato anche di un’incapacità di fatto, del rilievo che essa assume sul piano sostanziale e soprattutto processuale. Si sono infine prese in considerazione, in diversi frangenti, le problematiche di carattere costituzionale che il binomio capacità-processo fa sorgere. Si possono svolgere, a questo punto, due ordini di considerazioni. Il primo, sulla base del diritto positivo, alla luce di quanto ha innovato e di quanto invece ha lasciato immutato la l. 9 gennaio 2004 n. 6, e alla luce della prassi applicativa seguita dalla giurisprudenza nel corso di questi tre anni dall’entrata in vigore della riforma; il secondo, invece, in una prospettiva de jure condendo, nell’ottica di una riforma caldeggiata da più parti, che è in stato di avanzata elaborazione parlamentare e sembra avere buone chances per essere approvata. Innanzitutto è opportuno effettuare una “ricognizione critica” del diritto positivo, soppesando e tirando le fila di quanto è stato finora esaminato. La 148 riflessione può essere scandita in due temi: a) la coesistenza di due modelli di tutela dei soggetti deboli e le conseguenti ripercussioni sul piano sostanziale e su quello processuale; b) l’incapacità naturale e la questione della sua irrilevanza nel processo. a) Il primo ordine di riflessioni va svolto sulla coesistenza nell’ordinamento italiano di due modelli di tutela dei soggetti “privi in tutto o in parte di autonomia”: da un lato, un modello tradizionale, che il nostro sistema conosce ormai da secoli, quello dell’interdizione e dell’inabilitazione, e dall’altro il modello dell’amministrazione di sostegno, relativamente nuovo eppure sempre più utilizzato. La convivenza di questi due modelli implica importanti conseguenze a livello operativo, e si rivela non sempre “pacifica”e scevra da problemi. Anzitutto, si riscontra un’obiettiva difficoltà di determinare l’ambito applicativo dei tre istituti sino ad oggi in vigore. Si registrano in proposito due tendenze, che si contrastano a vicenda. La prima, concordemente appoggiata dai giudici di legittimità e dalla Corte costituzionale, è quella che vuole che i tre istituti abbiano sfere di applicazione ben delimitate, non suscettibili di interferenze. Se la riforma ha lasciato in vita le misure dell’interdizione e dell’inabilitazione, allora esse devono conservare un abito di operatività loro proprio, e non vi possono essere sovrapposizioni applicative: così hanno affermato all’unisono la Corte di cassazione e la Consulta nelle due pronunce che più hanno contribuito alla “perimetrazione” degli istituti230. Si fa riferimento alle più volte citate sentenze Cass., 12 giugno 2006, n. 13584 in Fam.dir., 2007, 1, p. 31 ss. e Corte Cost., 9 dicembre 2005, n. 440, in Fam. dir., 2006, p. 121 ss, più volte menzionate nel capitolo III, § 1 e § 2. La Corte costituzionale rigetta la questione di legittimità costituzionale di diversi articoli in materia di amministrazione di sostegno: il giudice a quo sosteneva che le sfere di applicazione dei tre istituti protettivi finivano per coincidere, ed in assenza di chiari criteri distintivi la scelta di uno fra essi era affidata alla discrezionalità dell’organo giurisdizionale, compromettendo così i valori costituzionali fissati negli artt. 2, 3, 4 Cost.; la Consulta dichiara infondate le questioni sollevate, asserendo che “in nessun caso i poteri dell’amministrazione di sostegno possono coincidere integralmente con quelli del tutore o del curatore”. La Corte di Cassazione fissa quali criteri distintivi fra amministrazione di sostegno e interdizione/inabilitazione la maggior adeguatezza (maggiore capacità di adeguarsi 230 149 La seconda tendenza, sempre più forte, è quella di avere un modello dominante ed uno dell’amministrazione recessivo. di Il sostegno; modello il dominante modello è recessivo oggi è quello l’istituto dell’interdizione, e ancor più quello dell’inabilitazione. Se gli ambiti di applicazione dei tre istituti sono, almeno in teoria, definiti e non sovrapponibili, è però fuor di dubbio che l’amministrazione di sostegno abbia occupato buona parte della sfera applicativa che prima del 2004 spettava all’interdizione. Inoltre, il nuovo istituto accoglie una “clientela” nuova, che un tempo non avrebbe avuto possibilità di tutela, perché troppo “leggera”231 per essere interdetta o inabilitata. Oggi l’amministrazione di sostegno è la regola, l’interdizione rappresenta l’eccezione; l’inabilitazione ha un ambito di applicazione talmente ristretto da essere in pratica scomparsa. In una recentissima pronuncia, inoltre, la stessa Cassazione ha con forza ribadito che il tribunale adito con istanza di interdizione deve sempre valutare, dandone conto in motivazione, se sia opportuno soprassedere alla pronunzia di interdizione, trasmettendo gli atti al giudice tutelare affinché provveda alla nomina dell’amministratore di sostegno: se il tribunale omette di valutare tale opportunità, la sentenza di interdizione è viziata232. Interdizione e inabilitazione sono dunque residuali, si applicano solo se alle esigenze del soggetto) e la funzionalità (in relazione alla complessità del patrimonio, alla gravità e durata della malattia), bocciando invece il criterio quantitativo (del maggiore o minore grado di infermità). 