clicca qui per il TESTO INTEGRALE DEL

Anna PINAMONTI
“CAPACITÀ E PROCESSO”
I
INDICE
INTRODUZIONE
p. 1
CAPITOLO I
L’INCAPACE LEGALE COME PARTE NEL PROCESSO
A) L’INTERDETTO NEL PROCESSO DI INTERDIZIONE:
1. Il giudizio d’interdizione: capacità e legittimazione dell’interdicendo
p. 5
2. Il giudizio di revoca dell’interdizione prima della legge 6/2004
p. 10
3. (segue) Dopo la legge 6/2004
p. 15
4. Il principio della domanda nei giudizi di interdizione e di
inabilitazione
p. 16
B) L’INTERDETTO NEI GIUDIZI VERTENTI SU DIRITTI NON
PATRIMONIALI:
5. I diritti personalissimi e il problema della loro azionabilità
p. 22
6. Azione di divorzio: può l’interdetto agire in giudizio?
p. 25
7. (segue) La soluzione della Cassazione
p. 29
8. Autorizzazione ad interrompere le cure e questioni di legittimazione
p. 34
CAPITOLO II
L’INCAPACE NATURALE COME PARTE NEL PROCESSO
1. Premessa d’inquadramento: utilità e problemi dell’istituto dell’incapacità
II
naturale
p. 41
2. Quando il ricovero in manicomio poteva sostituire l’interdizione
p. 44
3. La Cassazione sancisce il principio dell’irrilevanza: l’incapacità naturale di un
soggetto non ne determina l’incapacità processuale
p. 50
4. La regola dell’irrilevanza e gli interessi in gioco
p. 55
5. Problematiche costituzionali: è leso il diritto di difesa dell’incapace
naturale?
p. 56
6. Le soluzioni alternative dei giudici di merito per i casi di urgenza
p. 62
7. (segue) La nomina del curatore speciale di cui all’art. 78 c.p.c.
p. 63
8. (segue) I “provvedimenti urgenti” del giudice tutelare
p. 67
9. Riflessioni e proposte: ciò che ancora non soddisfa gli interpreti
p. 69
CAPITOLO III
IL NUOVO MODELLO DELL’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO:
QUESTIONI PROCESSUALI E PROFILI COMPARATISTICI
A) QUESTIONI PROCESSUALI RELATIVE ALL’AMMINISTRAZIONE DI
SOSTEGNO:
1. Inquadramento dell’istituto
p. 75
2. La natura del procedimento e il “rompicapo” della difesa tecnica
p. 78
3. (segue) Giurisdizione volontaria e difesa tecnica
p. 80
4. (segue) Gli elementi da cui dipende la scelta sulla difesa tecnica.
p. 89
5. (segue) La soluzione della Cassazione. Critiche e consensi
p. 97
6. Procedure di raccordo fra le misure di protezione dei soggetti deboli
p. 105
7. (segue) Dall’interdizione all’amministrazione di sostegno
p. 107
8. (segue) Dalla revoca dell’interdizione all’amministrazione di sostegno p. 116
9. (segue) Dall’amministrazione di sostegno all’interdizione
p. 121
10. (segue) Problemi di sovrapposizione fra procedimenti nel passaggio
p. 125
dall’amministrazione di sostegno all’interdizione
III
B) PROFILI DI DIRITTO COMPARATO:
11. Cenni sulle misure di protezione dei soggetti deboli in una prospettiva
comparata
p. 129
12. I modelli austriaco e tedesco
p. 130
13. Il modello inglese
p. 136
CONCLUSIONI E PROSPETTIVE
p. 143
BIBLIOGRAFIA
p. 159
INDICE DELLE SENTENZE
p. 165
IV
INTRODUZIONE
Un titolo vago e potenzialmente onnicomprensivo come “capacità e
processo” necessita di essere chiarito, specificando qual è l’oggetto della ricerca.
È bene dire subito che questo non vuole essere uno studio monografico sulla
capacità nel processo; non è una dissertazione attorno all’articolo 75 del codice
di procedura civile e ai noti concetti di capacità processuale e di legittimazione.
L’indagine ha ad oggetto, piuttosto, un insieme di situazioni concrete che
riguardano la capacità (rectius, l’incapacità) nel contesto del processo.
A che condizioni un incapace legale può stare nel giudizio che lo vede
come parte? Può un interdetto proporre la domanda di revoca della propria
interdizione? Può divorziare? Un incapace naturale compie validamente gli atti
processuali? Il beneficiario dell’amministrazione di sostegno di sostegno è un
“incapace”? Ecco alcune delle questioni che hanno fornito lo stimolo per questo
studio.
L’ambito soggettivo dell’indagine è costituito dalle seguenti categorie di
soggetti: gli interdetti, gli inabilitati, i beneficiari dell’amministrazione di
sostegno, gli incapaci naturali. Per raggruppare queste categorie sotto un'unica
definizione si potrebbe dire: i “soggetti (maggiorenni) privi in tutto o in parte di
autonomia”, ricalcando l’espressione usata dal legislatore in apertura del titolo
XII del codice civile.
L’ambito oggettivo dello studio è costituito dai processi in cui tali soggetti
sono parte. Nel capitolo primo si parlerà, innanzitutto, dei giudizi che
determinano lo status di incapace legale: saranno oggetto di esame il processo
di interdizione e di inabilitazione, con particolare attenzione al ruolo che in esso
assumono l’interdicendo e l’inabilitando. Nella seconda sezione dello stesso
capitolo saranno analizzati altri peculiari giudizi in cui un incapace legale
agisce o è convenuto (ad esempio, il processo di divorzio). Nel capitolo secondo
1
si tratterà, invece, dei processi in cui è parte un incapace naturale: si
esamineranno specialmente gli effetti che questa incapacità di fatto produce nel
processo, e le problematiche di carattere costituzionale con cui essa risulta
inscindibilmente connessa. Nel terzo capitolo l’oggetto d’analisi sarà l’istituto
dell’amministrazione di sostegno, introdotto con la legge 6/2004, e in modo
particolare saranno esaminati alcuni profili che caratterizzano il relativo
procedimento: questo tema costituisce lo snodo principale e più attuale di
questa ricerca, perciò esso sarà oggetto di particolare approfondimento.
L’argomento di indagine potrebbe, complessivamente, essere definito così:
quali caratteristiche peculiari assume il processo in cui è parte un soggetto
“debole”. Ancora: che cosa può e che cosa invece non può fare il soggetto
“debole” in quanto parte processuale; chi ha il compito di sostituirlo o di
fornirgli assistenza nel processo; che rilievo assume, nel procedimento, la sua
condizione di infermità o di incapacità.
Due puntualizzazioni preliminari sono d’obbligo.
Innanzitutto, l’indagine abbraccia un settore che è in profonda evoluzione.
La legge 9 gennaio 2004, n. 6 ha operato una riforma di ampio respiro delle
misure a protezione dei soggetti deboli: ha introdotto un nuovo istituto,
l’amministrazione di sostegno, ed ha operato una riscrittura dell’interdizione e
dell’inabilitazione. La riforma ha investito non solo gli aspetti sostanziali degli
istituti, novellando il capo I ed il capo II del titolo XII del codice civile, ma ha
anche modificato la loro dimensione processuale, e quindi la disciplina
contenuta nel codice di rito. Buona parte dei punti che si tratteranno – in
particolare, tutto il capitolo terzo – hanno dunque un riferimento normativo
molto recente, e molte questioni hanno un assetto ancora da definirsi, dei
contorni ancora in fieri. Di un quadro instabile e in trasformazione si può
parlare, a maggior ragione, alla luce di un nuovo progetto di riforma, che presto
sarà al vaglio delle camere: si tratterà di una riforma, se possibile, ancora più
radicale di quella del 2004.
La seconda puntualizzazione da fare è la seguente: i temi che si
2
tratteranno non sembrano costituire oggetto di particolare interesse per la
dottrina. In particolare, della capacità di agire delle persone e degli aspetti
sostanziali degli istituti di protezione si sono occupati alcuni civilisti, che da ben
prima della riforma del 2004 avevano evidenziato i punti di forza e (soprattutto)
di debolezza del sistema. Molte parole sono state spese, poi, sulla legge di
riforma e sull’istituto dell’amministrazione di sostegno, in particolare sulla sua
disciplina sostanziale, che è stata ed è tuttora, se così può dirsi, “sotto i
riflettori”: ma anche in questo caso ad occuparsene è stata una nicchia di autori
particolarmente sensibili a tali temi.
Se ci si sposta sul piano processuale il dibattito, come una rete le cui
maglie si distanziano, si fa più rado. La riforma del 2004 ha destato l’attenzione
di alcuni processualcivilisti, ma lo scambio di opinioni è discontinuo,
frammentato: molto è stato detto su una singola questione, quale quella del
patrocinio nel procedimento di amministrazione di sostegno, e quasi nulla su
altre importanti problematiche. Praticamente ignorata è, poi, la tematica della
rilevanza processuale dell’incapacità naturale; del tutto trascurate e, così,
sottovalutate le questioni di carattere costituzionale che essa racchiude.
Anche
i
profili
comparatistici
dell’argomento
non
risultano
particolarmente approfonditi: si danno alcuni scarni contributi sulle misure di
protezione dei soggetti deboli vigenti negli ordinamenti europei, ma oggetto di
attenzione è solo la dimensione sostanziale, mentre nulla viene detto sulla
disciplina processuale.
Se le due puntualizzazioni appena effettuate si sommano – la profonda
evoluzione che investe il settore da un lato, e la scarsa attenzione del mondo
giuridico dall’altro – ne risulta un’indagine piuttosto complessa, un quadro
molto articolato e poco lineare, in cui spesso si calpestano terreni poco battuti.
Di conseguenza, non si effettuerà una dissertazione ordinata su istituti o su
concetti dai tratti ben delineati; non si adotterà un approccio sistematico, ma
piuttosto problematico, per riflettere sulle numerose questioni ancora aperte.
3
4
CAPITOLO I
L’INCAPACE LEGALE COME PARTE NEL PROCESSO
SOMMARIO:
A) L’INTERDETTO NEL PROCESSO DI INTERDIZIONE: 1. Il giudizio
d’interdizione: capacità e legittimazione dell’interdicendo – 2. Il giudizio di revoca
dell’interdizione prima della legge 6/2004. – 3. (segue) Dopo la legge 6/2004. – 4. Il principio
della domanda nei giudizi di interdizione e di inabilitazione.
B) L’INTERDETTO NEI GIUDIZI
VERTENTI SU DIRITTI NON PATRIMONIALI: – 5. I diritti personalissimi e il problema della
loro azionabilità. – 6. Azione di divorzio: può l’interdetto agire in giudizio? – 7. (segue) La
soluzione della Cassazione. – 8. Autorizzazione ad interrompere le cure e questioni di
legittimazione.
Sezione A): L’INTERDETTO NEL PROCESSO DI INTERDIZIONE
1. Il giudizio d’interdizione: capacità e legittimazione dell’interdicendo.
La sentenza di interdizione determina la perdita della capacità di agire, e
quindi anche della capacità processuale, da parte del soggetto destinatario del
provvedimento. L’art. 421 c.c. prevede che tali effetti si producano
immediatamente, sin dalla pubblicazione della sentenza, senza neanche dover
attendere il passaggio in giudicato. Da questo momento in poi è preclusa
all’incapace – divenuto incapace legale – ogni valida attività negoziale e
processuale.
Vi è, tuttavia, un’importante eccezione a tale regola generale, prevista dal
codice civile sin dalla sua stesura originaria. L’eccezione è espressa dall’art. 716
c.p.c., inserito fra gli articoli che trattano del procedimento di interdizione. Tale
disposizione prevede che l’interdicendo, cioè il soggetto che al termine del
processo di interdizione sarà eventualmente dichiarato incapace legale,
5
conservi integra la propria capacità processuale ed integro il potere di
compiere gli atti processuali in tale processo. Non solo, perché altrimenti si
potrebbe obiettare che non vi è nulla di eccezionale in ciò, osservato che nessun
effetto può prodursi in capo all’interdicendo fino a quando non c’è
pubblicazione della sentenza: nel potere di compiere da solo tutti gli atti
processuali, l’art. 716 c.p.c. comprende anche le impugnazioni, che il soggetto –
ora interdetto – potrà esperire in via del tutto autonoma. Anche qualora, nel
corso del processo, sia stato nominato un tutore provvisorio dell’incapace ai
sensi dell’art. 419 co. 3, limitatamente a tale giudizio la capacità processuale
dell’interdicendo non viene toccata, e il tutore provvisorio non assume, in tale
contesto, le vesti di rappresentante processuale1.
La Cassazione ha più volte colto l’occasione per spiegare questa
previsione normativa: l’esigenza è quella di assicurare piena tutela all’interesse
del soggetto a mantenere integra la propria capacità di agire, “quale interesse
primario, inerente alla sfera dei diritti della personalità dell’individuo”2. Questa
esigenza, prosegue la Corte, non sarebbe soddisfatta appieno se il soggetto
fosse privato della capacità processuale proprio nel giudizio che decide sulla
sua capacità.
Il
ragionamento
della
Cassazione
è
chiaro
e
condivisibile:
un
procedimento destinato a concludersi con una sentenza tanto invasiva per il
destinatario, non può privarlo di una capacità – quella processuale – prima
ancora che sia divenuto definitivo il provvedimento che lo costituisce come
incapace.
È interessante notare come la Corte parli di “esigenza di tutelare l’interesse a
mantenere integra la propria capacità”. Può sembrare ovvio: l’interdicendo è
interessato a conservare la propria capacità, dunque gli sia consentito di
difendersi appieno. Pare ovvio, eppure questa impostazione stride molto con
l’idea di interdizione come strumento di protezione: dottrina e giurisprudenza
Cfr. sul punto VENCHIARUTTI, La protezione civilistica dell’incapace, Milano, 1995, p. 198.
Così si esprime la Corte di cassazione in Cass., sent. 4 luglio 1967, n. 1643, in Giust. Civ., 1967, I,
p. 1616.
1
2
6
sono solite parlare di strumenti di tutela degli incapaci, di protezione dei
soggetti deboli, del tutore che, attraverso l’istituto della rappresentanza, tutela
l’interdetto e cura i suoi interessi.
Viene da chiedersi se l’interdizione sia un istituto, ma anche un
procedimento, a favore o contro l’incapace. Questa domanda apre orizzonti fatti
di dibattiti sconfinati e di perplessità non ancora sopite, ma che è opportuno
non risvegliare completamente. L’impressione è che oggi l’interdizione
infastidisca ed imbarazzi quasi tutti: gran parte della dottrina, che da oltre
vent’anni la condanna come obsoleta e stigmatizzante; la giurisprudenza, che la
applica sempre meno di frequente, ricorrendo invece al nuovo strumento
dell’amministrazione di sostegno, più agile ed attento alle esigenze della
persona. La riforma attuata dalla legge 6/2004, però, la ha lasciata in vita, pur
con modifiche e ritocchi; e nonostante tutto c’è ancora chi ritiene, in ambedue
gli altri formanti, che la vecchia, odiata interdizione sia ancora utile, in certi
casi3.
Da un punto di vista processuale, il procedimento di interdizione è
sempre stato oggetto di confronti e di scontri: il nucleo da cui tutte le
discussioni si dipartono è la questione dell’interesse tutelato. Qui si torna alla
domanda che viene spontaneo porsi, cioè chi o che cosa tuteli l’interdizione, e
contro chi o contro cosa si ponga.
Se si osserva l’interdizione attraverso la lente del processo, si riescono a
mettere a fuoco gli scopi che il legislatore ha inteso attribuire all’istituto 4. Si
prendano in esame i numerosi elementi di natura inquisitoria che
caratterizzano tale giudizio: poteri ufficiosi del giudice molto incisivi,
intervento
necessario
del
pubblico
ministero,
esame
dell’interdicendo
Cfr. le perplessità espresse da CHIARLONI, Prime riflessioni su alcuni aspetti della disciplina
processuale dell’amministrazione di sostegno, in FERRANDO (a cura di), L’amministrazione di
sostegno. Una nuova protezione dei soggetti deboli, Milano, 2005, p. 153-154; parimenti, rItiene
l’interdizione ancora indispensabile MARTINELLI, , Interdizione e amministrazione di sostegno, in
FERRANDO (a cura di), ult. cit., p. 140-141.
4 TOMMASEO, Sui profili processuali dell’interdizione e dell’inabilitazione, in Giur. It., 1987, IV, p.
202.
3
7
obbligatorio ma più simile ad un’ispezione giudiziale; chi propone la
domanda, con ricorso, non è chiamato a prendere conclusioni ma solo ad
esprimere pareri5 (art. 717 c.p.c.). A potenziare questo quadro vi era,
originariamente (prima della riforma del 2004), un ulteriore elemento:
l’interdizione aveva natura obbligatoria, per cui essa doveva essere pronunciata
(art. 414) tutte le volte che se ne ravvisassero le condizioni (e cioè una
permanente infermità mentale tale da rendere impossibile il manifestarsi di una
volontà libera e consapevole).
Da tali caratteristiche emerge chiaramente che sarebbe un “fallace luogo
comune”6 scorgere nell’interdizione (soltanto) una forma di tutela degli incapaci.
L’analisi del processo di interdizione mostra che essa è anche altro, soprattutto
altro. Essa è anzitutto strumento di tutela di un interesse pubblico: l’interesse
dell’ordinamento al normale svolgimento del traffico giuridico e dei rapporti
intersoggettivi, all’osservanza della disciplina dei rapporti contrattuali, al
rispetto delle regole di convivenza sociale.
Un soggetto che si pone al di fuori della regole di convivenza sociale e non
osserva la disciplina dei rapporti contrattuali desta preoccupazione ed allarme
nella società: il legislatore ha individuato nell’interdizione uno strumento per
arginare, per contenere questo allarme. Per questo il dettato originario del
codice civile prevedeva che, ricorrendone i presupposti, l’interdizione doveva
essere pronunciata. Per questo i poteri ufficiosi del giudice sono così pregnanti
che in pratica egli non è chiamato a decidere sulla base di una domanda di
parte in senso tecnico, ma sulla semplice base della sussistenza di una
situazione oggettiva (i presupposti della pronuncia), di cui i legittimati
all’azione costituiscono mere “fonti d’informazione”7. Con il ricorso introduttivo,
ha affermato un’illustre dottrina, non viene esercitato alcun diritto soggettivo
Così si esprime TOMMASEO, Sui profili processuali dell’interdizione e dell’inabilitazione, cit., p.
204.
6 Queste sono, nuovamente, le parole di TOMMASEO, Sui profili processuali dell’interdizione e
dell’inabilitazione, cit., p. 204.
7 TOMMASEO, ult. cit., ivi.
5
8
d’azione, semplicemente si mette al corrente il giudice che ci sono le
condizioni per provvedere8. È come se si trattasse, diceva già Chiovenda9, di un
processo diretto contro l’incapace, e non in suo favore.
Fino alla riforma del 9 gennaio 2004, un atro elemento rafforzava questa
lettura: l’art. 417 c.c. non prevedeva, nell’elenco dei legittimati a chiedere
l’interdizione, lo stesso infermo di mente. Oltre a p.m., tutore o curatore,
coniuge, parenti ed affini, non figurava l’incapace. Il silenzio della legge veniva
interpretato da parte della dottrina e da una pressoché costante giurisprudenza
come un’evidente esclusione10.
Un infermo psichico non poteva dunque chiedere la propria interdizione;
conservava la capacità processuale, quella sì, una volta che il giudizio fosse
stato instaurato da parte di uno dei legittimati, elencati all’art. 417 c.c.. È certo
che, in quest’ottica, l’interdizione perdeva anche il più esile valore di
protezione: quale protezione si poteva realizzare, se il soggetto da proteggere
non poteva richiederla, e doveva invece attendere l’iniziativa di qualcun altro
(per esempio sollecitando il p.m.)? Come rileva qualcuno, solo concependo il
procedimento più come una sanzione che come una forma di tutela poteva
giustificarsi tale esclusione11.
Vi era, d’altro canto, una parte minoritaria della dottrina che, fuori dal
coro, riteneva impensabile che il legislatore, non menzionando l’infermo, avesse
inteso negare la sua legittimazione ad agire12. Costoro argomentavano dal fatto
che moltissime norme non dicono solamente perché “non ce n’è bisogno”: e
infatti, essi si chiedevano come era possibile escludere dal novero dei legittimati
Così affermava già REDENTI, Natura del processo d’interdizione e conseguenze sulle spese, in Scritti
e discorsi giuridici di un mezzo secolo, I, Milano, 1962, p. 596.
9 CHIOVENDA, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1965, p. 320: egli parla di “volontà di
legge da attuare contro l’interdicendo”.
10 Così ad esempio BRUSCUGLIA, L’interdizione per infermità di mente, Milano, 1983, p. 417 ss.;
allo stesso modo PESCARA, Interdizione e inabilitazione, in Trattato di diritto privato, diretto da
RESCIGNO, III, 4, Torino, 1982, p. 736.
11 Questa perplessità è sollevata da NAPOLI, L’infermità di mente, l’interdizione, l’inabilitazione.
Artt. 414-432, in Il codice civile. Commentario, diretto da SCHLESINGER, Milano, 1995, p. 170.
12 Di questa opinione era, ad esempio, SATTA, Commentario al codice di procedura civile, IV, I,
Milano, 1968, sub art. 712, p. 330; quindi anche NAPOLI, L’infermità di mente, l’interdizione,
l’inabilitazione, cit., p. 170 ss.
8
9
i soggetti che in primis erano portatori dell’interesse diretto alla dichiarazione
giudiziale di incapacità13. Ma quale sia l’interesse in gioco, si è visto, tutto è
fuorché una domanda dalle risposte univoche.
La legge n. 6 del 2004, apportando rilevanti modifiche alla disciplina
dell’interdizione e dell’inabilitazione, è intervenuta a fugare ogni dubbio in
tema di legittimazione: il nuovo articolo 417 c.c. ha operato un rinvio agli
articoli 414 e 415 c.c. ed ha così incluso esplicitamente l’interdicendo e
l’inabilitando tra i soggetti legittimati alle azioni. Un soggetto può oggi
validamente proporre ricorso chiedendo di essere interdetto; oltre che
conservare la capacità processuale e la legittimazione a compiere gli atti del
processo d’interdizione, ora egli è anche positivamente legittimato ad agire per
richiederla.
La modifica, da un punto di vista pratico, non ha forse un rilievo
fondamentale (i casi di soggetti che si rivolgono al giudice per chiedere la
propria interdizione erano e restano obiettivamente pochi). La novella, tuttavia,
è stata salutata con favore perché dà riconoscimento ad uno degli interessi in
gioco (che comunque non è il solo), e pare delineare una nuova fisionomia
dell’interdizione, più orientata ad una reale protezione dell’infermo che non
alla sua esclusione dalla società civile14.
Certamente, chi già prima si era espresso in favore della legittimazione
dell’infermo, perché la riteneva l’unica cosa possibile e ragionevole, si sarà
chiesto se era proprio necessario un intervento del legislatore per avvallare ciò
che pareva così ovvio.
2. Il giudizio di revoca dell’interdizione prima della legge 6/2004.
Così si esprime NAPOLI, L’infermità di mente, l’interdizione, l’inabilitazione, cit., p. 170 ss.
Questo è quanto sostiene BARCA, La riforma dell’interdizione e dell’inabilitazione, in
FERRANDO-LENTI (a cura di), Soggetti deboli e misure di protezione: amministrazione di sostegno e
interdizione, Torino, 2006, p. 311.
13
14
10
È utile ripetere che, anche prima dell’intervento legislativo del 2004,
parte della dottrina riteneva che gli articoli in tema di legittimazione (in
particolare gli artt. 417 c.c., 716 e 720 c.p.c.) dovessero essere interpretati in un
senso meno letterale, perché non era possibile che il legislatore volesse
escludere proprio i soggetti che intendeva, con tali istituti, tutelare. Il
ragionamento era pressappoco questo: se tali soggetti sono portatori di un
interesse diretto alla dichiarazione giudiziale di incapacità (elemento questo,
come visto nel paragrafo precedente, tutt’altro che pacifico), allora essi devono
essere compresi fra i legittimati; se il legislatore non li ha espressamente
menzionati è perché era talmente ovvio che fosse così, che non c’era bisogno di
una esplicita previsione.
Questa logica veniva applicata, alla stessa maniera, in riferimento alla
domanda di revoca di interdizione e inabilitazione. Della revoca trattano gli
articoli 429 e 430 c.c., nonché l’art. 720 c.p.c.. L’art. 429 c.c. afferma che la revoca
dell’interdizione o dell’inabilitazione può essere chiesta, e disposta, “quando
cessa la causa dell’interdizione o dell’inabilitazione”. L’instaurazione di tale giudizio
si basa sul mutamento di un presupposto di fatto: il venir meno dell’infermità
totale o parziale di mente che aveva condotto alla sentenza di interdizione,
ormai passata in giudicato. La revoca si spiega con un principio che sta alla base
del sistema delle incapacità “dichiarate”(o legali): quello della tendenziale
corrispondenza fra incapacità legale, dichiarata dal giudice, ed incapacità
naturale – l’incapacità di intendere e di volere di cui all’art. 428 c.c.. Il principio,
d’altra parte, è in linea con quello della reversibilità della causa di incapacità15.
L’art. 720 c.p.c. rimanda, per la disciplina del giudizio di revoca
dell’interdizione o dell’inabilitazione, alle norme stabilite per la pronuncia di
esse. Dal punto di vista processuale, dunque, la dichiarazione di interdizione e
la revoca di essa non si discostano: la domande si propongono con ricorso, e il
giudizio è di quel tipo prima descritto, avente caratteristiche marcatamente
Per approfondire questo tema, v. NAPOLI, L’infermità di mente, l’interdizione, l’inabilitazione,
cit., p. 313.
15
11
inquisitorie16. La prospettiva, rispetto al giudizio di interdizione, ovviamente
è invertita, ma gli interessi in gioco sono gli stessi: accanto ad un interesse
individuale del soggetto c’è sempre, a fare da contrappeso, quello pubblico,
della collettività, che spesso può essere di segno opposto al primo.
Della legittimazione attiva a chiedere la revoca dell’interdizione parlano
due articoli: uno esplicitamente, l’altro mediante un richiamo alla disciplina
sulla pronuncia dell’interdizione. In modo esplicito lo fa l’art. 429 c.c., che
elenca i soggetti che possono chiedere la revoca: coniuge, parenti, affini,
curatore o tutore, pubblico ministero; non vi è menzione del soggetto interdetto
o inabilitato. In maniera implicita lo fa l’art. 417 c.c. che, pur riferendosi alla
pronuncia di interdizione, in ragione del rinvio operato dall’art. 720 c.p.c. può
riguardare anche il giudizio di revoca della stessa. Neppure l’articolo 417 c.c.,
fino alla legge 9 gennaio 2004 n.6, come descritto nel paragrafo precedente,
includeva fra i legittimati l’interdicendo e l’inabilitando; quindi, coerentemente,
non includeva neppure i medesimi soggetti fra i legittimati alla revoca, una
volta che la pronuncia fosse passata in giudicato.
Tuttavia, parte della dottrina ed anche qualche sentenza delle corti di
merito, a partire dagli anni ‘70, si sono pronunciate per l’ammissibilità della
istanza di revoca presentata da parte dell’interdetto o dell’inabilitato.
Meno controverso è stato il riconoscimento della legittimazione
all’inabilitando: la Suprema Corte, già negli anni ’50, afferma che egli subisce
soltanto una limitazione della capacità legale, non una perdita totale, dunque
egli può presentare ricorso per la revoca, purché assistito dal proprio
curatore17.
Assai più sfaccettato è stato il dibattito concernente la (legittimazione alla)
revoca dell’interdizione. Da presupposti letterali così schiaccianti, in senso
Le caratteristiche inquisitorie del procedimento sono menzionate nel paragrafo precedente,
facendo particolare riferimento a quanto sostenuto da TOMMASEO, Sui profili processuali
dell’interdizione e dell’inabilitazione, cit., p. 201 ss.
17 La sentenza con cui la Cassazione giunge ad affermare ciò è Cass., sent. 10 aprile 1953, n. 939,
in Giust. Civ., 1953, p. 1192.
16
12
negativo, come gli articoli sopra esaminati (429 c.c., e 417 c.c. letto assieme al
720 cpc dall’altro) parrebbe difficile discostarsi. Due sono state le vie seguite:
1) considerare la revoca uno degli “atti del procedimento (di interdizione),
comprese le impugnazioni”, che per espressa previsione dell’art. 716 c.p.c.
l’interdicendo può compiere da solo. Così la domanda di revoca rientra fra uno
degli atti del processo, anzi viene assimilata ad una impugnazione18;
2) intendere l’art. 417 c.c. non come una tassativa elencazione dei
soggetti legittimati a chiedere la pronuncia dell’interdizione, e quindi anche la
revoca della stessa, bensì come l’estensione ad altri soggetti di una
legittimazione che non può non spettare all’interdetto stesso, guardando
all’organicità del sistema.
Entrambe queste vie sono state seguite dal tribunale di Parma, in una
sentenza del 1974, che è interessante descrivere brevemente19. Il fatto:
un’interdetta fa istanza per la revoca della propria interdizione, il suo tutore
interviene ed obbietta che ella non è legittimata. Il tutore sostiene ciò
unicamente sulla base dell’implicito richiamo dell’art. 417 c.c., in tema di
legittimazione attiva per la pronuncia dell’interdizione; non si menziona
l’articolo 429 c.c..
Il ragionamento della corte si fonda su questo assunto: escludere
l’interdetto dalla legittimazione a) porterebbe
a conseguenze assurde, b)
sarebbe frutto di un’interpretazione erronea dell’art. 417 c.c. e dell’art. 720 c.p.c..
L’interpretazione dell’art. 417 c.c. come elenco tassativo dei legittimati sarebbe,
secondo la Corte, semplicistica e gratuita, in rispetto di un principio – “ubi lex
voluit dixit, ubi noluit tacuit” – che si rivela essere in questo caso falso e
fuorviante; infatti l’art. 417 c.c. non è altro che un’estensione ad altri soggetti
(quelli ivi elencati) di una legittimazione che spetta in primis proprio
all’interdetto; l’art. 417 c.c. non lo menziona perché “non ce n’era bisogno”, ed
infatti esistono molti altri esempi di norme che non dicono una cosa perché la
Per tutti, SORACE, voce “Interdizione (Dir. Proc. Civ.)”, in Enc. dir., XXI, Milano, 1971, p. 953
ss.
19 Trib. Parma, 14 febbraio 1974 (sent.), in Giur. it., 1974, 1, II, 898 ss.
18
13
presuppongono come già presente nell’organicità del sistema; lo stesso art. 716
c.p.c. fa salva la capacità dell’interdicendo anche in riferimento alle
impugnazioni; se la revoca non è tecnicamente un’impugnazione, ad essa è
comunque assimilabile da un punto di vista sostanziale, al di là di ogni
formalismo; sarebbe assurdo che l’interdetto potesse appellare la sentenza di
interdizione, ma non agire per la revoca; sarebbe assurdo perché, se così fosse,
l’interdetto sarebbe in completa balìa del proprio tutore, interessato
probabilmente ad escludere la revoca20.
Questo, in estrema sintesi, il filo logico seguito dalla Corte. Essa critica
ogni formalismo ed ogni interpretazione letterale degli articoli in questione,
contesta gli “pseudo-concetti logici” che fino ad allora avevano portato ad
escludere l’interdetto dalla legittimazione alla revoca, e si fa paladina degli
interessi della persona umana, che “non cessa di essere il più alto valore21”.
La sentenza in esame desta moderato interesse: consensi da quella
dottrina che già in precedenza si era espressa a favore della legittimazione,
critiche da altra parte. Da un punto di vista assiologico il ragionamento della
Corte è lodevole ma, si obbietta, il dato normativo non è superabile così
facilmente. Le critiche mosse alla sentenza sono state le seguenti:
- essa fa riferimento solamente all’art. 417 c.c., in tema di pronuncia di
interdizione, perché richiamato dall’art. 720 c.p.c.; non si capisce invece perché
non venga neppure menzionato l’art. 429 c.c., che in modo specifico dice chi può
chiedere la revoca, e non nomina l’interdetto; questo dato non può essere
scavalcato guardando all’organicità del sistema;
- la revoca non può considerarsi un mezzo di impugnazione (che
l’interdetto è legittimato dall’art. 720 c.p.c. ad esperire), perché essa si riferisce
esclusivamente ad un momento successivo alla formazione del giudicato sulla
pronuncia di interdizione, e quindi ad un momento in cui tale pronuncia già fa
In questi termini si espime SATTA, Commentario al codice di procedura civile, Milano, 1968, p.
351.
21 Questa l’espressione utilizzata nella sentenza dal Tribunale di Parma: v. nota (19).
20
14
stato nei confronti dell’interdetto22.
Ciò che può fare l’interdetto, conclude chi critica, è informare il giudice
tutelare ai sensi dell’art. 429 c.c. co. 2, il quale, dopo un’adeguata attività di
vigilanza, se ritiene siano cessati i presupposti di fatto che avevano portato alla
pronuncia dell’interdizione, informerà a sua volta il pubblico ministero perché
chieda la revoca.
Questo, tuttavia, pare un po’ poco se si considera che l’interdetto è il
portatore dell’interesse diretto alla revoca e che, nella prassi, è assai difficile che
il giudice tutelare disponga dei mezzi e dei collaboratori idonei per effettuare
un’efficace attività di vigilanza.
3. (segue) Dopo la legge 6/2004.
Ci si chiede se il quadro sia cambiato, in tema di legittimazione
dell’interdetto alla revoca, dopo la riforma contenuta nella legge n. 6 del 2004.
Facciamo il punto della situazione, alla luce delle novità introdotte da tale
legge, e alla luce di quanto invece è rimasto invariato:
a) art. 417 c.c. come modificato: lo stesso infermo, futuro destinatario del
provvedimento, è stato legittimato a chiedere la dichiarazione giudiziale di
interdizione o di inabilitazione, cioè il provvedimento di cui sarà destinatario;
b) art. 406 co. 1 c.c. come modificato: è attribuita la legittimazione attiva
per
domandare
l’istituzione
dell’amministrazione
di
sostegno
anche
all’interdetto e all’inabilitato, che la richiedano in proprio favore;
c) art. 406 co. 2 c.c. come modificato: il ricorso per l’istituzione
dell’amministrazione di sostegno in capo ad un soggetto già interdetto od
inabilitato deve essere presentato congiuntamente all’istanza di revoca
dell’interdizione o dell’inabilitazione;
Le critiche sono riassunte da D’ERCOLE in Giur. it., 1974, 1, II, 898-900, che commenta la
sentenza in questione.
22
15
d) l’art. 720 c.p.c., che non è stato toccato dalla riforma, continua a
prevedere che per la revoca dell’interdizione e dell’inabilitazione si osservano le
norme stabilite per la pronuncia di esse;
e) le modifiche apportate all’articolo 429 c.c., che tratta in maniera
specifica della revoca, non hanno sfiorato la disciplina della legittimazione ivi
contenuta: fra i soggetti menzionati ancora non compaiono l’interdetto e
l’inabilitato.
Non si dice nulla di controverso se si afferma che la riforma non è riuscita
a fare maggior chiarezza. Certo, chi ritiene palese che gli interdetti e gli
inabilitati siano legittimati, ha oggi maggiori punti appoggio. In primis, il rinvio
(720 c.p.c.) alla disciplina della pronuncia dell’interdizione o inabilitazione
richiama anche la disciplina della legittimazione a richiederle, nella sua nuova
versione estesa ai futuri destinatari (417 c.c.). Inoltre, in forza di una proprietà
transitiva,
se
l’interdetto
è
legittimato
a
chiedere
l’istituzione
dell’amministrazione di sostegno nei suoi confronti (406 co. 2); se tale richiesta
deve essere accompagnata dalla richiesta di revoca dell’interdizione; allora si
può concludere che l’interdetto è legittimato a chiedere la revoca della sua
interdizione23. La conclusione non tiene conto però di un dato presente in
premessa: l’interdetto è sempre legittimato alla revoca? Oppure, come parrebbe
da un’applicazione più precisa della proprietà transitiva, solo quando,
congiuntamente alla revoca, richiede l’istituzione dell’amministrazione di
sostegno?
Chi invece, anche prima della riforma, contestava la legittimazione
dell’interdetto alla revoca, ha ancora un dato testuale in cui trovare sostegno:
l’articolo 429 c.c., chiarissimo ed immutato.
4. Il principio della domanda nei giudizi di interdizione e di
Per esempio CALÒ, Amministrazione di sostegno, legge 9 gennaio 2004, n.6, Milano, 2004, p. 13,
che tuttavia non nega che “bisogna fare i conti” col fatto che l’art. 429 c.c. non è stato modificato
in punto di legittimazione.
23
16
inabilitazione.
Ci si è occupati finora di alcuni effetti che conseguono alla dichiarazione
di incapacità, dopo la pronuncia della sentenza di interdizione, sul versante del
processo: l’incapacità processuale dell’interdetto, fatta eccezione per alcune
capacità speciali, e la legittimazione processuale che spetta al tutore per la
generalità dei casi.
Si è accennato anche al fatto che i giudizi cui tale incapacità consegue, cioè
quelli di interdizione e di inabilitazione, presentano delle peculiarità dal punto
di vista delle dinamiche processuali e delle forze vengono in gioco: si tratta di
giudizi di tipo fortemente inquisitorio, in cui il giudice ha ampi poteri di
indagine e di decisione, e in cui si sommano (o si scontrano) due interessi
eterogenei, uno individuale, l’altro della collettività.
La Corte d’appello di Milano, nel 2001, viene chiamata a decidere se uno
dei principi fondamentali del processo civile, cioè il principio della domanda,
sia da riferirsi anche a tali giudizi24. Il dibattito che questa questione viene ad
aprire o meglio, a riaprire dopo decenni di scontri dottrinali, non è di poco
conto, perché ha a che vedere con la natura che s’intende attribuire a questi
processi.
Il pubblico ministero presso il tribunale presenta ricorso e chiede, in via
alternativa, l’interdizione ovvero l’inabilitazione di un soggetto. Viene
compiuta
l’istruttoria:
si
procede
all’esame
obbligatorio
dell’interdicendo/inabilitando e viene espletata pure una c.t.u. psichiatrica,
volta ad accertare le condizioni mentali del soggetto. In sede di precisazione
delle conclusioni il p.m. ricorrente modifica la propria richiesta: chiede la sola
inabilitazione, espungendo la richiesta alternativa di interdizione. Il Tribunale,
tuttavia, pronuncia l’interdizione. A questo punto il soggetto, ora interdetto,
propone appello – e lo può fare perché, si ricorda, egli conserva la propria
capacità nel giudizio d’interdizione, anche per le impugnazioni. Egli lamenta
24
App. Milano, 7 marzo 2001, in Fam. dir., 2002, 2, p. 184.
17
due vizi della sentenza di primo grado, entrambi conducenti ad un’erronea
dichiarazione di interdizione in luogo dell’inabilitazione: il primo di rito, che
consisterebbe nell’ultrapetizione e nella violazione del principio della domanda;
il secondo di merito, perché gli esiti dell’esame e le indicazioni mediche offerte
dalla c.t.u. erano nel senso di ritenere sufficiente l’inabilitazione.
Il caso, si è detto, scoperchia il vaso di pandora: la diatriba sulla natura
volontaria
oppure
contenziosa
del
procedimento
di
interdizione
e
inabilitazione.
Sul fronte della dottrina le opinioni espresse sono molto variegate. Tutto
dipende da quali caratteristiche del procedimento si vogliono sottolineare: la
dottrina
maggioritaria
lo
ha
incluso
nella
giurisdizione
volontaria,
sottolineando come: a) non sia riscontrabile l’esercizio di un’azione, che faccia
seguito alla lesione di un diritto soggettivo; b) non vi sia una domanda in senso
tecnico, ma una mera “denuncia processuale” simile a quelle previste dall’art.
345 c.c. per l’apertura della tutela, a seguito della quale il procedimento
prosegue con caratteristiche di ufficiosità ed inquisitorietà25. Su questa linea,
ma con una lieve variazione sul tema, altri esponenti della dottrina hanno
inquadrato il procedimento nell’ambito della giurisdizione “a contenuto
oggettivo”, evidenziandone la finalizzazione alla tutela di un interesse pubblico
e la doverosità della pronuncia qualora ricorrano determinate circostanze
oggettive26. Altri ancora hanno definito il procedimento come “misto” ma con
una struttura dominante di tipo contenzioso, evidenziando come si tratti di
processi a struttura partecipativa, in cui le parti non rivestono un mero ruolo di
informazione al servizio di un giudice con poteri ufficiosi illimitati: esse
Così tradizionalmente, e per tutti, SATTA, Commentario al codice di procedura civile, IV,
Procedimenti speciali, I, Milano, 1968, p. 329. Per gli altri esponenti della dottrina che hanno
sostenuto la tesi della giurisdizione volontaria cfr. VENCHIARUTTI, La protezione civilistica
dell’incapace, cit., p. 170.
26 Così TOMMASEO, Sui profili processuali dell’interdizione e dell’inabilitazione, in Giur. it., 1987,
IV, p. 205, e I processi a contenuto oggettivo, in Riv. Dir. Civ., 1988, parte I, p. 495 ss. – parte II, p.
685 ss..
25
18
provocano, bensì, un contraddittorio vero e proprio27.
Dalle opinioni appena esposte è facile rilevare come nei processi di
interdizione ed inabilitazione convivano, si consenta l’espressione, due anime; e
che questa convivenza sia fatta di intersezioni, sovrapposizioni ed adattamenti.
Tracciata la cornice del discorso, è opportuno chiedersi che ruolo rivesta il
principio della domanda in questo contesto dalle molteplici sfumature; in
particolare, che ruolo rivesta tale principio nella sua particolare accezione di
corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato. La domanda cui la Corte
d’appello di Milano era chiamata a rispondere è questa: se debba il giudice
attenersi strettamente a quanto le parti chiedono, pena il vizio di ultrapetizione
della sentenza, come avviene nei procedimenti contenziosi; oppure se non sia
limitato strettamente dalla domanda contenuta nel ricorso, dovendo la sua
decisione esclusivamente basarsi su presupposti oggettivi normativamente
individuati.
La Corte distingue, nei procedimenti di interdizione e inabilitazione, due
fasi: quella di ricerca ed acquisizione della prova, da un lato, e quella
dell’instaurazione del giudizio, dall’altro. Con riferimento alla prima
prevarrebbero gli elementi di volontarietà e di ufficiosità; i poteri ufficiosi del
giudice non si estenderebbero invece alla seconda. Infatti, rammenta la Corte, il
tribunale non può aprire d’ufficio un procedimento, né una mera segnalazione
o denuncia da parte di un privato o persino del pubblico ministero è sufficiente,
ma serve che uno di essi assuma “le vesti formali di ricorrente”. Il ricorrente, come
parte istante, deve delineare e anzi delimitare in maniera precisa sia l’oggetto sia
il titolo su cui il ricorso si fonda (cioè petitum e causa petendi). Riassumendo: il
carattere di oggettività del procedimento non inciderebbe sulla definizione
della domanda nei suoi elementi costitutivi, che è attività soltanto della parte
ricorrente, sia essa parte privata ovvero parte pubblica.
La prova univoca di questo ragionamento è individuata dalla Corte
Lo stesso TOMMASEO, Sui profili processuali dell’interdizione e dell’inabilitazione, cit., ammette e
fa rilevare questa contaminazione dei due modelli di giurisdizione. Cfr. VENCHIARUTTI, La
protezione civilistica dell’incapace, cit., p. 170, per tutte le posizioni espresse dalla dottrina.
27
19
nell’art. 418 c.c., che precisa quali siano i poteri dell’autorità giudiziaria nei
procedimenti in esame. I commi da analizzare sono solamente il primo e il
secondo: il terzo è stato introdotto nel 2004 dalla legge n. 6 ed è relativo
all’amministrazione di sostegno, e ai rapporti fra questa e i giudizi di
interdizione e inabilitazione28.
Il raffronto fra il primo ed il secondo comma sembra davvero costituire la
chiave di volta della questione. Il primo prevede che se vi è istanza di
interdizione, il giudice può decidere se pronunciare l’interdizione o
l’inabilitazione, in base a quanto ritenga più idoneo; questa valutazione di
maggiore idoneità si fonda sugli elementi emersi in istruttoria. Il legislatore
concede in questo caso ampi poteri ufficiosi al giudice.
Il secondo comma descrive l’ipotesi contraria, cioè quella dell’interdizione
pronunciata a fronte di una domanda d’inabilitazione – quella, dunque, del
caso all’attenzione della Corte. Questa ipotesi è circondata da una serie di
cautele, che per il caso inverso non sono previste: non è sufficiente una
valutazione del giudice di maggior idoneità della pronuncia di interdizione, è
necessario invece che il pubblico ministero formuli una specifica istanza, e che a
questa istanza faccia seguito un’apposita istruttoria. La nuova istanza del p.m.
non sarebbe, dunque, un mero stimolo ad un potere che il giudice potrebbe
esercitare in ogni caso d’ufficio: sarebbe una nuova domanda, senza la quale il
giudice che pronunciasse l’interdizione emetterebbe una sentenza viziata.
Il trattamento differenziato che il legislatore riserva alle due ipotesi ha
delle motivazioni che sono abbastanza intuitive. Un primo motivo, espresso
anche dalla Corte, attiene alla maggiore afflittività dell’interdizione, che incide
in maniera più forte (anzi pressoché totale) sulla capacità del soggetto rispetto
alla pronuncia di inabilitazione. Sarebbe impensabile in effetti, e in odore di
incostituzionalità, ritenere che d’ufficio, senza che nessuno lo richieda, un
soggetto si veda privato della capacità di agire nella misura massima, quando la
Tale disposizione sarà oggetto di esame nel capitolo III, in cui specificamente ci si occuperà
dell’amministrazione di sostegno.
28
20
richiesta avanzata era un’altra.
C’è anche, però, un motivo più strettamente processuale, che ha vedere
con i concetti di petitum e di continenza di cause. È stato osservato, in dottrina,
come la differenza che intercorre fra la dichiarazione d’interdizione e quella
d’inabilitazione sia essenzialmente di tipo quantitativo: la domanda di
inabilitazione sarebbe contenuta in quella di interdizione, secondo un rapporto
insieme-sottoinsieme29. Per questo sarebbe consentito al giudice di pronunciare
l’inabilitazione anche se il ricorso fosse stato presentato per l’interdizione, non
contravvenendo al principio della domanda. Contiene invece un vizio di
ultrapetizione la pronuncia d’interdizione che oltrepassa i limiti della richiesta.
Nel caso di specie, il p.m. inizialmente presenta una richiesta alternativa:
interdizione o inabilitazione. Poi corregge in sede di precisazione delle
conclusioni, ed espunge la prima. Quest’operazione è ritenuta dalla Corte del
tutto legittima: l’istruttoria proprio a questo serve, a verificare se vi siano le
condizioni oggettive per interdire un soggetto. Il pubblico ministero, a seguito
dell’esame dell’interdicendo, a seguito dell’espletamento di una consulenza
psichiatrica, si rende probabilmente conto che per quel soggetto è sufficiente la
misura dell’inabilitazione; legittimamente - anzi doverosamente, se si rispetta il
criterio della maggior adeguatezza della misura – corregge la richiesta. Può
farlo, perché è in sede di precisazione delle conclusioni che le parti manifestano
in modo preciso e definitivo le loro conclusioni, sulla base di quanto è emerso
in fase di trattazione ed istruzione30. L’omessa riproposizione di una domanda
nell’udienza di precisazione delle conclusioni, è, secondo la giurisprudenza
prevalente, presunzione – iuris tantum – di rinuncia alla stessa.