231 L’espressione “clientela di tipo leggero” è utilizzata da Cendon nella relazione alla bozza per l’abrogazione dell’interdizione e dell’inabilitazione (testo provvisorio), reperibile su www.personaedanno.it, § 2.20. 232 La sentenza è Cass, sez. I, 28 maggio 2007, n. 12466, in www.personaedanno.it. La Cassazione esprime in questi termini la residualità dell’interdizione e la prevalenza dell’amministrazione di sostegno: ”…trattasi, come appare evidente dalla lettera della norma, di valutazione discrezionale (la valutazione del giudice dell’interdizione circa l’opportunità di trasmettere gli atti al giudice tutelare), nella sua determinazione finale, ma che deve tuttavia essere delibata dal giudice dell’ interdizione tenuto conto della logica posta dal legislatore a base della nuova normativa in materia di interdizione, finalizzata a limitare i casi di interdizione a favore di istituti compatibili, nei limiti del possibile con il mantenimento della capacità di agire di soggetti aventi deficit nella formazione del pensiero. Pertanto (…) l’impugnata sentenza va cassata con rinvio al giudice di merito, in diversa composizione, affinché valuti, dandone conto in motivazione, se ricorra l’opportunità di rimettere gli atti al giudice tutelare per la nomina dell’amministratore di sostegno”. 150 l’amministrazione di sostegno appaia nel concerto inadeguata. Oltre a ciò, a far propendere per l’amministrazione di sostegno in luogo dell’interdizione subentrano dei fattori di ordine pratico, e di opportunità: il procedimento di amministrazione di sostegno costa meno e dura molto meno di un processo d’interdizione; inoltre, il decreto del giudice tutelare si può sempre modificare e revocare con la stessa procedura con cui è stato emesso. In questo contesto, le due tendenze appena descritte si pongono in forte contrasto: vi è la netta prevalenza dell’amministrazione di sostegno, da un lato, e l’intento di conservare un preciso ambito applicativo a tutti e tre gli istituti, dall’altro. Una parte della dottrina giunge ad affermare che, se non saranno abrogate, interdizione ed inabilitazione si estingueranno per desuetudine. L’idea di fondo che invece traspare dalle pronunce della Consulta e della Cassazione sul tema, e che risulta appoggiata da altra parte della dottrina233, è che l’interdizione rimanga, in alcuni casi, indispensabile; sempre il giudice di legittimità ha sostenuto – sollevando numerose critiche – che quando ci si trova di fronte a situazioni patrimoniali particolarmente complesse e consistenti è più prudente interdire234. Cfr., ad esempio, quanto è stato sostenuto da MARTINELLI, Interdizione e amministrazione di sostegno, in FERRANDO (a cura di), L’amministrazione di sostegno: una nuova forma di protezione dei soggetti deboli, cit., p. 140-141 circa l’indispensabilità dell’interdizione. 234 Fin dall’entrata in vigore del nuovo istituto ci si è chiesti quale sia il criterio che soccorre l’interprete per tracciare i rispettivi ambiti applicativi: la Cassazione, con la già menzionata sentenza 12 giugno 2006, n. 13584 ha bocciato il criterio quantitativo (il quantum della incapacità della quale il soggetto è affetto) ed ha optato per un criterio di tipo “funzionale”, che significa maggiore adeguatezza, idoneità ad assicurare la protezione più adeguata. Il criterio dell’adeguatezza finisce per trasformarsi in un criterio meramente patrimoniale: di fronte a grandi patrimoni, sembra affermare la Cassazione, è più prudente interdire. Questo canone distintivo (già in un primo tempo teorizzato da DELLE MONACHE, Prime note sulla figura dell’amministrazione di sostegno: profili di diritto sostanziale, in Nuova giur. civ. commentata, 2004, II, p. 36-37) è stato oggetto di forti critiche: non solo si pone, è stato detto, contro i principi ispiratori della riforma (come quello di attenzione alla persona prima che al suo patrimonio), ma pare anche stridere fortemente con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. Così SESTA, Amministrazione di sostegno e interdizione:quale bilanciamento tra interessi personali e patrimoniali del beneficiario?, in Fam. dir., 2007, 1, p. 36 ss.; una severa critica al criterio funzionale-patrimoniale giunge anche da PATTI, Amministrazione di sostegno e interdizione: interviene la Corte di Cassazione, in Famiglia, persone e successioni, 2006, p. 811; un duro dissenso è manifestato anche da CALÒ, Il giudice tutelare e la vendetta di Puchta, in Notariato, 2005, 3, p. 249 (Incapaci). Invece BONILINI, in BONILINI-CHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, cit., p. 63, sostiene che la distinzione fondata sulla consistenza e complessità del patrimonio “è 233 151 Si può affermare, in sintesi, che il diffuso consenso per il modello flessibile dell’amministrazione di sostegno, la sua frequentissima applicazione e, per contro, il declino dell’interdizione, si scontrano spesso con la convinzione, ancora radicata, che in determinati casi l’interdizione protegga “di più e meglio”. La duplicità di modelli per la tutela dei soggetti deboli si riflette anche sul processo, e implica l’esistenza di due procedimenti distinti, con caratteristiche marcatamente diverse. Il processo di interdizione e di inabilitazione si svolge in