Il principio della domanda, in conclusione, è ritenuto pienamente
applicabile nei giudizi d’interdizione e di inabilitazione. Tale principio
investirebbe due profili: innanzitutto, il profilo del contraddittorio e del diritto
di difesa, confermando che un soggetto mai potrebbe essere interdetto laddove
29
30
Cfr. FALCIANO, Giudizio d’interdizione e principi processuali, in Fam. dir., 2002, 2, p.188
V., per tutti, MANDRIOLI, Diritto processuale civile, II, Torino, 2000, p. 142.
21
nei suoi confronti sia stata avanzata solo la richiesta d’inabilitazione; inoltre,
quello della necessaria corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, sancito
dall’art. 112 c.p.c., la cui violazione integra il vizio di ultrapetizione della
sentenza.
22
Sezione B): L’INTERDETTO NEI GIUDIZI VERTENTI SU DIRITTI NON
PATRIMONIALI
5. I diritti personalissimi e il problema della loro azionabilità.
I casi che saranno affrontati di seguito riguardano la legittimazione del
tutore con riferimento a diritti del tutelato che non hanno natura patrimoniale,
bensì personale: i cosiddetti diritti personalissimi. È opportuno, per accostarsi a
questi casi, capire che caratteristiche abbiano tali diritti e che peculiarità
presentino quando vengono accostati all’istituto della rappresentanza.
La dottrina ha da tempo enucleato, nell’ambito dei diritti soggettivi, la
particolare categoria dei diritti della personalità, o diritti personalissimi: essi
scaturiscono da disposizioni fondamentali della Costituzione a tutela della
persona, ma anche da convenzioni internazionali e, ancor prima, dai principi
generali inviolabili. Sono diritti soggettivi assoluti, non patrimoniali, che
presentano le caratteristiche dell’indisponibilità, irrinunzialbilità, inalienabilità,
imprescrittibilità31. Oltre ai diritti tipici della personalità (diritto al nome,
all’immagine, alla salute, ecc.), vi rientrerebbero anche i cd. diritti familiari:
quelli di cd. libertà familiare (ad esempio il diritto di contrarre e sciogliere
matrimonio) e quelli di cd. solidarietà familiare (diritto alla fedeltà, alla
coabitazione, all’assistenza morale e materiale, agli alimenti)32. Gli atti
attraverso cui tali diritti si estrinsecano prenderebbero anch’essi il nome di atti
personalissimi: per loro stessa natura richiederebbero di essere posti in essere
esclusivamente dai soggetti nella cui sfera giuridica producono i loro effetti,
cioè dai titolari dei relativi diritti. Si tratterebbe, dunque, di atti che non
sopportano l’intermediazione di un rappresentante33.
Sui diritti personalissimi e sulle loro caratteristiche si fa, qui, soltanto un accenno. Per un
approfondimento, v. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1983, p.
50 ss.
32 La distinzione fra diritti di libertà familiare e di solidarietà familiare è stata teorizzata da
BIANCA, Diritto civile, Milano, 1985, p. 12.
33 Il punto è, per la verità, molto delicato: per un quadro generale delle opinioni espresse in
31
23
Una conclusione parrebbe obbligata, in riferimento all’interdetto: che egli
non può, in nessun modo, compierli. Si realizzerebbe, nel caso dell’interdetto,
una vera e propria compenetrazione tra capacità giuridica e capacità di agire:
un soggetto dichiarato interdetto non solo perderebbe la capacità di compiere
gli atti necessari per il loro esercizio ma, in ragione della loro incompatibilità col
meccanismo rappresentativo, perderebbe in pratica anche la loro titolarità.
L’incapacità di agire si tradurrebbe, dunque, in incapacità giuridica34.
L’art. 357 c.c. attribuisce al tutore il compito di “cura della persona”
dell’interdetto (oltre che del minore, in base al dettato dell’art. 424 c.c.) e la
rappresentanza di quest’ultimo “in tutti gli atti civili”. Alla luce di quanto
appena affermato, la rappresentanza in tutti gli atti civile si riferirebbe ai soli
atti di natura patrimoniale35. Questa conclusione varrebbe, allo stesso modo, sia
per gli atti sostanziali che per l’attività processuale: nelle azioni a carattere
personale, e non patrimoniale, la rappresentanza del tutore non potrebbe
operare;
l’incapacità
processuale
dell’interdetto
si
tradurrebbe
nell’impossibilità assoluta di agire in giudizio36.
Vi sono, tuttavia, delle ipotesi legislative in cui pare che il tutore possa far
valere in giudizio dei diritti personali del tutelato. L’art. 245 c.c. prevede che il
tutore possa promuovere l’azione di disconoscimento di paternità per
l’interdetto; egli può, in base all’art. 264 c.c., essere autorizzato ad impugnare il
riconoscimento in nome del figlio interdetto o, ex art. 273, essere autorizzato a
chiedere la dichiarazione giudiziale di paternità in nome del tutelato; può
impugnare il matrimonio dell’interdetto ex art. 119 c.c., se il tutelato era già
stato interdetto al tempo del matrimonio o se solamente sussisteva l’infermità
mentale. La legge 140/78, all’art. 13, prevede che il tutore possa richiedere al
dottrina, v. VENCHIARUTTI, La protezione civilistica dell’incapace, cit., p. 303.
34 Così afferma, giustificando in maniera puntuale, CICCHITELLI, La capacità dell’interdetto di
esercitare le azioni relative allo status coniugale, in Giust. Civ., 2001, I, 4, p. 2754.
35 Questo è quanto afferma, per tutti, STELLA RICHTER, L’istituto del divorzio in Italia e le
esperienze giuridiche europee, Milano, 1976, cit., p. 82.
36 Sempre STELLA RICHTER, L’istituto del divorzio in Italia e le esperienze giuridiche europee, cit., p.
82.
24
giudice tutelare l’autorizzazione all’aborto per la donna interdetta.
Gli interpreti si sono spesso confrontati sulla natura e il significato da
attribuire alle ipotesi appena menzionate: in particolare, il dibattito è sorto dal
confronto con la previsione generale dell’art. 357 c.c.: in essa si parla di “atti
civili”, e l’intento sembra quello di limitare la rappresentanza del tutore ad essi,
ma al contempo attribuisce al tutore il compito di “cura della persona”. Se da un
lato la norma pare restringere l’ambito della funzione sostitutiva del tutore,
dall’altro vi affianca un’espressione dalla vocazione onnicomprensiva, che pare
invece estenderla37.
Questi rilievi hanno portato gli interpreti a dividersi. Così sono state
intese tali disposizioni:
a) come ipotesi eccezionali in cui il tutore esercita un diritto
personalissimo dell’interdetto, in deroga al principio per cui la
rappresentanza legale del tutore è limitata ai soli atti di natura
patrimoniale: questa è la tesi tradizionale, che a contrario deduce la
generale non legittimazione del tutore a porre in essere atti
personalissimi a tutela dell’interdetto38;
b) come semplici estrinsecazioni del potere-dovere di cura della
persona ex art. 357 c.c.: questa originale posizione troverebbe
parziale riscontro in una recente pronuncia della Cassazione, che ha
ricompreso nel potere/dovere di cura che spetta al tutore anche il
potere di esprimere o rifiutare il consenso al trattamento
terapeutico39.
Un’ulteriore possibile lettura, che si pone su altro piano rispetto alle
precedenti, potrebbe essere quella di intenderle come ipotesi – certo eccezionali
e tassative – in cui vi è un potere di azione scollegato dalla situazione
Così GRAZIOSO, Su la legittimazione attiva e la rappresentanza processuale dell’interdetto infermo
di mente in relazione all’azione di divorzio, in Dir. Fam., 2001, 4, p. 1425.
38 Così STELLA RICHTER, L’istituto del divorzio, cit., p. 82.
39 Cfr. quanto sostenuto da App. Milano, 31 dicembre 1999, in Foro it., 2000, I, 2022; in tale
direzione anche GRAZIOSO, Su la legittimazione attiva e la rappresentanza processuale dell’interdetto
infermo di mente in relazione all’azione di divorzio, cit., p. 1427.
37
25
sostanziale sottostante: il legislatore legittima il tutore in via straordinaria ad
agire per tutelare un interesse pubblico; non opererebbe quindi, in base a questa
ricostruzione, il meccanismo della rappresentanza processuale.
Tutti queste ragioni saranno trattate, nei paragrafi successivi, in
riferimento a diverse problematiche processuali che coinvolgono diritti
personali del tutelato: l’azione di divorzio; la legittimazione del tutore alla
richiesta di autorizzazioni per compiere atti che incidono profondamente sul
diritto alla salute dell’interdetto.
6. Azione di divorzio: può l’interdetto agire in giudizio?
In base ad un’espressa previsione normativa, l’interdetto non può
contrarre matrimonio (art. 85 c.c.). Da un lato, ciò rientra nelle ordinarie
conseguenze della perdita della capacità di agire – e quindi della capacità a
contrarre – che l’interdizione comporta. Dall’altro, questa incapacità è più forte
delle altre, perché essendo il matrimonio un negozio cd. “personalissimo”,che
può essere compiuto solo ed esclusivamente dal titolare del diritto, neppure
l’intervento del tutore come rappresentante legale può sopperirvi: all’interdetto
questa possibilità è preclusa in via assoluta.
La pronuncia di interdizione può anche intervenire dopo il matrimonio: in
questo caso la problematica si sposta sulle azioni relative allo scioglimento del
vincolo matrimoniale, in particolare sull’azione di divorzio. La domanda che
qui ci si pone è cosa succede in tema di legittimazione e di rappresentanza
quando, intervenuta la pronuncia di interdizione dopo il matrimonio, uno dei
due coniugi intenda chiedere il divorzio.
Se l’azione è proposta dal coniuge non interdetto, nei confronti del
coniuge interdetto che quindi sta nel processo in veste di convenuto, l’art. 4 co.
5 della l. 898/1970, come rinovellata, prevede l’obbligo a carico del Presidente
del tribunale, di nominare un curatore speciale all’interdetto convenuto; la
26
stessa previsione vale anche nel caso di convenuto infermo di mente non
interdetto40. Il coniuge interdetto sarebbe dotato di legittimazione passiva
(legitimatio ad causam) ma non, ovviamente, di capacità processuale: il suo
rappresentante processuale per questa specifica azione sarebbe non il tutore,
come nella generalità dei casi, ma un curatore speciale appositamente
nominato.
Riguardo invece alla possibilità che sia il coniuge interdetto ad agire in
giudizio, il legislatore tace: l’art. 4 co. 5 si riferisce esclusivamente all’interdetto
convenuto. Nel vigore di tale silenzio, la giurisprudenza, fino ad una recente
pronuncia della Cassazione, si è sempre orientata nel senso di escludere la
possibilità per l’interdetto di essere parte attrice nell’azione di divorzio41. La
dottrina si è invece divisa sul punto, aprendo un acceso dibattito. Per procedere
con rigore sistematico ed evitare il rischio di sovrapporre i concetti, è opportuno
distinguere i due principali profili entro cui il dibattito si muove42:
1) la legittimazione attiva, cioè se l’interdetto possa essere titolare dell’
azione di divorzio – questo è un profilo che attiene alla legitimatio ad causam;
2)
la
rappresentanza
processuale,
ovvero
come
e
attraverso
chi
eventualmente l’interdetto possa stare in giudizio, visto che come tale è privo
della capacità processuale che gli consentirebbe di stare in giudizio
autonomamente – questo profilo attiene invece alla legitimatio ad processum.
Il primo profilo attiene all’an, il secondo al quomodo, e i due aspetti sono in
rapporto di consequenzialità: solo rispondendo positivamente alla prima
questione, cioè ritenendo configurabile la legittimazione attiva del coniuge
interdetto, è logico chiedersi chi lo rappresenti in giudizio. Entrambi gli aspetti
costituiscono presupposti processuali, ma implicano una priorità logica ben
A questa specifica disposizione, che equipara l’incapace naturale all’interdetto (incapace
legale), verrà dedicata specifica attenzione nel capitolo II, § 7.
41 Per esempio App. Napoli, 16 ottobre 1976, in Dir. Eccl., 1977, II, p. 414; anche Trib. Padova, 9
febbraio 1994, in Foro pad., 1995, I, p. 106 ha negato la legittimazione processuale del tutore nel
processo di divorzio, motivandola sulla base della natura personalissima dell’azione.
42 GRAZIOSO, Su la legittimazione attiva e la rappresentanza processuale dell’interdetto infermo di
mente in relazione all’azione di divorzio, in Dir. Fam., 2001, 4, p. 1416.
40
27
precisa.
Riguardo alla questione sub (1) la dottrina era tradizionalmente divisa su
due posizioni. Secondo alcuni, l’interdetto non era dotato di legittimazione
attiva: infatti i requisiti per contrarre sono gli stessi necessari allo scioglimento
del contratto, perciò a colui che non può contrarre matrimonio sarebbe
parimenti negata la possibilità di sciogliersi da tale vincolo43. Inoltre, anche in
base al noto principio ubi lex dixit voluit ubit tacuit noluit, si argomentava che il
legislatore della legge 898/1970 parlava chiaramente del solo interdetto
convenuto, e che la regola ivi espressa era posta in esclusiva tutela del coniuge
capace, per permettergli di portare a buon fine la propria azione senza
incappare in sanzioni di nullità o inammissibilità della domanda44. La
giurisprudenza, di legittimità come di merito, proseguiva sicura nei solchi
tracciati da tale dottrina e dal silenzio della legge.
Altra parte della dottrina, invece, criticava una soluzione che voleva
passarsi per obbligata: se la legge forniva all’interdetto la capacità di subire
l’azione di divorzio, perché egli non poteva proporla? Si sarebbe creata
un’intollerabile disparità di trattamento fra il coniuge capace ed il coniuge
interdetto, che per ottenere il divorzio sarebbe stato obbligato ad attendere
l’iniziativa altrui45. Oltre a ciò, parte della dottrina inquadrava il discorso
nell’ottica del pricipio di difesa, art. 24 Cost: sarebbe stato lasciato privo di
difesa il soggetto più debole, in quanto attore46.
All’interno di questo orientamento dottrinale, che vedeva con favore
l’attribuzione della legittimazione attiva in capo al coniuge interdetto, si davano
risposte differenziate alla questione sub 2), ossia al quomodo di stare in giudizio
Ad esempio BARBIERA, Il divorzio dopo la riforma del diritto di famiglia, in SCIALOJABRANCA, Commentario del codice civile, 1979, p. 259.
44 Uno dei principali esponenti di tale orientamento è stato BARBIERA, Il divorzio dopo la riforma
del diritto di famiglia, cit., p. 161.
45 SATTA-PUNZI, Diritto processuale civile, Padova, 1987, p. 952: l’autore pone alla base del suo
ragionamento proprio sulla disparità di trattamento che si verrebbe a creare fra i due coniugi;
ne deduce, a contrario, la legittimazione attiva del coniuge interdetto.
46 Questo è quanto fa osservare SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia. Il matrimonio,
Torino, 1978, p. 762: anche quest’autore ha sostenuto che l’interdetto è dotato di legittimazione
attiva all’azione di divorzio.
43
28
dell’interdetto-attore. Vi era chi riteneva che egli dovesse stare in giudizio a
mezzo del suo rappresentante legale, il tutore, in quanto dotato di poteri
generali di rappresentanza attinenti ad interessi non solo patrimoniali, ed in
quanto nella legge sul divorzio non era contenuto nessuno specifico divieto in
merito47. Altra parte della dottrina invece negava che la legittimazione
processuale spettasse al tutore, ponendo l’attenzione sul concetto di atti e di
diritti personalissimi: in riferimento ad essi la rappresentanza – processuale o
sostanziale – non spetterebbe al tutore. Il concetto di diritto personalissimo in
realtà, è stato utilizzato in maniera ibrida, effettuando un’operazione logica
poco rigorosa: siccome il tutore, si diceva, non ha in generale la rappresentanza
per gli atti personalissimi – e cioè non ha la legitimatio ad processum in
riferimento a tali atti –, allora l’interdetto è privo della legittimazione attiva – ad
causam – necessaria per proporre l’azione di divorzio. Così facendo, i termini
della questione venivano invertiti e la conseguenza diventava causa.
Lo scontro coinvolgeva anche il profilo passivo dell’interdetto- convenuto,
nonostante una chiara disposizione normativa – come lo è il comma 4 dell’art. 5
l. 898/70 – sembrasse dissipare ogni dubbio48. Le ragioni dell’oscillante
interpretazione data a tale disposizione risiedono in un’altra disposizione, l’art.
78 co. 2 c.p.c.: esso fissa, come presupposto per la nomina di un curatore
speciale al rappresentato, l’esistenza di un conflitto d’interessi con il
rappresentante – in questo caso, il tutore. Alla luce di tale norma, il fronte della
dottrina si era diviso anche su questo punto: da un lato, chi riteneva che la
nomina di un curatore speciale ad hoc per l’interdetto-convenuto fosse sempre
obbligatoria49; dall’altro, chi invece sosteneva che la nomina del curatore
sarebbe stata necessaria solo nel caso di conflitto di interessi fra l’interdetto e il
proprio tutore (per esempio, si supponga, l’altro coniuge), mentre nel caso di
SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia. Il matrimonio, Torino, 1978, p. 762.
Cfr. sul punto, quanto riportato da GRAZIOSO, Su la legittimazione attiva e la rappresentanza
processuale dell’interdetto infermo di mente in relazione all’azione di divorzio, cit., p. 1414: l’autore
descrive in maniera sintetica il quadro complessivo delle opinioni espresse in dottrina sul
punto.
49 Di quest’opinione A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, Milano, 1988, III, p. 239.
47
48
29
assenza di conflitto il tutore avrebbe potuto assumere le consuete vesti di
rappresentante processuale dell’interdetto-convenuto50.
7. (segue) La soluzione della Cassazione.
Finora si è parlato al passato. Il dato legislativo non ha subito modifiche,
ma nel 2000 la Cassazione si è pronunciata su questi temi in una direzione che è
stata definita “assolutamente innovativa”51. Richiamando la traccia sistematica
seguita finora, si può così schematizzare la decisione della Corte:
1) l’interdetto è dotato di legittimazione attiva a proporre l’azione di
divorzio;
2) egli agisce in giudizio a mezzo di un curatore speciale, come
rappresentante processuale ad hoc nominato dal giudice.
È utile ricostruire le dinamiche processuali e riportare le motivazioni che
hanno condotto alla sentenza in esame52. Il tutore di un interdetto, in veste di
suo rappresentante legale, propone la domanda di divorzio per il suo
rappresentato; i giudici di merito, il tribunale prima e la Corte d’appello poi,
rigettano in rito la domanda dichiarandone l’improponibilità; la parte attrice fa
ricorso per cassazione. I motivi che conducono il giudice dell’appello alla
dichiarazione di irricevibilità, e quelli su cui il ricorrente fonda l’impugnativa
per cassazione sono, per la maggior parte, simmetrici, cioè opposti: risulta
agevole analizzarli congiuntamente per enucleare i punti più delicati del
contraddittorio fra l’attore e le Corti.
Il punto primo ruota attorno al nebbioso concetto di diritti personalissimi.
Secondo la Corte d’appello, la generica rappresentanza attribuita dall’art. 357
Per tutti, TOMMASEO, Commento all’art. 4 l. 898/70, in CIAN-OPPO-TRABUCCHI,
Commentario al diritto italiano della famiglia, Padova, 1993, VI, I, p. 273.
51 In questi termini valuta la sentenza GRAZIOSO, Su la legittimazione attiva e la rappresentanza
processuale dell’interdetto infermo di mente in relazione all’azione di divorzio, cit., p. 1413.
52 Cass., sent. 21 luglio 2000, n. 9582, in Dir. Fam., 2001, 4, p. 1404.
50
30
c.c. al tutore dell’interdetto non si estende agli atti relativi ai diritti
personalissimi. È vero che la legge, in casi tassativi e peculiari, conferisce al
tutore la rappresentanza anche per taluni di questi atti (artt. 245, 264, 273 c.c.),
ma ciò non fa altro che confermare la natura eccezionale, tassativa e non
residuale, di queste particolari ipotesi. Il ricorrente mette in dubbio che una tale
categoria di diritti esista: oltre alle disposizioni del codice che attribuiscono la
rappresentanza al tutore per il compimento di atti di natura personale e non
patrimoniale (gli stessi articoli menzionati dalla Corte), l’art. 126 c.c. prevede
che il giudice anche d’ufficio possa disporre la separazione personale dei
coniugi interdetti, e siccome ciò che è valido per la separazione vale anche per
l’azione di divorzio, allora non può certo ritenersi personalissimo un diritto
esercitabile anche ‘ufficio.
Punto secondo: l’art. 119 c.c., in base al quale il tutore può impugnare il
matrimonio dell’interdetto, sempre in veste di rappresentante legale di costui,
per vizio del consenso del rappresentato. È curioso notare come questo articolo
inspiegabilmente sia portato a sostegno di due tesi contrapposte. La Corte
d’appello sostiene che l’espressa previsione della legittimazione del tutore ad
impugnare il matrimonio per vizi originari del consenso, implicitamente
esclude la legittimazione alla generale richiesta di scioglimento, fondata su
eventi sopravvenuti dopo l’atto-contratto di matrimonio. Il ricorrente,
all’opposto, afferma che se al tutore è riconosciuta la possibilità di impugnare il
matrimonio, a maggior ragione non dovrebbe essergli negata quella di agire per
il divorzio.
Punto terzo: il legame esistente fra capacità di contrarre e capacità di
sciogliere il contratto. La Corte d’appello sottolinea il parallelismo fra
l’incapacità dell’interdetto a contrarre e la conseguente incapacità a sciogliere il
vincolo matrimoniale. Il ricorrente, sostenuto dalle affermazioni di gran parte
della dottrina53, afferma all’opposto che la simmetria tra dette incapacità è da
Per esempio, tradizionalmente, SATTA-PUNZI, Diritto processuale civile, cit., p. 952 ; così
anche SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia. Il matrimonio, cit., p.762.
53
31
ritenersi valida in riferimento ai minori, ma non agli interdetti giudiziali. In
effetti una differenza c’è, perché ben poteva contrarre chi all’epoca del
matrimonio non era ancora interdetto ma lo sarebbe divenuto successivamente,
sicché in questo caso più che di simmetria si dovrebbe parlare di asimmetria fra
le due attività: capacità di obbligarsi e impossibilità a svincolarsi.
Il ricorrente aggiunge ulteriori motivi di impugnazione, e in particolare
sostiene: che se l’interdetto può subire l’azione di divorzio in base all’art. 4 co. 5
l. 898/70, non si comprende perché non possa proporla in via di azione; che se
gli si negasse la legittimazione attiva si produrrebbe un’ingiusta disparità di
trattamento fra i coniugi, considerato che il coniuge interdetto non potrebbe far
altro che attendere l’iniziativa allo scioglimento del vincolo da parte del
coniuge capace; che questa disparità produrrebbe l’illegittimità costituzionale
degli artt. 150 c.c. e 4 e 5 della l. 898/70 per violazione del principio di
uguaglianza e del diritto di difesa, sanciti rispettivamente dagli art. 3 e 24 Cost..
Viene sollevata, quindi, questione di legittimità costituzionale in riferimento ai
suddetti articoli.
La Cassazione rigetta tutti i motivi di ricorso. La decisone della Suprema
Corte è, certo, innovativa; ma lo è solo in parte. Di nuovo, risulta utile
distinguere fra legitimatio ad causam dell’interdetto (1) e legitimatio ad processum
del tutore (2).
1) La novità della pronuncia si manifesta su questo punto. La Corte, con
un’interpretazione che essa stessa definisce “adeguatrice”oltre che analogica,
estende l’applicazione della norma contenuta nell’art. 4 co 5 all’ipotesi in cui sia
il coniuge interdetto ad agire per il divorzio. Effettivamente, se non si
riconoscesse all’interdetto la possibilità di chiedere il divorzio (ovviamente a
mezzo di un rappresentante) si realizzerebbero delle disparità di trattamento:
non solo nei confronti del coniuge capace, ma anche rispetto all’interdettoconvenuto. Ciò sarebbe del tutto ingiustificato, perché la legittimazione
dell’interdetto sarebbe concessa, o viceversa negata, sulla base di un elemento
accidentale, quale la volontà ed il comportamento processuale dell’altro
32
coniuge.
L’eccezione
di
incostituzionalità
viene
rigettata,
perché
quest’interpretazione adeguatrice la supera e priva di utilità un’eventuale
pronuncia additiva di incostituzionalità. In questo modo viene garantito
all’interdetto un “diritto al divorzio” a trecentosessanta gradi, indipendente
dalla sua posizione processuale e soprattutto indipendente dal contegno
dell’altro coniuge.
2) La Corte stabilisce che la rappresentanza processuale dell’interdetto per
l’azione di divorzio non spetti al tutore, che l’art. 357 c.c. individua come
generico rappresentante sia su piano sostanziale che processuale: tale generica
previsione non comprende gli atti personalissimi. Su questo punto la Corte
richiama le argomentazioni del giudice di merito sopra riportate: il fatto che nel
codice civile vi siano particolari disposizioni che espressamente, in via
eccezionale e tassativa, attribuiscono al tutore la rappresentanza per specifici
atti di natura personale (ad esempio gli artt. 245, 264, 273 c.c.) non fa che
dimostrare la generale non-operatività della rappresentanza del tutore in
riferimento a tali atti. La legge stabilisce che l’interdetto-convenuto sia
rappresentato da un curatore speciale nel giudizio di divorzio: così deve
avvenire anche per l’interdetto-attore, cui il presidente del Tribunale nomina un
curatore ad hoc che lo rappresenti in quel processo.
Sul punto (2) la Corte si è dimostrata più conservatrice. Essa ha destato le
critiche di chi riteneva fosse “più logico” che si affermasse la legittimazione
processuale del tutore, come rappresentante generale dell’interdetto, anche nel
giudizio di divorzio; e che si riservasse la nomina del curatore speciale al solo
caso di conflitto di interessi fra interdetto e tutore, come parrebbe più plausibile
da una lettura congiunta dell’art. 4 co. 5 l. 898/70 e del comma 2 dell’art. 78
c.p.c.54. Oltre che più plausibile, sia permesso di aggiungere, parrebbe anche
più opportuno e conveniente, a patto che si considerino come valori l’economia
processuale e la semplificazione. La Corte invece sancisce l’obbligatorietà della
Per esempio GRAZIOSO, Su la legittimazione attiva e la rappresentanza processuale dell’interdetto
infermo di mente in relazione all’azione di divorzio, cit., p. 1413 ss., nel suo commento alla sentenza
critica duramente la decisone “conservatrice” della Cassazione.
54
33
nomina
di
tale
curatore
speciale,
indipendentemente
dalla
verifica
dell’esistenza di un conflitto di interessi col tutore.
Non manca chi ha criticato la sentenza in riferimento al suo profilo più
innovativo, quello che ha affermato la legittimazione attiva dell’interdetto. Sono
stati analizzati due commenti alla sentenza in esame, ed essi esprimono pareri
radicalmente opposti: l’uno appoggia la soluzione innovativa sub (1) e contesta
la decisione sub (2), nei termini prima descritti55; l’altro, al contrario, ritiene la
soluzione sub (2) del tutto condivisibile, e invece disapprova l’estensione della
legittimazione attiva all’interdetto56.
Anche quest’ultima critica merita di essere menzionata. La soluzione della
Corte, benché condivisibile dal punto di vista dell’equità e dell’accettabilità
sociale, si fonda su operazioni logiche poco trasparenti57. Due sono gli elementi
che si contestano: il primo riguarda l’interpretazione analogica che la Corte
effettua, il secondo attiene all’asserita disparità di trattamento (con pericolo di
violazione dell’art. 3 Cost.) fra coniuge capace e coniuge interdetto.
L’estensione analogica non è consentita per le norme di carattere
eccezionale, ex art. 14 delle preleggi: ciò che bisogna chiedersi è se l’art. 4 co. 5 l.
898/70 sia norma di carattere eccezionale rispetto ad una disciplina più
generale. La norma generale è costituita dal comma 2 dell’art. 78 c.p.c., che
prevede la nomina del curatore speciale nel solo caso di conflitto di interessi fra
tutore e interdetto. Ora, in base alla soluzione data dalla stessa Corte al punto
(2), l’art. 4 co. 5 l. 898/70 è da interpretarsi nel senso che la nomina del curatore
ad hoc è sempre obbligata e l’assenza di conflitto d’interessi non rileva; se ne
GRAZIOSO, Su la legittimazione attiva e la rappresentanza processuale dell’interdetto infermo di
mente in relazione all’azione di divorzio, cit., p. 1413 ss.
56 CICCHITELLI, La capacità dell’interdetto di esercitare le azioni relative allo status coniugale, cit., p.
2757 ss.
57 Lo stesso GRAZIOSO, Su la legittimazione attiva e la rappresentanza processuale dell’interdetto
infermo di mente in relazione all’azione di divorzio, cit., p. 1413 ss., benché ritenga che la sentenza in
commento rappresenti “un importante passo, nel senso di riconoscere la legittimazione
processuale attiva dell’interdetto all’azione divorzile” (e dunque esprima una valutazione
opposta a quella di CICCHITELLI, ult. cit.), ritiene discutibile l’interpretazione analogica
effettuata dalla Corte, sulla base di una “frettolosa e sostanzialmente immotivata
disapplicazione dell’art. 14 delle preleggi”.
55
34
deduce il carattere speciale, derogatorio, della norma. La coerenza avrebbe
voluto che si scegliesse una di queste due strade, alternativamente:
a) interpretare l’art. 4 co. 5 conformemente all’art. 78 c.p.c. co. 2, come
necessità di nomina del curatore subordinata alla verifica del conflitto
d’interessi, e quindi legittimamente effettuare un’interpretazione analogica
“adeguatrice”che consente anche al coniuge interdetto di agire per chiedere il
divorzio;
b) se si interpreta l’art. 4 co. 5 nel senso che un curatore speciale va
nominato sempre e comunque, allora l’estensione in via analogica della norma
all’interdetto-attore è da escludersi, e nessuna apertura è consentita, per quanto
costituzionalmente adeguata e socialmente accettabile.
Quanto all’asserita disparità di trattamento, che la Corte afferma di
rimuovere con un’interpretazione costituzionalmente orientata, non è mancata
questa obiezione: che il trattamento è diverso perché la situazione del coniuge
interdetto e quella del coniuge capace sono diverse; che “l’interdetto è una persona
in tutto e per tutto uguale alle altre ma ha perso, suo malgrado, un bene preziosissimo:
la salute mentale”58.
L’interdetto dichiarato tale dopo la celebrazione del matrimonio si vede
privato della capacità giuridica come qualsiasi altro interdetto giudiziale, con
l’unica differenza che la sopravvenuta incapacità va a toccare anche le
situazioni giuridiche determinate dallo status matrimoniale. La Corte, con
motivazioni “buoniste”, forse attente alle problematiche sociali ma poco alla
coerenza giuridica, non si rende conto di quanto sia pericoloso parlare di
disparità di trattamento in un siffatto contesto, perché allora molte delle
preclusioni dettate dalla legge per gli interdetti sarebbero “in odore di
incostituzionalità”59.
Così si esprime CICCHITELLI, La capacità dell’interdetto di esercitare le azioni relative allo status
coniugale, cit., p. 2756: l’autore si mostra fortemente critico verso la decisione in esame e verso le
motivazioni che la Corte adduce, forse appaganti sul piano della razionalità sociale e politica,
ma del tutto prive di congruenza giuridica.
59 Di nuovo CICCHITELLI, La capacità dell’interdetto di esercitare le azioni relative allo status
coniugale, cit., p. 2756.
58
35
8. Autorizzazione ad interrompere le cure e questioni di legittimazione.
Ecco un altro caso che si snoda per sentieri sdrucciolevoli, quelli dei diritti
personalissimi, del conflitto di interessi di cui al comma 2 dell’art. 78 c.p.c., e di
una legittimazione contesa: fra il tutore, come rappresentante legale generale,
ed un curatore nominato ad hoc.
Il delicatissimo scenario in cui il fatto si compie vede una donna
interdetta, da anni in coma vegetativo permanente, e suo padre, che è anche il
suo tutore; questi chiede al giudice l’autorizzazione per interrompere le cure
della figlia, e in particolare l’alimentazione artificiale, facendo rilevare
l’irreversibilità delle sue condizioni. La domanda viene rigettata dalle Corti di
merito: non perché il tutore non sia legittimato, ma perché il trattamento per cui
si richiede l’autorizzazione è considerato illegittimo. Il padre-tutore fa ricorso
per cassazione60.
L’elemento procedurale da cui la decisione prende le mosse è la mancata
notificazione del ricorso, da parte del tutore-ricorrente, ad alcun contraddittore;
questo difetto viene rilevato dal Procuratore generale, che eccepisce
l’inammissibilità del ricorso. La Corte si rifà ad un proprio precedente, in cui
aveva affermato che l’avvenuta notificazione del ricorso è normalmente un
requisito di ammissibilità dello stesso61. Normalmente, nel senso che in un
procedimento di natura non contenziosa, unilaterale, in cui non sia in gioco
altro interesse che quello del ricorrente, è ovvio che il ricorso non debba – anzi,
non possa – essere notificato ad alcuno.
La Corte si chiede se in questo caso siano individuabili interessi
contrapposti a quelli del ricorrente, che comportino la notificazione del ricorso a
chi ne è portatore: risposta affermativa. Il controinteressato sarebbe la stessa
60
61
Cass., ord. 20 aprile 2005, n. 8291, in Fam. dir., 2005, 5, p. 481.
Cass., sent. 27 aprile 2002, n. 6167, in Foro it., 2002, I, 3139.
36
figlia inferma.
Vi sarebbe, secondo la Corte, un conflitto fra l’interesse del tutore e quello
della persona sottoposta a tutela: un conflitto per lo meno potenziale, nel senso
che le rispettive concezioni della vita e della morte potrebbero non coincidere, e
ciò che il tutore intende chiedere per la tutelata potrebbe essere difforme da ciò
che la tutelata vuole per sé. Atteso che questi interessi potrebbero essere di
segno opposto, la norma da applicarsi è l’art. 78 c.p.c., che di fronte ad un
conflitto d’interessi tutore-tutelato prevede la nomina di un curatore speciale in
capo a quest’ultimo. Il ricorrente, quindi, avrebbe dovuto notificare il ricorso al
controinteressato, cioè al curatore speciale, in quanto rappresentante speciale
degli interessi dell’interdetta.
La Corte emette ordinanza di inammissibilità del ricorso per mancata
notifica al controinteressato. Essa non si pronuncia né sulla legittimità della
richiesta, nè sulla legittimazione del tutore (profili che possono peraltro essere
sovrapposti perché, comunque il discorso sia formulato, si tratta di capire che
cosa rientri nell’ambito della cura della persona di cui parla l’art. 357 c.c.).
Questi profili sono questioni di merito, dice la Corte, e in quanto tali non
possono essere oggetto d’esame in sede di ricorso per cassazione.
È stato analizzato un commento fortemente critico nei confronti delle
posizioni espresse dalla Corte nell’ordinanza62: in verità, queste critiche
sembrano così fondate da meritare un approfondimento. A rigor di logica (ma
forse, di una logica troppo spontanea e troppo poco sofisticata per il giudice di
legittimità) parrebbe che la Cassazione avesse di fronte a sé le seguenti
alternative: rigettare, ritenendo il trattamento illegittimo o il difetto di
legittimazione del tutore; accogliere, affermando che il trattamento è legittimo e
che il tutore risulta legittimato a richiederlo.
La Corte non percorre alcuna di queste vie, ma si fa strada per intricati
sentieri, che indubbiamente hanno il vantaggio, dice chi critica, di sottrarsi
Il commento alla sentenza che è stato analizzato è quello di FIGONE, Poteri del tutore, diritti del
malato in coma vegetativo e questioni processuali, in Fam. dir., 2005, 6, p. 674.
62
37
all’acceso dibattito che in questi anni coinvolge l’etica, la medicina e il diritto.
Il primo nodo da sciogliere è che cosa significhi conflitto di interessi ex art.
78 c.p.c.. Esso è da intendersi come un contrasto, anche solamente potenziale,
tra rappresentante e rappresentato, laddove il rappresentante persegua o abbia
la possibilità di perseguire un proprio fine personale, incompatibile e anzi
contrario a quello del rappresentato. Un classico caso di conflitto è quello del
rappresentante e del rappresentato comproprietari per quote di un immobile,
nel momento in cui si proceda alla divisione; oppure quello, per avvicinarci alla
fattispecie in esame, del tutore-genitore che, chiedendo una buona morte per la
figlia, aspiri in realtà all’acquisizione del suo patrimonio per successione. Esso
pare ravvisabile, insomma, in tutte quelle ipotesi in cui: a) vengono in rilievo gli
interessi propri, personali del rappresentante-tutore; b) essi potrebbero
assumere segno opposto a quelli propri dell’interdetto- rappresentato.
Quello a cui ci si trova di fronte non è un conflitto d’interessi nel senso
appena descritto, che è in realtà l’unico senso da attribuire all’art. 78 co. 2 c.p.c..
Nel caso esaminato pare sussistere, semmai, una “divergenza valutativa dell’atto
da compiere”63, fra ciò che il tutore ritiene giusto per il tutelato e ciò che il
tutelato ritiene, o meglio riterrebbe se fosse nelle condizioni di esprimere la
propria volontà, giusto per sé. Tuttavia questa divergenza valutativa, a ben
vedere, non sembra rientrare fra le “patologie” del rapporto tutore-tutelato:
essa è ravvisabile anche nei casi in cui il legislatore espressamente legittima il
tutore ad esercitare diritti personalissimi del tutelato (si pensi nuovamente alle
previsioni degli artt. 119, 245, 264, 273 c.c.). Lo stesso padre-tutore avrebbe
potuto chiedere, previa autorizzazione, l’annullamento del matrimonio della
figlia interdetta ex art. 119 c.c.: e magari la figlia avrebbe desiderato, invece,
mantenere in vita il vincolo matrimoniale.
Oltre alle ipotesi previste dal codice, si pensi a quella descritta dall’art. 13
della legge 22 maggio 1978, n. 194, in base alla quale il tutore è legittimato a
Rende bene l’idea l’espressione utilizzata da FIGONE, Poteri del tutore, diritti del malato in coma
vegetativo e questioni processuali, cit., p. 674.
63
38
chiedere al giudice tutelare l’autorizzazione all’aborto per la donna interdetta:
di nuovo, non è escluso che vi siano divergenze valutative fra ciò che il tutore
chiede e ciò che la donna, per ipotesi in stato vegetativo (com’ è nel caso in
esame) vorsrebbe, se solo si potesse esprimere.
A queste divergenze di valutazione, tuttavia, il legislatore non fa
conseguire la nomina di un curatore speciale: le considera, probabilmente,
fisiologiche e non patologiche, questioni di certo delicate che sono parte del
delicato ruolo del tutore.
La ricostruzione della fattispecie come conflitto d’interessi, quindi, non
pare corretta. Si assuma, tuttavia, che lo sia, e che sia nominato un curatore
speciale all’interdetta applicando l’art. 78 c.p.c.: quale sarebbe il suo ruolo?
Verrebbe da dire, il ruolo di chi assume la rappresentanza dell’incapace in
relazione allo specifico atto per cui è nominato; di colui che si sostituisce al
tutore per il compimento di un atto determinato. Non è questa, però, la risposta
data dalla Corte. Ecco l’iter argomentativo che essa segue: si doveva nominare
un curatore speciale; questi doveva esser messo nelle condizioni di partecipare
al
processo
come
contraddittore
necessario,
portatore
degli
interessi
dell’interdetta; il ricorso è inammissibile perchè il tutore non lo ha notificato al
curatore così nominato. La Corte non sembra intendere il curatore speciale
come un sostituto ad hoc del tutore, bensì piuttosto come un “contraddittore
dell’istante, portavoce di chi non è in grado di esprimere la sua volontà”. Nello stesso
processo, paradossalmente, due soggetti starebbero in giudizio in nome e per
conto dell’interdetta, ma in potenziale conflitto reciproco.
L’ultimo elemento da valutare è se effettivamente costituisca questione di
merito, insuscettibile di verifica in sede di ricorso per cassazione, la questione
della legittimazione del tutore. Rispondere a detta questione significherebbe
stabilire se l’azione esercitata sia da comprendere nel potere generale di cura
della persona, spettante al tutore in base al combinato disposto degli artt. 357 e
424 c.c.. Le critiche mosse alla sentenza sostengono che non si tratti di una
questione di fatto, come tale preclusa alla Corte, bensì di un problema di
39
interpretazione di norme giuridiche, quindi di stretto diritto64.
In base a queste considerazioni, la Corte avrebbe potuto pronunciarsi sulla
questione senza invadere la sfera del fatto, che non le spetta. Ecco le risposte
che essa avrebbe potuto dare al quesito: a) il tutore è legittimato ad agire per
richiedere l’autorizzazione a sospendere interventi non più terapeutici, ma
piuttosto di accanimento terapeutico, perché tale potere è da ritenersi compreso
nella cura (in senso lato) della persona; b) il tutore non è legittimato perché la
cura della persona di cui agli artt. 357 e 424 c.c. non può essere interpretata in
un senso così ampio, ma sono legittimati altri soggetti, per esempio i familiari
più stretti in quanto portatori, diversamente dal tutore, di sentimenti di affetto e
solidarietà nei confronti del congiunto malato; c) l’intervento per cui si chiede
l’autorizzazione è illegittimo in ogni caso, a prescindere da chi lo compia, perciò
né i familiari né tanto meno il tutore sono legittimati a richiedere
l’autorizzazione.
Così intende la questione FIGONE, Poteri del tutore, diritti del malato in coma vegetativo e
questioni processuali cit., p. 675.
64
40
41
CAPITOLO II
L’INCAPACE NATURALE COME PARTE NEL PROCESSO
SOMMARIO: 1. Premessa d’inquadramento: utilità e problemi dell’istituto dell’incapacità
naturale. – 2. Quando il ricovero in manicomio poteva sostituire l’interdizione. – 3. La
Cassazione sancisce il principio dell’irrilevanza: l’incapacità naturale di un soggetto non ne
determina l’incapacità processuale. – 4. La regola dell’irrilevanza e gli interessi in gioco. – 5.
Problematiche costituzionali: è leso il diritto di difesa dell’incapace naturale? – 6. Le soluzioni
alternative dei giudici di merito per i casi di urgenza. – 7. (segue) La nomina del curatore
speciale di cui all’art. 78 c.p.c. – 8. (segue) I “provvedimenti urgenti” del giudice tutelare. – 9.
Riflessioni e proposte: ciò che ancora non soddisfa gli interpreti .
1.
Premessa
d’inquadramento:
utilità
e
problemi
dell’istituto
dell’incapacità naturale.
L’incapacità non è solo quella accertata e dichiarata dal giudice nelle
sentenze di interdizione e di inabilitazione, che prende il nome di incapacità
legale. Il legislatore ha previsto un’altra forma di incapacità, che in dottrina si è
soliti chiamare incapacità naturale.
Essa non si fonda su alcuna dichiarazione giudiziale: consiste in una
semplice condizione di fatto, non incisa da alcun provvedimento. Se per la
dichiarazione giudiziale di interdizione o d’inabilitazione la sussistenza di una
condizione di fatto è un semplice presupposto, l’incapacità naturale è essa
stessa un fatto. In quanto fatto, il legislatore non la disciplina direttamente, ma
disciplina le sue conseguenze in vari articoli sparsi nel codice civile. Certamente
quello dotato di più ampia applicabilità è l’art. 428 c.c., che disciplina
l’impugnabilità degli atti e dei contratti conclusi da persona incapace
d’intendere o di volere.
42
Il presupposto è l’incapacità di intendere o di volere; la conseguenza è
l’esperibilità dell’azione di annullamento da parte della persona medesima, dei
suoi eredi o aventi causa. A seconda che si tratti di atto unilaterale o di contratto
poi, si sommano altri presupposti: il grave pregiudizio per l’autore, in
riferimento ai primi; per i secondi, oltre al pregiudizio serve provare la
malafede dell’altro contraente.
L’articolo parla di “incapacità di intendere o di volere”: l’una fa
riferimento alla sfera intellettiva del comprendere, l’altra alla sfera della
volontà. Le due espressioni sono accostate in maniera disgiuntiva: non occorre
il concorso di entrambe, è sufficiente la sussistenza di una sola di esse ai fini
dell’annullamento.
L’articolo in questione è uno fra i più discussi che il codice civile contenga.
Esso ha introdotto un’importante novità nell’ordinamento, perché nel vecchio
codice del 1865 non vi era traccia di una misura siffatta. Il vecchio codice si
limitava ad ammettere l’annullamento degli atti compiuti dall’interdetto
anteriormente alla pronuncia d’interdizione, in presenza di determinati
presupposti: si prevedeva solamente l’annullabilità degli atti anteriori
all’interdizione, là dove il soggetto già a quel tempo si trovasse nello stato
d’incapacità che avrebbe poi condotto alla dichiarazione giudiziale. A
disciplinare in via generale l’incapacità naturale, non seguita da interdizione,
provvedevano dottrina e giurisprudenza, che la inquadravano nella mancanza
di un elemento essenziale del negozio giuridico – il consenso - , che come tale
produce la nullità dell’atto65.
Nei primi anni successivi all’entrata in vigore dell’attuale codice, in verità,
parte della giurisprudenza e della dottrina faticava ad attribuire rilievo
giuridico all’incapacità di fatto, non seguita da alcuna pronuncia giudiziale
Questo l’orientamento maggioritario sia in dottrina che in giurisprudenza nel vigore del
codice abrogato: cfr. VENCHIARUTTI, La protezione civilistica dell’incapace, cit., p. 390. L’autore
riporta la posizione della dottrina dominante, la quale sosteneva che “là dove nel soggetto, per
disordine psichico pur momentaneo, mancava l’attitudine a comprendere la portata dell’atto e a
formare, in libertà di coscienza, la propria volontà, il negozio doveva considerarsi senz’altro
affetto da nullità”.
65
43
interdittiva e nemmeno fondata sugli stessi presupposti dell’interdizione:
perciò si applicava l’art. 428 con molta cautela, e solo nelle ipotesi in cui la
condizione d’incapacità avrebbe potuto condurre ad una pronuncia di
interdizione, se fosse stata abituale e non solo temporanea: dunque, solo nelle
ipotesi di grave infermità mentale66.
L’interpretazione della norma è progressivamente mutata. La Cassazione
ha più volte affermato che, ai fini dell’annullamento ex art. 428, non occorre
provare la sussistenza di una malattia che escluda in modo totale le facoltà
psichiche del soggetto: è necessario e sufficiente un “perturbamento psichico anche
transitorio e non dipendente da una precisa forma patologica67”, che comprometta le
facoltà intellettive o volitive del soggetto, anche senza escluderle del tutto. Per i
contratti, è sufficiente che il contraente non fosse capace, al momento della
stipulazione, “di rendersi conto delle conseguenze che gli sarebbero derivate dal
contratto”68. In questo contesto, assumono rilievo anche situazioni che di certo
non potrebbero condurre ad una pronuncia d’interdizione: anche disturbi fisici
come un trauma cranico o un’emorragia cerebrale o altre gravi malattie nonché,
secondo alcuni studiosi, anche l’ipnosi e il sonnambulismo69.
Infine, sono da rammentare le finalità dell’istituto. Anche qui entrano in
gioco le stesse forze che abbiamo visto scontrarsi nel giudizio d’interdizione: la
finalità di protezione del soggetto debole da un lato, e quella di garantire la
certezza dei rapporti giuridici. L’annullamento è previsto a tutela dell’incapace;
ma i requisiti ulteriori rispetto all’incapacità, previsti dall’art. 428 c.c. per
ottenere tale annullamento, sono posti a tutela della collettività, che chiede la
certezza dei rapporti giuridici. La prova della gravità del pregiudizio, oltre a
Cfr. VENCHIARUTTI, La protezione civilistica dell’incapace, cit., p. 398 per tutte le posizioni
espresse da dottrina e giurisprudenza. L’autore afferma che, in generale, “la protezione
dell’incapace naturale continuava ad essere intesa, da giudici e studiosi, quale rimedio concesso
all’interdetto”. Un chiaro esempio di tale prassi giurisprudenziale è Cass., 5 febbraio 1970,
n.240, in RGC, 1970, Obbligazioni e contratti, n. 18.
67 Cass. 13.11.1991, n. 12117, in Foro It., 1992, I, 2, p. 2456.
68 Cass. 13.11.1991, n. 12117, ult. cit.
69 Cfr. VENCHIARUTTI, La protezione civilistica dell’incapace, cit., p. 402 ss: l’autore fa riferimento
soprattutto all’orientamento di SACCO-DE NOVA, Il contratto, I e II, p. 367, in Il trattato di diritto
civile diretto da Sacco, Torino, 1993.
66
44
quella della malafede per i contratti, costituisce il contrappeso di carattere
pubblicistico ad un istituto di tutela individuale. Un altro elemento di
compensazione
può
essere
individuato
nella
stessa
soluzione
dell’annullamento, soggetto a prescrizione quinquennale, in luogo della nullità
assoluta. Né questa soluzione, più duttile ed efficace, toglie nulla all’esigenza di
protezione del soggetto: si ricorda, infatti, che se dopo cinque anni egli non
potrà più chiedere l’annullamento, potrà comunque eccepirlo sempre in via di
eccezione.
Finora si è parlato del ruolo che riveste l’incapacità naturale sul piano
sostanziale, e in particolare dell’incidenza di essa sugli atti di diritto sostanziale.
Ora ci si sposterà sul piano del processo. Una cosa va subito premessa: nel
codice di rito non vi è nessun articolo che, al pari dell’art. 428 c.c. o di altre
disposizioni
di
natura
sostanziale,
definisca
e
delimiti
l’incidenza
dell’incapacità naturale. Un ruolo chiarificatore è stato svolto, nel corso degli
anni, dalla giurisprudenza: in questo campo non solo la Cassazione ha avuto
una funzione importante, ma anche le corti di merito hanno integrato il dato
positivo offrendo soluzioni originali. Inoltre, pure il giudice delle leggi è stato
più volte chiamato ad esprimersi. Per queste ragioni, non si può affrontare il
discorso della rilevanza processuale dell’incapacità naturale se non analizzando
casi, discutendo esempi ed infine riflettendo sulla validità delle soluzioni
proposte. La “rassegna di giurisprudenza” che sarà offerta prenderà le mosse
da una pronuncia della Cassazione del 1968: un tempo, apparentemente
remoto, in cui l’incapace naturale era il “matto” da ricoverare in manicomio in
base alla legge 36 del 1904. I casi successivi tratteranno invece della sostanziale
irrilevanza dell’incapacità naturale nel processo, e dei problemi che essa
comporta.
2. Quando il ricovero in manicomio poteva sostituire l’interdizione.
45
La sentenza che si analizzerà è stata resa famosa da un commento, carico
di sdegno e di critiche per l’andamento della giustizia italiana, di Virgilio
Andrioli, pubblicato sul Foro italiano del 1968 in commento alla sentenza70.
Il caso all’esame della Corte è uno dei tanti sorti nel contesto di quegli
anni. Lo scenario giuridico è quello della legge 36/1904, intitolata: “Disposizioni
sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati”. Il contesto storico è
quello dei tristemente famosi manicomi e dei soggetti che lì venivano internati.
Per comprendere le vicende all’attenzione della Corte, è opportuno capire
che cosa prevedeva la legge 36/1904 per gli internati e che cosa succedeva in
pratica. All’art. 1 era previsto che dovessero essere custoditi e curati in un
manicomio i soggetti affetti da alienazione mentale per qualunque causa, se: a)
pericolosi a sé o agli altri; b) di pubblico scandalo; c) la loro custodia non fosse
agevole al di fuori dei manicomi.
Gli alienati di cui parla la legge potevano essere soggetti già interdetti o
inabilitati; oppure, e più frequentemente, persone nei cui confronti non era
intervenuta
nessuna
dichiarazione
giudiziale
di
incapacità:
quindi,
perfettamente capaci di agire. L’ammissione nel manicomio si configurava
come un vero e proprio procedimento giurisdizionale71, che si apriva con
l’istanza dei soggetti legittimati a richiederla e si chiudeva con un
provvedimento dell’autorità giudiziaria. L’ammissione provvisoria poteva
essere chiesta al pretore dai parenti, ed egli la disponeva soltanto sulla base di
un certificato medico presentato congiuntamente all’istanza. L’internamento
definitivo poteva essere deciso dal Tribunale solo in un secondo momento:
dopo un periodo di osservazione (al massimo di un mese) del soggetto
internato in via provvisoria; dopo che il direttore del manicomio avesse
presentato una relazione al p.m.; dopo che il p.m. si fosse determinato a fare
istanza, al Tribunale in camera di consiglio, per l’internamento definitivo. Si
Cass., sent. 13 maggio 1968, n. 1490, riportata con il commento di ANDRIOLI, O’miereco
d’e’pazze, in Foro it., 1968, I, pp. 2163 ss.
71 Si trattava di un tipico procedimento di giurisdizione volontaria: per un chiarimento sulla
nozione di giurisdizione volontaria, vedi cap. III, § 3.
70
46
trattava di un procedimento di natura chiaramente camerale, oggettiva, che si
svolgeva senza alcun contraddittorio.
Il provvedimento di internamento definitivo non comportava, di per se
stesso, alcuna incidenza sulla capacità di agire del soggetto, che poteva quindi
restare pienamente capace. Rientrava nella discrezionalità del giudice
l’opportunità di includere, nello stesso provvedimento, la nomina di un tutore
provvisorio per l’internato: solo in questo caso costui, benché non interdetto, si
sarebbe visto privato della capacità di agire. Quindi, si può affermare che la
perdita della capacità d’agire dell’internato era puramente eventuale e rimessa
ad una valutazione di opportunità effettuata dal Tribunale.
La nomina di un rappresentante provvisorio non è stato un elemento
peculiare dell’oggi abrogata legge 36: anche i procedimenti di interdizione e di
inabilitazione conoscono questa figura, da nominarsi anche d’ufficio, secondo
ragioni di opportunità (art. 717 c.p.c.). Una differenza tuttavia sussiste. Nel caso
dell’art. 717 c.p.c., tuttora in vigore, il rappresentante provvisorio è nominato
nel contesto del procedimento che porterà (probabilmente) alla pronuncia
giudiziale di interdizione: al rappresentante provvisorio sarà sostituito quello
definitivo, e ciò che si crea è una semplice anticipazione degli effetti che la
sentenza produrrà. Anche in base al dettato della legge 36/1904, alla nomina
del tutore provvisorio sarebbe dovuta seguire, fisiologicamente, una regolare
istruttoria finalizzata alla pronuncia dell’interdizione: così sembra affermare
l’art. 2, laddove prevede che la nomina del rappresentante provvisorio
dispieghi i suoi effetti “sino a che l’autorità giudiziaria non abbia pronunziato
l’interdizione”. Tuttavia, la nomina del tutore provvisorio rimaneva una misura
autonoma e perfettamente efficace, come chiarito dalla Cassazione nella
sentenza in esame, anche qualora il p.m., pur essendo tenuto a farlo, non avesse
successivamente promosso il ricorso per l’interdizione.
Questa ipotesi, in realtà, non era affatto eccezionale. La prassi era spesso
questa: di nominare un tutore provvisorio congiuntamente al provvedimento di
internamento definitivo, senza poi a ciò far seguire alcunché, nessuna istruttoria
47
e nessuna sentenza. Il “vantaggio” era indubbio: con un solo provvedimento,
emesso sulla base di una semplice relazione del direttore del manicomio, si
conseguivano gli stessi risultati di una pronuncia di interdizione – cioè la
privazione totale della capacità di agire – senza le seccature del lungo e
complesso procedimento d’interdizione. E senza, ovviamente, le sue garanzie:
in primis, l’esame obbligatorio dell’interdicendo da parte del giudice. Anche
quando si fosse inteso privare di effetti il provvedimento, e rendere il soggetto
nuovamente capace di agire, il procedimento era molto più snello: era
sufficiente che il Tribunale dichiarasse il licenziamento definitivo dal
manicomio su istanza del direttore o dei parenti (sentito comunque il direttore),
a fronte del procedimento di revoca dell’interdizione, per cui l’art. 720 co. 2
c.p.c. prevede l’applicazione delle norme stabilite per la pronuncia di essa.
Tutto ciò costituisce l’antefatto, e lo sfondo, del caso all’attenzione della
Corte. Un soggetto, l’attore nella controversia in esame, era stato per ben due
volte internato in via definitiva in un manicomio e per ben due volte dimesso in
via di esperimento: l’art. 3 della legge 36/1904 prevedeva infatti che lo stesso
direttore del manicomio potesse, con un suo provvedimento tempestivamente
comunicato all’autorità giudiziaria, ordinare il licenziamento in via di prova
“dell’alienato che abbia raggiunto un notevole grado di miglioramento”.
Congiuntamente all’ordine di ricovero definitivo, gli era stato nominato un
rappresentante provvisorio: la moglie. I due ricoveri erano durati, nell’insieme,
pochi
mesi;
le
cosiddette
dimissioni
“sperimentali”
erano
durate,
complessivamente, nove anni: nel frattempo, né era stato avviato un
procedimento d’interdizione, né vi era stata istanza per il licenziamento
definitivo.
Il soggetto viveva di una pensione di invalido di guerra che
l’amministrazione del tesoro gli corrispondeva, versandola su un conto
intestato alla moglie, in quanto tutrice provvisoria. Ma i due si separano, e
l’amministrazione del tesoro sospende l’erogazione della pensione del marito,
in attesa che un nuovo rappresentante provvisorio sia nominato. Per quattro
48
anni non si provvede ad alcuna nuova nomina, e il soggetto rimane senza
pensione.
Egli agisce in giudizio contro l’amministrazione del tesoro, per vederla
condannare al pagamento dei ratei non corrisposti e far ripristinare
l’intestazione del libretto a suo nome. L’amministrazione convenuta eccepisce il
difetto assoluto di capacità processuale dell’attore. Le corti di merito fanno
propria la tesi della convenuta dichiarando la nullità della citazione per difetto
di legittimazione processuale dell’attore.
La Cassazione compie un ragionamento in apparenza molto lineare,
riassuntivo del dato letterale della legge e di alcune sue precedenti pronunce. Il
ricovero definitivo non importa la perdita della capacità di agire; essa consegue
alla eventuale nomina del tutore provvisorio; tale nomina può aversi tanto nel
procedimento d’interdizione quanto col provvedimento col quale il Tribunale
autorizza la custodia definitiva; in quest’ultimo caso, se ad essa non segue, “per
inerzia del p.m.”, il giudizio d’interdizione, l’ufficio del tutore provvisorio
cesserà col provvedimento
del Tribunale di licenziamento
definitivo
dell’alienato guarito; l’ufficio del tutore provvisorio non cessa invece col
licenziamento in via di esperimento. Il licenziamento in prova, benché durato
nove anni a fronte di un ricovero di sei mesi complessivi, non produce alcun
effetto sulla capacità, o meglio sull’incapacità, del soggetto: se il tutore
provvisorio era stato nominato, questi resta il rappresentante legale e il tutelato
resta incapace di agire, anche se non interdetto. Il ricorrente è privo della
capacità processuale, e il ricorso è rigettato.
La
soluzione
data
dalla
Corte,
apparentemente
correttissima
e
inattaccabile, raggiunge un apice di ingiustizia sostanziale che è ai limiti del
paradosso. Questo lo si percepisce ictu oculi: un soggetto conduce da anni
un’esistenza libera e “normale”. Non è interdetto, ma non può fare nulla: non
riceve più la pensione, e non può agire in giudizio per riaverla. Nessuno si
adopera per chiederne l’interdizione; nessuno si accolla l’impiccio di chiederne
le dimissioni definitive dal manicomio, a nessuno viene in mente che forse
49
sarebbe opportuno nominare un nuovo tutore provvisorio, visto che forse la
ex-moglie non è la persona più idonea a rivestire questo ruolo. Le vicende si
svolgono, a quanto sembra, nell’inerzia generale.
Secondo Andrioli, le cose avrebbero dovuto andare diversamente fin
dall’inizio. Le due procure che hanno richiesto l’internamento definitivo
avrebbero dovuto promuovere il giudizio d’interdizione, che avrebbe almeno
dato la garanzia all’interdicendo di avere un processo serio che decida sulla sua
capacità, con un’istruttoria seria e con l’obbligo per il giudice di sentirlo. I
giudici di merito avrebbero potuto sollecitare la procura, fino ad allora inerte, a
promuovere tale giudizio: il giudice del processo d’interdizione avrebbe potuto
nominare un tutore provvisorio diverso dalla ex-moglie, legittimato a far valere
in giudizio i diritti del soggetto.
Il direttore del manicomio d’altra parte, fa un esperimento che dura nove
anni ma non si cura mai di concluderlo, sollecitando i certificati medici che
avrebbero potuto portare al licenziamento definitivo. Qui si innesta un
meccanismo sottile e perverso, che la legge 36 forse non aveva ben calcolato:
l’esperimento in via di prova esonerava i direttori dei manicomi da qualsiasi
responsabilità che altrimenti gli spettava. È naturale immaginare che il protrarsi
oltremisura dell’esperimento non preoccupava i direttori72.
Anche dopo, secondo Andrioli, le vie d’uscita da questa situazione
c’erano: bastava guardare alle soluzioni offerte dal codice di rito. In base all’art.
182, commi 1 e 2 c.p.c., il giudice verifica d’ufficio la regolare costituzione delle
parti e, quando rileva un difetto di rappresentanza, può assegnare alle parti un
termine per la costituzione della persona del rappresentante. Secondo l’art. 78
Sempre ANDRIOLI, O’miereco d’e’pazze, cit., p. 2165, fortemente critico su questo punto,
afferma con forza che “sino a quando la dimissione degli infermi per esperimento
somministrerà ai direttori dei manicomi l’espediente per sfuggire alle responsabilità, che la
legge del 1904 e il regolamento ddel 1909 gli impone (…) non ci sarà zelo di difensori della
Costituzione che valga”. L’autore fa riferimento ad un orientamento della Corte Costituzionale
di quegli anni, ed in particolare ad una pronuncia (Corte Cost., sent. 27 giugno 1968, n. 74, in
Foro it. 1968, I, p. 2056) con cui la Corte dichiara la parziale incostituzionalità della legge sui
manicomi, facendo “opera di adeguamento della patria legislazione al canone dell’inviolabilità
del diritto di difesa”.
72
50
c.p.c. un curatore speciale può essere nominato all’incapace quando vi siano
ragioni d’urgenza e manchi la persona cui spetta la rappresentanza.
Il Tribunale e la Corte d’appello chiamate a decidere la controversia in
esame avrebbero potuto/dovuto seguire una delle vie prospettate da queste
disposizioni. La prima: concedere un termine perché il rappresentante
provvisorio (la moglie) si costituisse; meglio ancora, concedere un termine
perché fosse nominato un altro tutore provvisorio all’attore, diverso dalla exmoglie, da parte del giudice che aveva provveduto all’internamento definitivo.
Certo in quest’ipotesi era inclusa un’attività di interazione fra i giudici dei due
procedimenti, che la lettera dell’art. 182 c.p.c. non impone di compiere.
La seconda: nominare direttamente un curatore speciale all’attore ex art.
78 c.p.c.. Questa via risultava ancora più immediata, perché in questo caso la
nomina poteva essere fatta subito da parte del giudice investito della
controversia73.
Neanche la Corte di cassazione aveva le mani legate nel decidere il caso:
avrebbe potuto (o dovuto?) cassare la sentenza d’appello per violazione dei
suddetti articoli 78 e 182 del codice di rito, dato che il giudice di merito avrebbe
potuto (o dovuto?) darvi applicazione, e ricondurre la vicenda “sulla via della
giustizia sostanziale”74.
3. La Cassazione sancisce il principio dell’irrilevanza: l’incapacità
naturale di un soggetto non ne determina l’incapacità processuale.
L’interrogativo cui la sentenza in esame75 risponde è il seguente: se anche
Secondo ANDRIOLI, O’miereco d’e’pazze, cit., p. 2165, non vi sarà giustizia sostanziale “sino a
quando giudici istruttori e difensori non si gioveranno delle norme del codice di rito, nelle quali
la dottrina ha visto i mezzi di collaborazione tra magistrati e parti per la realizzazione di
concreta giustizia”.
74 ANDRIOLI, O’miereco d’e’pazze, cit., p. 2165. L’autore sostiene che “la Cassazione, prendendo
spunto dalla violazione degli artt. 78 e 182 del codice di rito, avrebbe potuto ricondurre (la
vicenda) sulla via della giustizia sostanziale”.
75 Cass., sent. 4 giugno 1975, n. 2227, in Foro it., 1976, I, p. 98.
73
51
gli incapaci naturali, oltre che gli incapaci legali, siano privi della capacità
processuale ex art 75 c.p.c. e debbano quindi stare in giudizio a mezzo di un
soggetto che li assista o li rappresenti. Tale sentenza è la prima a fornire una
spiegazione completa sul ruolo dell’incapacità naturale nel processo, ed è
interessante il raffronto tra il ragionamento da essa seguito e quello, di segno
opposto, seguito dalla Corte d’appello.
La capacità di intendere e di volere di cui si discute nel caso in esame è
quella di un soggetto in età avanzata, che chiede al Tribunale lo scioglimento
del proprio matrimonio, già da tempo di fatto cessato. La coniuge convenuta
non ci sta, fa rilevare che il marito si trova in condizioni mentali precarie a
causa di una malattia che da poco lo ha colpito, e chiede che la sua capacità
venga giudizialmente accertata.
Il giudice di prime cure risponde che, dalla documentazione fornita,
l’attore risulta pienamente capace: un’ulteriore indagine sulla capacità non
serve; la domanda dell’attore può essere accolta. In base alle motivazioni che
fornisce, il Tribunale dà ragione alla tesi della convenuta: che la capacità
naturale sia un presupposto necessario per poter stare in giudizio. Nel merito
poi, ritiene che tale capacità sussista.
La convenuta, forte della posizione assunta dal Tribunale, che da un punto
di vista giuridico le dava ragione, fa appello contestando il merito della
decisione: di nuovo sostiene che il marito-attore non è capace d’intendere o di
volere ex art. 428 c.c., e quindi non può stare in giudizio. La Corte d’appello
compie un’operazione molto interessante.
A differenza del giudice di primo grado, prende in serio esame l’articolo
428 c.c.: non solo dal punto di vista del presupposto soggettivo – la capacità
d’intendere e di volere –, ma anche da quello oggettivo del “grave pregiudizio”
necessario per far annullare un atto di diritto sostanziale. Non solo riafferma la
piena capacità naturale dell’attore, ma ritiene anche che nessun grave
pregiudizio
sarebbe
potuto
derivare
all’attore
dallo
scioglimento
del
matrimonio. Un atto processuale come la domanda giudiziale viene considerato
52
alla stregua di un atto di diritto sostanziale, annullabile da parte di chi lo ha
concluso quando era incapace di intendere o di volere e allorché l’atto gli abbia
causato un grave pregiudizio. Né l’appellante né la Corte d’appello fanno
chiarezza sulle modalità con cui potrebbe essere annullato un atto di natura
processuale, come lo è una domanda giudiziale o una sentenza. Ciò che importa
rilevare è che la Corte compie, a ben vedere, un’equiparazione fra gli atti di
diritto sostanziale, annullabili in base all’art. 428, e una domanda giudiziale.
Questa equiparazione verrà ripresa successivamente da parte della dottrina, che
sosterrà la necessità di individuare anche per gli atti processuali una norma
simile a quella contenuta nell’art. 428 c.c.76.
Di nuovo, la moglie impugna muovendo censure relative alla congruità
della prova: a) delle condizioni fisio-psichiche del marito; b) del grave
pregiudizio che dalla domanda di divorzio sarebbe derivato al suo autore. Le
censure formali sono ovviamente, di legittimità (in particolare, di legittimità
della prova); in sostanza però, l’obiezione è sempre nel merito, perché ciò che si
contesta è la capacità naturale dell’attore, che il giudice d’appello non avrebbe
consentito di provare adeguatamente.
La sentenza della Cassazione è esemplare per concisione e chiarezza:
infatti, pur non essendo stata la prima a pronunciarsi sulla questione, essa ha
per anni costituito il precedente per antonomasia sulla rilevanza processuale
dell’incapacità naturale. La Corte rileva come il giudice dell’appello abbia
risposto alle eccezioni della convenuta nel merito, accertando in via incidentale
la capacità naturale dell’attore. La domanda che la Corte si pone in via
preliminare è: doveva farlo? Poteva farlo? La risposta che dà è negativa. I punti
salienti del ragionamento della Cassazione costituiscono, ciascuno, una piccola
massima, e queste massime formano una sorta di “decalogo” sulla rilevanza
dell’incapacità naturale nel processo civile.
1) L’art. 75 del codice di rito è stato concepito come pienamente autonomo
Confronta, sul punto, quanto esposto nel § 9 di questo capitolo: sarà ripreso l’interrogativo
sull’opportunità di una norma simile a quella contenuta nell’art. 428 c.c. anche per gli atti del
processo.
76
53
rispetto all’art. 428 c.c. e non è da valutarsi né da interpretarsi alla stregua di
questo. I giudici di merito hanno errato ritenendo che l’incapacità naturale
dell’attore dovesse intendersi in base al disposto dell’art. 428.
2) La domanda giudiziale, infatti, a differenza degli atti di natura
sostanziale, non è un atto fra le parti soltanto, non è solo rivolto alla controparte
né produce soltanto gli effetti voluti dall’autore; essa è rivolta soprattutto al
giudice, e si incardina in un rapporto che ha natura pubblica, in cui la volontà
del privato non è l’unica a determinare gli effetti dell’atto.
3) La validità degli atti processuali è dunque da valutarsi secondo le
regole proprie dell’ordinamento processuale. Gli atti che invece, pur compiuti
nel contesto del processo, hanno natura sostanziale, restano soggetti al regime
per essi previsto dal codice civile. Ciò che importa è la natura dell’atto, e non
l’ambito in cui è compiuto.
4) L’art. 75 c.p.c. attribuisce al giudice il compito di accertare se le parti
sono “capaci di stare in giudizio”, e riconosce tale capacità nel “libero esercizio
dei diritti che si fanno valere”. Quando si riferisce ai soggetti privi della
capacità di stare in giudizio come ai soggetti che hanno perduto tale libero
esercizio, richiama una condizione giuridica e non una condizione fisiopsichica.
5) Coloro che, in base all’art. 75 c.p.c., pur avendo raggiunto la maggiore
età, non hanno la capacità processuale sono: l’interdetto e l’inabilitato, dalla
data di pubblicazione della sentenza di interdizione o inabilitazione (421 c.c.);
l’interdicendo e l’inabilitando a cui sia stato nominato un tutore/curatore
provvisorio nel corso del giudizio sulla loro capacità (419, co. 3 c.c.); l’ internato
in manicomio a cui sia stato nominato un tutore provvisorio (legge 36/1904 art.
2). Per i primi due casi è comunque fatta salva all’interdicendo e all’inabilitando
la capacità processuale nel processo d’interdizione o inabilitazione (cfr. cap. I, §
1). La terza ipotesi, ampiamente descritta nel paragrafo precedente di questo
capitolo, è stata soppressa a causa dell’abrogazione della legge che la
prevedeva.
54
6) La ragione dell’irrilevanza dell’incapacità naturale ai fini della
capacità processuale è la seguente: a contrario, sarebbe assurdo richiedere che un
soggetto, prima di proporre una domanda giudiziale, dovesse svolgere
un’indagine sulle condizioni fisio-psichiche della controparte. L’incapacità
legale è invece facilmente constatabile, in quanto risulta dai registri delle tutele
e delle curatele, nonché dai registri dello stato civile.
7) Nessun giudice può quindi effettuare accertamenti incidentali sulla
capacità: essa può essere incisa soltanto dalla sentenza di interdizione, in via
definitiva, o dai provvedimenti provvisori menzionati. Tale divieto costituisce
una garanzia per i soggetti.
8) A confermare tale interpretazione dell’art. 75 c.p.c. sono gli stessi lavori
preparatori alla stesura del codice di rito. Prima dell’approvazione del testo
definitivo, erano stati presentati alcuni progetti che, fra le cause di incapacità
processuale, includevano anche qualche cosa di simile alla incapacità naturale.
Questo mostra come un dibattito sul rilievo della incapacità naturale nel
processo vi era stato, quindi la scelta dell’irrilevanza di essa non costituisce un
elemento obbligato, ma piuttosto una scelta di opportunità che il legislatore,
ponderandone le conseguenze, ha compiuto. Lo schema Rocco, all’art. 11,
prevedeva che “l’incertezza e l’incapacità di agire” privasse un soggetto della
capacità processuale; il progetto Redenti menzionava anche la persona
“notoriamente inferma di mente”; il progetto preliminare Solmi estendeva
l’applicazione della norma “all’infermo di mente anche se non interdetto”.
Tutte queste disposizioni furono cancellate nei progetti successivi e il testo
definitivo non ne contiene traccia. Ciò conferma proprio il fatto che non vi siano
dubbi sull’interpretazione da dare all’art. 75 c.p.c., nel senso di escludere
qualsiasi accertamento incidentale sulla capacità, e di attribuire rilievo alla sola
incapacità giudizialmente dichiarata.
9) Conclusione: all’incapacità naturale di un soggetto non consegue la
perdita della sua capacità processuale, che rimane integra fino a che nei suoi
confronti non sia stata pronunciata sentenza d’interdizione o non gli sia stato
55
nominato un tutore provvisorio; nessun accertamento incidentale sulla
capacità può essere compiuto, ai fini della verifica della capacità processuale.
10) Obiezione: potrebbe contestarsi che, in base all’interpretazione data,
gli incapaci naturali sarebbero privi di qualsiasi strumento di difesa, e privi di
tutela. Si pensi al caso di un soggetto infermo di mente che sia convenuto in
giudizio: egli magari non si rende neppure conto che nei suoi confronti è stato
instaurato un processo; viene da chiedersi come possa, da solo, senza avvalersi
della rappresentanza di alcuno e senza l’ausilio di un assistente, difendersi in
maniera adeguata. La Corte stessa, nella sentenza, si pone questa domanda; ma
risolve la questione molto sbrigativamente, affermando che le persone
legittimate possono sempre promuovere, a favore dell’incapace naturale, il
giudizio d’interdizione e sollecitare, una volta che esso sia stato instaurato, la
nomina del tutore provvisorio ex art. 419 co. 3 c.c.. La questione, in realtà, non è
risolta: nel paragrafo 5 sarà analizzato un caso in cui essa è sottoposta, in
maniera quasi identica, alla Corte costituzionale.
4. La regola dell’irrilevanza e gli interessi in gioco.
La regola dell’irrilevanza dell’incapacità naturale nel processo è una
medaglia a due facce. Una faccia rappresenta gli interessi dell’incapace
naturale; l’altra, quelli della sua controparte processuale e, per estensione, quelli
della collettività. Potremmo chiamare la prima: garanzia del diritto di difesa; e
la seconda, interesse alla legalità, prevedibilità e rapidità della decisione. Ogni
faccia è divisa in due: metà bianca, e metà nera. Metà rappresenta le incidenze
positive di tale regola su ciascuno di questi interessi; metà le incidenze
negative, o problematiche.
Per prima cosa, si abbia in mente il diritto di difesa dell’incapace naturale
nel processo, in particolar modo si pensi al caso dell’incapace convenuto. Alla
regola dell’irrilevanza consegue che nessun soggetto possa essere privato della
56
capacità processuale in via incidentale in qualsiasi processo, ma che ciò possa
avvenire soltanto mediante un giudizio – quello d’interdizione – in cui è
obbligatoriamente previsto l’esame dell’infermo di mente , e nel quale lo stesso
può compiere da solo tutti gli atti del procedimento. Questa è, certo, una
specificazione del diritto di difesa: costituisce, in fondo, una garanzia per
l’incapace naturale. D’altra parte, però, l’irrilevanza potrebbe incidere
negativamente su questo diritto: l’incapace naturale, più che di garanzie, ha
bisogno di tutele e di protezione. Considerare irrilevante il suo stato psicofisico, che magari non gli consente di rendersi neppure conto che nei suoi
confronti è stato instaurato un processo, significa lasciarlo privo di ausili, privo
della possibilità di difendersi adeguatamente.
Sull’altra faccia della medaglia sta la controparte, che cita in giudizio
l’incapace naturale. Essa rappresenta la collettività, quello che è chiamato
interesse pubblico. Il principio dell’irrilevanza ha il grande merito di evitare, a
chi voglia proporre una domanda giudiziale, l’impossibile compito di indagare
sulle condizioni psico-fisiche della controparte; è sufficiente andare a sfogliare i
registri delle tutele o quelli di stato civile, e citare in giudizio il rappresentante
legale se si apprende che la controparte è interdetta o gli è stato nominato un
rappresentante provvisorio; altrimenti, il convenuto infermo di mente è valido
destinatario di consegne e notificazioni, e sta personalmente in giudizio. D’altra
parte, l’interesse dell’ipotetico attore – coincidente con l’interesse pubblico – è
anche quello alla prosecuzione del processo in tempi rapidi e senza
interruzioni. Avere come controparte un rappresentante legale, un tutore, certo
dà più garanzie all’attore; se la controparte è inferma di mente ma non è
interdetta, e quindi nessuno la assiste o la rappresenta, il rischio è che il
processo rallenti, o si paralizzi. Soprattutto, questo rischio si avvererebbe se il
processo fosse interrotto, nell’attesa che un rappresentante legale, anche
provvisorio, fosse nominato all’incapace. Una delle ragioni di rallentamento del
processo è quindi l’avverarsi di una causa di interruzione: il problema è capire
se sia causa d’interruzione la stessa incapacità naturale di una delle parti.
57
La Corte costituzionale, con due sentenze che si andranno ad esaminare,
ha posto sul piatto della bilancia questi interessi, con le loro molteplici
sfaccettature, e ha stabilito quale di essi, di volta in volta, prevalga.
5. Problematiche costituzionali: è leso il diritto di difesa dell’incapace
naturale?
In una questione posta all’attenzione della Corte costituzionale nel 198777,
il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 75 co. 2 nella parte
in cui non include fra i soggetti privi della capacità processuale gli infermi di
mente, incapaci naturali. Vi sarebbe violazione: a) del diritto di difesa ex art. 24
Cost.; b) del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.. L’uguaglianza che si
assume violata è quella fra incapaci naturali e incapaci legali, laddove la
medesima situazione di fatto – l’infermità mentale – darebbe vita a un
trattamento giuridico diverso: gli incapaci naturali, a differenza degli incapaci
legali, sono sprovvisti di un rappresentante legale, anche provvisorio, che stia
in giudizio per essi e ne assuma le difese. Il diritto di difesa, che anche si
assume leso, è inteso nel senso di possibilità concreta di difendere i propri
interessi, che all’incapace naturale non verrebbe offerta.
Con una concisa ordinanza la Corte costituzionale cerca di cancellare ogni
dubbio, dichiarando la manifesta infondatezza della questione. Nessuna
disparità di trattamento si crea fra incapaci naturali ed incapaci legali, dal
momento che le situazioni sono fra loro diverse e quindi richiedono una
differente disciplina: la limitazione della capacità processuale si giustifica solo
nei casi in cui l’infermità sia tale da poter dar luogo all’interdizione o
inabilitazione. La Corte non ravvisa neppure un contrasto fra la norma
impugnata e l’art. 24 Cost., anzi afferma che il diritto di difesa sarebbe garantito
proprio dal fatto che nessuna limitazione della capacità processuale può aversi,
77
Corte cost., ord. 19 gennaio 1988 n. 41, in Giur. Cost., 1988, p. 109.
58
se non nell’ambito dei giudizi d’inabilitazione e d’interdizione, a seguito di
regolare istruttoria.
Non si sa come, ma il principio della difesa sancito dall’art. 24 co. 1 Cost. è
posto a sostegno di tesi opposte, che evidentemente non concordano sul
significato da attribuire ai termini. Fra la difesa come tutela e la difesa come
garanzia, il giudice a quo accoglie il primo significato, mentre la Corte opta per
il secondo, giungendo ovviamente a conclusioni opposte a quelle prospettate.
A distanza di quattro anni la questione si ripropone, anche se non in
maniera identica: questa volta si discute della legittimità di un altro articolo, il
300 c.p.c., e si tira in campo l’istituto dell’interruzione del processo; ma il
parametro costituzionale di riferimento è sempre lo stesso: l’art. 24 Cost78.
Per comprendere i termini della questione è opportuno chiarire la ratio e
le linee cardine dell’istituto. Il codice di procedura civile, nella sezione intitolata
“Dell’interruzione del processo” (artt. 299-305 c.p.c.) disciplina le conseguenze che
alcuni fatti extra-processuali producono sul piano del processo. La conseguenza
consiste in uno stato di quiescenza processuale, che rende impossibile il
compimento degli ulteriori atti ed interrompe i termini in corso. I fatti che la
producono sono accomunati dalla caratteristica di incidere tutti sulla possibilità
della parte di difendersi adeguatamente in giudizio: in particolare, gli eventi
che determinano l’interruzione provocano tutti una menomazione di tale
possibilità79. Gli artt. 299 e 301 c.p.c., letti “in orizzontale”, prevedono come
cause d’interruzione: la morte di una parte, del suo rappresentante legale o del
difensore di una delle parti; la radiazione o sospensione dall’albo del difensore
di una delle parti; la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti
o del suo rappresentante legale; la cessazione della rappresentanza legale.
Si è detto che l’interruzione interviene in situazioni in cui l’opportunità
per una parte di difendersi sarebbe seriamente compromessa; si può affermare
quindi che tale istituto è posto a tutela del principio del contraddittorio, a
Corte cost., sent. 2 novembre 1992, n. 468, in Foro it., 1993, I, p. 1043 e in Giur. it., 1994, I, p. 20,
con nota di DALMOTTO.
79 Così SALETTI, in Enc. Giur., voce Interruzione del processo, p. 1.
78
59
garanzia della sua effettività80.
L’art. 299 c.p.c., laddove prevede come causa d’interruzione la perdita
della capacità di stare in giudizio di una delle parti, rinvia all’art. 75 c.p.c., che
dal novero dei soggetti capaci di stare in giudizio esclude soltanto gli incapaci
legali, che hanno perduto il libero esercizio dei diritti, mentre lascia intatta la
capacità processuale degli incapaci naturali. Gli artt. 299 e 75 c.p.c., letti
congiuntamente, non considerano come causa d’interruzione del processo
l’incapacità “di fatto”. Evidentemente, il legislatore non ha considerato
l’incapacità naturale come un qualcosa che compromette seriamente l’effettività
del contraddittorio.
La questione di legittimità costituzionale si origina nel contesto di un
giudizio di divisione ereditaria, in cui la parte convenuta era incapace naturale
(nella specie, si trattava di
un soggetto affetto da sindrome di Down). Il
processo si svolge in contumacia perché il convenuto non è neppure in grado di
accorgersi che un processo è stato instaurato nei suoi confronti. Secondo il
giudice a quo, l’art. 300 c.p.c. (che in modo specifico riguarda l’interruzione per
eventi che interessano il convenuto contumace), letto congiuntamente all’art. 75
c.p.c., non offrirebbe all’incapace naturale gli strumenti necessari per difendersi
adeguatamente: il diritto di difesa risulterebbe compromesso, e così pure il
principio del giusto processo81. La via che il giudice a quo prospetta, per
ovviare a ciò, è una sentenza additiva della Corte costituzionale, che dichiari
l’illegittimità degli articoli menzionati nella parte in cui non prevedono, se nel
processo è convenuto un incapace naturale: a) l’interruzione del processo; b)
conseguentemente, la segnalazione del fatto al pubblico ministero, affinché
provveda alla nomina di un curatore provvisorio.
LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, II, 4° ed., Milano, 1981, p. 195.
DALMOTTO, che commenta la sentenza in esame in Giur. it., 1994, I, p. 20. L’autore, che
sembra supportare la tesi del giudice a quo, afferma che ”verrebbe così leso il diritto di difesa, e
più in generale il principio del giusto processo” e prosegue sostenendo che “in effetti, come
ammettere che l’incapace naturale possa efficacemente proteggere in sede processuale i propri
interessi, quando magari non è neanche in grado di accorgersi che nei suoi confronti un
processo è stato instaurato?”.
80
81
60
La via indicata dal giudice a quo non è del tutto nuova. Nel 1986 una
questione analoga era stata giudicata fondata dalla Corte82. Il caso riguardava
un soggetto scomparso in base all’art. 48 c.c.; la questione di costituzionalità
sollevata riguardava sempre l’istituto dell’interruzione del processo, dato che
gli articoli in materia d’interruzione neppure menzionano, fra le cause
interruttive, la scomparsa del convenuto. Anche in questo caso il parametro di
riferimento era l’art. 24 della Costituzione, l’inviolabilità del diritto alla difesa.
La Corte aveva ritenuto la questione fondata: aveva ritenuto che il diritto di
difesa dello scomparso verrebbe palesemente violato se il giudice, il quale
avverte una situazione di scomparsa, non potesse interrompere il processo e
conseguentemente informare il pubblico ministero; quest’ultimo, venuto a
conoscenza della situazione di scomparsa, ha il potere-dovere di fare istanza al
Tribunale competente per la nomina di un curatore speciale allo scomparso che,
come stabilito dall’art. 48 c.c., rappresenti la persona in giudizio; il processo
interrotto potrà poi essere riassunto dal curatore stesso o dai controinteressati.
Il giudice a quo cerca di riportare la Corte sui suoi passi, descrivendo i due
casi – quello dello scomparso e quello dell’incapace naturale – come
sostanzialmente analoghi. Effettivamente, i due casi sono analoghi. Non lo sono,
a parere della Corte costituzionale, le soluzioni normative che il codice e leggi
speciali offrono alle due questioni. Nel caso dello scomparso una pronuncia
additiva era necessaria perché nessun altro rimedio era apprestato a tutela del
convenuto scomparso, o se c’era risultava del tutto insufficiente (così si era
pronunciata la Corte sulla possibilità, prevista dall’art. 48 c.c., che fossero i
contraddittori dello scomparso a fare istanza per la nomina del curatore
speciale a costui). Nel caso dell’incapace naturale, invece, la Corte ritiene che
l’ordinamento appresti già efficaci strumenti per la tutela processuale
dell’infermo non ancora interdetto o inabilitato. Tali strumenti sarebbero:
1) l’art. 73 del regio decreto 12/1941, in base al quale al p.m. è attribuita in
via generale la tutela dei diritti degli incapaci: questo potere si manifesta nella
82
Corte cost., sent. 16 ottobre 1986, n. 220, in Foro it., 1986, I p. 2669.
61
richiesta, nei casi d’urgenza, dei “necessari provvedimenti cautelari”. Su questa
norma, forse un po’desueta, la Corte fonda il ruolo del p.m. nell’attuazione del
giusto processo. Questo potere generale troverebbe specificazione, a sua volta,
nelle seguenti disposizioni:
2)l’art. 70, ultimo comma, c.p.c., in cui si prevede che il p.m. possa
intervenire nei processi in cui ravvisi un interesse pubblico; la tutela degli
incapaci corrisponde, dice la Corte, ad un interesse pubblico; quindi il p.m. è
legittimato ad intervenire in tutti i giudizi in cui sia parte un incapace naturale;
3) l’art. 71 c.p.c. che, come conseguenza della norma contenuta
nell’articolo 70, prevede che il giudice possa comunicare gli atti al p.m., così da
facilitare in concreto l’esercizio di questo potere di intervento.
Le disposizioni volte alla protezione anche processuale dell’incapace
naturale, insomma, non mancherebbero; e il vigile custode dell’effettività di tale
protezione sarebbe il pubblico ministero.
Una pronuncia additiva che incorpori fra le cause d’interruzione del
processo anche l’incapacità naturale, dunque, non è necessaria. Di più: non
sarebbe giustificata. Andrebbe a ledere un altro interesse, quello della
controparte, che vuole che il processo prosegua e si concluda nel tempo più
breve possibile. L’interesse alla prosecuzione del processo è giudicato, in questo
caso, prevalente, dato che il diritto alla difesa è adeguatamente garantito dalle
norme di cui si è detto83.
Le critiche alla decisione giungono copiose. Riassumendole tutte in unica
espressione, si potrebbe dire così: che un conto è la tutela, un conto è l’effettività
della stessa; che non sono le astratte previsioni di protezione dell’incapace a
mancare nell’ordinamento; che non mancano le norme che attribuiscono facoltà
di protezione; che non mancano i poteri; a mancare sono i doveri, e l’effettività
COSTANTINO, Il giubileo del medico dei pazzi: l’incapace naturale nel processo civile, in Foro it.,
1993, I, p. 1044. Anche questo autore commenta la sentenza della Cassazione, e lo fa in termini
piuttosto critici. Egli afferma comunque che la stessa disciplina legislativa dell’interruzione del
processo, “nella parte in cui ignora l’incapacità naturale, attribuisce esclusiva prevalenza
all’interesse alla prosecuzione del processo”.
83
62
della protezione. Certo, la Corte può sindacare solo le leggi, e non la prassi di
un sistema che non va. Ma è proprio la legge a rendere la protezione
dell’incapace naturale del tutto eventuale, laddove in concreto la affida a dei
poteri discrezionali: in base all’art. 71 co. 2, il giudice può comunicare al p.m. gli
atti del processo, affinché costui possa intervenire; il p.m., a sua volta, può
decidere di intervenire; nel giudizio d’interdizione o inabilitazione che il p.m.
ritenga opportuno promuovere, il giudice può nominare un tutore o curatore
provvisorio. La soluzione che la Corte individua, ritenendola soddisfacente, si
basa sull’esercizio “a catena” di poteri discrezionali. Ci si chiede come un diritto
fondamentale, qual è quello di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione,
possa esser ritenuto sufficientemente garantito, quando la sua tutela effettiva è
rimessa ad una valutazione discrezionale, di opportunità, da parte del p.m. o
del giudice84.
6. Le soluzioni alternative dei giudici di merito per i casi di urgenza.
Neppure ad alcuni giudici di merito la soluzione della Corte
costituzionale
è
sembrata
soddisfacente.
Intervenire
sull’istituto
dell’interruzione del processo, ampliandone la portata oggettiva, forse non era
una via percorribile; tuttavia, non si poteva neanche affermare che gli strumenti
che l’ordinamento offriva fossero idonei e soddisfacenti, come invece ha
sostenuto la Corte. Oltre al problema dell’effettività di cui si è parlato, per il
quale una serie di poteri discrezionali difficilmente offrono una valida tutela, si
Così, in termini alquanto polemici, si esprime COSTANTINO, Il giubileo del medico dei pazzi:
l’incapace naturale nel processo civile, cit., p. 1047: “(…) il processo, infatti, implica l’applicazione
di regole predeterminate e (…) costituisce un essenziale strumento di democrazia, in quanto
dovrebbe servire a rendere prevedibile la decisione, rendendo trasparenti e verificabili le regole
del «giudizio»” (l’autore traccia la distinzione tra processo e giudizio); ancora “con specifico
riferimento alla questione affrontata dalla Corte costituzionale, le esigenze di tutela
dell’incapace naturale o sono affatto irrilevanti, oppure meritano di essere considerate in sede
legislativa”, perché “non appare, invece, ammissibile che siano affidate all’esercizio meramente
discrezionale dei poteri ufficiosi del giudice”.
84
63
pone il problema dell’urgenza: in situazioni in cui è necessario provvedere in
tempi molto brevi, fornendo un ausilio all’incapace naturale, l’iter procedurale
che la Corte stessa prospetta non è certo la risposta adatta. Questo iter, che
partirebbe con la comunicazione degli atti da parte del giudice al p.m., e si
chiuderebbe, dopo l’avvio del procedimento d’interdizione, con la nomina di
un rappresentante provvisorio, nella migliore delle ipotesi potrebbe durare
alcuni mesi. La soluzione, oltre che eventuale, si profila come piuttosto lenta.
Vi sono casi in cui non si può attendere così a lungo: pena, ancora una
volta, un’irrimediabile lesione del diritto alla difesa. Si pensi al caso di un
soggetto che si trovi in stato di coma profondo a seguito di un incidente
stradale; egli è totalmente privo della capacità di intendere e di volere, e non
può materialmente far valere le proprie ragioni in un processo. Non è
interdetto: magari solo perché non c’è stato tempo, dopo l’incidente, di
promuovere il giudizio, o perché si sperava che le condizioni di salute
dell’infermo sarebbero presto migliorate, o perché il giudizio d’interdizione ha
un costo e questo costo non poteva essere sostenuto. C’è bisogno di agire con
urgenza per il risarcimento dei danni contro le compagnie assicurative, i
proprietari e i conducenti dei veicoli che hanno provocato il sinistro; oppure,
con ancora più tempestività, bisogna intervenire nei giudizi di risarcimento
promossi da altri danneggiati. L’infermo è privo di un soggetto che rappresenti
i suoi interessi in giudizio; ma promuovere l’interdizione e attendere la nomina
del tutore provvisorio non consentirebbe di agire o di intervenire “in tempo”: in
tempo, per esempio, per garantirsi un risarcimento. Ad alcuni giudici di merito
sembra iniquo che l’ordinamento non risponda a queste richieste di provvedere
subito, e che non possa essere utilizzato un altro strumento, più agile e veloce
del procedimento d’interdizione.
Le decisioni che si prenderanno in esame sono contenute in decreti, del
Tribunale e del giudice tutelare, emessi nel 1997, qualche anno dopo la sentenza
della Corte costituzionale sopra descritta. I casi e i fatti sono pressoché identici,
entrambi originatisi da un sinistro stradale, con un danneggiato in stato di
64
coma.
7. (segue) La nomina del curatore speciale di cui all’art. 78 c.p.c.