pubblica udienza, dinnanzi al tribunale in composizione collegiale, è a cognizione piena, ha ad oggetto l’accertamento dell’infermità mentale del soggetto, il suo provvedimento conclusivo ha la forma della sentenza ed il suo contenuto acquista la stabilità del giudicato. Il procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno si svolge davanti al giudice tutelare, in camera di consiglio, non mira ad accertare l’incapacità ma a gestire gli interessi del beneficiario, si chiude con un decreto sempre revocabile, non idoneo al passaggio in giudicato. Diversità formali, dunque; ma anche, in un certo senso, strutturali e concettuali. Il processo di interdizione segue un modello che potremmo definire “statico”: il fine è solo quello di elidere o limitare la capacità di agire del soggetto; poi si apre la tutela ma, sostanzialmente, dopo la pronuncia di interdizione l’iter processuale è concluso, l’accertamento di incapacità contenuto nella sentenza è stabile, definitivo. L’amministrazione di sostegno, sul piano processuale, ha invece un carattere marcatamente “dinamico”: essa implica un continuo dialogo fra amministratore di sostegno e giudice tutelare, la pronuncia del decreto di nomina non chiude nulla, anzi apre una relazione triangolare fra giudice tutelare, amministratore e beneficiario, un confronto continuo, in cui la modifica del decreto è sempre possibile. E ancora: i marcati poteri ufficiosi del giudice tutelare gli consentono di modificare o revocare il decreto d’ufficio, insoddisfacente, ma si rivela l’unica atta a consentire di mantenere un senso alla scelta legislativa (…), sebbene essa smentisca, platealmente, l’adeguatezza dell’amministrazione di sostegno”. 152 qualora lo ritenga necessario per realizzare la piena tutela del beneficiario. All’opposto, il giudice dell’interdizione non può, d’ufficio, disporre alcuna revoca. La dottrina che si è occupata di amministrazione di sostegno è solita parlare di “diritto dal basso”235: l’espressione è utilizzata per indicare uno dei principi-guida dell’istituto. “Diritto dal basso” pare essere, a prima vista, un concetto di tipo sociologico, o politico, o culturale, affascinante quanto estremamente indefinito. In realtà, alla luce di quanto è emerso nel corso della trattazione, sembra di poter affermare che la dimensione entro cui quest’espressione può essere meglio spiegata e compresa è un’altra: quella del processo. Si immagini una telecamera puntata, che voglia immortalare l’essenza, il vero cuore, il motore dell’amministrazione di sostegno: al centro dell’obbiettivo c’è, senza dubbio, il giudice tutelare, il suo decreto, i suoi colloqui con il beneficiario, con i famigliari e con i servizi sociali, le sue determinazioni – che vanno a costituire il decreto e così lo statuto del beneficiario –, i suoi continui monitoraggi – che lo portano, eventualmente, a modificare o revocare il decreto originario. L’attore protagonista dei procedimenti che attengono all’amministrazione di sostegno è il giudice tutelare. La telecamera è puntata su di lui, sul suo decreto, non sulla legge. La legge sta in alto, traccia i confini del gioco, ma non lo regola in concreto; il meccanismo ha il suo impulso da dentro, ed è il giudice tutelare a muoverne gli ingranaggi. Si è tracciato finora un quadro di marcato dualismo, di netta contrapposizione fra due modelli processuali. Ci si può chiedere che valore abbia, in questo contesto, la previsione contenuta nell’art. 720-bis c.p.c., primo comma, che per la disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno effettua un rinvio ad alcune norme dettate per il processo d’interdizione. Gli interpreti si sono scontrati sul valore da attribuire a tale disposizione. Il rinvio Per tutti, v. CENDON, Un altro diritto per i soggetti deboli: l’amministrazione di sostegno e la vita di tutti i giorni, in FERRANDO (a cura di), L’amministrazione di sostegno. Una nuova forma di protezione dei soggetti deboli, cit., p. 49, che parla di “diritto costruito dal basso”. 235 153 ha forse l’effetto di avvicinare il procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno a quello di interdizione? Così ha sostenuto un’autorevole parte della dottrina236; oppure, come sostenuto da altra parte, all’inverso sottolinea la distanza fra i due procedimenti, in ragione del fatto che oggetto del rinvio sono solo alcune, marginali norme e non l’intera disciplina del processo d’interdizione (in ragione, insomma, di quello che il rinvio tace)?237 L’interrogativo ha l’effetto di mettere in crisi, almeno in parte, l’impostazione semplificata che vede i due modelli processuali come antagonisti; soprattutto, ha l’effetto di portare a domandarsi se l’amministrazione di sostegno segua un modello processuale preciso, o se invece non ne segua alcuno238. Il procedimento di amministrazione di sostegno si distanzia fortemente dal processo d’interdizione, e tuttavia ne ricalca alcuni aspetti, richiamati attraverso il rinvio dell’art. 720-bis; non è un procedimento a carattere contenzioso, si avvicina piuttosto alla giurisdizione volontaria, eppure non può dirsi neppure appartenente a tale branca della giurisdizione perché, benché non incida mai sullo status del beneficiario, può fortemente incidere sulla sua capacità di agire, comprimendola239. Ancora: lo scopo del procedimento non è quello di accertare un’infermità bensì quello di gestire degli interessi, eppure il decreto del giudice tutelare può avere effetti parzialmente ablativi della Questo è quanto ha sostenuto, perlomeno in un momento immediatamente successivo all’entrata in vigore dell’istituto, TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica, cit., p. 610; sulla stessa linea pare essersi espresso anche CAMPESE, L’istituzione dell’amministrazione di sostegno e le modifiche in materia di interdizione e inabilitazione, cit., p. 134. 