La prima soluzione innovativa è offerta dal Tribunale di Cuneo 85. La
madre dell’infermo fa istanza al Tribunale chiedendo di essere nominata
curatrice speciale del figlio, ex art. 78 c.p.c., così da poter agire in suo nome per
il risarcimento; vista l’urgenza, che è presupposto necessario per tale nomina, il
giudice ritiene la domanda ammissibile e nomina la madre come curatrice. La
questione verte sull’interpretazione da dare all’art. 78 c.p.c., in particolare al
primo comma. Mentre il secondo comma, più volte menzionato nel capitolo
precedente, si riferisce al peculiare caso del conflitto d’interessi fra
rappresentante e rappresentato, il comma primo descrive ciò che avviene
allorché “manca la persona a cui spetta la rappresentanza o l’assistenza”: in tale
ipotesi può essere nominato all’incapace un curatore speciale, perchè lo
rappresenti o lo assista “finchè subentri colui al quale spetta la rappresentanza o
l’assistenza”. Bisogna capire quale significato attribuire al verbo “mancare”,
utilizzato dal legislatore per il rappresentante o l’assistente dell’incapace: se
manchi perché non c’è ancora – non è stato ancora nominato -, oppure perché
sia venuto meno, per qualche anomala ragione, colui che già era rappresentante
o assistente.
Quest’ultimo è il significato che la Corte di cassazione ha costantemente
utilizzato. I motivi sono diversi: a) la lettera dell’articolo sembra riferirsi
esclusivamente al venir meno del soggetto che già aveva l’assistenza o la
rappresentanza; b) se l’art. 75 c.p.c. contiene la regola generale per cui solo gli
incapaci legali perdono la capacità processuale, sarebbe assurdo ritenere che
l’art. 78, sul solo presupposto dell’urgenza, vi deroghi; c) il progetto
preliminare al codice di rito prevedeva espressamente la nomina di un curatore
speciale per l’incapace naturale, e se non si vuole considerare una svista la
85
Trib. Cuneo, 28 novembre 1997 (decr.), in Giur. it, 1998, III, p. 1846.
65
modifica apportata al progetto definitivo, allora è da ritenere che il legislatore
abbia inteso limitare soggettivamente l’applicazione dell’art. 78 ai soli incapaci
legali.
Vi è, a ben vedere, un caso in cui il legislatore ha espressamente previsto
che sia nominato un curatore speciale al malato di mente non interdetto: si
tratta della norma contenuta nell’art. 4 co. 5 della l. 898/70 in tema di
scioglimento del matrimonio. Come si è ampiamente osservato ante86, la lettera
di tale disposizione prevede che, nel processo di divorzio, al convenuto “malato
di mente o legalmente incapace” è nominato un curatore speciale. Nell’analisi
compiuta nel capitolo I, § 6 e § 7, è stato evidenziato il profilo della
rappresentanza
processuale
del
soggetto
“legalmente
incapace”,
cioè
dell’interdetto, e l’estensione che la Corte di cassazione ha compiuto applicando
la disciplina anche all’interdetto-attore; qui importa invece mettere in luce
l’eccezionalità di questa disposizione legislativa nella parte in cui estende la
tutela apprestata all’interdetto anche al malato di mente. La malattia mentale, in
realtà, non esaurisce la sfera dell’incapacità naturale, che è molto più vasta, ma
ne costituisce una species. L’eccezione è rappresentata dal fatto che è
riconosciuta rilevanza processuale anche ad una condizione psico-fisica.
L’eccezionalità della norma, tuttavia, conferma il suo carattere derogatorio
rispetto ad una regola che va in senso opposto.
La pronuncia del Tribunale di Cuneo, in breve, si pone in contrasto con
una costante giurisprudenza di legittimità. Neppure in dottrina ci si sente di
supportarla87. Altre corti di merito non seguono questa originale linea,
preferendo mantenersi sulle posizioni della Cassazione.
Qualche giudice, però, ancora non si è rassegnato al fatto che l’art. 78
Cfr. l’analisi di tale disposizione compiuta nel cap. I, § 6 e § 7.
VULLO, Nuove prospettive per la tutela processuale dell’incapace naturale, in Giur. it. 1998, III, p.
1846: l’autore prende in considerazione la soluzione “originale” del Tribunale di Cuneo, ma
conclude che bisogna prendere atto ”dell’impossibilità di avvalersi del procedimento di nomina
del curatore speciale ex art. 78 del codice di rito”; sostiene comunque che “l’interprete deve farsi
carico di cercare in altri istituti lo strumento più adatto alla tutela dei diritti dell’incapace
naturale”.
86
87
66
proprio non possa costituire l’appiglio per una tutela
processuale
dell’incapace naturale. Il Tribunale di Asti, di recente, si è rivolto alla Corte
costituzionale, dubitando della legittimità dell’articolo in questione nella parte
in cui, “secondo il diritto vivente”, non prevede la nomina di un curatore
speciale anche per l’incapace naturale; il riferimento è sempre agli articoli 3 e 24
della Costituzione. Il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. sarebbe
violato, a detta del giudice a quo, non solo per disparità di trattamento rispetto
all’incapace legale (interdetto o inabilitato, che potrebbe beneficiare della
nomina del curatore speciale), ma anche all’incapace naturale che sia parte in
un processo di divorzio, per quanto prevede la ben nota disciplina sul divorzio
(art. 4, co. 5, l. 898/70).
Gli sforzi ermeneutici e persuasivi del giudice a quo non producono
risultati: la Corte costituzionale dichiara la questione manifestamente
infondata88. Ribadisce ancora una volta che l’art. 78 si riferisce solo al soggetto
la cui incapacità sia stata giudizialmente accertata; e che nessuna pronuncia
additiva si impone, poiché nessuna disposizione costituzionale risulta violata.
Da un lato, infatti, la norma contenuta nella legge speciale in materia di
divorzio, in quanto norma eccezionale, non può costituire parametro cui
rapportare la disciplina generale; dall’altro lato, di nuovo si ripete che non è
vero che l’ordinamento non appresti tutela all’incapace naturale.
In sostanza, la Corte nel 2006 emette una pronuncia perfettamente in linea
con quella di quasi quindici anni prima, allorquando – nel 199289 –era stata
chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di altre norme, ma sempre in
riferimento alla protezione processuale dell’incapace naturale.
Tuttavia, le ragioni che la Corte offre per sostenere una pronuncia di
infondatezza mutano. Nel 1992 il perno della tutela dell’incapace naturale era –
sempre e comunque – il giudizio di interdizione: la protezione si realizzava con
la nomina del tutore provvisorio, una volta proposta istanza per l’interdizione.
Corte Cost., ord. 3 maggio 2006, n. 198, in www.consultaonline.it.
Si fa riferimento a Corte cost., sent. 2 novembre 1992, n. 468, in Foro it., 1993, I, p. 1043, oggetto
di esame nel § 5.
88
89
67
Nel 2004 le cose cambiano: la legge 9 gennaio, n. 6, introduce una nuova forma
di protezione dei soggetti che, con una terminologia tutta nuova, definisce
“privi in tutto o in parte di autonomia”: l’istituto dell’amministrazione di sostegno.
Essa non solo si affianca alle due misure già esistenti, ma si profila come la
misura di protezione per antonomasia, destinata a sostituire, nella grande
maggioranza della prassi applicativa, le altre.
La Corte costituzionale, nel 2006, non poteva non farvi menzione. Se già
prima i mezzi di tutela dell’incapace naturale erano ritenuti sufficienti, ora lo
“strumentario” si è ampliato notevolmente. Gli strumenti normativi a tutela
dell’incapace naturale, “specie a seguito della legge 9 gennaio 2004, n. 6, …
prendono già in considerazione – anche attraverso provvedimenti provvisori –
l’esigenza che tale protezione consegua ad un procedimento adeguato”90. Si vuole
insomma che qualsiasi limitazione, anche provvisoria, della capacità
processuale, sia il frutto ponderato di un procedimento. La motivazione
dell’ordinanza, nella sua concisione e stringatezza, non esplicita quali siano
queste forme di protezione che si concretano in “provvedimenti provvisori” e
che quindi si attagliano alle situazioni di urgenza. Si può pensare,
ragionevolmente, che la Corte faccia riferimento all’art. 405 co. 3 c.c., in base al
quale il giudice tutelare chiamato a decidere sull’istanza di nomina di un
amministratore di sostegno può adottare, anche d’ufficio, i provvedimenti
urgenti e può nominare un amministratore di sostegno provvisorio
individuando gli atti che può compiere: uno di questi potrebbe essere la
rappresentanza o l’assistenza processuale in un giudizio in corso.
Dell’amministrazione di sostegno si parlerà più approfonditamente nel
capitolo successivo. Ciò che importa rilevare è che il giudice delle leggi ha
avuto un argomento in più per riaffermare la sua consolidata posizione:
l’incapace naturale risulta già tutelato dall’ordinamento, e l’art. 78 c.p.c. non si
tocca.
90
Corte Cost., ord. 3 maggio 2006, n. 198, in www.consultaonline.it.
68
8. (segue) I “provvedimenti urgenti” del giudice tutelare.
Nello stesso anno, quasi contemporaneamente, la stessa richiesta viene
presentata al Tribunale di Torino: si chiede che ad un soggetto in stato di coma,
non interdetto, venga nominato un curatore speciale che lo rappresenti nei
giudizi risarcitori. La richiesta questa volta è rigettata91. Il caso, tuttavia, ha un
seguito. I familiari dell’infermo si rivolgono al giudice tutelare (l’allora pretore,
che rivestiva anche questa funzione): questa volta i ricorrenti si limitano a
chiedere
“i
provvedimenti del caso”, senza specificare
quale
specifico
provvedimento né sulla base di quali norme debba essere emanato. L’urgenza
di provvedere, in questo caso, era doppia. In primis, nello stesso sinistro che
aveva causato l’infermità del soggetto vi era un altro danneggiato; questi, aveva
agito contro la compagnia assicurativa, e aveva chiesto la condanna ad una
provvisionale che, se accolta integralmente, avrebbe assorbito completamente il
massimale assicurativo (art. 24 della legge 990/69); il soggetto in stato di coma
avrebbe dovuto essere presente all’udienza di comparizione, fissata di lì a poco
per la decisione sulla provvisionale, per poter concorrere alla spartizione del
massimale assicurativo; se non fosse comparso, avrebbe rischiato di veder
vanificato il suo diritto al risarcimento. Inoltre, vi era un’urgenza economica: le
cure mediche e l’assistenza comportavano spese ingenti, per le quali i familiari
non disponevano delle somme necessarie. Ottenere un risarcimento significava
dare al malato una possibilità di cura.
La richiesta dei “provvedimenti del caso” dà ampio spazio di movimento
al giudice. Se la procedura d’interdizione è troppo lenta per la tempestività che
il caso richiede, se dell’art. 78 c.p.c. non ci si può avvalere, il giudice di Torino
individua altre norme, più adatte alla tutela immediata dei diritti dell’incapace
naturale. Sulla base di queste, decreta la nomina di un “amministratore
provvisorio del patrimonio” a cui conferisce la rappresentanza processuale
91
Trib. Torino, 22 ottobre 1997 (decr.), in Giur. it., 1998, III, p. 1849.
69
dell’infermo92. Gli strumenti normativi individuati sono:
1) l’art. 35, comma 6, della legge 833/78. La legge abolitiva dei manicomi
prevede che il giudice tutelare possa adottare “i provvedimenti urgenti”
occorrenti “per conservare e amministrare il patrimonio dell’infermo” che sia stato
sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio. Il giudice di Torino ritiene che
la situazione degli infermi di mente sottoposti a trattamento sanitario
obbligatorio sia analoga a quella dei soggetti in coma profondo; ritiene legittima
un’estensione analogica dal lato soggettivo; ritiene che tra i provvedimenti
urgenti rientri la nomina di un rappresentante provvisorio.
2) l’art. 361 c.c., che riguarda i “provvedimenti urgenti” nell’ambito della
tutela dei minori. Esso consente al giudice tutelare di adottare genericamente i
provvedimenti urgenti per la cura del minore o del suo patrimonio; in base
all’art. 424 c.c., tale norma è applicabile anche alla tutela degli interdetti;
secondo la prevalente giurisprudenza di merito, tale potere include anche
quello di nominare un tutore provvisorio addirittura prima che sia proposta
l’istanza di interdizione.
Se si accoglie l’interpretazione prevalente dell’art. 361 c.c., le due
disposizioni normative hanno un contenuto praticamente identico: l’urgenza,
come presupposto; come oggetto, si parla genericamente di “provvedimenti
urgenti”; il soggetto attivo che appresta la tutela è sempre il giudice tutelare.
Se la sentenza della Corte costituzionale del 1992 poneva in risalto il ruolo
del p.m. come vigile protettore degli interessi degli incapaci naturali, il giudice
di Torino evidenzia la figura del giudice tutelare, sotto una luce nuova. La
tutela che egli appresta è quella in via d’urgenza, che le norme suddette gli
consentono di offrire; al di fuori dei casi d’urgenza, è il p.m. a tutelare la
l’incapace naturale, promuovendo il giudizio d’interdizione (417 c.c.). Questa è
la distinzione dei ruoli che emergerebbe da una lettura congiunta delle
disposizioni codicistiche e dell’art. 35, co. 6 della l. 833/78.
Il giudice tutelare di Torino ritiene dunque che sia in suo potere
92
Pretura Torino, 11 novembre 1997 (decr.), in Giur. it., 1998, III, p. 1850.
70
intervenire, in un caso in cui l’impellenza è fuor di dubbio, nominando un
rappresentante provvisorio sulla base delle norme descritte. A questa figura ci
si riferisce nel decreto col nome di “amministratore provvisorio del patrimonio”
e di “amministratore provvisorio di sostegno”: è una terminologia che deriva
soltanto dalla prassi applicativa dell’art. 35 l. 833/78, ma non si ritrova nel testo
della legge né in alcuna disposizione legislativa. Sulle norme citate, e in
particolare sull’art. 35 della l. 833/78, il giudice tutelare di Torino fonda una
tutela processuale degli incapaci dal carattere nuovo ed originale, colmando
una lacuna del sistema codicistico93.
9. Riflessioni e proposte: ciò che ancora non soddisfa gli interpreti.
Qualcosa ancora non soddisfa parte degli interpreti.
Non vi è dubbio che il nostro codice di rito sancisca la regola
dell’irrilevanza nel processo dell’incapacità naturale. Gli artt. 75 e 78 c.p.c. si
riferiscono ai soli incapaci “dichiarati”. L’incapacità naturale, fino a quando non
sia stata accertata nel procedimento d’interdizione o inabilitazione, o fino a
quando all’interno di tali procedimenti non venga nominato un tutore o un
curatore provvisorio, non assume rilievo nel processo. L’art. 4 co. 5 della l.
898/70 in materia di divorzio, laddove prevede la nomina di un curatore
speciale al convenuto “malato di mente”, costituisce disciplina eccezionale,
derogatoria, che conferma l’opposta regola generale. Non solo la Corte di
cassazione ha più volte sottolineato la regola dell’irrilevanza; anche la
giurisprudenza costituzionale la ha sancita come principio. In riferimento
all’opportunità di rendere l’incapacità naturale causa d’interruzione del
VULLO, Nuove prospettive per la tutela processuale dell’incapace naturale, cit, p. 1848, giudica
apprezzabile la soluzione offerta dal Tribunale di Torino, “per aver valorizzato, con una
motivazione distesa e convincente, le ragioni di natura ordinamentale che sono sottese
all’impegno interpretativo e sistematico volto ad attribuire rilievo alla nozione di incapacità
naturale nel contesto del processo civile”.
93
71
processo, il giudice delle leggi ha ritenuto prevalente l’interesse della
controparte alla prosecuzione del processo. Il diritto di difesa dell’incapace
naturale sarebbe garantito comunque, con altri mezzi.
Gli altri mezzi, però, per profili diversi non risultano appaganti 94. Alla
luce di tutte le sentenze riportate, alla luce di un dibattito “a singhiozzo” che
dura da decenni, è opportuno fare il punto della situazione: verranno qui
riportate le soluzioni già descritte, con le relative critiche.
Prima soluzione: dare applicazione agli artt. 70, ultimo comma, e 71 co. 2,
c.p.c., come suggerito dalla Corte costituzionale. Il giudice esercita la sua facoltà
di comunicare al p.m. gli atti del processo in cui è parte un incapace naturale; il
p.m. esercita la sua facoltà di intervenire in detto processo. Poi, il p.m.
promuove l’azione d’interdizione, e chiede la nomina di un tutore provvisorio.
Critiche: è la via più “ortodossa”, ma è macchinosa e lenta e non si attaglia alle
situazioni di urgenza.
Seconda soluzione: applicare l’art. 78 c.p.c., interpretandolo liberamente
come norma di tutela generale degli incapaci, anche naturali, nelle situazioni di
urgenza. Critiche: contrasta con la lettera dell’articolo in questione e dell’art. 75
c.p.c., contrasta con quanto si appalesa da una lettura dei lavori preparatori al
codice di rito, contrasta con una costante giurisprudenza di legittimità.
Terza soluzione: estendere l’applicazione di norme originariamente
dettate per contesti particolari e per situazioni d’urgenza(l’art. 361 c.c. e l’art. 35
co. 6 l. 833/78), che conferiscono al giudice tutelare un generico potere di
provvedere; applicarle analogicamente in virtù del fatto che non si tratta di
norme derogatorie ed eccezionali, benché riferite ad ambiti peculiari; dar forma
a questo generico potere attraverso la nomina di un cosiddetto “amministratore
provvisorio”che abbia anche la rappresentanza processuale dell’incapace
naturale. Critiche: anche se si tratta di una via legittima, non è del tutto
soddisfacente fondare la tutela dell’incapace naturale sull’applicazione
Di questa opinione è anche MAURINI, L’incapacità naturale, in Le monografie di contratto e
impresa, a cura di Galgano, Padova, 2002, p. 189.
94
72
analogica di norme speciali95.
Tutte le soluzioni fin qui descritte, comunque siano valutate, opererebbero
ex ante, e cioè in vista di una tutela processuale dell’incapace naturale, affinché
egli possa far valere le proprie ragioni in modo pieno, possa difendersi
utilizzando tutti gli strumenti che l’ordinamento offre, come qualsiasi altro
soggetto che sia parte in un processo.
Vi è anche chi ha proposto una soluzione ex post, un rimedio. Se
l’ordinamento non offre valide tutele preventive all’incapace naturale, almeno –
si è detto – dovrebbe essergli consentito di lamentare il vizio di quegli atti
processuali lesivi dei suoi interessi, compiuti mentre egli si trovava in stato
d’incapacità naturale e non era stato posto in condizione di difendersi. Nel caso
del 1975 analizzato nel par. 3 (giunto poi all’attenzione della Cassazione), la
Corte d’appello chiamata a decidere aveva accolto un’impostazione simile:
aveva ritenuto che un atto processuale potesse essere annullato se ricorrevano i
presupposti dell’art. 428 c.c.. Un atto processuale come la domanda giudiziale
era stato valutato alla stregua di un atto di diritto sostanziale, annullabile da
parte di chi lo ha concluso quando era incapace di intendere o di volere e
allorché l’atto gli abbia causato un grave pregiudizio. Nel caso di specie,
tuttavia, la Corte d’appello aveva ritenuto che non ricorressero i presupposti
per l’annullamento dell’atto processuale viziato, e quindi non si era
preoccupata di chiarire le modalità con cui esso sarebbe potuto avvenire. La
Cassazione
aveva
poi
bocciato
l’impostazione
della
Corte
d’appello
affermando, come più volte ribadito, che gli atti processuali sottostanno a
regole proprie, perché il diritto processuale vede coinvolto un interesse
pubblico – non solo quello privato delle parti –, e che nessuna norma analoga al
428 c.c. era prevista per gli atti processuali.
Questa critica è stata espressa da VULLO, Nuove prospettive per la tutela processuale dell’incapace
naturale, p. 1848: l’autore, pur giudicando apprezzabile tale soluzione per i motivi ricordati in
nota (29), afferma tuttavia che accontentarsi di fondare la tutela dell’incapace naturale
sull’applicazione analogica delle norme speciali menzionate è “una via certamente praticabile,
legittima e, allo stato delle cose, anche opportuna, ma non ancora del tutto appagante ”.
95
73
In dottrina, tuttavia, la tesi del giudice d’appello è stata ripresa ed
approfondita. L’incapace naturale può compiere atti di diritto sostanziale: tali
atti sono efficaci, e validi se e finché non decida di chiederne l’annullamento.
Dalla regola dell’irrilevanza discende che egli può compiere efficacemente
anche atti processuali: per esempio, può essere destinatario o consegnatario di
valide notificazioni, può comparire personalmente in sede d’interrogatorio
libero. Tuttavia, mentre egli può dolersi degli effetti pregiudizievoli che gli atti
sostanziali producono, seppure a condizioni restrittive, altrettanto non può fare
per gli atti processuali96.
Ciò appare, a parere di tale dottrina, ingiustificato. Viene considerato
irragionevole che un contratto concluso da un incapace naturale possa essere
impugnato e annullato, ma non possa invece esserlo l’atto di un processo. Chi
avanza queste perplessità ritiene che, da questo punto di vista, non passi alcuna
importante differenza fra il piano sostanziale e quello processuale: è vero che
quest’ultimo ha regole proprie, date dalla rilevanza pubblicistica dell’attività
che si compie, ma in questo caso le analogie prevalgono, e l’esigenza di tutela
pure.
Tale dottrina97 vede una possibile soluzione nel rimedio previsto dall’art.
395 c.p.c.: la revocazione della sentenza. Tra quelli che l’articolo prevede come
motivi di revocazione di una sentenza, solo il “dolo della parte” (art. 395 n. 1)
rientra fra i vizi della volontà che possono portare, sul piano sostanziale,
all’annullamento del contratto (ex art. 1425 c.c.). Non è causa di revocazione, in
base al dritto vigente, alcun altro vizio che derivi dallo stato psico-fisico di una
delle parti. In ciò tale dottrina vede una lacuna dell’ordinamento: una lacuna da
COSTANTINO, Il giubileo del medico dei pazzi: l’incapace naturale nel processo civile, cit., p. 1048.
Si fa riferimento a quanto afferma COSTANTINO, Il giubileo del medico dei pazzi: l’incapace
naturale nel processo civile, cit., 1043 ss.; l’opinione dell’autore sembra essere particolarmente
autorevole, perché altri esponenti di dottrina, occupandosi del tema dell’incapacità naturale nel
processo, la riportano pedissequamente: ad es., DALMOTTO, nel commento a Corte cost. sent.
2 novembre 1992, n. 468, in Giur. it., 1994, I, p. 20; MAURINI, L’incapacità naturale, cit., p. 191 e
nota (9); VULLO, Nuove prospettive per la tutela processuale dell’incapace naturale, p. 1848 e nota
(25).
96
97
74
colmare, per ossequio ai più volte menzionati articoli 3 e 24 della Costituzione.
Di nuovo, ad essere minacciati sarebbero il diritto di difesa e il principio di
parità di trattamento.
Quello che si auspica, così affermando, è un intervento additivo della
Corte costituzionale, che dichiari illegittimo l’art. 395 c.p.c. per la parte in cui
non include l’incapacità naturale fra i motivi di revocazione.
75
76
CAPITOLO III
IL NUOVO MODELLO
DELL’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO:
QUESTIONI PROCESSUALI E PROFILI COMPARATISTICI
SOMMARIO: A) QUESTIONI PROCESSUALI RELATIVE ALL’AMMINISTRAZIONE DI
SOSTEGNO: 1. Inquadramento dell’istituto. – 2. La natura del procedimento e il “rompicapo”
della difesa tecnica. – 3. (segue) Giurisdizione volontaria e difesa tecnica. – 4. (segue) Gli elementi
da cui dipende la scelta sulla difesa tecnica. – 5. (segue) La soluzione della Cassazione. Critiche e
consensi. – 6. Procedure di raccordo fra le misure di protezione dei soggetti deboli. – 7. (segue)
Dall’interdizione all’amministrazione di sostegno. – 8. (segue) Dalla revoca dell’interdizione
all’amministrazione di sostegno. – 9. (segue) Dall’amministrazione di sostegno all’interdizione. –
10. (segue) Problemi di sovrapposizione fra procedimenti nel passaggio dall’amministrazione di
sostegno all’interdizione. B) PROFILI DI DIRITTO COMPARATO: – 11. Cenni sulle misure di
protezione dei soggetti deboli in una prospettiva comparata. – 12. I modelli austriaco e tedesco.
– 13. Il modello inglese.
Sezione
A):
QUESTIONI
PROCESSUALI
RELATIVE
ALL’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
1. Inquadramento dell’istituto.
Fino a questo punto si è parlato di incapaci legali e di incapaci naturali. Si
è parlato di un’incapacità giudizialmente accertata e dichiarata, da un lato, e di
un’incapacità che sussiste solo come situazione di fatto, e che nel processo è
normalmente priva di rilevanza giuridica, dall’altro.
Questo universo bipolare è stato di recente oggetto di una rivoluzione. A
fianco delle figure fino a qui descritte, dell’interdetto, dell’inabilitato e
77
dell’incapace naturale, oggi se ne affianca un’altra: quella del beneficiario
dell’amministrazione di sostegno.
L’istituto dell’amministrazione di sostegno, introdotto con la legge 9
gennaio 2004, n. 6, si giustappone a quelli preesistenti e costituisce un
importante tassello fra gli strumenti che il legislatore della riforma ha definito
come “misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di
autonomia”. La scelta del legislatore è stata quella, appunto, di non abrogare i
vecchi istituti di protezione: la riforma è avvenuta per addizione, anziché per
sostituzione98: purtroppo secondo alcuni, per fortuna secondo altri. Interdizione
ed inabilitazione sono state mantenute in vita, seppur con delle modifiche
rilevanti.
In questa sede non ci si occuperà in maniera specifica delle caratteristiche
sostanziali e dei presupposti applicativi dell’amministrazione di sostegno, che
pure incidentalmente emergeranno. Neppure si tratterà degli obiettivi della
legge e dell’acceso dibattito che ha preceduto la sua approvazione. L’approccio
sarà pragmatico e volto all’esplicazione di questioni puntuali che attengono allo
svolgimento del processo. Verranno trattati alcuni distinti profili processuali
relativi al procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno.
Fatta questa limitazione degli argomenti che si tratteranno, è tuttavia
opportuno fare preliminarmente un rapido inquadramento dell’istituto e dei
suoi aspetti più originali. I principali criteri che hanno ispirato il legislatore
sono stati:
-
quello dell’estrema duttilità della misura, che può incidere con
modi e tempi differenziati da individuo a individuo: il principio è
quello del maggiore adattamento possibile alle necessità, esigenze,
bisogni del beneficiario;
-
quello di preservare la capacità di agire, come regola, e di limitarla
Questa è l’espressione usata da CHIARLONI, Prime riflessioni su alcuni aspetti della disciplina
processuale dell’amministrazione di sostegno, in FERRANDO (a cura di) L’amminstrazione di
sostegno. Una nuova forma di protezione dei soggetti deboli, Milano, 2005, p. 149: l’autore aggiunge
all’espressione anche un “purtroppo”.
98
78
solo laddove occorra e nella misura minore possibile99;
-
quello
della
massima
salvaguardia
possibile
per
l’autodeterminazione della persona;
-
quello dell’attenzione alla cura della persona, e non soltanto del
suo patrimonio100.
Anche dal punto di vista processuale, il legislatore ha seguito importanti
criteri guida: quello della celerità e della semplificazione del procedimento,
della abbreviazione dei tempi di decisione, dell’instaurazione di un rapporto
diretto con il giudice tutelare, che è il giudice cui la legge demanda pressoché in
toto la cura degli interessi del beneficiario.
Questo è stato l’intento, sul versante sostanziale: di innovare, di introdurre
un qualcosa di completamente inedito per la protezione dei soggetti “deboli”.
Inedita, a ben vedere, appare anche la struttura del procedimento (ma questo si
avrà modo di approfondirlo infra, nei paragrafi successivi)101.
L’introduzione di questa figura ha fatto anche sorgere problematiche
questioni interpretative.
Sul piano del diritto sostanziale, i problemi si sono presentati soprattutto
nello stabilire quale sia l’ambito di applicazione del nuovo istituto.
Amministrazione di sostegno, interdizione ed inabilitazione, secondo quanto
concordemente affermato dalla Corte di cassazione102 e dalla Consulta103, hanno
un ambito di applicazione loro proprio, preciso, definito e “non usurpabile”.
Cfr. per esempio BONILINI, I presupposti dell’amministrazione di sostegno, in BONILINICHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, Padova, 2007, p. 46.
100 Per un’analisi più approfondita di tali criteri-principi, qui soltanto abbozzati, si veda la
sentenza della corte di cassazione, Cass. 12 giugno 2006 n. 13584, in Fam. dir., 2007, I, p. 31 ss., in
cui la Corte si sofferma ampiamente e in maniera esauriente su tali punti. Cfr. anche CAMPESE,
L’istituzione dell’amministrazione di sostegno e le modifiche in materia di interdizione e inabilitazione, in
Fam. dir., 2004, 2, p. 126 ss.
101 Precisamente in questo senso – cioè sottolineando l’estrema novità del procedimento e la sua
non riconducibilità nell’ambito delle regole generali – si è espressa la Corte di cassazione, in
Cass., sez. I, 29 novembre 2006, n. 25366, in Fam. dir., 2007, I, p.19 ss.
102 Di nuovo si cita Cass. 12 giugno 2006 n. 13584, in Fam. dir., 2007, I, p. 31 ss., in cui la Corte
effettua una “perimetrazione” degli istituti.
103 Ci si riferisce alla nota pronuncia – nonché la prima in tema di amministrazione di sostegno –
Corte Cost., 9 dicembre 2005, n. 440, in Fam. dir., 2006, p. 121.
99
79
Abrogare i vecchi istituti, da questo punto di vista, avrebbe creato meno
dilemmi interpretativi. La convivenza fra le tre misure pare essere un delicato
equilibrio, che si gioca su un filo molto sottile.
Sul versante del processo, le divergenze interpretative ed i problemi
applicativi sono sorti a causa della struttura del procedimento, che si articola su
disposizioni notevolmente eterogenee, e si presenta estremamente peculiare e
sui generis.104
2. La natura del procedimento e il “rompicapo” della difesa tecnica.
Non si sbaglia se si afferma che l’aspetto più problematico del
procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno è quello relativo
all’obbligatorietà della difesa tecnica. Il legislatore non si è espresso al riguardo:
la riforma introduttiva dell’istituto non ha specificato se il ricorrente, che si
rivolge al giudice tutelare chiedendo la nomina dell’amministratore di
sostegno, debba farsi assistere da un avvocato.
La discussione si è aperta fin dalle prime applicazioni dell’istituto,
introdotto nel gennaio 2004, e nel corso di tre anni dottrina e giurisprudenza
hanno offerto un ampio ventaglio di opinioni e di argomentazioni più o meno
convincenti, che fanno propendere per una soluzione o per l’altra.
In via preliminare, va detto che il rilievo che la questione assume non è
meramente teorico e fine a se stesso, ma implica importanti conseguenze sul
piano applicativo: la sanzione che consegue al difetto della difesa tecnica,
laddove essa è obbligatoria, consiste, secondo un costante orientamento della
Cassazione, nella nullità insanabile dell’atto introduttivo105.
Bisogna subito specificare che il problema riguarda esclusivamente il
VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell'amministrazione di sostegno, in Fam. dir.,
2006, 4, p. 431.
105 Cass., 9 settembre 2002, n. 13069, in Arch. Giur. Circolaz., 2002, p. 920; Cass., 16 marzo 1999, n.
2316, in Fam. dir., 1999, p. 324.
104
80
ricorso introduttivo del procedimento, quello da proporsi a norma dell’art. 404
c.c. al giudice tutelare, con cui si richiede la nomina dell’amministratore di
sostegno, nonché l’istanza di revoca presentata a norma dell’art. 413 c.c. e il
reclamo alla Corte d’appello ex art. 720-bis. Il dibattito non coinvolge: a)
l’eventuale ricorso per cassazione ex art. 720-bis co. 3 c.p.c., (di cui si dirà oltre),
per cui è pacifica la sussistenza dell’onere del patrocinio106; b) i procedimenti
meramente autorizzativi e attinenti alla gestione di un’amministrazione di
sostegno già esistente, ossia le richieste di autorizzazione che l’amministratore
di sostegno già nominato ed operante rivolge al giudice tutelare: la dottrina
pressoché unanime, ed una costante giurisprudenza ritengono che in questi casi
la difesa tecnica sia meramente facoltativa107.
Nel silenzio della riforma legislativa, la prima operazione da compiere è
quella di analizzare le disposizioni generali, contenute nel codice di rito, in
tema di patrocinio. L’art. 82 co. 3 c.p.c. sancisce la regola generale (e residuale)
dell’obbligatorietà del patrocinio di un procuratore legalmente esercente:
questo vale per i giudizi “davanti al tribunale e alla corte d’appello” e “salvi i casi in
cui la legge dispone altrimenti”. La disposizione sancisce una regola, e fa
immediato riferimento a delle eccezioni. Stando alla lettera dell’articolo, le
eccezioni parrebbero riguardare delle deroghe, tassative, che la legge
espressamente enuncia. Se così fosse, certamente l’obbligo di farsi assistere da un
avvocato sussisterebbe anche per l’amministrazione di sostegno visto che, si
VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno, in Fam. dir.,
2006, 4, p. 431 ss; DE ROMA, L’onere del patrocinio nel procedimento per la nomina
dell’amministratore di sostegno: un problema ancora aperto, in Giur. it., 2007, 3.
107 Sul punto concordano tutti gli esponenti di dottrina: sia coloro che escludono la necessità
della difesa tecnica per il procedimento di nomina, ad es. CHIZZINI, Procedimenti di istituzione e
revoca dell’amministrazione di sostegno, in BONILINI-CHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, cit.,
p. 429; VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno, cit., p.
431 ss.; sia coloro che la affermano, ad es. TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa
tecnica, in Fam. dir., 2004, 6, p. 611. Alla luce di quanto si dirà nel paragrafo successivo (§ 3),
questi procedimenti meramente autorizzativi e di gestione rientrano a pieno titolo nella
giurisdizione volontaria in senso tradizionale, in quanto le forme camerali sono utilizzate per
un oggetto diverso da diritti o status, che non coinvolge interessi contrapposti; si tratta dunque
del tipico caso in cui, secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, l’onere del patrocinio
non sussiste. Cfr., sul punto, § 3.
106
81
ripete, la legge non prevede alcunché al riguardo.
L’orientamento prevalente, tuttavia, si muove su altri binari, più elastici e
permeabili all’interpretazione. Questo è stato sostenuto: che se il codice parla di
“stare in giudizio” con il patrocinio di un difensore, l’espressione “stare in
giudizio” è riferita ad una controversia, cioè ad un processo che veda delle parti
contrapposte fra loro. Laddove non vi sia un giudizio in senso proprio, vale a
dire un contenzioso, la regola dell’obbligatorietà del patrocinio non si applica;
dunque, sono esclusi dall’operatività della norma i procedimenti a carattere non
contenzioso, cioè quelli di giurisdizione cd. volontaria108.
Se si aderisce a questo orientamento, classificare il procedimento di
amministrazione di sostegno come un procedimento di giurisdizione volontaria
significa escluderlo dall’ambito di applicazione della regola dell’art. 82 c.p.c..
Si rende indispensabile, a questo punto, aprire una parentesi per chiarire il
legame che intercorre fra la regola del patrocinio e quel particolare settore della
giurisdizione civile chiamato, appunto, giurisdizione volontaria.
3. (segue) Giurisdizione volontaria e difesa tecnica.
Per trattare la tematica del rapporto fra giurisdizione volontaria e
patrocinio, vanno affrontate due questioni cruciali: innanzitutto, bisogna
comprendere quando un dato procedimento possa essere definito “volontario”;
quindi, occorre porre in evidenza quale sia la ratio della regola del patrocinio (il
L’orientamento risale a REDENTI, Diritto processuale civile, III, Milano, 1954, p. 354. è stato poi
sviluppato da FAZZALARI, voce “giurisdizione volontaria” in Enc. Dir., Milano, 1970; COSTA,
Manuale di diritto processuale civile, Torino, 1980, p. 658; CHIARLONI, Contrasti tra diritto alla
difesa e obbligo della difesa: un paradosso del formalismo concettualista, in Riv. Dir. Proc. 1982, p. 641
ss.; giudicano questo orientamento preferibile anche JANNUZZI-LOREFICE, Manuale della
volontaria giurisdizione, Milano, 2004, p. 36. Bisogna precisare che questo orientamento, che oggi
sembra essere il prevalente, non è l’unico presente in dottrina, e vi sono stati anzi autorevoli
voci che vi si sono opposte in modo risoluto, ritenendo necessaria la difesa tecnica anche nei
giudizi volontari: in epoca risalente CARNELUTTI, Istituzioni del processo civile italiano, III,
Roma, 1956, p. 178; ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, IV, Napoli, 1964, p. 435 ss;
più recentemente MICHELI, voce “camera di consiglio” (diritto processuale civile) in Enc. Dir.,
Milano, 1970.
108
82
suo scopo, e che cosa tutela). Alla luce di quanto emergerà, si potranno
rapportare le due questioni, ed esaminare come la regola del patrocinio sia
collegata alle caratteristiche del procedimento.
Tracciare i contorni della giurisdizione volontaria, e quindi definire che
cosa sia, è uno dei problemi più spinosi ed intricati che ha tormentato la
dottrina processualista dagli anni ’50 ad oggi109. Lo scontro di opinioni si è
svolto su più fronti: sulla natura dell’attività - descritta da alcuni come attività
amministrativa affidata a giudici, da altri come vera e propria attività
giurisdizionale -, sulla forma procedimentale, sull’oggetto, sui poteri del
giudicante, sul ruolo dei soggetti coinvolti. Un approccio cauto e prudente al
tema suggerisce di evitare le definizioni unitarie e “monolitiche”, e di preferire
un approccio più “sfaccettato”: questo significa descrivere la giurisdizione
volontaria in base alla lente che si utilizza per osservarla, in base all’angolatura
da cui la si guarda.
Se si assume un punto di vista di tipo funzionale (qual è la funzione del
procedimento, qual è l’oggetto che si tutela), si può affermare che mentre la
giurisdizione ordinaria-contenziosa si occupa della tutela giurisdizionale dei
diritti, attuandola nel contraddittorio fra le parti, la giurisdizione volontaria è
quella volta ad incidere non su diritti o su status, bensì su situazioni soggettive,
definite “minori”110, (riconducibili alla figura degli interessi legittimi o degli
interessi
semplici),
ritenute
comunque
meritevoli
di
protezione
Gli autori che, tradizionalmente, si sono occupati in maniera più approfondita della
giurisdizione volontaria (della sua natura, dei suoi confini, delle problematiche che essa solleva)
sono i seguenti: FAZZALARI, La giurisdizione volontaria, Padova, 1953; ID., voce “giurisdizione
volontaria” in Enc. Dir., Milano, 1970; ALLORIO, Saggio polemico sulla “giurisdizione” volontaria,
in Riv. tirm. Dir. e proc. civ., 1948, p. 487 ss.; ID., Nuove riflessioni critiche in tema di giurisdizione e
giudicato, in Riv. dir. civ., 1957, I, p. 1 ss.; MICHELI, Per una revisione della nozione di giurisdizione
volontaria, in Riv. dir. proc., 1947, I, p. 18 ss; ID., Prospettive critiche in tema di giurisdizione
volontaria, in Scritti in onore di Francesco Carnelutti, Padova, 1950, p. 371 ss.; ID., Significato e
termini della giurisdizione volontaria, in Riv. dir. proc., 1957, p. 526 ss. In tempi più recenti ha
ripercorso queste problematiche CERINO CANOVA, Per la chiarezza delle idee in tema di
procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, in AA.VV., Studi in onore di Enrico Allorio, I,
Milano, 1989, p. 7 ss., pubblicato anche in Riv. dir. civ., 1987, p. 431 ss.
110 Così COMOGLIO, Difesa e contraddittorio nei procedimenti in camera di consiglio, in Riv. dir.
proc., 1997, 3, p. 721.
109
83
dall’ordinamento giuridico111.
Se si assume un punto di vista formale (come si struttura il procedimento),
invece, la giurisdizione volontaria è generalmente quella a cui si applicano le
disposizioni degli artt. 737-742 c.p.c.., relative ai procedimenti in camera di
consiglio:
domanda
proposta
nella
forma
del
ricorso,
assenza
del
contraddittorio orale tipico del processo contenzioso, assenza di pubbliche
udienze, forme semplificate e più elastiche, celerità e snellezza del rito, estesi
poteri ufficiosi e discrezionali del giudice sia in fase probatoria che in fase di
decisione112.
Infine, da un punto di vista “strutturale” (quali sono le caratteristiche del
provvedimento finale), un procedimento di giurisdizione volontaria è tale se si
conclude con un provvedimento sempre modificabile e revocabile, privo del
carattere di incontrovertibilità che è proprio della cosa giudicata 113.
Ora, nel senso tradizionale e pieno del termine, la giurisdizione volontaria
è la risultante della sovrapposizione di queste tre angolature: un procedimento
è volontario quando la forma camerale è utilizzata per la tutela di situazioni
non riconducibili a diritti o a status, quando non entrano in gioco interessi
contrapposti, e quando il provvedimento finale è sempre revocabile e
Questo punto di vista, cd. sostanziale o oggettivo, è stato privilegiato da una parte (forse
maggioritaria) della dottrina che si è occupata di questo tema: ad es., un approccio “sensibile
alla sostanza del processo” più che alla forma è stato assunto da CERINO CANOVA, Per la
chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, cit., p. 439;
l’espressione dell’autore, peraltro, fa da eco ad un’altra più risalente e molto autorevole
opinione: CHIOVENDA, Sulla natura contenziosa e sui conseguenti effetti dei provvedimenti emessi
dal Tribunale in base all’art. 153 del codice del commercio, in Saggi di diritto processuale civile, I, Roma,
1930, p. 311 sostiene che “per distinguere gli atti di giurisdizione contenziosa dagli atti di
giurisdizione volontaria, bisogna guardare alla sostanza piuttosto che alla forma”.
112 Il punto di vista cosiddetto formale è stato privilegiato da ALLORIO, Saggio polemico sulla
“giurisdizione” volontaria, cit.; sulla stessa linea ATTARDI, Diritto processuale civile, Padova, 1999,
p. 30 ss; così anche ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, p. 54 ss.
113 Sulla inidoneità al giudicato dei provvedimenti di giurisdizione volontaria sembra esservi
accordo in dottrina: cfr. CERINO CANOVA, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento
camerale e di giurisdizione volontaria, cit., § 6.; JANNUZZI-LOREFICE, Manuale della volontaria
giurisdizione, p. 20. Questa communis opinio non è tuttavia incontrastata: essa è stata relativizzata
da MICHELI, Efficacia, validità e revocabilità dei provvedimenti di giurisdizione volontaria, in Riv. Dir.
Proc., 1982, p. 191 ss.
111
84
modificabile, dunque inidoneo a passare in giudicato114.
Oltre alla giurisdizione volontaria vera e propria, tuttavia, esiste – ed è
stata sempre più estesa dal legislatore nel corso degli anni - una zona “grigia”
in cui le tre componenti non si sovrappongono: così, l’ordinamento processuale
conosce dei procedimenti che, pur incidendo su diritti o status e implicando una
controversia vera e propria, per espressa volontà legislativa si svolgono in
camera di consiglio seguendo la disciplina degli artt. 737 e seguenti del codice
di rito. In questi casi115 il legislatore ha inteso applicare, per motivi di
semplificazione e di maggior celerità, le regole del procedimento camerale
(dotate appunto di tali caratteristiche) a giudizi con parti contrapposte, che
vertono su diritti o su status116.
Torniamo ora alla regola del patrocinio, sancita dall’art. 82 c.p.c.. È utile
metterne in evidenza lo scopo; in questo modo si potrà capire se e come in
alcuni procedimenti l’esigenza del patrocinio possa venir meno, e quindi se e in
quali casi la regola possa essere soggetta a deroghe.
La questione del patrocinio è strettamente collegata a due principi
costituzionali di fondamentale importanza per il processo civile: da un lato, il
principio di difesa sancito dall’art. 24; dall’altro, il principio del contraddittorio,
e della sua effettività, di cui all’art. 111 della Costituzione117. Il processo
Tratta in maniera approfondita la questione della sovrapposizione fra il piano formale e
quello sostanziale CERINO CANOVA, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e
di giurisdizione volontaria, cit., § 13.
115 Solo a titolo esemplificativo, ciò vale per i provvedimenti concernenti la nomina o la revoca
di rappresentanti ed amministratori, e i casi concernenti l’esercizio della potestà o della tutela:
v. JANNUZZI-LOREFICE, Manuale della volontaria giurisdizione, cit., p. 13.
116 Il dibattito sulla legittimità e sulla opportunità del crescente ricorso, da parte del legislatore,
alle forme camerali per giudizi veri e propri, che contrappongono interessi di soggetti diversi,
era ad è molto acceso. Opinioni critiche nei confronti di questa tendenza da parte del legislatore,
non solo italiano, sono state espresse da: CERINO CANOVA, Per la chiarezza delle idee in tema di
procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, cit., § 16; MANDRIOLI, In tema di onere del
patrocinio nei procedimenti camerali, in Giur. It., 1988, I, 1, c. 979. Viceversa, vi è stato chi ha
ritenuto le forme camerali completamente slegate dalla sostanza del procedimento, e
perfettamente impiegabili anche procedimenti su diritti: così MICHELI, Per una revisione della
nozione di giurisdizione volontaria, in Riv. Dir. Proc., 1947, I, p. 116.
117 Così CONSOLO-LUISO (a cura di), Codice di procedura civile commentato, I, Milano, 2007, sub
art. 24 Cost., § 6: il diritto di difesa è definito come “la combinazione tra rispetto del
contraddittorio (…) ed intervento di un difensore tecnico”.
114
85
“giusto”di cui parla la Costituzione è una sorta di incastro fra questi elementi:
il potere di azione e di difesa attribuito alle parti deve essere effettivo e
paritario; solo così può instaurarsi un contraddittorio reale fra chi chiede in
giudizio e chi vi resiste. L’assistenza tecnica di un difensore riesce a garantire il
confronto dialettico e paritario fra soggetti portatori – nel processo – di interessi
contrapposti, in funzione dei rispettivi diritti di azione, di difesa e di prova118.
Da queste argomentazioni, la dottrina prevalente – come già anticipato –
ha dedotto che la regola dell’obbligatorietà della difesa tecnica sta a presidio
dell’effettività del contraddittorio; se in un procedimento il contraddittorio
manca perché, strutturalmente, non vi sono parti portatrici di interessi
contrapposti, allora viene meno anche la necessità del patrocinio119. Questo
senza dubbio vale per quei procedimenti che sono stati definiti come
giurisdizione volontaria “in senso tradizionale”, in cui la forma (camerale) si
accompagna ad un oggetto non contenzioso (non diritti o status, ma situazioni
soggettive minori). Diversa è invece la situazione di quei procedimenti che
rientrano nella menzionata zona grigia, che presentano le forme camerali,
eppure implicano, sostanzialmente, un contenzioso (o perché hanno ad oggetto
un vero e proprio diritto soggettivo, o perché in ogni caso coinvolgono degli
interessi contrapposti). La logica fin qui seguita imporrebbe, in questi casi,
l’applicazione della regola generale dell’art. 82 c.p.c.: e infatti, se la deroga alla
regola dell’obbligatorietà del patrocinio si fonda sull’assenza di “giudizio” (nel
senso di parti contrapposte), quando invece il giudizio c’è, perché vi sono
interessi in conflitto, la deroga non dovrebbe operare, indipendentemente dalle
forme camerali adottate dal legislatore120. L’onere del patrocinio sarebbe
Di nuovo, CONSOLO-LUISO (a cura di), Codice di procedura civile commentato, I, ult. cit., ivi.
Per un approfondimento delle problematiche costituzionali sollevate dai procedimenti di
volontaria giurisdizione – al di là della questione del patrocinio – vedi TROCKER, Processo civile
e Costituzione (problemi di diritto italiano e tedesco), Milano, 1974.
119 La dottrina a cui si fa riferimento è quella già citata sub nota (11).
120 Questa è la conclusione di MANDRIOLI, In tema di onere del patrocinio nei procedimenti
camerali, cit., c. 978 ss. L’autore si pone in modo critico nei confronti della posizione espressa
dalla Cassazione (vedi nota successiva), che sostiene l’inapplicabilità della regola dell’art. 82
c.p.c. a tutti i procedimenti in camera di consiglio, anche vertenti su diritti o status e quindi
118
86
collegato alla sostanza del procedimento, al suo oggetto, e sarebbe invece
svincolato dalla sua forma.
Una posizione diversa è stata adottata dalla Cassazione in una pronuncia
del 1987121. Leggendo solo la massima della sentenza, in realtà, la Corte sembra
far propria la posizione della dottrina prevalente: viene sancita, in via generale,
la non applicabilità della regola del patrocinio ai procedimenti di giurisdizione
volontaria, che non sono giudizi in senso proprio perché non implicano un
contenzioso. Esaminando, però, in maniera approfondita il testo della sentenza,
si comprende come la Corte attribuisca rilievo determinante alla discrezionalità
ed alla scelta del legislatore che, di volta in volta, ha ritenuto di adottare il
modello camerale, concepito fondamentalmente per la giurisdizione volontaria
in senso più stretto, anche per altre ipotesi in cui vi è una controversia vera e
propria.
La forma camerale sarebbe, secondo la Corte, comunque rilevante,
indipendentemente dall’oggetto. La scelta del procedimento camerale implica
l’attribuzione al giudice di poteri di decisione molto estesi; a ciò consegue la
non operatività del principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato e
del principio juxta alligata et probata. L’inapplicabilità di questi rigorosi principi,
il carattere inquisitorio del procedimento, la possibilità che il giudice supplisca
alla incompleta attività delle parti rende legittima – sostiene la Corte – una
attenuazione del diritto di difesa e giustifica la deroga a quelle regole che ne
sono il corollario: in primis, la regola del patrocinio.
La pronuncia della Corte è stata accusata di incoerenza122: dapprima la
Corte afferma che il presupposto per la inapplicabilità dell’art. 82 c.p.c. è
l’assenza di controversia, ma poi nega questo assunto nel momento stesso in cui
sostanzialmente contenziosi. L’autore, in sintesi, afferma: applicando una logica rigorosa, non si
può fondare la deroga all’art. 82 c.p.c. sull’assenza di contenzioso, e poi giungere ad sostenere
che l’obbligo del patrocinio non sussiste in tutti i procedimenti camerali purché siano, anche se
implicano un contenzioso.
121 Cass., 3 luglio 1987, n. 5814, in Giur. It., 1988, I, c. 978 ss, con nota critica di MANDRIOLI, ult.
cit.
122 Come già anticipato, le critiche sono state espresse da MANDRIOLI, ult. cit., nella nota alla
sentenza.
87
sostiene che occorre prendere atto della discrezionalità del legislatore, e che va
attribuito rilievo alle forme (camerali) da lui scelte. La Cassazione, è stato detto,
prima fonda l’esigenza del patrocinio su un presupposto sostanziale, e poi dà
rilevanza ad un elemento esclusivamente formale. Posto in questi termini,
effettivamente il ragionamento sembra mancare di logicità.
Tuttavia, la sentenza può essere letta anche in un altro modo, che consente
di attribuirle maggior coerenza. La Corte, è vero, non ripudia il ragionamento
“sostanziale” della dottrina maggioritaria, che fonda la deroga all’art. 82
sull’assenza di giudizio nel senso di parti contrapposte; solamente, essa lo
affianca ad un altro di carattere più “formale”, che dà rilievo alle caratteristiche
inquisitorie delle forme camerali, per tutti i casi in cui un procedimento
camerale verta su diritti o abbia natura contenziosa. Nella giurisdizione
volontaria in senso proprio, la deroga alla regola del patrocinio è motivata
precipuamente dalla assenza di contenzioso; nei procedimenti camerali
appartenenti alla “zona grigia”, che non possono essere definiti volontari
perché hanno ad oggetto diritti o status, la deroga si fonda invece sulla forma
del procedimento, che attribuisce al giudice ampi poteri di istruzione e
decisione. In questi casi, l’inquisitorietà del procedimento riporta “in pari” il
diritto di difesa che, altrimenti, risulterebbe illegittimamente compresso.
In un certo modo, dunque, il ragionamento della Corte è coerente. Esso
però, desta delle perplessità sotto un altro profilo. Secondo la Corte, la difesa
tecnica non è presupposto ineliminabile del giusto processo, e neppure del
giusto processo contenzioso, che verta su diritti; laddove al giudice siano
attribuiti ampi poteri di decisione e di supplenza all’attività della parte, si può
fare a meno dell’assistenza del difensore, senza che ciò implichi una riduzione
di garanzie o di tutele. Così argomentando, si arriva a dire che il diritto di
difesa dell’art. 24 e il diritto al contraddittorio di cui all’art. 111 Cost. possono
essere adeguatamente garantiti dal patrocinio di un difensore ovvero, in via
alternativa, dall’attività di un giudice dagli ampi poteri probatori e decisori.
Questo assunto, che è il diretto corollario del ragionamento della Corte,
88
non può non disorientare l’interprete. Se i poteri inquisitori del giudice e il
patrocinio del difensore sono equipollenti, ai fini del rispetto del diritto di
difesa e del contraddittorio, allora è sempre legittima la scelta del legislatore di
“togliere da una parte” – “cameralizzando” il procedimento e rendendo
facoltativo il patrocinio di un difensore – e di “aggiungere dall’altra” –
incrementando i poteri e gli ambiti di intervento del giudice.
Il contrasto di posizioni fra la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza
della Cassazione solleva dubbi e domande. L’intento che qui ci si propone non è
tuttavia, quello di trovare risposte, ma quello, più modesto, di riflettere su
quanto emerge da questo dibattito. Si possono fare due considerazioni: la prima
considerazione è sulla legittimità della scelta legislativa di adottare le forme
camerali per un procedimento su diritti soggettivi; la seconda riguarda la
legittimità/opportunità che un procedimento su diritti (ancorché camerale) si
svolga senza il patrocinio di un difensore.
La prima è una considerazione che sta “a monte” ed attiene ai limiti della
discrezionalità del legislatore. La dottrina si è sovente interrogata sulla
legittimità dell’adozione delle forme camerali per la tutela di diritti soggettivi o
status. L’atteggiamento prevalente è stato piuttosto critico: il diritto soggettivo,
è stato detto, è una figura che riassume in sé una prevalenza attribuita al suo
titolare, sia nei rapporti sostanziali sia nel processo; l’adozione delle forme
camerali e, conseguentemente, il fatto che tale diritto non sia assistito
dall’autorità del giudicato, implicano una frattura fra ordinamento materiale e
giudizio, ed implicano lo svuotamento del diritto stesso sul piano del
processo123. La Costituzione impone, all’opposto, una saldatura fra forme
processuali e diritto sostanziale. Gli articoli 24 e 111, infatti, delineano una
trama processuale ben precisa per il giusto processo sui diritti soggettivi e sugli
Così CERINO CANOVA, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di
giurisdizione volontaria, cit., § 14. (L’autore si rifà alle teorie di ALLORIO, L’ordinamento giuridico
nel prisma dell’accertamento giudiziario, Milano, 1957, p. 81 ss., nonché ad uno scritto di
CALAMANDREI, Abolizione del processo civile?, in Riv. Dir. Proc. Civ.,1938, I, p. 336 ss). Così
anche, sostanzialmente, MANDRIOLI, In tema di onere del patrocinio nei procedimenti camerali, cit.,
c. 979.
123
89
status: principio della domanda, regola di corrispondenza fra il chiesto e il
pronunciato,
iniziativa
di
parte
nell’attività
probatoria,
idoneità
del
provvedimento al passaggio in giudicato124.
Secondo l’orientamento prevalente, dunque, il giudizio che abbia ad
oggetto diritti soggettivi o status è incompatibile (non con le forme camerali in
generale125, ma piuttosto) con quei lineamenti del rito camerale che
comprimono il contraddittorio, il diritto di difesa e i rimedi avverso il
provvedimento finale.
Vi è anche un orientamento contrario, che ritiene perfettamente legittimo
un procedimento camerale su diritti126. Bisogna chiarire però che, anche da
parte dei sostenitori di tale tesi, la tendenza è quella di ritenere comunque
necessaria l’addizione di molteplici garanzie per correggere (alterandolo) il
modello camerale di cui agli artt. 737 e seguenti, rendendolo per così dire
“costituzionalmente orientato”; sicché il procedimento camerale vertente su
diritti assumerebbe dei tratti peculiari che lo differenzierebbero alquanto dallo
scarno paradigma camerale127.
In conclusione i due orientamenti propongono, a livello operativo, delle
soluzioni che non sono affatto agli antipodi, ma anzi sembrano avvicinarsi
molto: il primo afferma che le forme camerali per la tutela dei diritti sono
illegittime (solo) allorché implicano una compressione del contraddittorio; il
secondo sostiene, in generale, che il procedimento camerale su diritti è
legittimo, purché sia dotato di un complesso di garanzie formali che si rendono
indispensabili per il rispetto del contraddittorio.
Ancora CERINO CANOVA, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di
giurisdizione volontaria, cit., § 15, p. 474.
125 Ancora CERINO CANOVA, ult. cit., spiega come la disciplina camerale sia in realtà una
somma di disposizioni che non si implicano in maniera reciproca: vi sono dunque, anche
secondo questo orientamento critico, alcuni elementi del procedimento camerale che risultano
pienamente compatibili con la tutela dei diritti (per esempio, la forma di ricorso dell’atto
introduttivo).
126 Così tradizionalmente MICHELI, Per una revisione della nozione di giurisdizione volontaria, cit.,
p. 18 ss.; dello stesso autore, cfr. gli altri scritti citati nelle note (12) e (16).
127 Per esempio MALTESE, Giurisdizione volontaria, procedimento camerale tipico, etc., in Giur. It.,
1986, IV, c. 127 ss.
124
90
La seconda considerazione che ci si è proposti di fare sta, da un punto di
vista logico, “a valle” di quella appena svolta. Si è visto che entrambi gli
orientamenti dottrinali di cui si è parlato giungono a ritenere che un processo
su diritti debba svolgersi necessariamente con delle garanzie formali,
indispensabili per il rispetto del contraddittorio; ci si chiede ora se, fra quelle
garanzie formali, rientri anche l’obbligo del patrocinio. Per dirlo in altri termini,
ci si chiede se il giusto processo di cui parla l’art. 111 vertente su diritti
(specialmente dopo la riforma costituzionale del 1993, che ha introdotto proprio
l’espressione “giusto processo”) possa legittimamente svolgersi senza che le
parti siano patrocinate da un difensore.
Queste problematiche si riducono, sul piano operativo, ad un quesito: la
mancanza di limitazioni al potere giudiziale di indagine, propria dei
procedimenti in camera di consiglio, è ragione sufficiente per escludere (o
comunque per rendere facoltativo) il patrocinio di un difensore, e quindi
un’autonoma partecipazione degli interessati?
La Cassazione, si è visto, sembra alludere ad una risposta affermativa128.
Una autorevole dottrina risponde invece negativamente129. Questo, in
sintesi estrema, il ragionamento seguito: ritenuto che l’art. 24 Cost. assicura
un’autonoma facoltà di deduzione e di difesa; ritenuto che un provvedimento
vertente
su
diritti,
quindi
avente
contenuto
decisorio,
deve
essere
necessariamente adottato con la partecipazione di coloro i cui diritti saranno
incisi dalla efficacia di tale provvedimento; ritenuto che tale partecipazione può
essere adeguatamente garantita solo dalla assistenza tecnica di un difensore,
allora si conclude per la necessità del patrocinio in tutti i procedimenti camerali
su diritti.
Una conclusione, a questo punto, si impone: nel rispondere al quesito
La Corte, si è già detto, non è affatto esplicita nell’affermare questo assunto. Non si vuole
attribuire alla Corte un discorso che, in effetti, non ha fatto; è lecito comunque riportare la
conclusione a cui la Corte, pur non affermandola espressamente, pare alludere, ovvero sia il
corollario che direttamente discende dal filo argomentativo seguito in sentenza.
129 TROCKER, Processo civile e Costituzione (problemi di diritto italiano e tedesco), cit., p. 403.
128
91
“Quando si può derogare alla regola dell’obbligatorietà del patrocinio?”
nessun fattore sembra essere unanimemente riconosciuto come determinante.
Molteplici sembrano essere tali fattori, e molteplici le opinioni. L’oggetto del
procedimento, la forma dello stesso, le caratteristiche del provvedimento finale:
tutti questi elementi sembrano influire, in modi e con peso differente, sulla
questione della difesa tecnica. Nessuno di essi sembra però avere un peso
esclusivo né sembra essere, da solo, risolutivo.
4. (segue) Gli elementi da cui dipende la scelta sulla difesa tecnica.
Quello fin qui descritto è il quadro generale, più o meno completo, degli
orientamenti dottrinali e giurisprudenziali circa l’applicabilità della regola del
patrocinio ai procedimenti camerali.
Torniamo ora al punto di partenza, che costituisce l’oggetto della nostra
indagine: l’istituto dell’amministrazione di sostegno. Occorre il patrocinio di un
difensore, a pena di nullità dell’atto introduttivo, per ricorrere al giudice
tutelare chiedendo la nomina dell’amministratore di sostegno?
Alla luce di quanto è stato approfondito attorno al rapporto patrocinioprocedimenti camerali, per rispondere a questo quesito occorre indagare sulla
natura del procedimento, appurando se esso abbia ad oggetto diritti o status,
quale sia la forma che il legislatore ha per esso stabilito, e se il decreto di
nomina sia provvedimento idoneo a passare in giudicato.
Verranno di seguito elencati i fattori che sembrano dotati di maggior peso
in riferimento alla natura del procedimento di amministrazione di sostegno, e
di conseguenza in merito alla obbligatorietà della difesa tecnica in tale
procedimento. Va comunque fin da subito evidenziato che, come si è visto,
nessuno di questi aspetti è dotato di rilevanza esclusiva e le soluzioni offerte
dagli esponenti della dottrina giurisprudenza sono molto spesso tra loro
configgenti.
92
1) Il quantum di difformità o di conformità fra il procedimento in esame e
quelli di interdizione e inabilitazione.
L’art. 720-bis co. 1 c.p.c. prevede che ai procedimenti in materia di
amministrazione di sostegno si applichino, in quanto compatibili, alcune delle
disposizioni dettate per i procedimenti di interdizione ed inabilitazione.
Quest’assimilazione comporta che, anche nel procedimento di nomina
dell’amministratore di sostegno, la domanda si presenti con ricorso; l’intervento
del p.m. sia obbligatorio; possa aversi una nomina provvisoria nel corso del
procedimento; il provvedimento finale sia revocabile se i presupposti di fatto
mutano. A norma dell’art. 411 c.c. inoltre, si applicano all’amministrazione di
sostegno le stesse norme dettate per la scelta del tutore (349-353 c.c.), per la
gestione della tutela, per la gratuità dell’ufficio e per la responsabilità del suo
titolare (374-378 c.c.).
Sussistono, d’altra parte, difformità notevoli. Solo a titolo esemplificativo
basti ricordare che: il giudice competente in tema di amministrazione di
sostegno è il giudice tutelare e non il tribunale; il procedimento si chiude con un
decreto e non con una sentenza; i poteri ufficiosi del giudice sono ancora più
marcati che nel giudizio d’interdizione – per esempio il giudice può in ogni
momento determinarsi a modificare il decreto di nomina (art. 413 co. 4 c.c.).
Ora, non vi è dubbio – e dottrina e giurisprudenza sono concordi
nell’affermarlo – che, nei giudizi di interdizione ed inabilitazione, sia
obbligatorio farsi assistere da un avvocato130. Per questo motivo, ritenere
prevalenti gli elementi di affinità su quelli di difformità, significa ritenere
sussistente l’obbligo del patrocinio anche nel procedimento de quo; al contrario,
il prevalere degli elementi di differenza rende più agevole affermare che nel
procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno non serve farsi
assistere da un avvocato.
2) L’incidenza sulla capacità di agire del beneficiario.
Questo fatto è dato per pacifico al di là delle diatribe sulla natura dei procedimenti: ad
esempio Cass., 14 aprile 1994, n. 3491, in Giur. it., 1994, I, 1, c. 1697 ss.; vedi anche VELLANI,
voce Interdizione e inabilitazione, in Enc. Giur., XVII, Roma, 1988.
130
93
L’obbligatorietà del patrocinio è posta a presidio del diritto di difesa,
costituzionalmente garantito, e del rispetto del contraddittorio, soprattutto nel
suo profilo della partecipazione effettiva al procedimento. Se un procedimento
incide sulla capacità del soggetto e sul suo status, indiscutibilmente vi è
necessità di un complesso di garanzie, che assicurino una protezione sufficiente
contro le ingerenze della pubblica autorità e la parità delle armi fra le parti: una
di queste è proprio la difesa tecnica, che non può mancare. Ciò è vero
soprattutto per quei procedimenti camerali che della giurisdizione volontaria
hanno solo le forme, ma in realtà vertono su diritti (cfr. § 3) 131. Ciò è vero, in
primis, per i procedimenti di interdizione ed inabilitazione, variabilmente
qualificati come giurisdizione volontaria o contenziosa nell’ultimo mezzo
secolo132, ma che certamente incidono sullo status della persona.
La legge 6/2004, introduttiva dell’istituto dell’amministrazione di
sostegno, esordisce chiarendo la propria finalità: quella di tutelare i soggetti
privi di autonomia “con la minore limitazione possibile della capacità
d’agire”(art. 1). Poi precisa che il beneficiario “conserva la capacità di agire per
tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza
necessaria dell’amministratore di sostegno” e in ogni caso per “gli atti necessari
a soddisfare le esigenze della vita quotidiana” (art. 7, attuale art. 409 c.c.).
L’obiettivo dell’istituto non è quello di incidere su diritti o status, ma
quello di “gestire” gli interessi del beneficiario133: la legge non vuol fare del
beneficiario un nuovo incapace134. Tuttavia, anche se lo status del beneficiario
non viene toccato in blocco, non si può negare che la sua capacità di agire
subisca delle limitazioni: la duttilità estrema dell’istituto, che ne rappresenta la
Per esempio Cass. 27 febbraio 1989, n. 1066 in cui si ritiene comunque necessario applicare
quelle “forme necessarie per costituzionalizzare la cameralizzazione della procedura in materie
estranee al suo terreno di elezione, onde renderla compatibile con i precetti costituzionali”;
nello stesso senso Corte Cost. 16-30 gennaio 2002, n.1 (sent.) che in questi casi attenua in via
interpretativa il deficit di garanzie del modello camerale, quando il legislatore lo abbia esteso a
procedimenti che abbiano ad oggetto diritti.
132 Cfr. l’accenno a tale dibattito svolto nel cap. I, § 1.
133 VULLO, Onere del patrocinio e procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, cit., p.
1780.
134 CALÒ, Amministrazione di sostegno, legge 9 gennaio 2004 n. 6, Milano, 2004, p. 87.
131
94
novità, consente di limitare allo stretto necessario le ipotesi di rappresentanza
esclusiva e di assistenza necessaria da parte dell’amministratore di sostegno,
ma non di escluderle. Se insomma l’amministrazione di sostegno non incide
sulla capacità come unicum, di certo incide su distinte capacità – al plurale: il
beneficiario, per usare le parole di certa dottrina, è un ibrido, un “quasicapace”135.
Delle due l’una: se si pone l’accento sul fatto che l’istituto finisce
comunque per incidere sulla capacità di agire del soggetto, e se si qualifica la
capacità d’agire come un vero e proprio diritto soggettivo136, allora la difesa
tecnica non può essere meramente facoltativa; se invece si enfatizzano gli scopi
dell’istituto, che intende differenziarsi dai precedenti per un supporto solo
“gestionale” e non ablativo137, si perverrà alla conclusione che non vi è obbligo
di patrocinio.
3) La disposizione del comma 4 dell’art. 411 c.c..
In base ad essa, al beneficiario dell’amministrazione di sostegno possono
essere estesi effetti, limitazioni o decadenze previste dalla legge per l’interdetto
o l’inabilitato. La norma prospetta: che all’occorrenza il decreto di nomina abbia
un’incidenza più marcata sulla capacità del beneficiario; che vi possa essere,
almeno
potenzialmente,
una
linea
ininterrotta,
un
continuum
fra
amministrazione di sostegno (e le incapacità che essa comporta in misura
variabile) e interdizione (che determina un’incapacità al cento per cento, ed in
misura fissa). Se anche si ammette che non vi è sovrapposizione fra l’ambito di
applicazione degli istituti, che si mantengono funzionalmente distinti - come
Cfr. BONILINI, Capacità del beneficiario e compiti dell’amministratore di sostegno, in BONILINICHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, cit., p. 198 ss., molto critico nei confronti delle litoti e
degli eufemismi usati nel testo della legge, rassicuranti per chi “abbia paura delle parole”: fa
paura chiamare un soggetto “incapace” e allora si forgia un “quasi-capace”.
136 Cfr. TOMMASEO, Ancora sulla difesa tecnica nell’amministrazione di sostegno, cit., p. 184 e nota
(17): l’autore cita la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che interpreta
l’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo nel senso di considerare la capacità
d’agire come un “vero e proprio diritto all’attività giuridica”.
137 VULLO, Onere del patrocinio e procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, cit., p.
1781.
135
95
stabilito dalla Corte di cassazione in una recente pronuncia 138 -, non si può
negare tuttavia che la linea di confine fra un’amministrazione di sostegno
“dilatata” e l’interdizione non è poi così netta.
Ciò è ancor più vero se si tiene conto di un’altra disposizione, che si
muove in senso opposto: ai sensi dell’art. 427 c.c., come novellato, la sentenza
d’interdizione o d’inabilitazione può stabilire che l’interdetto/inabilitato
conservi la capacità per determinati atti. Percepire le “misure di protezione
delle persone prive in tutto o in parte di autonomia”139 come un orizzonte che
sfuma, senza soluzione di continuità, dalla capacità piena fino alla totale
incapacità, porta ad assumere posizioni più garantiste, e quindi ad affermare
l’obbligatorietà della difesa tecnica anche per il procedimento di nomina
dell’amministratore di sostegno: a parità di effetti, parità di garanzie 140.
4) La previsione della ricorribilità per cassazione ex art. 111 Cost. avverso
il decreto della Corte d’appello pronunciatasi in sede di reclamo.
Il giudice tutelare nomina l’amministratore di sostegno con decreto;
contro di esso viene proposto reclamo (ai sensi dell’art. 739 c.p.c..) alla Corte
d’Appello, che decide a sua volta con decreto; contro di esso, l’art. 720-bis co. 3
ammette il ricorso in cassazione. Non si discute sul fatto che la difesa tecnica sia
necessaria in tale grado di giudizio, dato che ciò risulta pacifico141. Ci si
interroga invece sulle influenze che tale previsione ha sull’intero procedimento
di nomina: di regola, infatti, per i procedimenti camerali di giurisdizione
volontaria la garanzia del ricorso in cassazione non è prevista. Se non si tenesse
conto di tale disposizione, dal dettato dell’art. 413 c.c. (v. supra, infra) si
dovrebbe concludere che il decreto di nomina è sempre pienamente revocabile
e quindi inidoneo al giudicato; bisogna però fare i conti con la peculiarità della
ricorribilità per cassazione.
Cass. 12 giugno 2006, n. 13584, in Fam. dir., 2007, I, p. 31 ss.
Così recita il titolo XII del codice civile, come modificato dalla legge n. 6/2004.
140 Questo è quanto ammettono anche i sostenitori della non necessarietà del patrocinio: ad es.
cfr. VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno, cit., § 4.
141 Cfr. nota (9).
138
139
96
Ci si chiede se con tale disposizione il legislatore abbia voluto: a)
confermare la natura contenziosa del procedimento, e la sostanziale omogeneità
con quelli di interdizione e inabilitazione, dato che tutti si concludono con
provvedimenti ablativi tali da incidere con autorità di giudicato su diritti
soggettivi142; b) compiere una scelta (niente affatto dovuta) a favore del
garantismo processuale e di una applicazione controllata dell’istituto in esame,
in quanto la funzione nomofilattica della Corte di cassazione risulta
fondamentale anche in ambiti non contenziosi, e per provvedimenti che
comunque restano inidonei a divenire cosa giudicata143.
Chi sostiene quest’ultima tesi fa rilevare come, in ogni caso, la previsione
della ricorribilità per cassazione non sia sufficiente per qualificare un giudizio
come contenzioso: di per sé sola, tale previsione non basterebbe comunque a
dotare della pienezza delle garanzie un procedimento che vertesse su diritti144.
Ribadisce chi invece è dell’opinione opposta: se non è elemento sufficiente, è
comunque conferma dell’affinità con la struttura di interdizione ed
inabilitazione, ed è conferma di un formalismo del procedimento che fa senza
dubbio propendere per la tesi dell’obbligatorietà della difesa tecnica145.
5) La struttura unilaterale del procedimento.
Questa caratteristica assume un rilievo determinante laddove, in base ad
un’interpretazione restrittiva di parte della dottrina, si ritenga che la deroga
all’obbligo del patrocinio si appicchi ai soli procedimenti di giurisdizione
volontaria unilaterali146. Questa interpretazione troverebbe fondamento e
conferma nelle previsioni contenute in una recente riforma: nella nuova
disciplina del processo societario è stato espressamente escluso l’obbligo della
TOMMASEO, Ancora sulla difesa tecnica nell’amministrazione di sostegno, cit., p. 185, e p. 184
laddove parla di capacità di agire come di “vero e proprio diritto all’attività giuridica”.
143 Così CHIZZINI, Procedimenti di istituzione e revoca dell’amministrazione di sostegno, in
BONILINI-CHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, cit., p. 392; VULLO, Onere del patrocinio e
procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, cit., p. 1782.
144 VULLO, Onere del patrocinio e procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, cit., p.
1782.
145 TOMMASEO, Ancora sulla difesa tecnica nell’amministrazione di sostegno, cit., p. 185.
146 Cfr. TOMMASEO., Ancora sulla difesa tecnica nell’amministrazione di sostegno, cit., p. 183 e nota
(6).
142
97
difesa tecnica per i soli procedimenti camerali di giurisdizione volontaria
unilaterali147. A tale norma la dottrina in esame ha conferito un notevole peso
sistematico, che porta ad intenderla come regola generalmente valida per i
procedimenti di giurisdizione volontaria. Anche ammettendo, quindi, che
l’apertura dell’amministrazione di sostegno dia vita ad un giudizio di natura
volontaria, bisognerebbe dimostrare l’unilateralità di tale procedimento per
poterne dedurre l’esclusione dell’obbligo del patrocinio.
Vi è da intendersi, però, su quale sia il criterio di distinzione fra
procedimenti unilaterali e procedimenti bi- o plurilaterali. L’orientamento
tradizionale fonda questa partizione sugli effetti del provvedimento finale 148: il
procedimento è unilaterale quando unica è la parte destinataria di tali effetti; in
base a questa lettura, il procedimento di nomina dell’amministratore di
sostegno presenterebbe sempre la caratteristica dell’unilateralità149.
Non concorda la dottrina sopra menzionata, secondo cui la struttura
partecipativa del giudizio deve essere misurata avuto riguardo ai soggetti degli
atti del processo; in quest’ottica, se Tizio, legittimato ex art. 406 c.c., presenta
ricorso perché sia nominato un amministratore di sostegno all’inabile Caio, il
procedimento assume struttura plurilaterale e il ricorrente va considerato, a
tutti gli effetti, parte del procedimento150.
In un solo caso i due orientamenti troverebbero un punto d’accordo:
quando
sia
lo
stesso
inabile
a
chiedere
per
se
stesso
l’apertura
dell’amministrazione di sostegno, ipotesi in cui il procedimento sarebbe senza
Così dispone l’art. 25, co. 3, D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, in base al quale se il provvedimento
deve essere emesso nei confronti di più parti, si applicano le norme generali in tema di
patrocinio.
148 Questa posizione risale ad ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, p. 57 ss.:
l’autore traccia una distinzione fondata sugli effetti del provvedimento ed analizza uno ad uno i
procedimenti che, in base a tale criterio, possono essere qualificati come unilaterali.
149 Così in sostanza afferma CHIZZINI, Procedimenti di istituzione e revoca dell’amministrazione di
sostegno, in BONILINI-CHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, cit., p. 415 ss.; l’autore si rifà allo
stesso ANDRIOLI, Diritto processuale civile, cit., p. 57 ss.
150 Certamente, trattasi di una parte molto speciale: l’art. 406 c.c. le conferisce una legittimazione
straordinaria, slegata dalla soggezione agli effetti del provvedimento, a mezzo della quale si
intende tutelare l’interesse pubblico. Cfr., sul punto, TOMMASEO, I processi a contenuto
oggettivo, parte I, in Riv. Dir. Civ., 1988, p. 685 ss.
147
98
dubbio unilaterale.
6) La variabile della “miglior tutela del soggetto beneficiario”.
Come spesso accade, due soluzioni opposte vengono invocate per un
identico scopo: in questo caso lo scopo è quello della massima protezione
possibile del beneficiario dell’amministrazione di sostegno151. Per chi sostiene la
tesi della mera facoltatività della difesa tecnica, la “miglior tutela” si attuerebbe
nell’accesso diretto e non oneroso alla giustizia, nello stretto e personale
rapporto col giudice tutelare. Per chi al contrario ritiene prevalenti gli elementi
di natura contenziosa nel procedimento – che coinvolgerebbe un diritto
soggettivo della persona, quale la sua capacità di agire152 –, è essenziale che le
parti siano assistite da un difensore, come strumento essenziale per la piena
effettività del diritto di difesa153. L’obbligo del patrocinio è stato conteso in un
“tira e molla” che lo ha inteso, alternativamente, come ostacolo ed onere
eccessivo, o come piena attuazione del diritto di difesa.
Non solo la dottrina, ma anche la giurisprudenza, nei tre anni successivi
all’introduzione dell’istituto, si è variamente posizionata su questo “pendolo
interpretativo”. Alcune corti di merito si sono pronunciate per la sussistenza
dell’obbligo del patrocinio nel procedimento di nomina dell’amministratore di
sostegno154, fornendo motivazioni valide ed appaganti; altri tribunali ed altre
Corti d’appello si sono espresse nella direzione opposta, ritenendo l’obbligo
non sussistente, e fornendo ragioni altrettanto buone155.
Il 29 novembre 2006 è intervenuta la Cassazione sul punto, con una
Così si esprime VULLO, Onere del patrocinio e procedimento di nomina dell’amministratore di
sostegno, cit., p. 1777.
152 Come sostenuto da TOMMASEO, v. nota (45).
153 Di nuovo VULLO, Onere del patrocinio e procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno,
cit., p. 1777.
154 Le pronunce più note in questo senso sono: App. Milano, 9 gennaio 2006, (decr.), in Fam. dir.,
2006, p. 280 ss.; App. Milano, 15 febbraio 2005, in Fam. pers. e succ., 2005, p. 23 ss.; App. Milano,
11 gennaio 2005, (decr.), in Fam. dir., 2005, p. 178 ss.; Trib. Padova, 21 maggio 2004, (decr.), in
Fam. dir., 2004, p. 607 ss.
155 Per esempio App. Venezia, 16 gennaio 2006, (decr.), in Fam. dir., 2006, p. 275; Trib. Modena,
22 febbraio 2005, (decr.), in Fam. dir., 2005, p. 180 ss.
151
99
pronuncia dall’intento chiarificatore. Nel paragrafo successivo si valuterà se la
chiarezza tanto ambita è stata raggiunta.
5. (segue) La soluzione della Cassazione. Critiche e consensi.
A quasi tre anni dall’introduzione dell’istituto, si pronuncia la Cassazione
sulla questione della difesa tecnica156. La pronuncia della Corte si struttura così:
detta una regola, che opera in via generale, in situazioni che rientrano nella
“fisiologia” dell’istituto; e detta un’eccezione, che si riferisce a quelle ipotesi che
fuoriescono dalla dimensione fisiologica.
L’istituto dell’amministrazione di sostegno si configura, secondo la Corte,
come un contenitore neutro, in cui sono riunite fattispecie fra loro
ontologicamente diverse. Questa diversità imporrebbe la necessità di compiere
un distinguo all’interno dei procedimenti per la nomina dell’amministratore di
sostegno, e imporrebbe l’adozione di soluzioni differenziate, che implicano
delle strutture processuali differenziate.
La distinzione si fonderebbe sul contenuto che si intende imprimere al
provvedimento finale (decreto di nomina), e in particolare sulla sua attitudine o
inattitudine ad incidere sui diritti fondamentali della persona. Nella generalità
dei casi l’amministrazione di sostegno non incide su di essi: l’istituto ha solo
finalità di sostegno, per l’appunto, di “mera assistenza, a volte solo fattuale”. In
questi casi le esigenze di celerità, semplificazione prevarrebbero su quelle di
difesa, visto che non vi sono “diritti da difendere” né incapacità da accertare,
ma solo interessi da gestire, e il patrocinio sarebbe puramente facoltativo.
Vi sono però ipotesi diverse, in cui il beneficiario abbisogna di una
protezione maggiore, e ciò comporta un intervento ablativo sui su quelli che la
Corte definisce diritti fondamentali. L’applicazione dell’art. 411 co. 4
rappresenta l’ipotesi emblematica di questa seconda species. In questi casi, in cui
156
Cass., 29 novembre 2006, n. 25366, in Fam. dir., 2007, 1, p. 19 ss.
100
necessariamente è toccata la sfera di autonomia del soggetto e quindi, come
dice la Corte, i suoi diritti fondamentali, le parti dovranno essere assistite da un
avvocato. Gli interessi in gioco – da un lato quello alla semplificazione, celerità,
non onerosità del procedimento, dall’altro quello dell’effettività della difesa e
del contraddittorio – troverebbero un diverso bilanciamento a seconda del
contenuto del provvedimento finale.
Di regola, dunque, il patrocinio di un difensore non è necessario: le parti
(lo stesso inabile o uno degli altri soggetti legittimati) non hanno l’obbligo di
stare in giudizio col ministero di un difensore; questo vale tranne che,
ovviamente, per il ricorso in cassazione. In via eccezionale, la difesa tecnica
diviene obbligatoria nelle ipotesi in cui, su richiesta di parte o per iniziativa
ufficiosa del giudice, la misura abbia contenuto tale da incidere sui “diritti
fondamentali della persona”: ciò avverrebbe in particolare quando, in base alla
previsione dell’art. 411 c.p.c., al beneficiario siano estesi effetti, limitazioni o
decadenze previste per l’interdetto o l’inabilitato.
Questa pronuncia, in apparenza salomonica, ha suscitato reazioni
contrapposte nel mondo giuridico. Critiche e dissensi sono stati espressi da
gran parte degli esponenti di dottrina – appartenenti sia a quel filone che
escludeva l’obbligo della difesa tecnica sia a quello che la reputava sempre
necessaria – questa volta unanimi nel definire insoddisfacenti le conclusioni a
cui perviene la Suprema Corte.
Valutazioni di favore sono invece giunte da altri fronti: in primis, da parte
della Corte costituzionale, che in una recentissima pronuncia ha avallato la
soluzione della Cassazione; inoltre, da parte di quella porzione del mondo
giuridico che ha recentemente redatto un progetto di legge per l’abrogazione
dell’interdizione e dell’inabilitazione.
Critiche
La sentenza è stata commentata da due esponenti di dottrina, il primo
101
sostenitore della tesi della necessità del patrocinio157, il secondo dell’opinione
opposta158. Il raffronto fra i due commenti fa emergere come i giudizi e le
perplessità espresse siano in gran parte le stesse.
Le critiche mosse alla sentenza sono di due tipi: le prime attengono al
criterio scriminante, adottato dalla Corte per distinguere quei procedimenti in
cui la difesa tecnica è obbligatoria e quelli in cui non lo è; le seconde attengono
all’opportunità stessa di effettuare un distinguo.
Il criterio distintivo adottato dalla Corte è giudicato problematico su più
fronti.
Entrambi
i commentatori
della sentenza
giudicano
del
tutto
irragionevole costruire un criterio che consente di valutare l’obbligatorietà della
difesa tecnica solo “a posteriori”: solo in base, cioè, al contenuto del
provvedimento finale159. A procedimento instaurato, alla luce dei risultati
dell’istruttoria, il giudice si determina ad adottare un provvedimento con alcuni
effetti ablativi propri dell’interdizione o dell’inabilitazione: il ricorrente può
però trovarsi privo del patrocinio di un avvocato, perché in base alle richieste
da lui avanzate il decreto avrebbe dovuto avere un contenuto meramente
“gestionale”, e non ablativo. Solo a questo punto scatta l’obbligo della difesa
tecnica. Il giudice solleciterà le parti a nominarsi un difensore (in base alla
previsione dell’art. 182 c.p..c.). Il ragionamento della Corte si arresta a questo
punto, ma in base alle regole generali si può dedurre che: se le parti
nomineranno il difensore il procedimento potrà proseguire, e in tal modo sarà
evitata l’empasse della sopravvenuta nullità; se non lo faranno, opererà la
sanzione della nullità del procedimento.
È stato rilevato come la sequenza appena descritta abbia in sé qualche
cosa di anomalo. Anzitutto, la nullità che si produce nel caso in cui le parti
TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica in un’ambigua sentenza della cassazione,
in Fam. dir., 2007, 1, p. 25 ss.
158 CHIZZINI, Brevi annotazioni in tema di difesa tecnica nell’amministrazione di sostegno, in Fam.
dir., 2007, 2, p. 121 ss.
159 Così CHIZZINI, Brevi annotazioni in tema di difesa tecnica nell’amministrazione di sostegno, cit., p.
123; sostanzialmente allo stesso modo si esprime TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e
difesa tecnica in un’ambigua sentenza della cassazione, cit., p. 27 e in particolare nota (10).
157
102
rifiutino di nominare un difensore lite pendente travolgerà inevitabilmente
anche gli atti introduttivi del procedimento e gli atti istruttori, altrimenti validi,
con un effetto “retroattivo” che palesemente contrasta con il principio generale
di propagazione delle nullità processuali, per cui “la nullità di un atto non
importa quella degli atti precedenti … che ne sono indipendenti” (art. 159
c.p.c.)160. In secondo luogo, stabilendo che l’onere della difesa tecnica si fonda
sul contenuto del provvedimento, e quindi su una determinazione del giudice,
la soluzione della Cassazione si pone in contrasto con i principi generali, per cui
tendenzialmente l’obbligo del patrocinio è stabilito su dati oggettivi (ad
esempio la competenza o la natura del procedimento)161.
Il criterio distintivo adottato dalla Corte viene contestato anche sotto un
altro profilo: quello dell’incidenza del provvedimento sui “diritti fondamentali”
della persona. Non si poteva trovare una regola di più dubbia interpretazione,
né un espressione più vaga di questa162. Non è certo di aiuto all’interprete
affidarsi ad un criterio dai tratti così indefiniti ed al centro di una continua
diatriba. Se poi si considera come diritto fondamentale lo stesso “diritto
all’attività economica”, come più volte ha sostenuto la Corte di Giustizia delle
Comunità Europee163, il criterio distintivo perderebbe qualsiasi efficacia:
sarebbe infatti quanto mai difficile trovare un provvedimento del giudice
tutelare che non abbia alcuna incidenza su tale diritto.
Oltre a ciò, vi è il problema di identificare se e in che termini vi sia
sovrapposizione
fra
l’incidenza
sui
diritti
umani
del
beneficiario
e
Questa perplessità e sollevata da TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica in
un’ambigua sentenza della cassazione, cit., p. 29-30.
161 Di nuovo TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica in un’ambigua sentenza della
cassazione, cit., p. 27.
162 Cfr. CHIZZINI, Brevi annotazioni in tema di difesa tecnica nell’amministrazione di sostegno, cit., p.
123, e in particolare nota (11): l’autore si esprime in termini fortemente critici nei confronti di
questa espressione – diritti fondamentali –, da sempre peraltro utilizzata in altri contesti e con
altri significati. Anche TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica in un’ambigua
sentenza della cassazione, cit., p. 27, seppur in toni meno accesi, valuta negativamente l’utilizzo di
un tale criterio, che ritiene“dai contorni tutt’altro che definiti”.
163 Sostiene ciò una giurisprudenza costante della Corte di giustizia delle Comunità Europee, e
una buona parte della dottrina vi fa seguito: ad es., GROSSI, Introduzione ad uno studio sui diritti
inviolabili nella Costituzione italiana, Padova, 1972, p. 176.
160
103
l’applicazione dell’art. 411 co. 4. c.c.. Tutte le volte che il giudice tutelare
estende al beneficiario uno degli effetti, limitazioni, decadenze, previste dalla
legge per l’interdetto o l’inabilitato si avrebbe una ricaduta sui diritti umani del
beneficiario stesso? E viceversa, qualsiasi incidenza su tali diritti sarebbe
riconducibile all’applicazione dell’art. 411 c.c.?
Non sembra di poter dare risposta affermativa ad alcuna delle
domande164.
Per
un
verso,
non
tutti
gli
effetti
dell’interdizione
o
dell’inabilitazione sono tali da gravare sui diritti umani fondamentali; per
l’altro, vi sono misure, non contemplate dalla disciplina dei due vecchi istituti
protettivi, che certamente comprimono i diritti fondamentali e che il giudice
tutelare potrebbe disporre nei confronti del beneficiario: si pensi, ad esempio,
alle misure che attengono alla “cura”della persona del beneficiario, che in certi
casi possono assumere un contenuto tale da riconoscere all’amministratore il
potere di sostituire il suo consenso a quello dell’inabile, anche in ambiti molto
delicati165. Non è dunque né necessaria né sufficiente, ai fini di stabilire se vi sia
l’onere della difesa tecnica, la determinazione del giudice ad estendere al
beneficiario una qualche previsione tipica dell’interdizione o dell’inabilitazione.
Le critiche della dottrina non si arrestano al livello del tipo di criterio
distintivo adottato dalla Corte; esse affondano ancor più alla base, e cioè
all’opportunità stessa di distinguere, all’interno di un medesimo istituto e di un
medesimo procedimento, fra ipotesi per cui il patrocinio di un difensore è
necessario ed ipotesi per cui non lo è. La dottrina favorevole all’esclusione
dell’obbligatorietà del patrocinio commenta così: il procedimento, comunque si
concluda, non viene mai ad accertare l’incapacità di agire del beneficiario; esso
interviene soltanto sulla mera gestione dei suoi interessi con un provvedimento
che, in ogni caso, non ha un contenuto di accertamento e non è idoneo al
TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica in un’ambigua sentenza della cassazione,
cit., p. 28.
165 Per esempio, in giurisprudenza, v. Trib. Modena, 15 settembre 2004, in Fam. dir., 2005, p. 85
ss., cui segue una nota di RUSCELLO, Amministrazione di sostegno e consenso ai trattamenti
terapeutici.
164
104
giudicato; la struttura del processo dev’essere unica, e le forme uniche 166. La
dottrina che invece professa l’obbligatorietà del patrocinio contesta il sistema
del tutto irrazionale che la soluzione offerta dalla Corte viene a costruire:
perché non tentare di costruire un raccordo fra l’istituto e i principi del sistema,
anziché rassegnarsi ad affermare “l’atipicità del modello rispetto al sistema
procedimentale”167 e la sua assoluta incompatibilità con le regole generali? Si crea
una figura così anomala, che nessun aiuto in sede d’interpretazione può essere
fornito dalle regole generali stabilite per i procedimenti di giurisdizione
volontaria o contenziosa, e si finisce per affidare la scelta della necessità o meno
del patrocinio alla valutazione del singolo giudice.
Ciò che si prospetta, in pratica, è una totale libertà dei singoli giudici
tutelari di stabilire se e quando il ricorrente debba stare in giudizio assistito da
un difensore.
Consensi
Ad avallare la soluzione della Corte di cassazione è intervenuta una
recente pronuncia della Corte costituzionale168. La Corte è stata chiamata a
pronunciarsi in via incidentale sulla legittimità degli articoli 407, 408 c.c. e 716
c.p.c., nella parte in cui non prevedono come obbligatoria, a favore della
persona interessata, l’assistenza tecnica di un patrocinatore legale nel
procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno; le norme di
riferimento sono gli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione. Il giudice si è rivolto alla
Corte contestando, in estrema sintesi: che l’amministrazione di sostegno,
benché meno invasiva di interdizione ed inabilitazione, incide comunque sulla
capacità di agire del beneficiario; che ogni volta che oggetto del procedimento
CHIZZINI, Brevi annotazioni in tema di difesa tecnica nell’amministrazione di sostegno, cit., p. 124.
Così si esprime la Corte di cassazione nella sentenza in esame.
168 Corte Cost., ord. 19 aprile 2007, n. 128, pubblicata sul sito www.dirittoegiustizia.it e ora anche
in Fam. dir., 2007, 7, p. 667 ss., seguita da una nota di VULLO, La Corte Costituzionale si pronuncia
in materia di amministrazione di sostegno e difesa tecnica.
166
167
105
sia una situazione soggettiva incidente sulla capacità legale, la regola
dell’obbligatorietà del patrocinio è imprescindibile; che nessun rilievo sulla
regola del patrocinio avrebbe l’uso delle forme camerali, dovendosi piuttosto
guardare all’”oggetto sostanziale”del procedimento.
La Corte dichiara il ricorso manifestamente inammissibile perché il
giudice a quo ha “omesso di verificare la possibilità di pervenire ad una
interpretazione conforme a Costituzione”: questa possibilità è offerta proprio dalla
soluzione offerta dalla Cassazione, contenuta nella sentenza 25366/2006. La
Consulta cita pedissequamente il principio di diritto della sentenza della
Cassazione, e invita il giudice a quo ad applicare, nel caso concreto, il distinguo
sopra descritto fra ipotesi per cui è richiesta la difesa tecnica ed ipotesi che,
all’opposto, non la richiedono.
La tesi della Cassazione ha avuto un altro riscontro in termini positivi. Nel
gennaio 2007 è stata redatto un progetto di legge per l’abrogazione
dell’interdizione
e
dell’inabilitazione,
la
cd.
“bozza
Cendon”
(testo
provvisorio)169. Il progetto, oltre ad abrogare i vecchi istituti protettivi, ha
l’intento di completare e perfezionare la disciplina sostanziale e processuale
dell’amministrazione di sostegno, che così diverrebbe l’unica misura di tutela
dei soggetti deboli, ad amplissimo raggio di azione. Per quanto riguarda la
questione del patrocinio, la bozza accoglie in toto la soluzione della Cassazione
fondata sulla distinzione appena descritta, fra provvedimenti che comprimono
diritti fondamentali della persona e provvedimenti che invece non hanno su di
essi alcuna ricaduta, con finalità e contenuti solamente gestionali. Questa
distinzione è necessaria, secondo Cendon, e motivata dalla “doppia anima”
dell’istituto170. Questa doppia anima si fonda sulla diversità della “clientela”che
l’amministrazione di sostegno ha – soprattutto una volta divenuta l’unico
strumento di protezione dei soggetti: da un lato persone che “vanno davvero
incapacitate…per il loro bene”perché si trovano in condizioni fisio-psichiche di
Il testo della cd. “bozza Cendon” per l’abrogazione dell’interdizione e dell’inabilitazione si
trova sul sito www.personaedanno.it.