237 In questo senso CHIZZINI, in BONILINI-CHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, cit., p. 372 ss., per il quale il rinvio risulta significativo più per quello che non dice che non per ciò che contiene. L’autore ammette comunque che “non è certo facile cogliere quanto coerente possa essere un simile rinvio con le finalità manifestate nell’art. 1 della legge stessa (le legge 6/2004) e con le disposizioni procedimentali dettate per l’amministrazione di sostegno”: ivi, p. 374. 238 Questo è nuovamente quanto sostiene, in senso critico, TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica in un’ambigua sentenza della Cassazione, cit., che parla del procedimento dell’amministrazione di sostegno (o meglio, delle interpretazioni che di esso ha offerto la Cassazione) come di un “ircocervo”, assolutamente non riconducibile a sistema. 239 Sono proprio queste le argomentazioni portate da TOMMASEO, Ancora sulla difesa tecnica nell’amministrazione di sostegno, cit., p. 179, per giungere ad affermare il sostanziale carattere contenzioso del procedimento di amministrazione di sostegno. 236 154 capacità d’agire; il procedimento si svolge in camera di consiglio, ma a differenza del modello tracciato dagli artt. 737 ss. c.p.c. è previsto il ricorso per cassazione avverso la decisione della corte d’appello (art. 720-bis co. 3). Inoltre, in base a quanto ha affermato la Cassazione240, di regola il ricorrente può stare in giudizio senza il patrocinio di un difensore, come nei procedimenti di giurisdizione volontaria; la difesa tecnica diventa però imprescindibile, a pena di nullità assoluta, quando il giudice tutelare ritenga necessario estendere al beneficiario alcune delle limitazioni previste dalla legge per l’interdetto. Nell’ambito di uno stesso procedimento la difesa tecnica può essere o non essere obbligatoria; il giudice può incidere o non incidere sui diritti fondamentali della persona; può non esservi alcuna forma di contenzioso (specie quando il beneficiario chiede per sé l’amministrazione di sostegno), ma non è escluso che possa invece instaurarsi una particolare forma di contenzioso, che vede contrapposti, ad esempio, il beneficiario ed il ricorrente. Il procedimento per l’amministrazione di sostegno non ricalca, in sintesi, alcun modello. La sua atipicità è dovuta, come ha affermato la Cassazione, alla “radicale novità sostanziale e formale dell’istituto241”; le conseguenze problematiche di questa totale atipicità non sono, tuttavia, da sottovalutare. Innanzitutto, essa implica che nessun aiuto possa essere fornito, in sede d’interpretazione, dai principi generali stabiliti per i procedimenti volontari o contenziosi. Inoltre, una totale “irriconducibilità a sistema” si fa pericolosa nel contesto appena descritto, in cui è il singolo giudice tutelare a costituire il perno dell’istituto e a compiere scelte cruciali nell’ambito di ogni singolo procedimento. Il “diritto dal basso” è da valutare in termini positivi finché non sfiora l’arbitrio, e finché è attuato in un contesto in cui alcune variabili sono date; all’opposto, si rivela rischioso – e, forse, ai limiti del concetto di giusto processo di cui all’art. 111 Cost. – laddove è rimessa al singolo giudice la possibilità di delineare un modello, affidando a lui Si fa riferimento alla sentenza Cass., 29 novembre 2006, n. 25366, in Fam. dir., 2007, 1, p. 19 ss., già oggetto di approfondite riflessioni nel capitolo III. 241Si riportano le parole utilizzate dalla Cassazione nella già menzionata sentenza sulla difesa tecnica, Cass., sent 29 novembre 2006, n. 25366, ult. cit., p. 24. 240 155 scelte cardine come quella della necessità o facoltatività del patrocinio. b) Il secondo ordine di riflessioni che si intende svolgere riguarda la figura dell’incapacità naturale e in particolare la sua dimensione processuale. Tale tematica si è rivelata fortemente connessa a questioni di carattere costituzionale: dallo studio è emerso come l’incapacità naturale, nell’ambito processuale, sia chiamata continuamente a confrontarsi con i diritti fondamentali garantiti dalla nostra Carta costituzionale, e in particolare con il diritto ad una difesa adeguata, sancito dall’art. 24 della Costituzione242. Rispetto agli argomenti appena trattati - l’incapacità legale e il nuovo modello di protezione civilistica dei soggetti deboli - il tema è stato fino ad ora assai meno discusso: si sono avute alcune sentenze di merito e di legittimità, diverse pronunce della Corte Costituzionale, ma scarsi sono stati gli apporti della dottrina. La stessa cosa, d’altra parte, si può dire avvenga nel panorama giusinternazionalistico: la