170 Cfr. nella “bozza Cendon” sez. II, § 2.20.
169
106
particolare gravità, e dall’altro “clientela di tipo leggero”171 solamente
bisognevole di un sostegno gestionale.
Il progetto prevede l’introduzione, all’art. 716 co. 2 c.p.c., di una
disposizione siffatta: “In ogni fase del procedimento, il giudice tutelare qualora, con
riferimento esclusivo all’interesse del beneficiario, ritenga di stabilire divieti, limitazioni
o decadenze incidenti su diritti fondamentali della persona, invita il beneficiario a
nominare un difensore… A tal fine, il giudice tutelare concede all’interessato un
termine per la nomina del difensore, rinviando ad una udienza successiva l’assunzione
dei provvedimenti in relazione ai quali è disposta la difesa tecnica”. Come nella
soluzione della Cassazione, è il giudice a stabilire quali siano i casi in cui la
difesa tecnica è obbligatoria.
Abrogate interdizione ed inabilitazione, ovviamente sparisce qualsiasi
riferimento all’estensione di “effetti, limitazioni, decadenze previste dalla legge
per l’interdetto o l’inabilitato”: si parla, parafrasando la pronuncia della
Cassazione, soltanto di incidenza sui diritti fondamentali della persona.
Parte della dottrina aveva criticato questa impostazione, che si porrebbe in
contrasto netto coi principi generali, in base ai quali tendenzialmente l’obbligo
del patrocinio è stabilito su dati oggettivi172; è interessante, e bizzarro al
contempo, notare come la “bozza Cendon” consideri tale scelta “logica ed
armonica”, nell’ottica di un diritto “dal basso” che si fonda sullo stretto rapporto
fra le parti ed il giudice tutelare e che “si sostanzia, sul piano processuale, nella
scelta di rimettere allo stesso giudice tutelare il compito di valutare, di volta in volta, se
sarà necessario far capo alla difesa tecnica “.
Del tutto peculiari sono poi le conseguenze che il testo della bozza
ricollega alla mancata nomina del difensore nel tempo assegnato dal giudice
tutelare: l’art. 716 co. 3 c.p.c. come modificato stabilirebbe che “La mancata
nomina del difensore, da parte del beneficiario o dell’amministratore di sostegno, nel
Queste sono le parole di CENDON, nella “Bozza per l’abrogazione dell’interdizione e
dell’inabilitazione” (testo provvisorio), sez. II, § 2.20 e sez. III, § 3.13.
172 TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica in un’ambigua sentenza della cassazione,
cit., p. 27.
171
107
termine assegnato, legittima il giudice tutelare a stabilire i divieti, le limitazioni o le
decadenze in relazione ai quali egli aveva disposto la nomina del difensore”. Non si
produrrebbe alcuna sanzione di nullità, con i correlati rischi di “ingessamento”
del procedimento: semplicemente, il giudice potrebbe procedere senza il timore
di incorrere nella spada di Damocle della nullità del procedimento. Si può dire
che il diritto alla difesa è rimesso alla buona volontà della parte, la quale se
intende tutelarlo dovrà nominare un difensore nel tempo assegnatole, e
altrimenti non potrà lamentarne la violazione.
6. Procedure di raccordo fra le misure di protezione dei soggetti deboli.
Il fatto che l’ordinamento preveda due modelli diversi per la tutela dei
soggetti deboli – da un lato i vecchi istituti di tutela e dall’altro la novità
dell’amministrazione di sostegno – e quindi due procedimenti diversi, non è
scevro di problemi dal punto di vista del coordinamento processuale fra queste
misure. Il problema si pone soprattutto a causa del fatto che i procedimenti
sono attribuiti a giudici diversi: sul ricorso per l’interdizione e l’ inabilitazione
decide il tribunale in composizione collegiale, mentre in materia di
amministrazione di sostegno è competente il giudice tutelare, che è organo
monocratico173.
Trovare un coordinamento processuale fra i procedimenti significa trovare
delle forme, delle modalità che consentano il “passaggio” da un procedimento
all’altro, qualora il giudice ne rilevi la necessità o l’opportunità.
È opportuno, innanzitutto, osservare quali sono i dati normativi da cui il
È bene notare, per precisione, che questa diversità di attribuzioni non attiene alla
competenza in senso tecnico (benché sia lo stesso legislatore a parlare, impropriamente, di
competenza) perché i due organi appartengono al medesimo ufficio giudiziario: trattasi
semplicemente di ripartizione di compiti fra gli organi di un medesimo ufficio. Questa
precisazione è importante perché implica tutta una serie di conseguenza, non da ultima quella
dell’impossibilità di esperire regolamento di competenza: così CHIARLONI, Prime riflessioni su
alcuni aspetti della disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno, in FERRANDO (a cura di),
L’amministrazione di sostegno. Una nuova forma di protezione dei soggetti deboli, cit., p. 152.
173
108
discorso prende le mosse. Il codice, come novellato, configura la possibilità di
forme di collegamento in due sensi: dal procedimento di interdizione a quello
di nomina dell’amministratore di sostegno, e viceversa.
Gli artt. 418, co. 3 e 429, co. 3 c.c. descrivono un movimento nella prima
direzione. L’art. 418, co. 3 stabilisce che il tribunale, nel corso del giudizio di
interdizione o inabilitazione, “dispone la trasmissione del procedimento al giudice
tutelare” qualora appaia “opportuno applicare l’amministrazione di sostegno”; in
questa evenienza il giudice competente per l’interdizione o l’inabilitazione “può
adottare i provvedimenti urgenti di cui al quarto comma dell’art. 405 c.c.”. L’art. 429,
co. 3, c.c. prevede che “se nel corso del giudizio per la revoca dell’interdizione o
dell’inabilitazione appare opportuno che, successivamente alla revoca, il soggetto sia
assistito dall’amministratore di sostegno, il tribunale, d’ufficio o ad istanza di parte,
dispone la trasmissione degli atti al giudice tutelare”.
L’art.
413,
co.
4
c.c.,
descrive
il
transito
in
senso
inverso:
dall’amministrazione di sostegno verso l’interdizione o l’inabilitazione. Quando
il giudice tutelare rileva che l’amministrazione di sostegno sia “inidonea a
realizzare la piena tutela del beneficiario”, dichiara la cessazione della misura;
in tal caso, ”se ritiene che si debba promuovere giudizio d’interdizione o inabilitazione,
ne informa il pubblico ministero affinché vi provveda”.
È agevole notare come non vi sia piena simmetria fra le due ipotesi: non
solo dal punto di vista dei contenuti, e quindi delle modalità di passaggio –
elementi che si avrà modo di approfondire – ma, ancor prima, perché per avere
un parallelismo completo servirebbe una disposizione che invece manca. Il
“transito” verso l’amministrazione di sostegno può avvenire sia partendo dal
procedimento di interdizione174 (art. 418 c.c.) sia dal procedimento di revoca
della stessa (art. 429 c.c.); per il passaggio inverso, invece, il codice parla solo
della possibilità di promuovere il giudizio d’interdizione in sede di cessazione
dell’amministrazione di sostegno, ma nessuna menzione è fatta dell’ipotesi che
Per contrazione, d’ora in avanti si parlerà solo di interdizione, ma lo stesso discorso vale per
l’inabilitazione: quindi ove scritto “interdizione” è da intendersi “interdizione e inabilitazione”.
174
109
questo passaggio avvenga in sede di apertura della stessa.
Per agevolare l’analisi che seguirà, è opportuno schematizzare così le
ipotesi di raccordo esistenti:
a) dall’interdizione all’amministrazione di sostegno: il giudice “trasmette
il procedimento” al giudice tutelare (418, co. 3);
b) dalla revoca dell’interdizione all’amministrazione di sostegno: il
tribunale “trasmette gli atti” al giudice tutelare (429, co. 3);
c) dalla
cessazione
dell’amministrazione
di
sostegno
(e
in
via
interpretativa, anche dall’apertura della stessa) all’interdizione: il
giudice tutelare “informa il pubblico ministero” affinché provveda a
promuovere l’interdizione (413, co. 4).
Nei paragrafi che seguono verranno esaminati, singolarmente, questi tre
meccanismi di coordinamento.
7. (segue) Dall’interdizione all’amministrazione di sostegno.
L’art. 418 c.c., in particolare il suo terzo comma, è forse la norma più
controversa della breve vita dell’amministrazione di sostegno. I dubbi che desta
la previsione in esso contenuta si riducono sostanzialmente a tre interrogativi:
1) quale giudice (persona fisica o collegio) può in concreto decidere per la
trasmissione del procedimento al giudice tutelare; 2) quale provvedimento deve
adottare detto giudice per effettuare la trasmissione; 3) che norme applicare in
caso di contrasto fra l’apprezzamento del tribunale e quello del giudice tutelare.
Le tre questioni saranno analizzate separatamente, nell’ordine.
1) I dubbi sull’identità del giudice che effettua la trasmissione si originano
dal fatto che il procedimento d’interdizione può essere suddiviso in fasi
autonome, e che queste fasi spettano a giudici diversi. Si ha una prima fase
preliminare che costituisce una sorta di filtro, per arrestare a questo stadio le
110
domande manifestamente infondate175: questo primo compito spetta al
presidente del tribunale (713 c.p.c.). Lo stadio successivo consiste nell’istruzione
della causa, che è attribuita al giudice istruttore – al quale viene trasmesso il
fascicolo (art. 714 c.p.c.). La decisione, che assume la forma di sentenza, viene
infine adottata dal tribunale in composizione collegiale. Ci si chiede fin da che
momento, nel corso del procedimento d’interdizione, possa avvenire la
trasmissione al giudice tutelare.
Il testo dell’art. 418 parla di trasmissione “nel corso del giudizio d’interdizione
o inabilitazione”: da ciò parrebbe che essa possa avvenire fin da subito, fin dalla
pendenza del procedimento176, e quindi anche ad opera del presidente del
tribunale nella sua funzione di vagliare la non manifesta infondatezza della
domanda177. Vi sono però altri elementi che portano ad escludere questa
possibilità: in primis, lo stesso comma dell’art. 418, che parla di una valutazione
di opportunità dell’amministrazione di sostegno (“se…appare opportuno”) che il
giudice deve effettuare. Questo riscontro di opportunità ha un peso notevole
sull’andamento del procedimento, e non sembra attagliarsi al vaglio
presidenziale, tradizionalmente inteso con semplici funzioni di schermo contro
le domande manifestamente infondate, senza spazio a valutazioni di
opportunità.
Inoltre, viene da pensare che una valutazione di opportunità
ponderata, su quale misura di protezione sia più indicata per un determinato
soggetto, possa essere effettuata solo dopo aver sentito l’inabile (attraverso
l’esame dell’interdicendo) e dopo aver ascoltato gli informatori (419 c.c.);
“passare la palla” al giudice tutelare, soltanto sulla base di quanto è detto nel
ricorso e sulla base degli atti contenuti nei fascicoli delle parti, sembra quanto
Così RAMPAZZI GONNET, voce “Procedimento di interdizione e inabilitazione”, in Digesto
Civ., XIV, Torino, 1996, p. 597; allo stesso modo si esprime ANDRIOLI, Commento al codice di
procedura civile, 3° ed., Napoli, 1964, IV, p. 356.
176 È utile ricordare che il processo di interdizione, come ogni altro processo che inizi con
ricorso, si considera pendente dal momento del deposito del ricorso stesso, e perciò ancora
prima della notifica all’inabile ed ai suoi parenti (art. 713, co. 2 c.p.c.).
177 MASONI, Correlazioni processuali tra il giudizio di interdizione ed inabilitazione e il procedimento
istitutivo dell’amministrazione di sostegno, di cui alla L. 9 gennaio 2004, n.6: primi contrasti
interpretativi, in Giur. it., 2005, p. 2137.
175
111
mai sconveniente. Vi è anche chi ritiene che la decisione non possa esser presa
neppure dal giudice istruttore, bensì soltanto dal collegio in sede di decisione:
questo dovrebbe avvenire in virtù dell’applicazione analogica di una regola
generale, quella dettata dell’art. 281-septies c.p.c. per la rimessione della causa al
giudice monocratico178.
Esposte le varie opinioni su questo punto, non può dirsi ancora chiusa la
questione
dell’identità
del
giudice
che
effettua
la
trasmissione
del
procedimento: è lecito chiedersi, visto che la legge nulla esclude e nulla
stabilisce al riguardo, se possa trattarsi anche del giudice d’appello. Si pensi ad
un caso del genere: in primo grado è stata pronunciata una sentenza
d’interdizione; contro di essa viene proposto appello; ci si chiede se possa la
Corte d’appello investita del gravame ritenere più opportuna la misura
dell’amministrazione di sostegno e “passare la palla”, a questo punto, al giudice
tutelare. Rispondere affermativamente significa far regredire il procedimento,
farlo tornare in primo grado: le funzioni di giudice tutelare sono infatti
attribuite soltanto a giudici incardinati presso il tribunale (344 c.c.), non anche
presso le Corti d’appello. Ci si scontra, a questo punto, con un dato normativo
che parla molto chiaro: l’art. 354 c.c., la cui lettera stabilisce che il giudice
d’appello non può rimettere la causa al primo giudice al di fuori dei casi
tassativamente previsti179 (artt. 353 e 354 c.p.c.).
Se dunque questa via non è praticabile, ci si chiede che cosa sia in potere
di fare il giudice d’appello, ove ritenga che la misura dell’interdizione sia
troppo forte, troppo limitativa, e che sia sufficiente quella dell’amministrazione
di sostegno. Vi è chi ipotizza che possa essere la stessa Corte d’appello a
Questa sembra essere l’opinione di DANOVI, Il procedimento per la nomina dell’amministratore
di sostegno (l. 9 gennaio 2004, n. 6), in Riv. Dir. Proc., 2004, p.804; l’autore affama, tuttavia, che
esigenze di speditezza e di economia processuale farebbero propendere per l’attribuzione della
funzione anche al giudice istruttore.
179 MANDRIOLI, Diritto processuale civile, II, Il processo di cognizione, 15° ed., Torino, 2003, p. 459;
lo stesso autore precisa che tuttavia la giurisprudenza ha in alcuni casi interpretato
estensivamente il dato normativo.
178
112
convertire l’interdizione in amministrazione di sostegno180: si tratterebbe di
una sorta di “riforma allargata” che il giudice di secondo grado, secondo questa
interpretazione, potrebbe compiere.
2) La seconda questione controversa riguarda la forma del provvedimento
con cui il tribunale trasmette il procedimento al giudice tutelare. Parte della
dottrina e della giurisprudenza affermano che il passaggio vada disposto con
una semplice ordinanza; altri invece sostengono sia necessaria la pronuncia di
una sentenza di rigetto della richiesta d’interdizione, a cui poi fa seguito
un’ordinanza per la trasmissione del fascicolo al giudice tutelare.
Il nodo interpretativo da cui le perplessità si originano è rappresentato
dall’espressione “trasmissione del procedimento”. Questa espressione non ha
precedenti, non trova riscontri in nessun’altra disposizione legislativa: la
dottrina unanimemente la definisce come impropria181, e come indice della
scarsa attenzione del legislatore della riforma verso il tecnicismo che connota il
processo182. È stato fatto notare come oggetto di trasmissione siano sempre atti
o fascicoli, mai cause o procedimenti
183(questi
sono semmai oggetto di
riassunzione o prosecuzione): un’espressione più “ortodossa” è utilizzata ad
esempio dall’art. 429 c.c. che, descrivendo il passaggio dal giudizio di revoca
dell’interdizione a quello di apertura dell’amministrazione di sostegno, parla di
“trasmissione degli atti” al giudice tutelare,.
Alcuni interpreti ritengono, tuttavia, che l’espressione, per quanto
scorretta, abbia un significato ed una valenza peculiari. La locuzione
“trasmettere un procedimento” fa pensare immediatamente alla rimessione ad
altro giudice di un giudizio ancora pendente, non ancora concluso. Anche il
confronto con l’art. 429 c.c. porta a concludere che, se non è una svista del
MASONI, Correlazioni processuali tra il giudizio di interdizione ed inabilitazione e il procedimento
istitutivo dell’amministrazione di sostegno, cit., p. 2138.
181 TOMMASEO, L’amministrazione di sostegno al vaglio della Corte costituzionale, in Fam. dir., 2006,
2, p. 121.
182 MASONI, Correlazioni processuali tra il giudizio di interdizione ed inabilitazione e il procedimento
istitutivo dell’amministrazione di sostegno, p. 2138.
183 TOMMASEO, L’amministrazione di sostegno al vaglio della Corte costituzionale, cit., p. 121 e in
particolare nota (15).
180
113
legislatore l’aver utilizzato due espressioni diverse, allora questa disparità
deve manifestarsi con l’emanazione di provvedimenti differenti: sentenza per il
caso dell’art. 429 c.c., che si riferisce alla “trasmissione degli atti” del
procedimento di revoca, ormai concluso e definito; ordinanza per l’art. 418, che
riguarda una trasmissione nell’ambito di un procedimento ancora aperto, e
nell’ambito di un unico giudizio in cui si distinguono due fasi con riti diversi184.
Secondo questa tesi, dunque, il passaggio al giudice tutelare è qualificabile
come un mutamento del rito, nel contesto di un giudizio che rimane unitario185.
Il provvedimento che lo dispone è privo di carattere decisorio, e può quindi
assumere le forme dell’ordinanza186.
Non concordano altri esponenti della dottrina e della giurisprudenza, che
ritengono indispensabile che il passaggio avvenga con sentenza. Costoro
argomentano, a contrario, che avvalersi dello strumento dell’ordinanza per
disporre il passaggio sarebbe illegittimo, o quanto meno irrispettoso delle
garanzie processuali che spettano al ricorrente.
Sulle ragioni di tale illegittimità non vi è però piena concordia. Secondo
alcuni, disporre la trasmissione con ordinanza costituirebbe un’omissione di
pronuncia sulla domanda di interdizione, in violazione del divieto del non liquet
(art. 112 c.p.c.). Secondo altri il provvedimento di trasmissione verrebbe a
costituire, di fatto, un rigetto nel merito della domanda, e sarebbe quanto mai
inopportuno affidare ad un’ordinanza endoprocedimentale la produzione di un
simile effetto.
Questa seconda opinione sembra particolarmente interessante e merita di
essere approfondita. L’assunto da cui essa parte è che il tribunale, trasmettendo
MARTINELLI, Interdizione e amministrazione di sostegno, in FERRANDO (a cura di),
L’amministrazione di sostegno. Una nuova forma di protezione dei soggetti deboli, cit., p. 146.
185 Altre ipotesi di mutamento del rito sono rinvenibili nel nostro ordinamento processuale.
Questo è quanto avviene, ad esempio: nel procedimento per convalida di sfratto, col passaggio
da una fase speciale ad un’altra a cognizione piena, che avviene quando l’intimato fa
opposizione (art. 667 c.p.c.); nel giudizio di separazione personale fra coniugi, col passaggio
dalla fase di conciliazione, svoltasi davanti al presidente del tribunale, a quella contenziosa
dinnanzi al giudice istruttore (artt. 708 c.p.c. e 4, co. 8, l. 898/1970).
186 TOMMASEO, L’amministrazione di sostegno al vaglio della Corte costituzionale, cit., p. 121 e nota
(18).
184
114
il procedimento al giudice tutelare, contemporaneamente rigetta la domanda
del ricorrente: e la rigetta nel merito, perché lo fa sulla base di una valutazione
di inopportunità e di inidoneità della misura (o ,meglio, sulla base di una
valutazione di maggior opportunità ed idoneità di una misura diversa).
Dunque, il provvedimento con cui è disposto il passaggio non ha affatto natura
interlocutoria ed endoprocedimentale; si tratta invece di un provvedimento dal
contenuto decisorio. Ora, un’ordinanza di regola non è impugnabile. Attribuire
la forma dell’ordinanza ad una pronuncia sostanzialmente decisoria significa
farla sfuggire a qualsiasi controllo e rendere insindacabili le scelte di
opportunità che vi stanno alla base187. Ciò appare ancora più iniquo se si
raffrontano due ipotesi: se il tribunale semplicemente rigetta la domanda
d’interdizione, la pronuncia in forma di sentenza è impugnabile con i mezzi
ordinari; se il tribunale (rigetta la domanda e) trasmette al giudice tutelare ex
art. 418 c.c., allora nessuna impugnazione sarebbe esperibile avverso questa
decisione188. Eppure, in entrambe le ipotesi, la domanda è rigettata.
L’insindacabilità di questa “ordinanza decisoria” sarebbe davvero totale:
infatti, il decreto emesso dal giudice tutelare a seguito della trasmissione potrà
certo essere impugnato con il mezzo del reclamo, ai sensi dell’art. 720-bis c.p.c.,
ma pare improbabile che il giudice chiamato a decidere sul reclamo (la Corte
d’appello) possa sindacare anche la scelta del tribunale di trasmettere il
procedimento al giudice tutelare189.
In base a questa interpretazione, dunque, l’unica via legittima, perché più
ragionevole e garantista, è quella della sentenza. Anche la Corte costituzionale,
nell’obiter di una sentenza del 2005190 (la prima che vaglia la legittimità
Si ricorda che l’unica, limitatissima forma di controllo sulle ordinanze endoprocedimentali
non revocabili è costituita dalla correzione ex art. 287 c.p.c., da parte del giudice che l’ha
pronunciata, nei soli casi in cui sia incorso in omissioni od errori materiali o di calcolo.
188 Di nuovo VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell'amministrazione di sostegno,
cit., § 5.
189 Così sostiene VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell'amministrazione di
sostegno, cit., § 5; contra, però, MASONI, Correlazioni processuali tra il giudizio di interdizione ed
inabilitazione e il procedimento istitutivo dell’amministrazione di sostegno, cit., p. 2140.
190 Corte Cost., 9 dicembre 2005, n. 440, in Fam. dir., 2006, p. 121 ss, cui fa seguito la più volte
187
115
costituzionale
dell’istituto
dell’amministrazione
di
sostegno),
sembra
supportare questa tesi191. La Corte, affrontando il tema dei raccordi processuali
fra interdizione e amministrazione di sostegno, incluso quindi l’art. 418 c.c.,
afferma che “i provvedimenti di entrambi gli organi sono impugnabili innanzi alla
Corte d’appello, rispettivamente con il reclamo contro il decreto del giudice tutelare (art.
720-bis) e con l’appello contro la sentenza del tribunale”; inoltre dichiara che il
Tribunale “apre direttamente” il procedimento di amministrazione di sostegno,
lasciando intendere che si tratti di un giudizio autonomo e diverso rispetto a
quello di interdizione192.
Optare per una soluzione o per l’altra non è affatto indifferente sul piano
pratico. Le conseguenze di tale opzione attengono, ad esempio:
–
alla
utilizzabilità
dell’attività
istruttoria
tribunale prima della trasmissione:
compiuta
dal
solo la tesi della
continuità del procedimento – e quindi dell’ordinanza– ha
come conseguenza la piena e sicura utilizzabilità, da parte del
giudice tutelare, delle attività istruttorie compiute in
precedenza dal tribunale (si potrebbe per esempio evitare una
nuova audizione del soggetto beneficiario, già sentito dal
giudice istruttore in sede di esame dell’interdicendo);
all’opposto, emettere sentenza implicherebbe, di regola,
escludere
l’utilizzabilità
del
materiale
probatorio
già
acquisito193;
–
alla efficacia della originaria procura alle liti
conferita al
difensore, dopo il passaggio: solo la via della continuità – e
citata nota di TOMMASEO, L'amministrazione di sostegno al vaglio della Corte Costituzionale.
191 Si è detto “sembra supportare questa tesi” perché in realtà, le affermazioni della Corte non
sono cristalline: TOMMASEO, ult. cit., per esempio rileva che non è chiaro quale sia il senso
ultimo delle affermazioni che la Corte fa obiter, visto che non tutte paiono supportare la tesi dei
due giudizi separati.
192 Così interpreta l’obiter della sentenza della Consulta VULLO, Alcuni problemi della disciplina
processuale dell'amministrazione di sostegno, cit., § 5.
193 MASONI, Correlazioni processuali tra il giudizio di interdizione ed inabilitazione e il procedimento
istitutivo dell’amministrazione di sostegno, cit., p. 2139.
116
quindi dell’ordinanza – rende superfluo il rilascio di una
nuova procura, visto che il ricorso è in tal caso retto dal
ricorso introduttivo originario;
–
alla necessità o meno della presentazione di una nuova nota
d’iscrizione della causa a ruolo avanti al giudice tutelare; di
nuovo, solo la via dell’ordinanza renderebbe superflua una
nuova iscrizione194.
Anche su questo punto, dottrina e giurisprudenza sembrano lontane
dall’aver raggiunto un accordo. Alcuni tribunali, con il supporto di parte del
mondo accademico, scelgono la strada della continuità processuale e quindi
dell’ordinanza, con i notevoli vantaggi pratici che tale scelta comporta; altri
giudici ed altri esponenti di dottrina ritengono necessario definire il giudizio
d’interdizione con sentenza di rigetto nel merito per i motivi –peraltro validi e
difficilmente confutabili – descritti sopra, e rimettere il fascicolo al giudice
tutelare con separata ordinanza.
3) Il terzo quesito su cui la dottrina si è confrontata riguarda la possibilità
per il giudice tutelare, una volta ricevuto il fascicolo dal tribunale adito con la
domanda di interdizione, di dissentire con le indicazioni di quest’ultimo. Il caso
è il seguente: il tribunale trasmette il procedimento al giudice tutelare perché
ritiene più opportuna l’apertura dell’amministrazione di sostegno rispetto ad
una pronuncia d’interdizione; il giudice tutelare non si trova d’accordo con le
valutazioni del tribunale, oppure – pur d’accordo con esse – rileva che la
situazione di fatto nel frattempo è mutata ed ora è più opportuno interdire.
La dottrina ha assunto diverse posizioni riguardo al seguito che possa
avere il procedimento. Innanzitutto, si è escluso che il giudice tutelare sia
MASONI, Correlazioni processuali tra il giudizio di interdizione ed inabilitazione e il procedimento
istitutivo dell’amministrazione di sostegno, cit., p. 2139; VULLO, Alcuni problemi della disciplina
processuale dell'amministrazione di sostegno, cit., § 5. Gli autori si soffermano esattamente sugli
stessi punti, ed elencano le stesse conseguenze che la scelta in un senso o nell’atro produce. Le
conclusioni a cui i due autori pervengono sono, però, opposte: mentre per il primo prevalgono
le ragioni di celerità e di economia processuale, che indubbiamente fanno propendere per la tesi
dell’ordinanza, per il secondo tali vantaggi non sembrano in grado di superare la necessità di
controllo che solo la pronuncia di una sentenza garantisce.
194
117
costretto ad istituire l’amministrazione di sostegno “forzosamente”, pur non
essendo convinto della bontà della misura195. Allo stesso modo, si è
unanimemente
escluso
che
il
giudice
tutelare
possa
direttamente
e
semplicemente ri-trasmettere gli atti al giudice istruttore del tribunale: ciò
contrasterebbe con la previsione dell’art. 413 c.c. che esige il coinvolgimento del
pubblico ministero per il passaggio “dal basso verso l’alto”, cioè dal giudice
tutelare al tribunale196. Appurato ciò, si profilano due possibili soluzioni:
a) il giudice tutelare si trova di fronte all’alternativa secca di accogliere la
richiesta o di rigettare con decreto motivato; quindi in caso di dissenso può solo
emettere un decreto che rigetta nel merito la richiesta 197. Anche tale decreto sarà
impugnabile a mezzo del reclamo alla Corte d’appello (art. 720-bis): è
comunque dibattuto se, in sede di reclamo, possa essere oggetto di sindacato la
valutazione e decisione del giudice superiore di trasmettere il procedimento al
giudice tutelare198.
b) il giudice tutelare ha la possibilità di far “rimbalzare” il procedimento
di nuovo verso l’alto, cioè verso il tribunale, applicando estensivamente il
meccanismo dell’art.. 413 c.c.: il giudice tutelare informa ritualmente il pubblico
ministero affinché questi dia impulso al giudizio d’interdizione. L’art. 413 è
dettato in riferimento al giudizio di cessazione dell'amministrazione di
sostegno, ma parte degli interpreti lo reputano applicabile in ogni altro caso in
cui il giudice tutelare valuti l’inopportunità di tale misura e, al contempo,
ritenga sussistano i presupposti dell’interdizione199. In tale prospettiva, si fa
MASONI, Correlazioni processuali tra il giudizio di interdizione ed inabilitazione e procedimento
istitutivo dell’amministrazione di sostegno, cit., p. 2140: ciò contrasterebbe palesemente con il
dettato dell’art. 110 Cost. per cui “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
196 Tale punto sarà approfondito in questo capitolo, § 9.
197 Di questa opinione pare essere MASONI, Correlazioni processuali tra il giudizio di interdizione ed
inabilitazione e procedimento istitutivo dell’amministrazione di sostegno, cit., p. 2140.
198 La questione – se in sede di reclamo avverso il decreto del giudice tutelare possa sindacarsi
anche la decisione del tribunale che gli ha trasmesso il procedimento – è già stata accennata nel
punto 2) di questo paragrafo. Risposta affermativa è data da MASONI, p. 2140, ma il resto della
dottrina sembra essere dell’opinione contraria, per esempio il già citato VULLO, Alcuni problemi
della disciplina processuale dell'amministrazione di sostegno, cit., § 5.
199 Così TOMMASEO, L'amministrazione di sostegno al vaglio della Corte Costituzionale, cit., p. 126,
nota (14); così anche VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell'amministrazione di
195
118
notare che l’art. 413 c.c. non distingue, quanto alla possibilità di informare il
pubblico ministero, se il procedimento di amministrazione di sostegno sia stato
direttamente instaurato davanti al giudice tutelare o sia pervenuto a
quest'organo dal tribunale ai sensi dell’art. 418 c.c..
8. (segue) Dalla revoca dell’interdizione all’amministrazione di sostegno.
L’inidoneità della dichiarazione di interdizione e la maggior opportunità
dell’amministrazione di sostegno possono emergere non solo durante il giudizio
di interdizione, ma anche dopo, una volta che il soggetto sia stato dichiarato
interdetto200.
Questo si verifica, nella pratica, in due ipotesi. In primis, ciò avviene
quando è mutata la situazione di fatto che aveva determinato l’interdizione: le
condizioni del soggetto inabile possono essersi evolute, ed apparire tali da non
richiedere più una misura così invasiva; al contempo, però, può apparire
opportuno fornire al soggetto un ausilio per la gestione di singole attività, per il
compimento di determinati atti. Inoltre, ciò si verifica quando, pur non essendo
mutata la condizione psico-fisica del soggetto, è cambiata la qualificazione
giuridica di essa a seguito della riforma, e della nuova “perimetrazione” degli
istituti: molti casi in cui un tempo si interveniva con interdizione o
inabilitazione, oggi rientrano indiscutibilmente nell’ambito di applicazione
della nuova misura201.
sostegno, cit., § 5; MASONI, Correlazioni processuali tra il giudizio di interdizione ed inabilitazione e il
procedimento istitutivo dell’amministrazione di sostegno, cit., p. 2140 ritiene però che questa
soluzione comporti tempi tecnici troppo lunghi: in effetti, non si può dar torto a questo
appunto, che si somma a quello della totale libertà e discrezionalità del p.m. di instaurare il
giudizio di interdizione.
200 Si ricorda che la sentenza di interdizione produce i suoi effetti a partire dalla data di
pubblicazione, non serve quindi attendere il passaggio in giudicato: cfr. cap. I, § 1.
201 Ciò avviene in tutti i casi in cui il soggetto può esser meglio tutelato con l’amministrazione di
sostegno, in base al criterio funzionale della maggior adeguatezza nel caso specifico enunciato
dalla Cassazione. Il giudice di legittimità ha sancito il criterio “funzionale” o dell’adeguatezza
per distinguere l’ambito di applicazione dell’interdizione, da un lato, e dell’amministrazione di
119
In entrambi i casi il legislatore profila, come soluzione, il concorso di due
procedimenti: quello di revoca dell’interdizione e quello di apertura
dell’amministrazione di sostegno. L’art. 429 c.c., al terzo comma prevede che il
tribunale disponga la trasmissione degli atti al giudice tutelare qualora, durante
il giudizio di revoca, emerga l’opportunità che il soggetto sia assistito da un
amministratore di sostegno per il tempo successivo alla revoca 202. Per essere
compresa pienamente, questa previsione deve essere letta congiuntamente ad
altre due: in base all’art. 405, co. 3, c.c., se l’interessato è interdetto o inabilitato,
il decreto di nomina produce i suoi effetti dalla pubblicazione della sentenza di
revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione; in base all’art 406, co. 2, c.c., se il
ricorso per la nomina dell’amministratore di sostegno riguarda una persona
interdetta o inabilitata, deve essere proposto congiuntamente alla domanda di
revoca dell’interdizione o inabilitazione, davanti al giudice competente per
quest’ultima.
Ora bisogna ricostruire il quadro che la sovrapposizione di queste norme
tratteggia. Iniziamo con una constatazione che può apparire ovvia: sul piano
sostanziale le misure di tutela dei soggetti deboli sono fra loro alternative;
l’amministrazione di sostegno non può intervenire nei confronti di un soggetto
già interdetto, né può essere interdetto colui che sia beneficiario di
un’amministrazione di sostegno. Diversamente, sul piano processuale possono
aversi delle sovrapposizioni di procedimenti, purché essi siano ritualmente
instaurati203.
La condizione che rende possibile questa sovrapposizione consiste in
questo: il ricorso con cui si chiede l’apertura dell’amministrazione di sostegno
sostegno, dall’altro: Cass., 12 giugno 2006, n. 13584, in Fam. dir., 2007, I, p. 31, seguita da una
nota di SESTA, Amministrazione di sostegno e interdizione: quale bilanciamento fra interessi personali
e patrimoniali del beneficiario? L’autore commenta in termini critici la sentenza della Suprema
Corte.
202 L’art. 429, co. 3, c.c., recita così: “Se nel corso del giudizio per la revoca dell’interdizione o
dell’inabilitazione appare opportuno che, successivamente alla revoca, il soggetto sia assistito
dall’amministratore di sostegno, il tribunale, d’ufficio o ad istanza di parte, dispone la
trasmissione degli atti al giudice tutelare”.
203 CHIZZINI, Procedimenti di istituzione e revoca dell’amministrazione di sostegno, in BONILINICHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, cit., p. 409-410.
120
deve
essere
presentato
congiuntamente
alla
richiesta
di
revoca
dell’interdizione. Ciò significa: innanzitutto, che non si può prima chiedere la
nomina dell’amministratore di sostegno (ex art. 407 c.c.) e solo poi, in caso di
accoglimento della richiesta, riservarsi l’opportunità di agire per la revoca
dell’interdizione; quindi, che la preventiva domanda di revoca costituisce un
requisito per l’apertura dell’amministrazione di sostegno.
Quanto al valore di tale “requisito”, le opinioni della dottrina non sono
unanimi. Vi è chi ritiene che si tratti di una condizione di procedibilità
dell’azione, sicché in assenza di una congiunta richiesta di revoca il ricorso per
l’amministrazione di sostegno deve essere dichiarato improcedibile204. Altri
sostengono invece che tale presupposto riguardi il merito della domanda: in
assenza
della
richiesta
di
revoca,
la
domanda
di
ammissione
all’amministrazione di sostegno sarebbe infondata (e non inammissibile o
improcedibile), perché risulterebbe che il soggetto necessita della più incisiva
misura dell’interdizione205.
La domanda che bisogna porsi, a questo punto, è chi sia o chi siano i
giudici chiamati a decidere su queste domande e, nel caso si tratti di giudici
diversi, come si coordini la loro rispettiva attività. Fermo restando che
sull’istanza di revoca decide il tribunale, il quesito è a quale giudice spetti
statuire sulla richiesta di nomina dell’amministratore di sostegno.
Le tre disposizioni sopra citate (artt. 405 comma 3, 406 comma 2, 429
comma 3) sono difficili da coordinare su questo punto. Da un lato, si stabilisce
che entrambe le domande vanno proposte al giudice che decide sulla revoca
(quindi, al tribunale); dall’altro, si parla di trasmissione degli atti al giudice
tutelare; infine, si fa riferimento ad un’efficacia differita del decreto di nomina,
che inizia a produrre effetti dalla pubblicazione della sentenza di revoca
CAMPESE, L’istituzione dell’amministrazione di sostegno e le modifiche in materia di interdizione e
inabilitazione, cit., p. 133.
205 Ciò avverrebbe in ragione del vincolo del giudice tutelare al giudicato sull’interdizione:
CHIZZINI, Procedimenti di istituzione e revoca dell’amministrazione di sostegno, in BONILINICHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, cit., p. 410 e nota (103).
204
121
dell’interdizione. Gli interpreti sono giunti a conclusioni differenti, a seconda
del dato normativo che hanno voluto valorizzare e di quello che, invece, hanno
ritenuto di trascurare.
Un primo orientamento ha valorizzato la disposizione in base alla quale
entrambe le domande vanno proposte “congiuntamente”dinnanzi al tribunale.
Essa è stata intesa come una statuizione sulla competenza 206: il tribunale
sarebbe eccezionalmente competente a decidere anche sull’istanza per l’
amministrazione di sostegno207. Tale interpretazione ha certamente delle
conseguenze vantaggiose: l’attribuzione ad un giudice unico consente di evitare
il potenziale conflitto fra le pronunce di due giudici diversi. Essa, tuttavia, non
riesce a giustificare il dettato dell’art. 429, in cui si dice che il tribunale
“trasmette gli atti al giudice tutelare”: non sia capisce a che scopo sia prevista
questa trasmissione, se tanto è il tribunale a dover decidere su entrambe le
istanze.
La conclusione appena descritta appare problematica anche alla luce di un
altro dato. Il comma 3 dell’art. 418 – come si è ampiamente visto nel paragrafo
precedente – stabilisce quanto segue: durante il giudizio di interdizione,
qualora appaia opportuno applicare l’amministrazione di sostegno, il tribunale
non può direttamente applicare tale misura, ma deve trasmettere il
procedimento al giudice tutelare perché statuisca su di essa. Sarebbe davvero
bizzarro affermare che il tribunale non può applicare l’amministrazione di
sostegno nel corso del giudizio di interdizione, ma può invece farlo nel corso
del giudizio di revoca della stessa.
Altri commentatori hanno imboccato una via opposta alla prima,
ritenendo che le due domande continuino a proporsi ai rispettivi giudici
competenti per esse: l’istanza di interdizione al tribunale, quella di
Si parla di competenza ma in realtà il termine, come già ricordato, è non è usato in senso
tecnico: giudice tutelare e tribunale sono organi appartenenti al medesimo ufficio giudiziario,
quindi al più si può parlare di spostamento di attribuzioni.
207 Questa è la via prospettata da M. MORETTI, in DOSSETTI-M.MORETTI-C.MORETTI,
L’amministrazione di sostegno e la nuova disciplina dell’interdizione e dell’inabilitazione, Milano, 2004,
p. 52.
206
122
amministrazione
di
sostegno
al
giudice
tutelare208.
L’avverbio
“congiuntamente” sarebbe da intendersi solo nel senso cronologico del termine.
Si avrebbero dunque due procedimenti distinti, avviati separatamente dinnanzi
a due organi giudicanti diversi, che potrebbero dar vita ad un conflitto di
decisioni: a questa evenienza porrebbe rimedio l’art. 405, stabilendo che il
decreto del giudice tutelare può produrre i suoi effetti solo dalla pubblicazione
della sentenza di revoca (e quindi solo in caso di accoglimento della relativa
richiesta). Questo orientamento ha il pregio di valorizzare il dettato dell’art. 405
c.c.. Tuttavia, esso presta il fianco ad una critica molto forte: quella di trascurare
la disposizione dell’art. 406, che a chiare lettere afferma come i due ricorsi
debbano essere presentati non solo congiuntamente (in senso cronologico), ma
anche davanti ad un medesimo giudice – quello competente per la revoca.
La terza conclusione, infine, è che con l’art. 406 il legislatore non abbia
inteso affatto intervenire sulla competenza, ma solo indicare una particolare
modalità di proposizione della domanda. In base a questo orientamento, le due
richieste devono essere presentate congiuntamente dinnanzi al tribunale;
questo organo è però competente a decidere sulla sola richiesta di revoca
dell’interdizione, sicché solo su questa si pronuncerà; successivamente, e solo in
caso di accoglimento, trasmetterà gli atti al giudice tutelare, il quale statuirà
sull’istanza di nomina dell’amministratore di sostegno209.
La tesi appena descritta è quella che sembra coordinare al meglio i dati
normativi, e che al contempo riesce a non incidere sulle regole generali in
materia di competenza. In base ad essa, il giudice tutelare rimane competente in
via esclusiva in materia di amministrazione di sostegno; semplicemente, la
relativa istanza deve essere presentata al tribunale assieme a quella di revoca. Si
hanno dunque due procedimenti distinti: il primo si svolge interamente
dinnanzi al tribunale, e termina con la sentenza di revoca dell’interdizione; il
CAMPESE, L’istituzione dell’amministrazione di sostegno e le modifiche in materia di interdizione e
inabilitazione, cit., p. 133 e nota (34).
209 Questa è la tesi di CHIZZINI, in BONILINI-CHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, cit., p.
401-402.
208
123
secondo è aperto dal tribunale che, d’ufficio o su domanda di parte, trasmette
gli
atti
al
giudice
tutelare
perché
decida
sull’istanza
di
nomina
dell’amministratore di sostegno.
Secondo questo orientamento, tale trasmissione ha ad oggetto una copia
del fascicolo d’ufficio (che contiene gli atti del procedimento di revoca), e il suo
scopo è quello di agevolare l’attività istruttoria del giudice tutelare e di
facilitarne la decisione.
9. (segue) Dall’amministrazione di sostegno all’interdizione.
Si inverta ora la direzione del ragionamento. Un soggetto è beneficiario
dell’amministrazione di sostegno, ma la misura si rivela inefficace, inadeguata;
sembra opportuno ricorrere all’interdizione, misura più invasiva ma in certi
casi insostituibile210.
Ciò può verificarsi in due particolari ipotesi. Innanzitutto, può accadere
che il giudice tutelare, chiamato a decidere sull’istanza di nomina
dell’amministratore di sostegno, ritenga che la misura richiesta sia inidonea ad
assicurare un’adeguata protezione del beneficiario e creda, al contempo, che
sussistano le ragioni per promuovere l’azione di interdizione o di inabilitazione.
Oppure, ciò può verificarsi durante il giudizio di revoca dell’amministrazione
Che l’interdizione sia una misura insostituibile, in alcuni casi peculiari in cui il soggetto non
potrebbe essere adeguatamente tutelato da alcuna altra forma di tutela, è quanto sostengono
alcuni interpreti, con l’avallo della Cassazione e della Corte Costituzionale. Cfr. le note
pronunce: Cass. 12 giugno 2006 n. 13584, in Fam. dir., 2007, I, p. 31 ss.; Corte Cost., 9 dicembre
2005, n. 440, in Fam. dir., 2006, p. 121. Per la dottrina, cfr. ad esempio MARTINELLI, Interdizione
e amministrazione di sostegno, in FERRANDO (a cura di), L’amministrazione di sostegno. Una nuova
forma di protezione dei soggetti deboli, cit., p. 140 ss. Dell’opinione contraria, ovviamente, coloro
che sostengono l’opportunità di abrogare l’interdizione: in primis, CENDON, Un altro diritto per
i soggetti deboli. L’amministrazione di sostegno e la vita di tutti i giorni, in FERRANDO (a cura di),
L’amministrazione di sostegno, cit., p. 54 ss.
210
124
di sostegno: nel corso di questo peculiare procedimento – che può essere
instaurato anche d’ufficio (art. 413, co. 4, c.c.) – lo stesso giudice tutelare può
ritenere opportuno che il soggetto ora beneficiario venga interdetto.
In entrambi i casi si rende necessario un meccanismo che, al pari
dell’ipotesi inversa descritta nei precedenti paragrafi, consenta il “transito” da
un giudice all’altro.
Il legislatore è intervenuto a disciplinare soltanto una fra queste due
ipotesi: quella che si origina nel contesto della revoca dell’amministrazione di
sostegno. L’art. 413 co. 4 c.c. stabilisce che, se la l’amministrazione di sostegno si
rivela, nel caso specifico, inopportuna, il giudice tutelare è chiamato ad
intervenire in questi modi: a) dichiara la cessazione della misura; b) se in
aggiunta ritiene sussistano i presupposti per promuovere l’interdizione,
informa il pubblico ministero affinché vi provveda.
Nulla è stabilito, invece, riguardo all’ipotesi in cui sia il giudice tutelare
che apre il procedimento a rilevare l’inopportunità della misura richiesta, da un
lato, e l’opportunità della misura più invasiva, dall’altro.
Agli interpreti non sembra, tuttavia, che il principio ubi lex dixit voluit, ubi
tacquit noluit sia applicabile al contesto in esame211. Non vi è ragione, si è detto,
perché
il
medesimo
giudice
tutelare
possa
valutare
l’opportunità
dell’interdizione solo nel corso della revoca dell’amministrazione di sostegno, e
non possa farlo prima, nel corso della nomina: dovrebbe poterlo fare, anzi, a
maggior ragione, perché ciò eviterebbe ulteriori, dispendiosi passaggi
successivi. Inoltre, non si capirebbe perché il legislatore, mentre in una
direzione ha previsto procedure di raccordo a partire sia dal procedimento di
interdizione sia da quello di revoca della stessa (rispettivamente, gli artt. 418 e
Così TOMMASEO, L’amministrazione di sostegno al vaglio della Corte costituzionale, cit., p. 121 e
nota (14); concorda VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell'amministrazione di
sostegno, cit., p. 431, favorevole ad un’applicazione estensiva della norma contenuta nell’art. 413,
co. 4, c.c. anche al procedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno; allo stesso modo
anche PASSANANTE, Il procedimento in materia di amministrazione di sostegno, in FERRANDOLENTI (a cura di), Soggetti deboli e misure di protezione, amministrazione di sostegno e interdizione,
Torino, 2006, p. 274.
211
125
429 c.c.), nella direzione opposta abbia previsto un passaggio solo dal
procedimento di revoca dell’amministrazione di sostegno, e non da quello di
apertura della stessa. Anche la Corte costituzionale, in un obiter della più volte
citata sentenza 440/2005, sembra essersi espressa in tal senso212.
Ammettiamo, dunque, che il meccanismo di raccordo del comma 4
dell’art. 413 c.c. sia applicabile da parte del giudice tutelare sia nel corso del
procedimento di apertura sia nel corso di quello di revoca dell’amministrazione
di sostegno. Bisogna ora capire in che cosa consiste tale raccordo.