pressoché totale assenza di giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani non fa che confermare il sostanziale disinteresse per tali problematiche. Si è detto che nel nostro ordinamento l’incapacità naturale di un soggetto non determina la sua incapacità processuale, la quale consegue soltanto alla pronuncia di interdizione/inabilitazione o alla nomina di un tutore/curatore provvisorio; la domanda presentata da o nei confronti di un incapace naturale è validamente proposta, il processo validamente instaurato. Irrilevanza processuale dell’incapacità naturale significa, dunque, che, mentre per l’incapace legale operano i meccanismi della rappresentanza o dell’assistenza processuali, e lo stesso vale per il beneficiario dell’amministrazione di sostegno qualora il decreto di nomina abbia inciso sulla sua capacità di agire, la persona incapace di intendere e di volere che non sia interdetta o inabilitata, né beneficiaria di amministrazione di sostegno sta in giudizio senza l’ausilio di rappresentanti o assistenti, come qualsiasi soggetto pienamente capace. Nel corso della trattazione si è utilizzata, talvolta, 242 Cfr. quanto è stato analizzato nel capitolo II, § 4 e 5. 156 l’immagine del processo come di una lente con cui osservare i fenomeni giuridici (il diritto sostanziale). Riprendendo questa immagine, si potrebbe dire così: che attraverso la lente del processo l’incapacità naturale non è visibile, sfuma, ed è come se non vi fosse. Alcuni giudici di merito hanno riflettuto su questo dato ed hanno posto il seguente quesito: può il nostro ordinamento costituzionale, e in particolare il principio di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione, tollerare che un soggetto sia lasciato privo di ausili processuali (quali la rappresentanza o l’assistenza), quando non è nemmeno in grado di comprendere che un processo è stato instaurato nei suoi confronti? In risposta a questa questione, la Corte Costituzionale e la Corte di cassazione hanno costruito una vera e propria fortezza attorno alla regola dell’irrilevanza: tutte le questioni di legittimità sono state rigettate, tutte le vie alternative abbozzate da alcuni giudici di merito sono state bocciate. La risposta non stupisce, e le argomentazioni di fondo appaiono, in fin dei conti, convincenti: non si può privare un soggetto della capacità processuale in via incidentale, al di fuori dei giudizi a ciò preordinati e senza le specifiche garanzie; se fosse possibile farlo, allora sì ci sarebbe violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione. Per di più, è palese che non si possa far gravare sui consociati l’onere di verificare, prima di instaurare un giudizio, la capacità di intendere e di volere della controparte; ragionevole sembra anche la prevalenza dell’interesse alla celerità del processo, e quindi il fatto che l’incapacità naturale non sia causa d’interruzione dello stesso. Meno convincenti appaiono, invece, le soluzioni che la Consulta 243 dà ad un problema che non è, comunque, risolto. Gli strumenti per farvi fronte non mancano, sostiene la Corte Costituzionale: ieri erano l’interdizione e l’inabilitazione, oggi in più vi è l’amministrazione di sostegno. La via indicata Si fa riferimento soprattutto alle pronunce: Corte Cost., ord. 19 gennaio 1988 n. 41, in Giur. Cost., 1988, p. 109; Corte cost., sent. 2 novembre 1992, n. 468, in Foro it., 1993, I, p. 1043; e recentemente, dopo l’entrata in vigore della misura dell’amministrazione di sostegno, Corte Cost., ord. 3 maggio 2006, n. 198. 243 157 dalla Corte era, fino al 2004, soltanto quella dell’interdizione (o almeno quella dell’instaurazione del processo d’interdizione e della nomina di un tutore provvisorio); si poteva, tuttavia, seriamente sostenere che l’interdizione per infermità di mente avrebbe potuto coprire tutti i casi di incapacità naturale, per di più con la tempestività richiesta da certe particolari circostanze processuali? Ma anche oggi, pur con uno strumento ulteriore a tutela degli incapaci – l’amministrazione di sostegno –, si può pensare che questa misura – benché certamente sia caratterizzata da una procedura più snella rispetto all’interdizione – possa intervenire con sufficiente tempestività nei casi che la necessitano? Vi è da dubitarne, ancor più se si considera che il potere del p.m. di instaurare il procedimento è sostanzialmente discrezionale244. L’amministrazione di sostegno è uno strumento della cui validità e utilità è superfluo dire, ma forse è utopico credere che riuscirà a fare qualche cosa che va al di là del suo scopo, come tappare le falle di una figura, l’incapacità naturale, che (alla luce di quanto si dirà poi) appare sempre più in crisi. La soluzione garantista della Consulta, si è già detto, non appare irragionevole; né ingiustificata appare, in quest’ottica, la disparità di trattamento fra incapaci legali ed incapaci naturali nel processo. A far riflettere è un altro tipo di disparità che si viene a creare: quella fra diritto sostanziale e processo. Lo stesso soggetto può impugnare un atto negoziale a motivo della sua incapacità naturale, ma non può impugnare un atto processuale. Un contratto può essere annullato su richiesta del contraente che dimostri la propria incapacità di intendere o di volere al momento in cui lo ha concluso; non altrettanto avviene di una sentenza, o meglio dell’accertamento che essa contiene, dopo il passaggio in giudicato. Il giudicato non può essere scalfito dall’incapacità naturale di una delle parti: lo si ricava, implicitamente, dall’art. 395 del codice di rito, che non prevede l’incapacità Come si è visto ampiamente nel capitolo II, la non idoneità a rispondere alle situazioni di urgenza, da un lato, e la sostanziale discrezionalità del potere del p.m. di instaurare il procedimento, costituiscono le falle principali delle vie indicate dalla Corte Costituzionale per far fronte all’incapacità naturale di una parte nel processo civile. Cfr., cap. II, § 6, 7 e 8. 