Il giudice tutelare, stabilisce la disposizione, informa il p.m.; questi, poi,
potrà promuovere il giudizio di interdizione. Il legislatore questa volta parla
chiaro: il giudice tutelare si limita a comunicare al p.m. che, in base alle sue
valutazioni, il soggetto va interdetto; il p.m., ricevuta questa informazione,
dovrà a sua volta considerare la fattispecie e, solo se lo riterrà, farà istanza di
interdizione al tribunale. Ne consegue che:
–
si hanno due procedimenti distinti, che si aprono e si
concludono dinnanzi ai rispettivi organi giudicanti (il giudice
tutelare per la revoca o la nomina dell’amministratore di
sostegno, il tribunale per l’interdizione);
–
non vi è alcun rapporto diretto tra giudice tutelare e tribunale,
alcuna
trasmissione
degli
atti
né,
tanto
meno,
del
procedimento;
–
il raccordo può avvenire solo ed esclusivamente per il tramite
del p.m.: è il p.m. che apre il giudizio di interdizione, con
apposita istanza; ancor più, è il p.m. a decidere se proporre
istanza, perché l’informazione ricevuta dal giudice tutelare
non lo obbliga affatto a proporla, lo vincola semmai a
prendere in considerazione l’ipotesi di farlo.
Alla luce di queste considerazioni, sembra quasi forzato parlare di
“procedura di raccordo”, perché non si ha nessun passaggio, nessuna
212
Corte Cost., 9 dicembre 2005, n. 440, in Fam. dir., 2006, p. 121 ss.
126
“trasmissione”: l’unico elemento di coordinamento fra i due procedimenti è
costituito dall’informazione che il giudice dà al p.m., ma il resto – tutto quello
che accade dopo, di fronte al tribunale – è totalmente svincolato dal primo
procedimento dinnanzi al giudice tutelare.
È chiaro come vi sia una totale asimmetria fra i meccanismi di raccordo
nell’una e nell’altra direzione, fra l’ipotesi in cui sia il tribunale a ravvisare
l’opportunità di applicare l’amministrazione di sostegno e l’ipotesi inversa, in
cui il sia invece giudice tutelare, nel corso dell’apertura o della revoca
dell’amministrazione di sostegno, a ritenere necessaria la pronuncia di
interdizione213. Nel primo caso si ha una trasmissione del procedimento o degli
atti del procedimento, ed è il tribunale ad aprire, con la sua statuizione, il
giudizio dinnanzi al giudice tutelare; nel caso opposto il giudice tutelare non
può far nulla direttamente, può solo informare il p.m. perché si attivi e
promuova l’interdizione.
Alcuni esponenti della dottrina hanno giudicato irragionevole ed
ingiustificata la difformità di disciplina appena descritta: i due casi, si è detto,
sono perfettamente simmetrici, quindi dovrebbero essere regolati allo stesso
modo214.
A me sembra, però, che su questa asserita simmetria sia necessaria una
riflessione. Nel capitolo primo (cap. I, § 4.) si era parlato del principio della
domanda in rapporto ai procedimenti di interdizione e inabilitazione; era stata
analizzata una sentenza della Cassazione che stabiliva come tale principio, nella
sua particolare accezione di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato,
fosse applicabile anche a tali giudizi. La Corte aveva fatto riferimento al
concetto di continenza, ed al fatto che la domanda di interdizione “contiene” la
VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell'amministrazione di sostegno, cit., § 5.
Così VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell'amministrazione di sostegno, cit., §
5; allo stesso modo anche CHIARLONI, Prime riflessioni su alcuni aspetti della disciplina processuale
dell’amministrazione di sostegno, in FERRANDO (a cura di), L’amministrazione di sostegno. Una
nuova forma di protezione dei soggetti deboli, cit., p. 152-153; così pure PASSANANTE, Il
procedimento in materia di amministrazione di sostegno, in FERRANDO-LENTI (a cura di), Soggetti
deboli e misure di protezione, amministrazione di sostegno e interdizione, cit., p. 275.
213
214
127
domanda di inabilitazione: dunque, non può essere pronunciata sentenza di
interdizione a fronte di una richiesta di inabilitazione, mentre è possibile il
contrario.
Porre
in
termini
di
stretta
continenza
anche
il
rapporto
fra
interdizione/inabilitazione ed amministrazione di sostegno sarebbe una
semplificazione comoda, ma non del tutto corretta: i rapporti fra le misure di
tutela (fra i loro presupposti e i loro ambiti di applicazione) sono, invero, più
articolati e complessi. Tuttavia, non pare scorretto parlare di continenza in
riferimento agli effetti di tali misure, e in particolare alla loro incidenza sulla
capacità di agire. L’amministrazione di sostegno incide sulla capacità del
beneficiario soltanto in via eventuale, in misura variabile e solo per gli atti
specificamente indicati nel decreto di nomina; l’inabilitazione vi incide per tutti
gli atti di straordinaria amministrazione; l’interdizione la esclude in maniera
totale, per tutti i tipi di atti. Non sembra sbagliato affermare che,
tendenzialmente, gli effetti dell’amministrazione di sostegno sono “contenuti”
negli effetti prodotti da una sentenza di interdizione o di inabilitazione.
Questa considerazione ci riporta al principio di corrispondenza fra il
chiesto e il pronunciato. Una pronuncia di interdizione (con i noti effetti
totalizzanti) che avvenga sulla base di una semplice trasmissione di atti dal
giudice tutelare al tribunale, a fronte di un’istanza per l’amministrazione di
sostegno, violerebbe palesemente tale principio. Ecco perché il giudice tutelare
non può direttamente aprire il procedimento dinnanzi al tribunale, ma deve
attendere che sia il p.m. a farlo: il p.m., come parte legittimata ad instaurare il
giudizio d’interdizione, formula una nuova domanda.
Questa conclusione, ovviamente, è valida solo a patto che il principio di
corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato sia ritenuto applicabile anche al
giudizio di nomina dell’amministratore di sostegno. Sembra preferibile,
tuttavia, almeno prendere in considerazione questa ipotesi, prima di concludere
128
per la totale irragionevolezza del dato normativo215.
10. (segue) Problemi di sovrapposizione fra procedimenti nel passaggio
dall’amministrazione di sostegno all’interdizione.
Può accadere, in base a quanto è emerso nel paragrafo precedente, che vi
sia un concorso fra i due procedimenti. Il giudice tutelare, valutata l’inidoneità
dell’amministrazione di sostegno, prima ancora di averne dichiarata la
cessazione (o di aver rigettato l’istanza di nomina) può informare il p.m.
dell’opportunità di avviare il procedimento di interdizione; questi può
tempestivamente proporre istanza di interdizione al tribunale. In questo caso i
due giudizi si sovrappongono, e procedono paralleli.
La loro reciproca autonomia può far sì che si producano degli
“inconvenienti”: il tribunale può, per ipotesi, pronunciarsi sull’istanza di
interdizione prima che il giudice tutelare abbia dichiarato la cessazione
dell’amministrazione di sostegno; oppure, può accadere che l’amministrazione
di sostegno venga revocata, e che successivamente il tribunale rigetti la
domanda di interdizione proposta dal p.m.. In entrambe queste ipotesi, a
fornire un rimedio è sempre il comma 4 dell’art. 413 c.c. che, nella sua parte
finale, statuisce: “l’amministrazione di sostegno cessa con la con la nomina del tutore
o del curatore provvisorio ai sensi dell’art. 419, ovvero con la dichiarazione di
215
È opportuno riportare fedelmente le parole degli esponenti della dottrina che hanno
giudicato irragionevole la scelta del legislatore di differenziare la disciplina dei meccanismi di
raccordo. VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell'amministrazione di sostegno, cit., §
5 ha affermato che “si tratta (…) di una difformità di disciplina francamente incomprensibile,
considerato che la natura senz'altro giurisdizionale di entrambi gli organi avrebbe imposto
analoghi meccanismi di raccordo”. CHIARLONI, Prime riflessioni su alcuni aspetti della disciplina
processuale dell’amministrazione di sostegno, cit., p. 153, asserisce che dal quadro legislativo
“scaturisce (…) una differenza di disciplina tra due ipotesi perfettamente simmetriche, di cui
non è agevole capire i motivi”. Anche PASSANANTE, Il procedimento in materia di
amministrazione di sostegno, cit., p. 275, ripete il concetto di “simmetria perfetta” fra le due
situazioni e definisce ”oscure” le ragioni della scelta del legislatore di introdurre due
meccanismi differenti.
129
interdizione o di inabilitazione”.
Questa previsione ha due risvolti. Il primo è che la dichiarazione di
interdizione da parte del tribunale rende superflua la successiva dichiarazione
di cessazione dell’amministrazione di sostegno da parte del giudice tutelare. Il
secondo è che l’efficacia del provvedimento di revoca dell’amministrazione di
sostegno è soggetta a condizione sospensiva, la quale consiste nella
pubblicazione della sentenza di interdizione, o almeno nella nomina del tutore
provvisorio; se la domanda non è accolta, non si verifica un presupposto di
efficacia per la dichiarazione di revoca; dunque, l’amministrazione di sostegno
permane in vita216. Si può dire quindi che la condizione sospensiva è
l’espediente procedurale che consente di superare situazioni di impasse,
prodotte
dalla
sovrapposizione
fra
il
procedimento
di
revoca
dell’amministrazione di sostegno e quello di interdizione.
È possibile, però, sulla base di quanto sostiene la dottrina prevalente217,
che
la
sovrapposizione
si
abbia
fra
il
procedimento
di
apertura
dell’amministrazione di sostegno e quello di interdizione. Ciò avviene quando
il giudice tutelare, nel corso del procedimento di nomina, informa il p.m.
dell’opportunità di interdire, quindi rigetta il ricorso; ed il tribunale, investito
della domanda di interdizione, rigetta a sua volta. Il giudice tutelare rigetta
perché ritiene che l’amministrazione di sostegno tuteli “troppo poco”,
il
tribunale rigetta perché ritiene che l’interdizione tuteli “troppo”: come risultato,
l’inabile si trova sprovvisto di qualsiasi tutela.
Viene da chiedersi quale rimedio possa soccorrere in questa circostanza.
La
soluzione
offerta
dall’art.
413
co.
4,
dettata
per
la
cessazione
dell’amministrazione di sostegno, comporta che l’efficacia del decreto di revoca
Queste considerazioni sono svolte da CHIZZINI, I procedimenti di istituzione e revoca
dell’amministrazione di sostegno, in CHIZZINI-BONILINI, L’amministrazione di sostegno, cit., p. 412
e 474.
217 Gli interpreti, pressoché all’unanimità, sostengono che non vi sia ragione per ritenere che il
giudice tutelare possa valutare l’opportunità dell’interdizione solo nell’ambito del giudizio di
revoca, ma non in quello di apertura dell’amministrazione di sostegno (come invece
un’interpretazione letterale dell’art. 413, co. 4 sembrerebbe far credere). Cfr., a tal proposito, il §
9 di questo capitolo e in particolare la nota (114) per tutti i riferimenti alla dottrina.
216
130
sia sospesa fino alla pronuncia di interdizione, e quindi comporta la perpetuatio
della amministrazione di sostegno se l’interdizione non è pronunciata. Nel caso
appena esposto, però, se la domanda di interdizione non è accolta, non vi è
alcun provvedimento da far “permanere in vita” per assicurare al soggetto una
tutela, visto che il rigetto del giudice tutelare è intervenuto proprio sulla
richiesta di tale provvedimento.
Gli interpreti sembrano non aver preso in considerazione questo
problema. Di primo acchito verrebbe da suggerire questa soluzione: il giudice
tutelare deve attendere che il tribunale si pronunci sull’interdizione, prima di
rigettare la richiesta di nomina dell’amministratore di sostegno. Ciò, tuttavia,
potrebbe voler dire attendere parecchi mesi, magari un anno o più: il giudice
tutelare dovrebbe sospendere il processo.
A questo punto, però, si presentano due ordini di problemi: il primo, che
la sospensione potrebbe avvenire solo nel caso in cui fossero le parti a
richiederla (296 c.p.c.), atteso che non ci si trova in un caso di sospensione
necessaria del procedimento (art. 295 c.p.c); il secondo, che il soggetto inabile
rimarrebbe sprovvisto, nel frattempo, di qualsiasi tutela.
Questo ultimo inconveniente, a ben vedere, potrebbe essere evitato
applicando l’art. 405 comma 4 c.c.: qualora ne sussista la necessità, recita
l’articolo, il giudice tutelare può nominare un amministratore di sostegno
provvisorio, indicando gli atti che costui è autorizzato a compiere. Una volta
promosso il giudizio d’interdizione da parte del p.m., dunque, il giudice
tutelare potrebbe nominare un amministratore di sostegno provvisorio e
aspettare la pronuncia del tribunale: per lo meno, così facendo si eviterebbe di
lasciare l’inabile privo di tutela nelle more del giudizio.
Se il tribunale rigetta, tuttavia, cosa può fare il giudice tutelare? Può egli
accogliere l’istanza di amministrazione di sostegno, pur non convinto della
adeguatezza di tale misura, soltanto perché – per dirla in termini pragmatici –
“è meglio una misura inadeguata che nessuna misura di tutela”? Rispondere
affermativamente ha delle conseguenze pericolose: vorrebbe dire che gli istituti
131
protettivi non hanno un proprio ambito di applicazione oggettivo e
predefinito; significherebbe che questo ambito si definisce di volta in volta,
sulla base di quel che decide il giudice dell’interdizione; significherebbe che
l’amministrazione di sostegno si applica tutte le volte in cui non applicarla
sarebbe peggio.
132
Sezione B): PROFILI DI DIRITTO COMPARATO
11. Cenni sulle misure di protezione dei soggetti deboli in una
prospettiva comparata.
Si è parlato finora di un istituto – l’amministrazione di sostegno –
approvato ed entrato in vigore nell’ordinamento italiano nel 2004 e, dunque,
piuttosto “giovane” e relativamente nuovo. Se tuttavia, come contesto di
riferimento, si assume non l’Italia ma l’Europa, ci si accorge che
l’amministrazione di sostegno non è affatto una novità. Per meglio dire, non
costituiscono una novità i principi fondamentali che la regolano, le idee-guida
che hanno condotto alla sua approvazione, soprattutto non è una novità
l’introduzione di un modello alternativo rispetto alla “vecchia” interdizione.
L’Italia, anzi, è stata uno degli ultimi paesi europei ad aver riformato il sistema
di protezione dei soggetti deboli, e ad essersi allineata ad orientamenti di
politica del diritto che si sono affermati – e ora consolidati – negli ultimi
trent’anni in Europa218.
Le
esigenze
che
hanno
condotto
all’approvazione
della
legge
sull’amministrazione di sostegno – come quella dell’effettiva protezione del
soggetto debole (e non dal soggetto debole), della valorizzazione dei suoi spazi
di autonomia, della flessibilità e della “personalizzazione” del regime di tutela
civilistica – sono state avvertite già a partire dagli anni ’60; soprattutto, già a
partire da quell’epoca si è iniziato a percepire l’inadeguatezza del modello di
tutela rigido di matrice romanistica, tradizionalmente legato ad una cultura
fondata sulla segregazione manicomiale219.
La trasformazione del diritto positivo, tuttavia, ha richiesto tempi tecnici
più o meno lunghi, variabili da paese a paese, che complessivamente hanno
Così LENTI, Amministrazione di sostegno e misure di protezione dei soggetti deboli. Modelli a
confronto, in FERRANDO-LENTI, Soggetti deboli e misure di protezione. Amministrazione di sostegno
e interdizione, cit., p. 45.
219 Sull’argomento, cfr. LENTI, ult. cit., p.45 ss.
218
133
coperto quasi un quarantennio. Per prima nel contesto europeo si è mossa la
Francia, con la riforma del 1968 che ha introdotto l’istituto della sauvegarde de
justice; per ultime l’Italia nel 2004, con la legge sull’amministrazione di
sostegno, e l’Inghilterra nel 2005 con il Mental Capacity Act.
Per offrire un’idea più completa del concetto di “misura di protezione dei
soggetti deboli” è sembrato opportuno confrontarlo con il significato che esso
assume all’interno di altri ordinamenti. Saranno presi in considerazione gli
ordinamenti austriaco, tedesco ed inglese.
La scelta di analizzare questi tre modelli non è casuale: essi presentano
delle peculiarità che li distinguono in maniera marcata dal modello italiano.
Gli ordinamenti tedesco ed austriaco hanno operato la scelta, unica nel
contesto
dei
paesi
dell’Europa
continentale,
di
abrogare
gli
istituti
dell’interdizione e dell’inabilitazione, fondando il sistema su di un unico
strumento di tutela, applicabile “a trecentosessanta gradi”, estremamente
flessibile.
Il modello inglese, in quanto frutto della compenetrazione fra i principi
derivati dalla common law e il diritto di fonte legislativa, si muove su binari
concettualmente assai lontani da quelli dell’ordinamento italiano e in generale
degli ordinamenti di civil law; a parte questa ovvia considerazione, che forse è
solo “di facciata”, la differenza sostanziale rispetto al modello italiano sta nel
fatto che l’ordinamento inglese affida la tutela dei soggetti deboli quasi
interamente ad uno strumento di diritto privato, avente natura negoziale,
lasciando agli interventi di carattere pubblicistico un ruolo del tutto marginale.
12. I modelli austriaco e tedesco
L’esperienza austriaca e quella tedesca sono maturate in tempi diversi,
hanno seguito schemi e modelli in parte diversi, si sono sviluppate su linee
differenti: l’Austria ha riformato la disciplina della protezione civilistica dei
134
soggetti deboli già nel 1983, mentre la legge tedesca di riforma è stata
approvata diversi anni dopo, nel 1990220. La macro-scelta che ha contraddistinto
queste due leggi di riforma è stata, tuttavia, comune: quella di abrogare i
tradizionali strumenti dell’interdizione e inabilitazione, precedentemente
vigenti in entrambi gli ordinamenti, e di fondare il sistema su un istituto unico,
estremamente flessibile. Questa scelta radicale, si ribadisce, rimane unica nel
contesto dell’Europa continentale: la Francia, la Spagna, e da ultimo l’Italia,
hanno imboccato una via meno radicale, decidendo di lasciare in vita i vecchi
istituti di matrice romanistica, seppur con ritocchi più o meno marcati, e di
affiancare ad essi uno strumento nuovo, destinato però, nella prassi, a sostituire
i precedenti in misura sempre maggiore. Le riforme tedesca ed austriaca sono
state, potremmo dire, riforme “per sottrazione”, a differenza di quelle francese,
spagnola, e da ultimo italiana, che hanno invece operato “per addizione”.
Saranno analizzati sinteticamente i tratti fondamentali del modello
austriaco e di quello tedesco, ponendoli a confronto e cercando di evidenziarne
somiglianze e differenze.
Gli istituti. In Austria ed in Germania non esistono più le figure
dell’interdizione e dell’inabilitazione. L’istituto austriaco di protezione dei
soggetti deboli (behinderte Personen) prende il nome di Sachwaltershaft, il
curatore/amministratore è il Sachwalter. Il corrispettivo istituto tedesco prende
invece il nome di Betreuung, l’assistente/curatore è il Betreuer, il beneficiario è il
Betroffene. Sia nell’ordinamento austriaco che in quello tedesco la normativa di
riforma è stata inserita nel codice civile: rispettivamente, ai paragrafi 269 ss.
Sulla tutela civilistica dei soggetti deboli nell’orinamente austriaco, e in particolare sulla
riforma del 1983, cfr.: VECCHI, La riforma austriaca della tutela degli incapaci, in Riv. Dir. Civ.,
1987, I, p. 37 ss.; LENTI, Amministrazione di sostegno e misure di protezione dei soggetti deboli.
Modelli a confronto, in FERRANDO-LENTI, Soggetti deboli e misure di protezione. Amministrazione
di sostegno e interdizione, cit., p. 65 ss.; CALÒ, Amministrazione di sostegno, legge 9 gennaio 2004 n.
6, cit., p. 27.
Sul modello tedesco, cfr.: WILL, La protezione del sofferente psichico nell’esperienza tedesca, in
FERRANDO-VISINTINI (a cura di), Follia e diritto, Torino, 2003, p. 159 ss.; LENTI, Modelli a
confronto, in FERRANDO-LENTI (a cura di), Soggetti deboli e misure di protezione. Amministrazione
di sostegno e interdizione, cit., p. 68 ss; CARUSO, L’assistenza nell’ordinamento tedesco, in NAPOLI
(a cura di), Gli incapaci maggiorenni, cit., p. 173 ss.
220
135
dell’ABGB, ed ai paragrafi 1896 ss. del BGB.
I soggetti beneficiari. Il par. 273 (1) dell’ABGB stabilisce che i destinatari
della Sachwalterschaft austriaca possono essere i soggetti adulti (volljahrige
Personen) che soffrono di una malattia psichica o di una minorazione mentale
(psychischen Krankheit […] oder geistig behindert); è esclusa quindi qualsiasi
disabilità di tipo fisico. A questi soggetti il Sachwalter “deve” essere nominato
(so ist […] dazu ein Sachwalter zu bestellen), quando vi sia un pericolo di
pregiudizio per tutti o alcuni dei suoi affari (Angelegenheiten): la nomina ha
dunque il carattere dell’obbligatorietà.
Diversamente, il par. 1896 del BGB attribuisce rilevanza sia alla psychische,
geistige, seelische Krankenheit, sia alla körperliche Behinderung: l’istituto è
configurabile non solo quando vi siano disturbi mentali, ma anche
semplicemente impedimenti di tipo fisico, similmente a quanto è previsto
dall’art. 404 del codice civile italiano per l’amministrazione di sostegno. I
modelli tedesco ed italiano hanno dunque un ambito soggettivo di applicazione
più ampio rispetto a quello austriaco.
Sia
nell’ordinamento
austriaco
che
in
quello
tedesco,
ulteriore
presupposto per l’applicazione della misura di tutela è l’impossibilità di gestire
i propri affari: la malattia o l’impedimento non ha rilievo se non incide sulla
sfera “gestionale”, sulla capacità di occuparsi autonomamente dei propri affari.
Carattere sussidiario. In entrambi gli ordinamenti l’applicazione della
misura di tutela segue un principio di sussidiarietà: viene applicata soltanto se
strettamente necessaria (erforderlich) ed a vantaggio del sofferente psichico. Il
par. 273 (2) ABGB prevede che questa necessità è esclusa quando il sofferente
psichico abbia già la possibilità di essere adeguatamente assistito nel contesto
famigliare o in appositi istituti di cura, o più precisamente quando sia già
“messo nelle condizioni di occuparsi dei suoi affari” (durch andere Hilfe […] in
die Lage versetzt werden kann, seine Angelegenheiten zu besorgen). L’assistenza di
fatto diviene dunque rilevante, addirittura in termini tali da precludere l’avvio
della procedura della Sachwalterschaft qualora essa sia adeguatamente svolta,
136
avendo come obbiettivo l’interesse e il vantaggio del sofferente psichico221.
Nell’ordinamento tedesco il principio di sussidiarietà opera nel senso di
attribuire massima importanza all’autodeterminazione del soggetto. Così, il par.
1896 (2) BGB reputa non necessaria l’apertura della Betreuung qualora si possa
far fronte agli affari del soggetto per mezzo di un Bevollmächtigte, cioè un
procuratore, o per mezzo di altri strumenti, per i quali “non sia prevista la
nomina di un rappresentante legale” (bei denen kei gesetzlicher Vertreter bestellt
wird): dunque, attraverso strumenti negoziali. Si può concludere quindi che
l’assistenza privata, messa in atto con gli strumenti contrattuali, è preferita
rispetto a quella pubblica, attuata attraverso un procedimento giudiziale.
La disciplina italiana si discosta, su questo punto, da entrambi gli
ordinamenti: diversamente dal sistema austriaco, nessuna rilevanza è attribuita
alla assistenza di fatto, né tanto meno essa è ostativa all’avvio della procedura
di amministrazione di sostegno, anzi tendenzialmente si auspica che tutte la
situazioni di assistenza de facto si trasformino in amministrazioni di sostegno;
diversamente dall’ordinamento tedesco, l’amministrazione di sostegno italiana
non è istituto sussidiaria ad alcuno strumento negoziale di tutela.
Capacità di agire. Il par. 273 (a) dell’ABGB stabilisce che, nell’ambito di
operatività della Sachwalterschaft, il soggetto beneficiario non ha il potere di
disporre né di assumere obbligazioni (weder verfoegen, noch sich verpflichten).
Dunque, il beneficiario perde, in riferimento alle attività coperte dalla
Sahwalterschaft., la capacità di agire. È previsto tuttavia che il giudice possa
autorizzare
il
beneficiario,
nel
provvedimento
di
assegnazione
della
Sachwalterschaft, a disporre autonomamente di cose determinate o di parti del
reddito, se non è messo in pericolo il bene del soggetto (das Wohl der behinderte
Person nicht gefährdet wird).
La Betreuung invece, almeno in teoria, può non incidere affatto sulla
capacità d’agire del beneficiario222. Non vi è infatti alcuna norma che faccia
221
222
VECCHI, La riforma austriaca della tutela degli incapaci, cit., p. 39.
Cfr. WILL, La protezione del sofferente psichico nell’esperienza tedesca, p. 159; CALÒ,
137
riferimento ad una compromissione di tale capacità: il giudice, semplicemente,
non è tenuto ad occuparsi della capacità di capacità di agire del Betroffene223, che
dunque può rimanere pienamente capace. Questo, però, in teoria; in pratica,
invece, molto raramente si avrà una Betreuung “neutra” sul piano della capacità
di agire. La Betreuung può essere imposta, infatti, solo a chi è completamente o
totalmente incapace di agire: il par. 1896 (1a) stabilisce che a nessun soggetto
possa essere imposto un Betreuer contro la sua libera volontà (gegen den freien
Willen). Se “libera volontà” significa possibilità di autodeterminarsi in modo
consapevole224, allora si può concludere che a nessun soggetto capace di agire
potrà essere sottoposto a Betreuung contro la sua volontà; al contempo, è anche
piuttosto difficile immaginare che sia lo stesso soggetto pienamente capace a
richiederla225.
Disciplina degli atti. Per gli affari coperti dalla Sachwalterschaft, si è detto,
la capacità di agire del beneficiario viene incisa: la modalità di tale incisione è la
necessità del consenso del Sachwalter per compiere atti di disposizione o per
assumere obbligazioni (par. 273 (a) (1)). Tale consenso può essere sia espresso
sia tacito (stillweigende Einwilligung). Sussistono, tuttavia, due ordini di attività
che il beneficiario può porre in essere autonomamente, anche senza il consenso
del Sachwalter: innanzitutto, trattasi degli atti della vita quotidiana, che servono
a soddisfare le esigenze minime ed ordinarie del soggetto (Angelegenheiten des
täglichen Lebens) (similmente a quanto prevede la disciplina italiana
dell’amministrazione di sostegno, ex art. 409, co. 2 c.c.); in secondo luogo, il
consenso non è necessario per concludere negozi che non implicano
l’assunzione di obbligazioni – ad esempio, l’accettazione di promesse o di
donazioni, che comportino solo un vantaggio per il beneficiario (par. 865 (1)
Amministrazione di sostegno, legge 9 gennaio 2004 n. 6, cit., p. 32.
223 Questa l’espressione utilizzata da WILL, La protezione del sofferente psichico nell’esperienza
tedesca, cit., p. 159.
224 LENTI, Amministrazione di sostegno e misure di protezione dei soggetti deboli. Modelli a confronto
in FERRANDO-LENTI (a cura di), Soggetti deboli e misure di protezione. Amministrazione di
sostegno e interdizione, cit., p. 69.
225 Sempre WILL, La protezione del sofferente psichico nell’esperienza tedesca, cit., p. 159.
138
ABGB).
Nell’ordinamento
tedesco,
invece,
lo
strumento
del
consenso
dell’amministratore agli atti conclusi dal beneficiario non rappresenta la regola,
bensì l’eccezione. Poiché in linea teorica la capacità di agire non viene meno con
la nomina del Betreuer, assistente ed assistito sono entrambi competenti,
nell’ambito delle attività coperte dall’istituto: entrambi possono obbligarsi,
contrarre, disporre, e la Betreuung assume i contorni di una “rappresentanza
aggiutiva”, in cui la competenza del rappresentante si sovrappone a quella del
rappresentato. La possibilità di decisioni contrastanti ed i rischi che essa
comporta sono scongiurate dalla previsione del par. 1903 BGB: in casi
eccezionali, qualora occorra prevenire una situazione di pericolo per la persona
o il patrimonio dell’assistito, il giudice può stabilire una “riserva di consenso
preventivo”(Einwilligungsvorbehalt): in tal caso l’assistito dovrà ottenere il
preventivo consenso del proprio Betreuer per il compimento di atti negoziali.
Legittimazione attiva. Vi è un elemento del tutto peculiare che accomuna
il modello austriaco e quello tedesco: il procedimento per la nomina
rispettivamente, del Sachwalter e del Betreuer può essere aperto solo su istanza
dell’interessato, cioè del futuro beneficiario, oppure d’ufficio. Il par. 273 (1)
ABGB e il par. 1896 (1) BGB contengono esattamente la stessa espressione: la
nomina avviene auf ihren/seinen Antrag oder von Amts, cioè su sua (del
destinatario) richiesta o d’ufficio. La legittimazione attiva, dunque, non spetta
ad alcun altro soggetto al di fuori dell’interessato, neppure ai famigliari, che
potranno eventualmente sollecitare l’apertura ex officio. Si tratta di un elemento
che non è meramente procedurale, ma che si ripercuote su tutto l’istituto, sul
suo scopo, sulle sue funzioni. Il fatto di escludere la legittimazione di qualsiasi
altro soggetto che non sia il beneficiario ha in sé due significati. Il primo, è che
nessun altro interesse rileva, nel procedimento, tranne quello del beneficiario. Il
secondo è una conferma del principio di sussidiarietà che caratterizza i due
modelli: la Sachwalterschaft e la Betreuung sono istituti residuali, sussidiari, che
possono operare solo nei casi in cui il soggetto non sia già adeguatamente
139
tutelato de facto (Austria) o attraverso strumenti negoziali (Germania).
L’elemento della legittimazione all’azione, connesso a quello della
sussidiarietà, allontana molto i modelli appena esaminati rispetto a quello
italiano dell’amministrazione di sostegno, che prevede un lungo elenco di
soggetti legittimati; fra l’altro, in Italia la legittimazione dello stesso soggetto
debole a chiedere per se stesso una misura di tutela – sia essa l’amministrazione
di sostegno, l’interdizione o l’inabilitazione – è una novità apportata dalla
riforma, mentre prima del 2004 l’interdicendo e l’inabilitando addirittura non
comparivano nel novero dei legittimati226. L’idea stessa di sussidiarietà è
totalmente
estranea
ai
fondamenti,
ai
principi,
alla
struttura
dell’amministrazione di sostegno: sia il tenore del testo legislativo, sia la linea
seguita in giurisprudenza, supportata da gran parte del mondo accademico,
sembrano auspicare una sua applicazione sempre più frequente, in primis
operando una sostituzione de facto dell’interdizione, e comunque coprendo tutte
quelle situazioni in cui è potenzialmente applicabile.
13. Il modello inglese
All’inizio del 2003 il giurista inglese Phil Bates scriveva: “(…) questo è un
momento davvero stimolante per i giuristi che si occupano di salute mentale, sia in
Inghilterra che in Italia”227. In entrambi gli ordinamenti si respirava infatti un’aria
di cambiamento, che avrebbe portato ad importanti interventi di riforma: in
Italia, la ben nota legge 6/2004 introduttiva dell’amministrazione di sostegno,
in Inghilterra il Mental Capacità Act del 2005.
L’esigenza di dare una svolta rispetto al modello tradizionale di
protezione civilistica dei soggetti deboli si fondava però su ragioni differenti in
Su questo punto si è già ampiamente discusso nel cap. I, § 1).
BATES, Responsabilità e protezione della persone con disturbi mentali nel diritto inglese, in
FERRANDO-VISINTINI (a cura di), Follia e diritto, cit., p. 174 ss.; l’espressione riportata è a p.
188.
226
227
140
Italia e in Inghilterra: nel nostro ordinamento occorreva trovare un’alternativa
ai rigidi e per molti versi superati istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione,
vi era l’esigenza di uno strumento flessibile e attento alle esigenze della persona
più che a quelle della società; in Inghilterra, l’esigenza era quella di
razionalizzare, di ordinare un insieme caotico (e a volte poco accessibile, perchè
estremamente frammentato) di misure giuridiche stratificatesi nel tempo, di
varia origine. Vi sono, tuttavia, dei principi di fondo che hanno accomunato i
due interventi legislativi: l’accresciuta attenzione per la persona del soggetto
debole, rispetto all’interesse per la conservazione del suo patrimonio o per altri
aspetti quali, ad esempio, la sua “ospedalizzazione”; l’intento di predisporre
degli strumenti giuridici il più possibile elastici e “personalizzabili” ma al
tempo stesso accessibili, certi, effettivi.
Prima della riforma legislativa del 2005, non vi era in Inghilterra una
legislazione esaustiva in materia di salute mentale e di tutela dei soggetti
deboli. La disciplina si presentava molto frammentata: vi erano alcune regole e
principi sparsi ricavati dal diritto giurisprudenziale, costituenti la common law,
da un lato, ed una serie di leggi speciali, prive di un disegno unitario che
conferisse loro organicità, ciascuna vertente su un di un particolare risvolto
giuridico del disagio psichico, dall’altro lato.
La common law tradizionale si fonda su principi di massima flessibilità e
di massima attenzione per l’autodeterminazione dell’individuo, che possono
essere così riassunti: la diagnosi di una patologia psichiatrica non comporta, di
per sé, l’incapacità giuridica; non esiste un concetto generale di incapacità o di
capacità; un soggetto può avere la capacità di intendere sufficiente per
assumere delle determinate decisioni ma non delle altre. Sulla base di questi
principi, un soggetto affetto da schizofrenia paranoide cronica è stato ritenuto
perfettamente capace di intendere in riferimento ad una decisone riguardante la
sua salute: il soggetto aveva espresso la volontà di rifiutare il consenso
all’amputazione di un arto, nonostante fosse stato informato del fatto che, senza
l’intervento, gli restavano poche possibilità di sopravvivere; il giudice ha
141
ritenuto il soggetto capace di comprendere le informazioni e gli avvertimenti
forniti, capace di intendere le conseguenze delle sue scelte, e dunque la sua
decisione
inattaccabile
perché
rientrante
nel
suo
diritto
all’autodeterminazione228.
Per quanto riguarda il diritto di origine legislativa, sempre Bates fa notare
come, prima del 2005, gli Acts emanati dal parlamento inglese si erano occupati
dei soggetti affetti da infermità mentale solo in riferimento a circostanze
“patologiche”229: pericolosità sociale, responsabilità penale e civile da reato
(Insanity Act del 1964 e successivo Insanity and Unfitness to Plead Act del 1991),
ricoveri coatti, trattamenti sanitari obbligatori (il Metal Health Act del 1959 e
successivamente riformato nel 1983). L’aspetto “fisiologico”, della quotidianità,
della tutela civilistica, dell’assistenza, degli strumenti per supplire all’incapacità
era in gran parte trascurato dalla legislazione inglese. Non vi era nulla di simile
alla nostra tutela: il Metal Health Act parlava sì di guardianship, termine
traducibile come tutela, ma si trattava di un istituto applicabile ad un numero
estremamente ristretto di casi e per un numero limitato di attività. Lo stesso
Mental Health Act prevedeva una procedura con cui il giudice poteva a)
amministrare direttamente le proprietà degli infermi di mente incapaci di
gestire i propri affari, oppure b) nominare un receiver che sostituisse il soggetto
nella gestione dei suoi beni, agendo in suo nome. La procedura era però molto
costosa, piuttosto macchinosa, dunque in concreto quasi mai utilizzata.
Nel 2003, dunque, Bates dice che si sta vivendo un momento di grande
fervore di idee: si sente l’esigenza che il legislatore intervenga in un’area ancora
sostanzialmente non coperta dal diritto di origine legislativa, quale quella della
tutela civilistica dei soggetti vulnerabili; si auspica un intervento che conferisca
razionalità e completezza al sistema, pur senza minare la sua intrinseca
flessibilità.
A riportare il caso è sempre BATES, Responsabilità e protezione della persone con disturbi mentali
nel diritto inglese, p. 176.
229 Sempre BATES, Responsabilità e protezione della persone con disturbi mentali nel diritto inglese, p.
174-175.
228
142
Nel 2005, un anno dopo l’approvazione della legge italiana di riforma, è
entrato in vigore il Mental Capacity Act. Essa è, ad oggi, la legge più importante
che tratta della condizione giuridica delle persone prive di capacità (persons who
lack capacity); i principi in essa contenuti, per molti versi ripresi dal diritto
giurisprudenziale, costituiscono oggi le norme fondamentali sulla tutela
civilistica degli incapaci. È opportuno analizzare la legge in maniera puntuale,
concentrandoci su: i principi; i soggetti destinatari; il concetto di incapacità;gli
strumenti per supplire all’incapacità.
Il Mental Capacity Act si apre elencando i principi cardine su cui si fonda
l’intervento legislativo: essi sono, in gran parte, ripresi dalla common law e
riformulati. La section 1 detta una regola di “presunzione generale di capacità”,
che intende salvaguardare al massimo l’autodeterminazione della persona:
l’incapacità non si presume mai, ma va accertata atto per atto; una persona è
capace finchè non venga accertato che essa è priva della capacità (unless it is
established that he lacks capacity). La capacità nel diritto inglese non è mai astratta,
non è la capacità di intendere in generale, ma è legata al potere concreto di
prendere decisoni; incapacità significa impossibilità ad autodeterminarsi, cioè
incapacità di compiere delle scelte per se stessi: la person who lack capacity è
indicata come quella che, in riferimento ad uno specifico affare (in relation to a
matter), si rivela unable to make a decision for himself (sect. 2). Vale la pena notare
come quest’incapacità di compiere delle decisioni possa consistere non solo in
una impossibilità “interna”, di comprendere le informazioni utili per la
decisione, di ricordarle anche per un tempo limitato, e di valutarle cogliendone
l’importanza, bensì anche in una incapacità “esterna”, di esprimere in qualche
modo – anche non verbale – la propria decisione (comunicate his decision) (sect.
3).
È esclusa dal campo di applicazione del Mental Capacity Act qualsiasi
disabilità di natura fisica: viene specificato che l’incapacità di compiere
decisioni riguardanti se stessi deve essere causata da una disturbance in the
functioning in the mind or brain (sect. 2).
143
Dunque, un individuo è di regola capace di autodeterminarsi, su nessun
soggetto grava una presunzione di incapacità; incapace è chi in concreto non
riesce a compiere una decisione a causa di un’infermità mentale; l’incapacità è
commisurata in riferimento ad una decisione determinata; un soggetto può
essere considerato capace in riferimento ad un atto, ma essere privo della
capacità per compierne un altro.
Gli strumenti di tutela civilistica previsti per i soggetti privi di capacità
sono: in via principale, a) il lasting power of attorney (LPA); in via residuale, ove
non operi il primo, b) l’intervento diretto della Court of Protection, ovvero c)
l’intervento di un deputy nominato dalla Court of Protection.
Il lasting power of attorney (sect. 9) è lo strumento giuridico che intende
supplire alla maggior parte dei casi di incapacità. Si tratta di uno strumento
contrattuale con il quale individuo (donor), nel momento in cui è ancora capace,
conferisce ad uno o a più soggetti determinati (donee o donees) il potere di
assumere decisioni concernenti la sua persona, i suoi beni o i suoi affari
allorquando il donor non avrà più la capacità per compierli. Il LPA, che è una
sorta di mandato in vista della propria futura incapacità, può dunque
riguardare: sia la sfera patrimoniale che quella personale; sia tutto l’insieme dei
rapporti facenti capo al donor, sia singoli atti. È opportuno notare come i donees
possano essere, per espressa previsione legislativa, più di uno (per esempio uno
che si occupa della sfera personale e l’altro di quella patrimoniale), e questo a
differenza dell’ordinamento italiano in cui l’art. 408 c.c. non prevede questa
possibilità (ma neppure la esclude); il donee che abbia come incarico la gestione
della sfera patrimoniale o di un singola attività a carattere patrimoniale possa
essere sia una persona fisica (individual) sia un ente (trust corporation) (sect. 10).
Il donee può prendere una decisone che va contro la libertà di
autodeterminazione del donor solo se il questi è, in quel preciso momento e in
relazione a quel determinato affare, effettivamente privo della capacità per
compierlo e solo se l’atto appare necessario per evitare un pregiudizio al donor
(if it is necessary to do the act in order to prevent harm) (sect. 11).
144
Laddove vi sia un LPA, l’autorità giudiziaria è competente a vagliare la
validità del mandato, ad autorizzare determinati atti del donee (ad es. per le
donazioni), a revocare il mandato se il donee viola i suoi doveri; il merito
dell’attività di gestione del mandato è, tuttavia, tendenzialmente rimesso al
donee.
Laddove invece una persona manchi di capacità ma non abbia conferito
un mandato, il giudice interviene con due possiblità di azione: può
direttamente assumere delle decisioni in nome del soggetto debole beneficiario
(make the decision on his behalf) oppure incaricare una persona (deputy)
indicandone le direttive ed i limiti. Sia la corte, sia il soggetto da essa incaricato
possono agire solo in riferimento a singoli affari, volta per volta, e non alla
generalità dei rapporti facenti capo al soggetto debole, diversamente da quanto
può avvenire con un lasting power of attorney (sect. 16).
Anche riguardo a questo profilo la disciplina dimostra la massima
attenzione per l’autodeterminazione del soggetto, laddove prevede che
l’incaricato giudiziale non può prendere una determinata decisione se il
beneficiario appare capace di assumerla da solo (sect. 20). Sia la nomina di un
mandatario attraverso un LPA, sia la nomina di un deputy da parte della Court of
Protection non hanno l’effetto di privare il soggetto debole della capacità.
Il Mental Capacity Act riprende concetti e principi già presenti nel diritto
giurisprudenziale, ma sviluppa anche idee nuove, frutto del lungo dibattito che
in Inghilterra come in Italia ha preceduto la riforma, decisamente orientate
verso una maggiore attenzione per la persona. Inedita è ad esempio
l’importanza che il legislatore inglese conferisce a concetti come quello di best
interest del soggetto debole (sect. 4), che chi agisce in suo nome è sempre tenuto
a prendere in considerazione, a quello di wishes and feelings del beneficiario (e
qui rieccheggia l’espressione della legge 6/2004, per cui “l’amministratore di
sostegno deve tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario”, art.
410 c.c.), all’idea di far partecipare il beneficiario il più possibile al compimento
delle attività e all’assunzione della decisioni che lo riguardano (incourage the
145
person to partecipate as fully as possible).
Tuttavia, il principio che sembra costituire il perno di questo modello di
tutela, rimane il principio di autodeterminazione, che il Mental Capacity Act non
fa altro che riprendere da una tradizione giurisprudenziale lunghissima: per il
sistema inglese è lo stesso soggetto che, in vista della propria futura incapacità,
regola “il da farsi” per il futuro, attraverso uno strumento negoziale, decidendo
in quali casi e con che modalità debba operare chi lo sostituirà. Gli interventi
giudiziali sono pensati come marginali e suppletivi, per controllare l’operato
del mandatario o per supplire ai casi di mancato conferimento del mandato che, evidentemente, costituiscono non la regola ma piuttosto l’eccezione.
146
147
CONCLUSIONI E PROSPETTIVE
Le previsioni che si erano fatte in sede introduttiva sono state, credo,
confermate nel corso della trattazione: la capacità delle persone fisiche, vista
attraverso la lente del processo, assume una morfologia molto disomogenea,
complessa, dai contorni frastagliati, a volte indefiniti.
Si è parlato di diverse situazioni soggettive e delle diverse misure di tutela
che l’ordinamento prevede. Sono stati esaminati due modelli di intervento: uno
“rigido”, totalizzante, che incide sullo status del soggetto, ed è ablativo della
capacità di agire; un altro “elastico”, attento alle esigenze della persona oltre
che a quelle del patrimonio, attento a limitare la sua capacità di agire nella
misura minore possibile. Sono stati analizzati e confrontati, soprattutto, due
modelli processuali: uno fondato sull’accertamento dell’infermità mentale del
soggetto; l’altro, che ha come unico scopo la gestione degli interessi del
beneficiario. Si è parlato anche di un’incapacità di fatto, del rilievo che essa
assume sul piano sostanziale e soprattutto processuale. Si sono infine prese in
considerazione, in diversi frangenti, le problematiche di carattere costituzionale
che il binomio capacità-processo fa sorgere.
Si possono svolgere, a questo punto, due ordini di considerazioni. Il
primo, sulla base del diritto positivo, alla luce di quanto ha innovato e di
quanto invece ha lasciato immutato la l. 9 gennaio 2004 n. 6, e alla luce della
prassi applicativa seguita dalla giurisprudenza nel corso di questi tre anni
dall’entrata in vigore della riforma; il secondo, invece, in una prospettiva de jure
condendo, nell’ottica di una riforma caldeggiata da più parti, che è in stato di
avanzata elaborazione parlamentare e sembra avere buone chances per essere
approvata.
Innanzitutto è opportuno effettuare una “ricognizione critica” del diritto
positivo, soppesando e tirando le fila di quanto è stato finora esaminato. La
148
riflessione può essere scandita in due temi: a) la coesistenza di due modelli di
tutela dei soggetti deboli e le conseguenti ripercussioni sul piano sostanziale e
su quello processuale; b) l’incapacità naturale e la questione della sua
irrilevanza nel processo.
a)
Il
primo
ordine
di
riflessioni
va
svolto
sulla
coesistenza
nell’ordinamento italiano di due modelli di tutela dei soggetti “privi in tutto o
in parte di autonomia”: da un lato, un modello tradizionale, che il nostro
sistema conosce ormai da secoli, quello dell’interdizione e dell’inabilitazione, e
dall’altro il modello dell’amministrazione di sostegno, relativamente nuovo
eppure sempre più utilizzato. La convivenza di questi due modelli implica
importanti conseguenze a livello operativo, e si rivela non sempre “pacifica”e
scevra da problemi.
Anzitutto, si riscontra un’obiettiva difficoltà di determinare l’ambito
applicativo dei tre istituti sino ad oggi in vigore. Si registrano in proposito due
tendenze, che si contrastano a vicenda.
La prima, concordemente appoggiata dai giudici di legittimità e dalla
Corte costituzionale, è quella che vuole che i tre istituti abbiano sfere di
applicazione ben delimitate, non suscettibili di interferenze. Se la riforma ha
lasciato in vita le misure dell’interdizione e dell’inabilitazione, allora esse
devono conservare un abito di operatività loro proprio, e non vi possono essere
sovrapposizioni applicative: così hanno affermato all’unisono la Corte di
cassazione e la Consulta nelle due pronunce che più hanno contribuito alla
“perimetrazione” degli istituti230.