244 158 naturale fra i motivi di revocazione. Certamente, come ha sottolineato la Cassazione245, le regole che reggono il giudizio seguono principi-guida loro propri, diversi da quelli del diritto sostanziale, e la validità degli atti processuali è da valutarsi secondo i peculiari criteri dell’ordinamento processuale. Questo dato, tuttavia, non cessa di stupire. Stupisce, soprattutto, il fatto che queste riflessioni e queste perplessità siano maturate all’interno di una piccolissima nicchia del formante dottrinale, e che non abbiano mai raggiunto una consistenza tale da meritare una pronuncia della Corte costituzionale; stupisce il fatto che, anche nel panorama giuridico più attento a questi temi, esse non abbiano avuto alcuna eco. Il quadro complesso fin qui descritto è destinato a subire profonde, radicali modifiche nel caso in cui interdizione e inabilitazione venissero abrogate. Nel gennaio 2007 è stato redatto un progetto di legge che mira a cancellare tali misure, e a fondare l’intero sistema di protezione dei soggetti deboli sull’istituto dell’amministrazione di sostegno246. L’idea non è nuova nel quadro europeo; si è anzi visto come essa abbia dei riferimenti ben precisi: Austria e Germania hanno imboccato la via radicale di una riforma “per sostituzione” già da diverso tempo (l’Austria nel 1983, la Germania nel 1991). Oltre a intervenire in maniera decisa sugli istituti di protezione, la riforma andrebbe ad incidere anche sull’incapacità naturale, delimitandone gli effetti sul piano sostanziale. È opportuno sintetizzare in due punti i tratti essenziali della proposta di riforma. a) La bozza, si è detto, interviene in maniera radicale sulle misure di Si fa riferimento alla sentenza-decalogo che ha tracciato i tratti fondamentali del rilievo della capacità naturale nel processo civile: Cass., sent. 4 giugno 1975, n. 2227, in Foro it., 1976, I, p. 98. 246 Il testo della Bozza Cendon 2007, Abrogazione dell’interdizione e dell’inabilitazione (testo provvisorio) è pubblicato, con la relativa relazione e con la tavola sinottica dei testi normativi a confronto, nel sito www.personaedanno.it. 245 159 protezione, cancellando i secolari istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione. Sparisce la dualità di modelli di cui si è ampiamente parlato, e l’amministrazione di sostegno diviene misura di protezione applicabile a trecentosessanta gradi, talmente duttile da essere in grado di far fronte a tutte le situazioni di debolezza, anche a quelle che fino ad oggi hanno costituito l’ambito elettivo degli istituti abrogandi. La nuova amministrazione di sostegno va “da zero a cento”: da un intervento solamente gestionale, che non tocca la capacità di agire del beneficiario, a un intervento totalmente ablativo della capacità di agire nei – limitatissimi, sottolinea la bozza – casi in cui ciò dovesse rendersi necessario. In questo nuovo contenitore, che sottende un insieme potenzialmente infinito di misure personalizzate di tutela, in questo continuum che sotto lo stesso nomen juris va dalla piena capacità di agire alla totale incapacità, il concetto di incapacità legale perde, ovviamente, il suo senso; incapaci legali sono, d’ora in poi, solo i minori. Abolito il processo di interdizione, unico motore del sistema diviene il giudice tutelare, i cui compiti si estendono sempre più, in relazione al dilatarsi dell’ambito soggettivo della misura. Di fronte a questo quadro normativo, è opportuno quanto meno abbozzare delle riflessioni e sollevare dei quesiti. Invero, una parte ristretta della dottrina è contraria all’abrogazione dell’interdizione perché sostiene che l’istituto in un certo senso serve ancora e non può essere sostituito da un’amministrazione di sostegno “dilatata”247. Se l’amministrazione di sostegno è strumento valido ed idoneo ad essere applicato nella grande maggioranza dei casi, essa si rivela inidonea, è stato detto, alla protezione di quei soggetti totalmente e definitivamente impossibilitati ad agire. Se il nomen juris è unico, in sostanza però l’istituto ha due volti: da un lato vi è l’amministrazione di sostegno con funzioni gestionali, che non ha l’effetto di rendere il beneficiario incapace, o che lo priva della capacità di agire solo in Molto chiara, in tal senso, è ad esempio l’opinione di MARTINELLI, Interdizione e amministrazione di sostegno, in FERRANDO (a cura di) L’amministrazione di sostegno: una nuova forma di protezione ei soggetti deboli, cit., p. 140. 247 160 riferimento a singole attività; dall’altro lato vi è l’amministrazione di sostegno “ablativa”, che priva della capacità di agire esattamente come faceva l’interdizione. In riferimento a questo secondo volto dell’amministrazione di sostegno, oggetto di critica è soprattutto il procedimento: in particolare, la scelta di affidare ad un giudice unico, il giudice tutelare, decisioni importantissime come l’ablazione totale della capacità di agire del beneficiario248. La domanda che è opportuno porsi allora è la seguente: l’attribuzione del procedimento al collegio anziché ad un giudice unico dà maggiori garanzie di ponderatezza della decisione? Se la risposta è affermativa (non è detto che lo sia) allora forse bisogna prendere in considerazione delle soluzioni alternative, che qualche esponente della dottrina ha già suggerito nel corso di questi tre anni. Per esempio, una via potrebbe essere quella di attribuire i provvedimenti provvisori in primissima battuta al Presidente del tribunale e poi al giudice istruttore249. Nell’ordinamento austriaco ed in quello tedesco l’esistenza di un modello unico di tutela, rispettivamente della Sachwalterschaft e della Betreuung, si accompagna ad un principio di sussidiarietà che caratterizza gli istituti: Sachwalterschaft e Betreuung si applicano soltanto se strettamente necessarie; la relativa procedura non viene avviata, nell’ordinamento austriaco, qualora il soggetto riceva già un’idonea tutela di fatto nel contesto famigliare, e nell’ordinamento tedesco qualora si possa far fronte agli affari del soggetto attraverso strumenti contrattuali, di carattere privatistico250. Ora, la disciplina italiana si discosta, su questo punto, da entrambi gli ordinamenti: l’amministrazione di sostegno non è stata affatto concepita come uno strumento a carattere sussidiario. La tendenza sembra anzi quella di auspicare: a) che tutte le situazioni di assistenza de facto si trasformino in amministrazioni di sostegno; La critica è stata espressa da alcuni processualisti che si sono occupati dell’amministrazione di sostegno: per tutti, v. CHIARLONI, Prime riflessioni su alcuni aspetti della disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno, in FERRANDO (a cura di) L’amministrazione di sostegno: una nuova forma di protezione ei soggetti deboli, cit., p. 153. 249 La proposta è stata avanzata da CHIARLONI, ult. cit., p. 154. 250 Cfr. quanto si è detto nel cap. III, sez. B) Profili di diritto comparato, § 12. 248 161 b) che l’amministrazione di sostegno copra tutte le situazioni in cui è potenzialmente applicabile, quasi da assottigliare sempre più la categoria degli incapaci naturali251. In un simile contesto, abrogare interdizione e inabilitazione significa sovraccaricare enormemente il lavoro dei giudici tutelari, tenuto conto di due elementi: in primis, del fatto che tutta quella che un tempo era la “clientela dell’interdizione” sarà soggetta ad amministrazione di sostegno; in secondo luogo, ed ancor più, del fatto che l’amministrazione di sostegno, rispetto all’interdizione, comporta un’attività molto più intensa da parte del giudice, sia nel corso del procedimento di apertura sia dopo, nell’ambito della gestione di un’amministrazione di sostegno già avviata. Negli ordinamenti austriaco e tedesco, il modello unico di tutela funziona anche perché sostenuto, rafforzato quasi dall’idea di sussidiarietà che vi sta alla base. Ci si chiede che cosa possa accadere se il modello unico dell’amministrazione di sostegno si accompagna ad un’idea opposta, così in voga di questi tempi in Italia, che l’amministrazione di sostegno va bene sempre, perché tanto non è invasiva e “non fa mai male”252. b) La bozza Cendon incide anche sulla figura dell’incapacità naturale. Per meglio dire, incide fortemente sulla sua dimensione sostanziale; non tocca invece in alcun modo quello che è stato chiamato il dogma dell’irrilevanza dell’incapacità naturale nel processo. Sul piano sostanziale la bozza di riforma opera una vera rivoluzione in tema di incapacità di intendere di volere, che qui non è la sede per approfondire, ma solo per menzionare. Per quanto attiene all’ambito Sembra affermarlo la stessa Corte Costituzionale: nella pronuncia Corte Cost., ord. 3 maggio 2006, n. 198 essa dichiara che “l’ordinamento prevede – specie a seguito della legge 9 gennaio 2004, n. 6 – forme di protezione dell’incapace naturale che (…) prendono già in considerazione (…) l’esigenza che tale protezione consegua ad un procedimento adeguato alla gravità di un provvedimento che incide sulla capacità di agire, anche processuale, del soggetto che appare affetto da incapacità naturale”. 252 Questa idea di fondo è comunque fortemente contestata da parte di alcuni esponenti della dottrina: cfr., ad esempio, CHIARLONI, Prime riflessioni su alcuni aspetti della disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno, in FERRANDO (a cura di) L’amministrazione di sostegno: una nuova forma di protezione ei soggetti deboli, cit., p. 154. 