Si fa riferimento alle più volte citate sentenze Cass., 12 giugno 2006, n. 13584 in Fam.dir., 2007,
1, p. 31 ss. e Corte Cost., 9 dicembre 2005, n. 440, in Fam. dir., 2006, p. 121 ss, più volte
menzionate nel capitolo III, § 1 e § 2. La Corte costituzionale rigetta la questione di legittimità
costituzionale di diversi articoli in materia di amministrazione di sostegno: il giudice a quo
sosteneva che le sfere di applicazione dei tre istituti protettivi finivano per coincidere, ed in
assenza di chiari criteri distintivi la scelta di uno fra essi era affidata alla discrezionalità
dell’organo giurisdizionale, compromettendo così i valori costituzionali fissati negli artt. 2, 3, 4
Cost.; la Consulta dichiara infondate le questioni sollevate, asserendo che “in nessun caso i
poteri dell’amministrazione di sostegno possono coincidere integralmente con quelli del tutore
o del curatore”. La Corte di Cassazione fissa quali criteri distintivi fra amministrazione di
sostegno e interdizione/inabilitazione la maggior adeguatezza (maggiore capacità di adeguarsi
230
149
La seconda tendenza, sempre più forte, è quella di avere un modello
dominante
ed
uno
dell’amministrazione
recessivo.
di
Il
sostegno;
modello
il
dominante
modello
è
recessivo
oggi
è
quello
l’istituto
dell’interdizione, e ancor più quello dell’inabilitazione. Se gli ambiti di
applicazione dei tre istituti sono, almeno in teoria, definiti e non sovrapponibili,
è però fuor di dubbio che l’amministrazione di sostegno abbia occupato buona
parte della sfera applicativa che prima del 2004 spettava all’interdizione.
Inoltre, il nuovo istituto accoglie una “clientela” nuova, che un tempo non
avrebbe avuto possibilità di tutela, perché troppo “leggera”231 per essere
interdetta o inabilitata. Oggi l’amministrazione di sostegno è la regola,
l’interdizione rappresenta l’eccezione; l’inabilitazione ha un ambito di
applicazione talmente ristretto da essere in pratica scomparsa. In una
recentissima pronuncia, inoltre, la stessa Cassazione ha con forza ribadito che il
tribunale adito con istanza di interdizione deve sempre valutare, dandone
conto in motivazione, se sia opportuno soprassedere alla pronunzia di
interdizione, trasmettendo gli atti al giudice tutelare affinché provveda alla
nomina dell’amministratore di sostegno: se il tribunale omette di valutare tale
opportunità, la sentenza di interdizione è viziata232.
Interdizione e inabilitazione sono dunque residuali, si applicano solo se
alle esigenze del soggetto) e la funzionalità (in relazione alla complessità del patrimonio, alla
gravità e durata della malattia), bocciando invece il criterio quantitativo (del maggiore o minore
grado di infermità).
231 L’espressione “clientela di tipo leggero” è utilizzata da Cendon nella relazione alla bozza per
l’abrogazione dell’interdizione e dell’inabilitazione (testo provvisorio), reperibile su
www.personaedanno.it, § 2.20.
232 La sentenza è Cass, sez. I, 28 maggio 2007, n. 12466, in www.personaedanno.it. La Cassazione
esprime in questi termini la residualità dell’interdizione e la prevalenza dell’amministrazione di
sostegno: ”…trattasi, come appare evidente dalla lettera della norma, di valutazione
discrezionale (la valutazione del giudice dell’interdizione circa l’opportunità di trasmettere gli atti al
giudice tutelare), nella sua determinazione finale, ma che deve tuttavia essere delibata dal
giudice dell’ interdizione tenuto conto della logica posta dal legislatore a base della nuova
normativa in materia di interdizione, finalizzata a limitare i casi di interdizione a favore di
istituti compatibili, nei limiti del possibile con il mantenimento della capacità di agire di
soggetti aventi deficit nella formazione del pensiero. Pertanto (…) l’impugnata sentenza va
cassata con rinvio al giudice di merito, in diversa composizione, affinché valuti, dandone conto
in motivazione, se ricorra l’opportunità di rimettere gli atti al giudice tutelare per la nomina
dell’amministratore di sostegno”.
150
l’amministrazione di sostegno appaia nel concerto inadeguata. Oltre a ciò, a
far propendere per l’amministrazione di sostegno in luogo dell’interdizione
subentrano dei fattori di ordine pratico, e di opportunità: il procedimento di
amministrazione di sostegno costa meno e dura molto meno di un processo
d’interdizione; inoltre, il decreto del giudice tutelare si può sempre modificare e
revocare con la stessa procedura con cui è stato emesso.
In questo contesto, le due tendenze appena descritte si pongono in forte
contrasto: vi è la netta prevalenza dell’amministrazione di sostegno, da un lato,
e l’intento di conservare un preciso ambito applicativo a tutti e tre gli istituti,
dall’altro. Una parte della dottrina giunge ad affermare che, se non saranno
abrogate, interdizione ed inabilitazione si estingueranno per desuetudine.
L’idea di fondo che invece traspare dalle pronunce della Consulta e della
Cassazione sul tema, e che risulta appoggiata da altra parte della dottrina233, è
che l’interdizione rimanga, in alcuni casi, indispensabile; sempre il giudice di
legittimità ha sostenuto – sollevando numerose critiche – che quando ci si trova
di fronte a situazioni patrimoniali particolarmente complesse e consistenti è più
prudente interdire234.
Cfr., ad esempio, quanto è stato sostenuto da MARTINELLI, Interdizione e amministrazione di
sostegno, in FERRANDO (a cura di), L’amministrazione di sostegno: una nuova forma di protezione
dei soggetti deboli, cit., p. 140-141 circa l’indispensabilità dell’interdizione.
234 Fin dall’entrata in vigore del nuovo istituto ci si è chiesti quale sia il criterio che soccorre
l’interprete per tracciare i rispettivi ambiti applicativi: la Cassazione, con la già menzionata
sentenza 12 giugno 2006, n. 13584 ha bocciato il criterio quantitativo (il quantum della incapacità
della quale il soggetto è affetto) ed ha optato per un criterio di tipo “funzionale”, che significa
maggiore adeguatezza, idoneità ad assicurare la protezione più adeguata. Il criterio
dell’adeguatezza finisce per trasformarsi in un criterio meramente patrimoniale: di fronte a
grandi patrimoni, sembra affermare la Cassazione, è più prudente interdire. Questo canone
distintivo (già in un primo tempo teorizzato da DELLE MONACHE, Prime note sulla figura
dell’amministrazione di sostegno: profili di diritto sostanziale, in Nuova giur. civ. commentata, 2004, II,
p. 36-37) è stato oggetto di forti critiche: non solo si pone, è stato detto, contro i principi
ispiratori della riforma (come quello di attenzione alla persona prima che al suo patrimonio),
ma pare anche stridere fortemente con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. Così
SESTA, Amministrazione di sostegno e interdizione:quale bilanciamento tra interessi personali e
patrimoniali del beneficiario?, in Fam. dir., 2007, 1, p. 36 ss.; una severa critica al criterio
funzionale-patrimoniale giunge anche da PATTI, Amministrazione di sostegno e interdizione:
interviene la Corte di Cassazione, in Famiglia, persone e successioni, 2006, p. 811; un duro dissenso è
manifestato anche da CALÒ, Il giudice tutelare e la vendetta di Puchta, in Notariato, 2005, 3, p. 249
(Incapaci). Invece BONILINI, in BONILINI-CHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, cit., p. 63,
sostiene che la distinzione fondata sulla consistenza e complessità del patrimonio “è
233
151
Si può affermare, in sintesi, che il diffuso consenso per il modello
flessibile dell’amministrazione di sostegno, la sua frequentissima applicazione
e, per contro, il declino dell’interdizione, si scontrano spesso con la
convinzione, ancora radicata, che in determinati casi l’interdizione protegga “di
più e meglio”.
La duplicità di modelli per la tutela dei soggetti deboli si riflette anche sul
processo, e implica l’esistenza di due procedimenti distinti, con caratteristiche
marcatamente diverse. Il processo di interdizione e di inabilitazione si svolge in
pubblica udienza, dinnanzi al tribunale in composizione collegiale, è a
cognizione piena, ha ad oggetto l’accertamento dell’infermità mentale del
soggetto, il suo provvedimento conclusivo ha la forma della sentenza ed il suo
contenuto acquista la stabilità del giudicato. Il procedimento di nomina
dell’amministratore di sostegno si svolge davanti al giudice tutelare, in camera
di consiglio, non mira ad accertare l’incapacità ma a gestire gli interessi del
beneficiario, si chiude con un decreto sempre revocabile, non idoneo al
passaggio in giudicato.
Diversità formali, dunque; ma anche, in un certo senso, strutturali e
concettuali. Il processo di interdizione segue un modello che potremmo definire
“statico”: il fine è solo quello di elidere o limitare la capacità di agire del
soggetto; poi si apre la tutela ma, sostanzialmente, dopo la pronuncia di
interdizione l’iter processuale è concluso, l’accertamento di incapacità contenuto
nella sentenza è stabile, definitivo. L’amministrazione di sostegno, sul piano
processuale, ha invece un carattere marcatamente “dinamico”: essa implica un
continuo dialogo fra amministratore di sostegno e giudice tutelare, la pronuncia
del decreto di nomina non chiude nulla, anzi apre una relazione triangolare fra
giudice tutelare, amministratore e beneficiario, un confronto continuo, in cui la
modifica del decreto è sempre possibile. E ancora: i marcati poteri ufficiosi del
giudice tutelare gli consentono di modificare o revocare il decreto d’ufficio,
insoddisfacente, ma si rivela l’unica atta a consentire di mantenere un senso alla scelta
legislativa (…), sebbene essa smentisca, platealmente, l’adeguatezza dell’amministrazione di
sostegno”.
152
qualora lo ritenga necessario per realizzare la piena tutela del beneficiario.
All’opposto, il giudice dell’interdizione non può, d’ufficio, disporre alcuna
revoca.
La dottrina che si è occupata di amministrazione di sostegno è solita
parlare di “diritto dal basso”235: l’espressione è utilizzata per indicare uno dei
principi-guida dell’istituto. “Diritto dal basso” pare essere, a prima vista, un
concetto di tipo sociologico, o politico, o culturale, affascinante quanto
estremamente indefinito. In realtà, alla luce di quanto è emerso nel corso della
trattazione, sembra di poter affermare che la dimensione entro cui
quest’espressione può essere meglio spiegata e compresa è un’altra: quella del
processo. Si immagini una telecamera puntata, che voglia immortalare
l’essenza, il vero cuore, il motore dell’amministrazione di sostegno: al centro
dell’obbiettivo c’è, senza dubbio, il giudice tutelare, il suo decreto, i suoi
colloqui con il beneficiario, con i famigliari e con i servizi sociali, le sue
determinazioni – che vanno a costituire il decreto e così lo statuto del
beneficiario –, i suoi continui monitoraggi – che lo portano, eventualmente, a
modificare o revocare il decreto originario. L’attore protagonista dei
procedimenti che attengono all’amministrazione di sostegno è il giudice
tutelare. La telecamera è puntata su di lui, sul suo decreto, non sulla legge. La
legge sta in alto, traccia i confini del gioco, ma non lo regola in concreto; il
meccanismo ha il suo impulso da dentro, ed è il giudice tutelare a muoverne gli
ingranaggi.
Si è tracciato finora un quadro di marcato dualismo, di netta
contrapposizione fra due modelli processuali. Ci si può chiedere che valore
abbia, in questo contesto, la previsione contenuta nell’art. 720-bis c.p.c., primo
comma, che per la disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno
effettua un rinvio ad alcune norme dettate per il processo d’interdizione. Gli
interpreti si sono scontrati sul valore da attribuire a tale disposizione. Il rinvio
Per tutti, v. CENDON, Un altro diritto per i soggetti deboli: l’amministrazione di sostegno e la vita
di tutti i giorni, in FERRANDO (a cura di), L’amministrazione di sostegno. Una nuova forma di
protezione dei soggetti deboli, cit., p. 49, che parla di “diritto costruito dal basso”.
235
153
ha
forse
l’effetto
di
avvicinare
il
procedimento
per
la
nomina
dell’amministratore di sostegno a quello di interdizione? Così ha sostenuto
un’autorevole parte della dottrina236; oppure, come sostenuto da altra parte,
all’inverso sottolinea la distanza fra i due procedimenti, in ragione del fatto che
oggetto del rinvio sono solo alcune, marginali norme e non l’intera disciplina
del processo d’interdizione (in ragione, insomma, di quello che il rinvio tace)?237
L’interrogativo ha l’effetto di mettere in crisi, almeno in parte,
l’impostazione semplificata che vede i due modelli processuali come
antagonisti;
soprattutto,
ha
l’effetto
di
portare
a
domandarsi
se
l’amministrazione di sostegno segua un modello processuale preciso, o se
invece non ne segua alcuno238.
Il procedimento di amministrazione di sostegno si distanzia fortemente
dal processo d’interdizione, e tuttavia ne ricalca alcuni aspetti, richiamati
attraverso il rinvio dell’art. 720-bis; non è un procedimento a carattere
contenzioso, si avvicina piuttosto alla giurisdizione volontaria, eppure non può
dirsi neppure appartenente a tale branca della giurisdizione perché, benché non
incida mai sullo status del beneficiario, può fortemente incidere sulla sua
capacità di agire, comprimendola239. Ancora: lo scopo del procedimento non è
quello di accertare un’infermità bensì quello di gestire degli interessi, eppure il
decreto del giudice tutelare può avere effetti parzialmente ablativi della
Questo è quanto ha sostenuto, perlomeno in un momento immediatamente successivo
all’entrata in vigore dell’istituto, TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica, cit., p.
610; sulla stessa linea pare essersi espresso anche CAMPESE, L’istituzione dell’amministrazione di
sostegno e le modifiche in materia di interdizione e inabilitazione, cit., p. 134.
237 In questo senso CHIZZINI, in BONILINI-CHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, cit., p. 372
ss., per il quale il rinvio risulta significativo più per quello che non dice che non per ciò che
contiene. L’autore ammette comunque che “non è certo facile cogliere quanto coerente possa
essere un simile rinvio con le finalità manifestate nell’art. 1 della legge stessa (le legge 6/2004) e
con le disposizioni procedimentali dettate per l’amministrazione di sostegno”: ivi, p. 374.
238 Questo è nuovamente quanto sostiene, in senso critico, TOMMASEO, Amministrazione di
sostegno e difesa tecnica in un’ambigua sentenza della Cassazione, cit., che parla del procedimento
dell’amministrazione di sostegno (o meglio, delle interpretazioni che di esso ha offerto la
Cassazione) come di un “ircocervo”, assolutamente non riconducibile a sistema.
239 Sono proprio queste le argomentazioni portate da TOMMASEO, Ancora sulla difesa tecnica
nell’amministrazione di sostegno, cit., p. 179, per giungere ad affermare il sostanziale carattere
contenzioso del procedimento di amministrazione di sostegno.
236
154
capacità d’agire; il procedimento si svolge in camera di consiglio, ma a
differenza del modello tracciato dagli artt. 737 ss. c.p.c. è previsto il ricorso per
cassazione avverso la decisione della corte d’appello (art. 720-bis co. 3). Inoltre,
in base a quanto ha affermato la Cassazione240, di regola il ricorrente può stare
in giudizio senza il patrocinio di un difensore, come nei procedimenti di
giurisdizione volontaria; la difesa tecnica diventa però imprescindibile, a pena
di nullità assoluta, quando il giudice tutelare ritenga necessario estendere al
beneficiario alcune delle limitazioni previste dalla legge per l’interdetto.
Nell’ambito di uno stesso procedimento la difesa tecnica può essere o non
essere obbligatoria; il giudice può incidere o non incidere sui diritti
fondamentali della persona; può non esservi alcuna forma di contenzioso
(specie quando il beneficiario chiede per sé l’amministrazione di sostegno), ma
non è escluso che possa invece instaurarsi una particolare forma di contenzioso,
che vede contrapposti, ad esempio, il beneficiario ed il ricorrente.
Il procedimento per l’amministrazione di sostegno non ricalca, in sintesi,
alcun modello. La sua atipicità è dovuta, come ha affermato la Cassazione, alla
“radicale novità sostanziale e formale dell’istituto241”; le conseguenze problematiche
di questa totale atipicità non sono, tuttavia, da sottovalutare. Innanzitutto, essa
implica che nessun aiuto possa essere fornito, in sede d’interpretazione, dai
principi generali stabiliti per i procedimenti volontari o contenziosi. Inoltre, una
totale “irriconducibilità a sistema” si fa pericolosa nel contesto appena descritto,
in cui è il singolo giudice tutelare a costituire il perno dell’istituto e a compiere
scelte cruciali nell’ambito di ogni singolo procedimento. Il “diritto dal basso” è
da valutare in termini positivi finché non sfiora l’arbitrio, e finché è attuato in
un contesto in cui alcune variabili sono date; all’opposto, si rivela rischioso – e,
forse, ai limiti del concetto di giusto processo di cui all’art. 111 Cost. – laddove è
rimessa al singolo giudice la possibilità di delineare un modello, affidando a lui
Si fa riferimento alla sentenza Cass., 29 novembre 2006, n. 25366, in Fam. dir., 2007, 1, p. 19 ss.,
già oggetto di approfondite riflessioni nel capitolo III.
241Si riportano le parole utilizzate dalla Cassazione nella già menzionata sentenza sulla difesa
tecnica, Cass., sent 29 novembre 2006, n. 25366, ult. cit., p. 24.
240
155
scelte cardine come quella della necessità o facoltatività del patrocinio.
b) Il secondo ordine di riflessioni che si intende svolgere riguarda la figura
dell’incapacità naturale e in particolare la sua dimensione processuale. Tale
tematica si è rivelata fortemente connessa a questioni di carattere costituzionale:
dallo studio è emerso come l’incapacità naturale, nell’ambito processuale, sia
chiamata continuamente a confrontarsi con i diritti fondamentali garantiti dalla
nostra Carta costituzionale, e in particolare con il diritto ad una difesa
adeguata, sancito dall’art. 24 della Costituzione242.
Rispetto agli argomenti appena trattati - l’incapacità legale e il nuovo
modello di protezione civilistica dei soggetti deboli - il tema è stato fino ad ora
assai meno discusso: si sono avute alcune sentenze di merito e di legittimità,
diverse pronunce della Corte Costituzionale, ma scarsi sono stati gli apporti
della dottrina. La stessa cosa, d’altra parte, si può dire avvenga nel panorama
giusinternazionalistico: la pressoché
totale assenza di giurisprudenza della
Corte europea dei diritti umani non fa che confermare il sostanziale disinteresse
per tali problematiche.
Si è detto che nel nostro ordinamento l’incapacità naturale di un soggetto
non determina la sua incapacità processuale, la quale consegue soltanto alla
pronuncia di interdizione/inabilitazione o alla nomina di un tutore/curatore
provvisorio; la domanda presentata da o nei confronti di un incapace naturale è
validamente proposta, il processo validamente instaurato.
Irrilevanza processuale dell’incapacità naturale significa, dunque, che,
mentre per l’incapace legale operano i meccanismi della rappresentanza o
dell’assistenza
processuali,
e
lo
stesso
vale
per
il
beneficiario
dell’amministrazione di sostegno qualora il decreto di nomina abbia inciso sulla
sua capacità di agire, la persona incapace di intendere e di volere che non sia
interdetta o inabilitata, né beneficiaria di amministrazione di sostegno sta in
giudizio senza l’ausilio di rappresentanti o assistenti, come qualsiasi soggetto
pienamente capace. Nel corso della trattazione si è utilizzata, talvolta,
242
Cfr. quanto è stato analizzato nel capitolo II, § 4 e 5.
156
l’immagine del processo come di una lente con cui osservare i fenomeni
giuridici (il diritto sostanziale). Riprendendo questa immagine, si potrebbe dire
così: che attraverso la lente del processo l’incapacità naturale non è visibile,
sfuma, ed è come se non vi fosse.
Alcuni giudici di merito hanno riflettuto su questo dato ed hanno posto il
seguente quesito: può il nostro ordinamento costituzionale, e in particolare il
principio di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione, tollerare che un
soggetto sia lasciato privo di ausili processuali (quali la rappresentanza o
l’assistenza), quando non è nemmeno in grado di comprendere che un processo
è stato instaurato nei suoi confronti?
In risposta a questa questione, la Corte Costituzionale e la Corte di
cassazione hanno costruito una vera e propria fortezza attorno alla regola
dell’irrilevanza: tutte le questioni di legittimità sono state rigettate, tutte le vie
alternative abbozzate da alcuni giudici di merito sono state bocciate.
La risposta non stupisce, e le argomentazioni di fondo appaiono, in fin dei
conti, convincenti: non si può privare un soggetto della capacità processuale in
via incidentale, al di fuori dei giudizi a ciò preordinati e senza le specifiche
garanzie; se fosse possibile farlo, allora sì ci sarebbe violazione del diritto di
difesa di cui all’art. 24 della Costituzione. Per di più, è palese che non si possa
far gravare sui consociati l’onere di verificare, prima di instaurare un giudizio,
la capacità di intendere e di volere della controparte; ragionevole sembra anche
la prevalenza dell’interesse alla celerità del processo, e quindi il fatto che
l’incapacità naturale non sia causa d’interruzione dello stesso.
Meno convincenti appaiono, invece, le soluzioni che la Consulta 243 dà ad
un problema che non è, comunque, risolto. Gli strumenti per farvi fronte non
mancano, sostiene la Corte Costituzionale: ieri erano l’interdizione e
l’inabilitazione, oggi in più vi è l’amministrazione di sostegno. La via indicata
Si fa riferimento soprattutto alle pronunce: Corte Cost., ord. 19 gennaio 1988 n. 41, in Giur.
Cost., 1988, p. 109; Corte cost., sent. 2 novembre 1992, n. 468, in Foro it., 1993, I, p. 1043; e
recentemente, dopo l’entrata in vigore della misura dell’amministrazione di sostegno, Corte
Cost., ord. 3 maggio 2006, n. 198.
243
157
dalla Corte era, fino al 2004, soltanto quella dell’interdizione (o almeno quella
dell’instaurazione del processo d’interdizione e della nomina di un tutore
provvisorio); si poteva, tuttavia, seriamente sostenere che l’interdizione per
infermità di mente avrebbe potuto coprire tutti i casi di incapacità naturale, per
di più con la tempestività richiesta da certe particolari circostanze processuali?
Ma anche oggi, pur con uno strumento ulteriore a tutela degli incapaci –
l’amministrazione di sostegno –, si può pensare che questa misura – benché
certamente
sia
caratterizzata
da
una
procedura
più
snella
rispetto
all’interdizione – possa intervenire con sufficiente tempestività nei casi che la
necessitano? Vi è da dubitarne, ancor più se si considera che il potere del p.m.
di
instaurare
il
procedimento
è
sostanzialmente
discrezionale244.
L’amministrazione di sostegno è uno strumento della cui validità e utilità è
superfluo dire, ma forse è utopico credere che riuscirà a fare qualche cosa che
va al di là del suo scopo, come tappare le falle di una figura, l’incapacità
naturale, che (alla luce di quanto si dirà poi) appare sempre più in crisi.
La soluzione garantista della Consulta, si è
già detto, non appare
irragionevole; né ingiustificata appare, in quest’ottica, la disparità di
trattamento fra incapaci legali ed incapaci naturali nel processo.
A far riflettere è un altro tipo di disparità che si viene a creare: quella fra
diritto sostanziale e processo. Lo stesso soggetto può impugnare un atto
negoziale a motivo della sua incapacità naturale, ma non può impugnare un
atto processuale. Un contratto può essere annullato su richiesta del contraente
che dimostri la propria incapacità di intendere o di volere al momento in cui lo
ha
concluso;
non
altrettanto
avviene
di
una
sentenza,
o
meglio
dell’accertamento che essa contiene, dopo il passaggio in giudicato. Il giudicato
non può essere scalfito dall’incapacità naturale di una delle parti: lo si ricava,
implicitamente, dall’art. 395 del codice di rito, che non prevede l’incapacità
Come si è visto ampiamente nel capitolo II, la non idoneità a rispondere alle situazioni di
urgenza, da un lato, e la sostanziale discrezionalità del potere del p.m. di instaurare il
procedimento, costituiscono le falle principali delle vie indicate dalla Corte Costituzionale per
far fronte all’incapacità naturale di una parte nel processo civile. Cfr., cap. II, § 6, 7 e 8.
244
158
naturale fra i motivi di revocazione.
Certamente, come ha sottolineato la Cassazione245, le regole che reggono il
giudizio seguono principi-guida loro propri, diversi da quelli del diritto
sostanziale, e la validità degli atti processuali è da valutarsi secondo i peculiari
criteri dell’ordinamento processuale. Questo dato, tuttavia, non cessa di stupire.
Stupisce, soprattutto, il fatto che queste riflessioni e queste perplessità siano
maturate all’interno di una piccolissima nicchia del formante dottrinale, e che
non abbiano mai raggiunto una consistenza tale da meritare una pronuncia
della Corte costituzionale; stupisce il fatto che, anche nel panorama giuridico
più attento a questi temi, esse non abbiano avuto alcuna eco.
Il quadro complesso fin qui descritto è destinato a subire profonde,
radicali modifiche nel caso in cui interdizione e inabilitazione venissero
abrogate. Nel gennaio 2007 è stato redatto un progetto di legge che mira a
cancellare tali misure, e a fondare l’intero sistema di protezione dei soggetti
deboli sull’istituto dell’amministrazione di sostegno246.
L’idea non è nuova nel quadro europeo; si è anzi visto come essa abbia dei
riferimenti ben precisi: Austria e Germania hanno imboccato la via radicale di
una riforma “per sostituzione” già da diverso tempo (l’Austria nel 1983, la
Germania nel 1991).
Oltre a intervenire in maniera decisa sugli istituti di protezione, la riforma
andrebbe ad incidere anche sull’incapacità naturale, delimitandone gli effetti
sul piano sostanziale.
È opportuno sintetizzare in due punti i tratti essenziali della proposta di
riforma.
a) La bozza, si è detto, interviene in maniera radicale sulle misure di
Si fa riferimento alla sentenza-decalogo che ha tracciato i tratti fondamentali del rilievo della
capacità naturale nel processo civile: Cass., sent. 4 giugno 1975, n. 2227, in Foro it., 1976, I, p. 98.
246 Il testo della Bozza Cendon 2007, Abrogazione dell’interdizione e dell’inabilitazione (testo
provvisorio) è pubblicato, con la relativa relazione e con la tavola sinottica dei testi normativi a
confronto, nel sito www.personaedanno.it.
245
159
protezione, cancellando i secolari istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione.
Sparisce la dualità di modelli di cui si è ampiamente parlato, e
l’amministrazione di sostegno diviene misura di protezione applicabile a
trecentosessanta gradi, talmente duttile da essere in grado di far fronte a tutte le
situazioni di debolezza, anche a quelle che fino ad oggi hanno costituito
l’ambito elettivo degli istituti abrogandi. La nuova amministrazione di sostegno
va “da zero a cento”: da un intervento solamente gestionale, che non tocca la
capacità di agire del beneficiario, a un intervento totalmente ablativo della
capacità di agire nei – limitatissimi, sottolinea la bozza – casi in cui ciò dovesse
rendersi necessario. In questo nuovo contenitore, che sottende un insieme
potenzialmente infinito di misure personalizzate di tutela, in questo continuum
che sotto lo stesso nomen juris va dalla piena capacità di agire alla totale
incapacità, il concetto di incapacità legale perde, ovviamente, il suo senso;
incapaci legali sono, d’ora in poi, solo i minori. Abolito il processo di
interdizione, unico motore del sistema diviene il giudice tutelare, i cui compiti
si estendono sempre più, in relazione al dilatarsi dell’ambito soggettivo della
misura.
Di fronte a questo quadro normativo, è opportuno quanto meno
abbozzare delle riflessioni e sollevare dei quesiti.
Invero, una parte ristretta della dottrina è contraria all’abrogazione
dell’interdizione perché sostiene che l’istituto in un certo senso serve ancora e
non può essere sostituito da un’amministrazione di sostegno “dilatata”247. Se
l’amministrazione di sostegno è strumento valido ed idoneo ad essere applicato
nella grande maggioranza dei casi, essa si rivela inidonea, è stato detto, alla
protezione di quei soggetti totalmente e definitivamente impossibilitati ad
agire. Se il nomen juris è unico, in sostanza però l’istituto ha due volti: da un lato
vi è l’amministrazione di sostegno con funzioni gestionali, che non ha l’effetto
di rendere il beneficiario incapace, o che lo priva della capacità di agire solo in
Molto chiara, in tal senso, è ad esempio l’opinione di MARTINELLI, Interdizione e
amministrazione di sostegno, in FERRANDO (a cura di) L’amministrazione di sostegno: una nuova
forma di protezione ei soggetti deboli, cit., p. 140.
247
160
riferimento a singole attività; dall’altro lato vi è l’amministrazione di sostegno
“ablativa”, che priva della capacità di agire esattamente come faceva
l’interdizione. In riferimento a questo secondo volto dell’amministrazione di
sostegno, oggetto di critica è soprattutto il procedimento: in particolare, la scelta
di affidare ad un giudice unico, il giudice tutelare, decisioni importantissime
come l’ablazione totale della capacità di agire del beneficiario248. La domanda
che è opportuno porsi allora è la seguente: l’attribuzione del procedimento al
collegio anziché ad un giudice unico dà maggiori garanzie di ponderatezza
della decisione? Se la risposta è affermativa (non è detto che lo sia) allora forse
bisogna prendere in considerazione delle soluzioni alternative, che qualche
esponente della dottrina ha già suggerito nel corso di questi tre anni. Per
esempio, una via potrebbe essere quella di attribuire i provvedimenti
provvisori in primissima battuta al Presidente del tribunale e poi al giudice
istruttore249.
Nell’ordinamento austriaco ed in quello tedesco l’esistenza di un modello
unico di tutela, rispettivamente della Sachwalterschaft e della Betreuung, si
accompagna ad un principio di sussidiarietà che caratterizza gli istituti:
Sachwalterschaft e Betreuung si applicano soltanto se strettamente necessarie; la
relativa procedura non viene avviata, nell’ordinamento austriaco, qualora il
soggetto riceva già un’idonea tutela di fatto nel contesto famigliare, e
nell’ordinamento tedesco qualora si possa far fronte agli affari del soggetto
attraverso strumenti contrattuali, di carattere privatistico250. Ora, la disciplina
italiana si discosta, su questo punto, da entrambi gli ordinamenti:
l’amministrazione di sostegno non è stata affatto concepita come uno strumento
a carattere sussidiario. La tendenza sembra anzi quella di auspicare: a) che tutte
le situazioni di assistenza de facto si trasformino in amministrazioni di sostegno;
La critica è stata espressa da alcuni processualisti che si sono occupati dell’amministrazione
di sostegno: per tutti, v. CHIARLONI, Prime riflessioni su alcuni aspetti della disciplina processuale
dell’amministrazione di sostegno, in FERRANDO (a cura di) L’amministrazione di sostegno: una
nuova forma di protezione ei soggetti deboli, cit., p. 153.
249 La proposta è stata avanzata da CHIARLONI, ult. cit., p. 154.
250 Cfr. quanto si è detto nel cap. III, sez. B) Profili di diritto comparato, § 12.
248
161
b) che l’amministrazione di sostegno copra tutte le situazioni in cui è
potenzialmente applicabile, quasi da assottigliare sempre più la categoria degli
incapaci naturali251.
In un simile contesto, abrogare interdizione e inabilitazione significa
sovraccaricare enormemente il lavoro dei giudici tutelari, tenuto conto di due
elementi: in primis, del fatto che tutta quella che un tempo era la “clientela
dell’interdizione” sarà soggetta ad amministrazione di sostegno; in secondo
luogo, ed ancor più, del fatto che l’amministrazione di sostegno, rispetto
all’interdizione, comporta un’attività molto più intensa da parte del giudice, sia
nel corso del procedimento di apertura sia dopo, nell’ambito della gestione di
un’amministrazione di sostegno già avviata.
Negli ordinamenti austriaco e tedesco, il modello unico di tutela funziona
anche perché sostenuto, rafforzato quasi dall’idea di sussidiarietà che vi sta alla
base.
Ci
si
chiede
che
cosa
possa
accadere
se
il
modello
unico
dell’amministrazione di sostegno si accompagna ad un’idea opposta, così in
voga di questi tempi in Italia, che l’amministrazione di sostegno va bene
sempre, perché tanto non è invasiva e “non fa mai male”252.
b) La bozza Cendon incide anche sulla figura dell’incapacità naturale. Per
meglio dire, incide fortemente sulla sua dimensione sostanziale; non tocca
invece in alcun modo quello che è stato chiamato il dogma dell’irrilevanza
dell’incapacità naturale nel processo.
Sul piano sostanziale la bozza di riforma opera una vera rivoluzione in
tema di incapacità di intendere di volere, che qui non è la sede per
approfondire, ma solo per menzionare. Per quanto attiene all’ambito
Sembra affermarlo la stessa Corte Costituzionale: nella pronuncia Corte Cost., ord. 3 maggio
2006, n. 198 essa dichiara che “l’ordinamento prevede – specie a seguito della legge 9 gennaio
2004, n. 6 – forme di protezione dell’incapace naturale che (…) prendono già in considerazione
(…) l’esigenza che tale protezione consegua ad un procedimento adeguato alla gravità di un
provvedimento che incide sulla capacità di agire, anche processuale, del soggetto che appare
affetto da incapacità naturale”.
252 Questa idea di fondo è comunque fortemente contestata da parte di alcuni esponenti della
dottrina: cfr., ad esempio, CHIARLONI, Prime riflessioni su alcuni aspetti della disciplina
processuale dell’amministrazione di sostegno, in FERRANDO (a cura di) L’amministrazione di
sostegno: una nuova forma di protezione ei soggetti deboli, cit., p. 154.
251
162
contrattuale, oggetto di modifica è l’art. 428 c.c.: quale elemento necessario e
sufficiente a legittimare l’azione di annullamento del contratto viene previsto il
pregiudizio per l’incapace; è invece eliminato l’ulteriore presupposto della mala
fede dell’altro contraente (da intendere come consapevolezza dello stato di
incapacità altrui). Nell’ambito della responsabilità civile, la modifica investe gli
artt. 2046 e 2047 c.c., capovolgendone l’attuale contenuto: se ad oggi vige il
principio di non imputabilità del fatto dannoso al soggetto che era incapace di
intendere e di volere nel momento in cui lo ha compiuto, la bozza detta invece
la regola della tendenziale responsabilità anche dell’incapace naturale per il
danno arrecato.
La scelta di fondo, coerente con l’intero disegno ed in linea con la riforma
del 2004, è quella della massima valorizzazione della sovranità del disabile
psichico: ciò si traduce nella tendenziale responsabilizzazione dell’incapace, da
un lato, e nella massima sicurezza per i consociati che con lui entrano in
contatto, dall’altro. Non si dovrà più paventare l’annullamento del contratto
per il solo fatto di essersi resi conto dello stato di incapacità della controparte;
non si rischierà più – almeno tendenzialmente – di veder sfumare il proprio
diritto al risarcimento in ragione dello stato di incapacità del danneggiante.
Tutto questo significa, nell’idea dei redattori della bozza, eliminare delle
possibili remore alla contrattazione o comunque al “contatto” con l’incapace.
Le modifiche, è superfluo dirlo, non sono di poco conto. Ciò che qui
preme rilevare è il progressivo assottigliarsi della figura dell’incapacità
naturale, attraverso il drastico ridimensionamento dei suoi effetti nel diritto
sostanziale: l’incapacità naturale non sottrae più, in linea di principio, alle
proprie responsabilità verso i consociati.
In un’ottica più ampia, che comprende l’intento di abrogare interdizione e
inabilitazione, si può infine affermare quanto segue: il forte ridimensionamento
delle sfere di rilevanza dell’incapacità naturale va di pari passo con la (totale)
scomparsa dell’incapacità legale. L’intero concetto di incapacità risulta,
leggendo il testo della bozza, fortemente in crisi. Forse è già in crisi da molto
163
tempo: già da quando si è avvertita la necessità di introdurre uno strumento
di tutela che non mira ad elidere la capacità di agire del soggetto, ma solo a
gestire i suoi interessi; fin da quando si è pensato ad un procedimento che non
si chiude con una sentenza il cui contenuto di accertamento passa in giudicato,
ma con un decreto sempre revocabile e modificabile.
164
BIBLIOGRAFIA
ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, 3° ed., Napoli, 1964, IV.
ANDRIOLI, O’miereco d’e’pazze, in Foro it., 1968, I.
ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Napoli, 1979.
BIANCA, Diritto civile, Milano, 1985.
BONILINI-CHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, Padova, 2004.
BRUSCUGLIA, L’interdizione per infermità di mente, Milano, 1983.
CALÒ, Amministrazione di sostegno. Legge 9 gennaio 2004, n.6, Milano, 2004.
CALÒ, Il giudice tutelare e la vendetta di Puchta, in Notariato, 2005, 3,
(Incapaci).
CAMPESE, L’istituzione dell’amministrazione di sostegno e le modifiche in
materia di interdizione e inabilitazione, in Fam. dir., 2004, 2.
CHIOVENDA, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1965.
CHIZZINI, Brevi annotazioni in tema di difesa tecnica nell’amministrazione di
sostegno, in Fam. dir., 2007, 2.
CICCHITELLI, La capacità dell’interdetto di esercitare le azioni relative allo status
coniugale, in Giust. Civ., 2001, I.
CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Le tutele, Padova, 2004.
COSTA, voce “Legittimazione processuale” in Noviss. Dig. It., IX, Torino, 1963.
COSTANTINO, Il giubileo del medico dei pazzi: l’incapace naturale nel processo
165
civile, in Foro it., 1993, I.
D’ERCOLE Nota in Giur. it., 1974, 1, II.
DALMOTTO, Nota in Giur. it., 1994, I.
DANOVI, Il procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno (l. 9
gennaio 2004, n. 6), in Riv. Dir. Proc., 2004.
DE
ROMA,
L’onere
del
patrocinio
nel
procedimento
per
la
nomina
dell’amministratore di sostegno: un problema ancora aperto, in Giur. it., 2007, 3.
DELLE MONACHE, Prime note sulla figura dell’amministrazione di sostegno:
profili di diritto sostanziale, in Nuova giur. civ. commentata, 2004, II.
DOSSETTI-M.MORETTI-C.MORETTI, L’amministrazione di sostegno e la
nuova disciplina dell’interdizione e dell’inabilitazione, Milano, 2004.
FALCIANO, Giudizio d’interdizione e principi processuali, in Fam. dir., 2002, 2.
FERRANDO (a cura di), L’amministrazione di sostegno. Una nuova protezione
dei soggetti deboli, Milano, 2005.
FERRANDO-LENTI (a cura di), Soggetti deboli e misure di protezione.
Amministrazione di sostegno e interdizione, Torino, 2006.
FERRANDO-VISINTINI (a cura di), Follia e diritto, Torino, 2003.
FIGONE, Poteri del tutore, diritti del malato in coma vegetativo e questioni
processuali, in Fam. dir., 2005, 6.
A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, Milano, 1988, III.
GRAZIOSO, Su la legittimazione attiva e la rappresentanza processuale
dell’interdetto infermo di mente in relazione all’azione di divorzio, in Dir. Fam.,
2001.
166
GROSSI, Introduzione ad uno studio sui diritti inviolabili nella Costituzione italiana,
Padova, 1972.
JANNUZZI-LOREFICE, Manuale della volontaria giurisdizione, Milano, 2004.
LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, II, 4° ed., Milano, 1981.
MANDRIOLI, La rappresentanza nel processo civile, Torino, 1959.
MANDRIOLI, Diritto processuale civile, I e II, Torino, 2000.
MANDRIOLI, Diritto processuale civile, II, Il processo di cognizione, 15° ed.,
Torino, 2003.
MASONI, Correlazioni processuali tra il giudizio di interdizione ed inabilitazione e
procedimento istitutivo dell’amministrazione di sostegno, di cui alla L. 9 gennaio
2004, n.6: primi contrasti interpretativi, in Giur. it., 2005.
MAURINI, L’incapacità naturale, in Le monografie di contratto e impresa, a cura
di Galgano, Padova, 2002.
NAPOLI, L’infermità di mente, l’interdizione, l’inabilitazione, Artt. 414-432, in Il
codice civile. Commentario, diretto da SCHLESINGER, Milano, 1995.
NAPOLI
(a
cura
di),
Gli
incapaci
maggiorenni.
Dall’interdizione
all’amministrazione di sostegno, Milano, 2005.
PATTI, Amministrazione di sostegno e interdizione: interviene la Corte di
Cassazione, in Fam. pers. e succ., 2006.
PESCARA, Interdizione e inabilitazione, in Trattato di diritto privato, diretto da
Rescigno, III, 4, Torino, 1982,.
RAMPAZZI GONNET, voce “Procedimento di interdizione e inabilitazione”, in
Digesto Civ., XIV, Torino, 1996.
167
REDENTI, Diritto processuale civile, 2ª ed., III, Milano, rist. 1957.
REDENTI, Natura del processo d’interdizione e conseguenze sulle spese, in Scritti
e discorsi giuridici di un mezzo secolo, I, Milano, 1962.
RUSCELLO, Amministrazione di sostegno e consenso ai trattamenti terapeutici, in
Fam. dir., 2005, p. 85.
SACCO-DE NOVA, Il contratto, I e II, in Il trattato di diritto civile diretto da
Sacco, Torino, 1993
SALETTI, voce “Interruzione del processo” in Enc. Giur, Roma, 1988.
SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1983.
SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia. Il matrimonio, Torino, 1978.
SATTA, voce ”Capacità processuale civile”, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, p.
131.
SATTA, Commentario al codice di procedura civile, IV, I, Milano, 1968, sub art.
712.
SATTA-PUNZI, Diritto processuale civile, Padova, 1987.
SCIALOJA-BRANCA, Commentario del codice civile, 1979.
SESTA, Amministrazione di sostegno e interdizione: quale bilanciamento fra
interessi personali e patrimoniali del beneficiario?, in Fam. dir., 2007, I.
SORACE, voce “Interdizione” (diritto processuale civile), in Enc. dir., XXI,
Milano, 1971.
STELLA RICHTER, L’istituto del divorzio in Italia e le esperienze giuridiche
europee, Milano, 1976.
TOMMASEO, Sui profili processuali dell’interdizione e dell’inabilitazione, in
168
Giur. It., 1987, IV.
TOMMASEO, I processi a contenuto oggettivo, in Riv. Dir. Civ., 1988, parte I, p.
495 ss. – parte II.
TOMMASEO, voci “Capacità processuale” (diritto processuale civile),
“Legittimazione processuale”, “Rappresentanza processuale” (diritto processuale
civile), in Enc. Giur., Roma, 1988-.
TOMMASEO, Commento all’art. 4 l. 898/70, in CIAN-OPPO-TRABUCCHI,
Commentario al diritto italiano della famiglia, Padova, 1993, VI, I.
TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica, in Fam. dir., 2004, 6.
TOMMASEO., Ancora sulla difesa tecnica nell’amministrazione di sostegno, in
Fam. dir., 2005, 2.
TOMMASEO, L’amministrazione di sostegno al vaglio della Corte costituzionale,
in Fam. dir., 2006, 2.
TOMMASEO, Amministrazione di sostegno e difesa tecnica in un’ambigua
sentenza della cassazione, in Fam. dir., 2007, 1.
VECCHI, La riforma austriaca della tutela degli incapaci, in Riv. Dir. Civ., 1987, I.
VELLANI, voce “Interdizione e inabilitazione”, in Enc. Giur., XVII, Roma, 1988.
VENCHIARUTTI, La protezione civilistica dell’incapace, Milano, 1995.
VULLO, Nuove prospettive per la tutela processuale dell’incapace naturale, in
Giur. it. 1998, III.
VULLO, Onere del patrocinio e procedimento di nomina dell’amministratore di
sostegno, in Giur. it., 2005.
VULLO, Alcuni problemi della disciplina processuale dell'amministrazione di
169
sostegno, in Fam. dir., 2006, 4.
170
171
INDICE DELLE DECISIONI
Cass., 10 aprile 1953, n. 939, in Giust. Civ., 1953, p. 1192.
Cass., 2 maggio 1967, n. 808, in Foro It., 1967, I, p. 908.
Cass., 4 luglio 1967, n. 1643, in Giust. Civ., 1967, I, p. 1616.
Cass., 13 maggio 1968, n. 1490, in Foro it., 1968, I, p. 2163.
Cass., 5 febbraio 1970, n. 240, in RGC, 1970, Obbligazioni e contratti, n. 18.
Cass., 4 giugno 1975, n. 2227, in Foro it., 1976, I, p. 98.
Cass., 3 luglio 1987, n. 5814, in Giust. Civ., 1988, I, p. 743.
Cass., 3 luglio 1987, n. 5814, in Giur. It., 1988, I, 1, p. 978.
Cass., 13 novembre 1991, n. 12117, in Foro It., 1992, I, 2, p. 2456.
Cass., 14 aprile 1994, n. 3491, in Giur. it., 1994, I, 1, c. 1697.
Cass., 16 marzo 1999, n. 2316, in Fam. dir., 1999, p. 324.
Cass., 21 luglio 2000, n. 9582, in Dir. Fam., 2001, 4, p. 1404.
Cass., 27 aprile 2002, n. 6167, in Foro it., 2002, I, p. 3139.
Cass., 9 settembre 2002, n. 13069, in Arch. Giur. Circolaz., 2002, p. 920.
Cass., ord. 20 aprile 2005, n. 8291, in Fam. dir., 2005, 5, p. 481.
Cass., 12 giugno 2006, n. 13584, in Fam. dir., 2007, I, p. 31.
Cass., sez. I, 29 novembre 2006, n. 25366, in Fam. dir., 2007, I, p. 19.
172
Corte Cost., sent. 27 giugno 1968, n. 74, in Foro it. 1968, I, p. 2056
Corte cost., sent. 16 ottobre 1986, n. 220, in Foro it., 1986, I p. 2669.
Corte cost., ord. 19 gennaio 1988 n. 41, in Giur. Cost., 1988, p. 109.
Corte cost., sent. 2 novembre 1992, n. 468, in Foro it., 1993, I, p. 1043 e in Giur.
it., 1994, I, p. 20.
Corte Cost., 9 dicembre 2005, n. 440, in Fam. dir., 2006, p. 121.
Corte Cost., ord. 3 maggio 2006, n. 198, in www.consultaonline.it
Corte Cost., sent. 16-19 aprile 2007, n. 128, pubblicata sul sito
www.dirittoegiustizia.it
Trib. Parma, 14 febbraio 1974 (sent.), in Giur. it., 1974, 1, II, 898.
App. Napoli, 16 ottobre 1976, in Dir. Eccl., 1977, II, p. 414.
Trib. Padova, 9 febbraio 1994, in Foro pad., 1995, I, p. 106.
Trib. Torino, 22 ottobre 1997 (decr.), in Giur. it., 1998, III, p. 1849.
Pretura Torino, 11 novembre 1997 (decr.), in Giur. it., 1998, III, p. 1850.
Trib. Cuneo, 28 novembre 1997 (decr.), in Giur. it, 1998, III, p. 1846.
App. Milano 31 dicembre 1999, in Foro it., 2000, I, p. 2022.
App. Milano, 7 marzo 2001, in Fam. dir., 2002, 2, p. 184.
Trib. Padova, 21 maggio 2004, (decr.), in Fam. dir., 2004, p. 607.
Trib. Modena, 15 settembre 2004, in Fam. dir., 2005, p. 85.
App. Milano, 11 gennaio 2005, (decr.), in Fam. dir., 2005, p. 178.
173
App. Milano, 15 febbraio 2005, in Fam. pers. e succ., 2005, p. 23.
Trib. Modena, 22 febbraio 2005, (decr.), in Fam. dir., 2005, p. 180.
App. Milano, 9 gennaio 2006, (decr.), in Fam. dir., 2006, p. 280.
App. Venezia, 16 gennaio 2006, (decr.), in Fam. dir., 2006, p. 275.
174