251 162 contrattuale, oggetto di modifica è l’art. 428 c.c.: quale elemento necessario e sufficiente a legittimare l’azione di annullamento del contratto viene previsto il pregiudizio per l’incapace; è invece eliminato l’ulteriore presupposto della mala fede dell’altro contraente (da intendere come consapevolezza dello stato di incapacità altrui). Nell’ambito della responsabilità civile, la modifica investe gli artt. 2046 e 2047 c.c., capovolgendone l’attuale contenuto: se ad oggi vige il principio di non imputabilità del fatto dannoso al soggetto che era incapace di intendere e di volere nel momento in cui lo ha compiuto, la bozza detta invece la regola della tendenziale responsabilità anche dell’incapace naturale per il danno arrecato. La scelta di fondo, coerente con l’intero disegno ed in linea con la riforma del 2004, è quella della massima valorizzazione della sovranità del disabile psichico: ciò si traduce nella tendenziale responsabilizzazione dell’incapace, da un lato, e nella massima sicurezza per i consociati che con lui entrano in contatto, dall’altro. Non si dovrà più paventare l’annullamento del contratto per il solo fatto di essersi resi conto dello stato di incapacità della controparte; non si rischierà più – almeno tendenzialmente – di veder sfumare il proprio diritto al risarcimento in ragione dello stato di incapacità del danneggiante. Tutto questo significa, nell’idea dei redattori della bozza, eliminare delle possibili remore alla contrattazione o comunque al “contatto” con l’incapace. Le modifiche, è superfluo dirlo, non sono di poco conto. Ciò che qui preme rilevare è il progressivo assottigliarsi della figura dell’incapacità naturale, attraverso il drastico ridimensionamento dei suoi effetti nel diritto sostanziale: l’incapacità naturale non sottrae più, in linea di principio, alle proprie responsabilità verso i consociati. In un’ottica più ampia, che comprende l’intento di abrogare interdizione e inabilitazione, si può infine affermare quanto segue: il forte ridimensionamento delle sfere di rilevanza dell’incapacità naturale va di pari passo con la (totale) scomparsa dell’incapacità legale. L’intero concetto di incapacità risulta, leggendo il testo della bozza, fortemente in crisi. Forse è già in crisi da molto 163 tempo: già da quando si è avvertita la necessità di introdurre uno strumento di tutela che non mira ad elidere la capacità di agire del soggetto, ma solo a gestire i suoi interessi; fin da quando si è pensato ad un procedimento che non si chiude con una sentenza il cui contenuto di accertamento passa in giudicato, ma con un decreto sempre revocabile e modificabile. 164 BIBLIOGRAFIA ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, 3° ed., Napoli, 1964, IV. ANDRIOLI, O’miereco d’e’pazze, in Foro it., 1968, I. ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Napoli, 1979. 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Cass., 2 maggio 1967, n. 808, in Foro It., 1967, I, p. 908. Cass., 4 luglio 1967, n. 1643, in Giust. Civ., 1967, I, p. 1616. Cass., 13 maggio 1968, n. 1490, in Foro it., 1968, I, p. 2163. Cass., 5 febbraio 1970, n. 240, in RGC, 1970, Obbligazioni e contratti, n. 18. Cass., 4 giugno 1975, n. 2227, in Foro it., 1976, I, p. 98. Cass., 3 luglio 1987, n. 5814, in Giust. Civ., 1988, I, p. 743. Cass., 3 luglio 1987, n. 5814, in Giur. It., 1988, I, 1, p. 978. Cass., 13 novembre 1991, n. 12117, in Foro It., 1992, I, 2, p. 2456. Cass., 14 aprile 1994, n. 3491, in Giur. it., 1994, I, 1, c. 1697. Cass., 16 marzo 1999, n. 2316, in Fam. dir., 1999, p. 324. Cass., 21 luglio 2000, n. 9582, in Dir. Fam., 2001, 4, p. 1404. Cass., 27 aprile 2002, n. 6167, in Foro it., 2002, I, p. 3139. Cass., 9 settembre 2002, n. 13069, in Arch. Giur. Circolaz., 2002, p. 920. Cass., ord. 20 aprile 2005, n. 8291, in Fam. dir., 2005, 5, p. 481. Cass., 12 giugno 2006, n. 13584, in Fam. dir., 2007, I, p. 31. Cass., sez. I, 29 novembre 2006, n. 25366, in Fam. dir., 2007, I, p. 19. 172 Corte Cost., sent. 27 giugno 1968, n. 74, in Foro it. 1968, I, p. 2056 Corte cost., sent. 16 ottobre 1986, n. 220, in Foro it., 1986, I p. 2669. Corte cost., ord. 19 gennaio 1988 n. 41, in Giur. Cost., 1988, p. 109. Corte cost., sent. 2 novembre 1992, n. 468, in Foro it., 1993, I, p. 1043 e in Giur. it., 1994, I, p. 20. Corte Cost., 9 dicembre 2005, n. 440, in Fam. dir., 2006, p. 121. Corte Cost., ord. 3 maggio 2006, n. 198, in www.consultaonline.it Corte Cost., sent. 16-19 aprile 2007, n. 128, pubblicata sul sito www.dirittoegiustizia.it Trib. Parma, 14 febbraio 1974 (sent.), in Giur. it., 1974, 1, II, 898. App. Napoli, 16 ottobre 1976, in Dir. Eccl., 1977, II, p. 414. Trib. Padova, 9 febbraio 1994, in Foro pad., 1995, I, p. 106. Trib. Torino, 22 ottobre 1997 (decr.), in Giur. it., 1998, III, p. 1849. Pretura Torino, 11 novembre 1997 (decr.), in Giur. it., 1998, III, p. 1850. Trib. Cuneo, 28 novembre 1997 (decr.), in Giur. it, 1998, III, p. 1846. App. Milano 31 dicembre 1999, in Foro it., 2000, I, p. 2022. App. Milano, 7 marzo 2001, in Fam. dir., 2002, 2, p. 184. Trib. Padova, 21 maggio 2004, (decr.), in Fam. dir., 2004, p. 607. Trib. Modena, 15 settembre 2004, in Fam. dir., 2005, p. 85. App. Milano, 11 gennaio 2005, (decr.), in Fam. dir., 2005, p. 178. 173 App. Milano, 15 febbraio 2005, in Fam. pers. e succ., 2005, p. 23. Trib. Modena, 22 febbraio 2005, (decr.), in Fam. dir., 2005, p. 180. App. Milano, 9 gennaio 2006, (decr.), in Fam. dir., 2006, p. 280. App. Venezia, 16 gennaio 2006, (decr.), in Fam. dir., 2006, p. 275. 174