Gramsci e la crisi della politica

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Loris Caruso
Gramsci, la crisi della politica moderna e le forme contemporanee del
conflitto egemonico.
La disaffezione dei cittadini per i partiti e le forme tradizionali dell’agire politico sono fenomeni a
cui è dedicato un numero vastissimo di studi politici, costantemente richiamati (e riprodotti) dal
sistema dei media, registrati dalle indagini demoscopiche, consolidati nel senso comune e
confermati dai risultati elettorali. Con l’aggravarsi della crisi economica, inoltre, si tende a tracciare
un’analogia tra la crisi economica e politica nell’Europa degli anni Venti e Trenta e quella attuale.
Come in quel periodo, si prospetta, c’è il rischio che una crisi economica di dimensione sistemica
conduca la crisi della politica verso esiti di tipo autoritario. Molto più raramente si immagina che la
crisi attuale possa avere esiti di tipo ‘progressivo’.
L’obiettivo di questo saggio è quello di prendere in esame entrambe le opzioni, a partire dal
pensiero di uno dei più importanti interpreti della crisi degli anni Venti e Trenta: Antonio Gramsci.
La crisi della politica democratica è uno degli argomenti centrali dei Quaderni del carcere. Gramsci
non limitava la sua analisi alla diagnosi della crisi. La sua impresa teorica consisteva
contemporaneamente nel tentativo di immaginare le condizioni per un superamento in senso
progressista della crisi democratica.
In questo articolo si approfondiranno i principali concetti teorici impiegati da Gramsci per definire
la crisi. In secondo luogo, si illustrerà come egli ponesse l’interpretazione della crisi nei termini di
un bivio tra esiti autoritari ed esiti ‘progressivi’, cioè come luogo in cui potessero sorgere forme
innovative di organizzazione e cultura politica. Infine, si cercherà di tracciare una serie di
parallelismi tra le analisi gramsciane e alcuni fenomeni politici contemporanei.
1. Gramsci critico della politica
Secondo Nelson Coutinho (2006), se Il capitale di Marx è una critica dell’economia politica, i
Quaderni del carcere sono una critica della scienza politica. La critica marxiana raccoglie diversi
concetti dalla scienza economica classica, ma li sottopone a una critica ontologica mettendoli in
rapporto con la totalità sociale e con il divenire storico. Li rende così parte di un sistema teorico in
cui le «leggi» economiche perdono il loro carattere di leggi naturali. Un lavoro teorico analogo è
svolto da Gramsci nei Quaderni, il cui nucleo centrale è però la politica, intesa sia come forma di
azione che come complesso di istituzioni (Buzzi 1973).
Gramsci impiega il concetto di politica in due accezioni principali. La prima, che Coutinho
definisce ‘ampia’, è riconducibile al suo rapporto con la totalità. La filosofia, la storia, la cultura e la
prassi sociale sono spesso analizzate nei Quaderni a partire dai loro rapporti con la politica.
Politica, in questa prima accezione, è ogni forma di azione che trascenda la prassi tecnicoeconomica di manipolazione dei dati immediati della realtà, per orientarsi con consapevolezza verso
il cambiamento attivo dei rapporti sociali. Questo tipo di prassi è definito catarsi, cioè passaggio
“dal momento meramente economico (o egoistico-passionale) al momento etico-politico”
dell’azione sociale, “strumento per creare una nuova forma etico-politica” [1244]1. La catarsi è
“grande politica”, riguarda questioni come “la fondazione di nuovi Stati, la lotta per la distruzione,
la difesa, la conservazione di determinate strutture economico-sociali”.
1
I riferimenti testuali ai Quaderni sono tratti da Gramsci A., I Quaderni del carcere (a cura di Valentino Gerretana),
Einaudi, Torino, 1975.
1
La seconda accezione di “politica” è quella più propria della scienza politica, e consiste
nell’insieme di pratiche connesse ai rapporti tra governanti e governati. Gramsci è un critico della
politica perché considera storicamente transeunte la divisione governati/governanti. Egli si oppone
alla scienza politica del suo tempo (in particolare alla teoria elitista) che tende a rappresentarla
come immutabile (Finocchiaro 1994). Per Gramsci essa ha invece un carattere storico, perché la sua
origine non risiede in una generica natura umana ma in un fatto inerente ai rapporti sociali: la
divisione della società in classi.
Elemento fondamentale della teoria politica gramsciana è la “concezione allargata dello Stato”
(Buci-Glucksmann 1975). Come noto, lo Stato gramsciano non è solo l’insieme degli apparati
pubblici, ma è “un equilibrio della Società politica (o dittatura, o apparato coercitivo per conformare
la massa popolare secondo il tipo di produzione e l’economia di un dato momento) con la Società
civile (o egemonia di un gruppo sociale sull’intera società nazionale esercitata attraverso le
organizzazioni così dette private” (Gramsci, 1996, p. 458-59). La società civile è costituita da
“apparati privati di egemonia” (i partiti, i sindacati, le organizzazioni professionali, i mezzi di
comunicazione di massa, la scuola, la Chiesa), funzionali all’elaborazione e diffusione
dell’ideologia del gruppo sociale che esercita il “dominio nella società politica”, quindi alla sua
capacità di “direzione intellettuale e morale”. Lo Stato integrale è Stato+società civile, “coercizione
più consenso”. Il consenso è inoltre dotato di una base materiale, poiché origina come “consenso
spontaneo che nasce storicamente dal prestigio derivante al gruppo dominante dalla sua funzione
nel mondo della produzione” [1512].
Da un lato, quindi, la serie società politica/coercizione/dittatura, dall’altro la serie società
civile/consenso/egemonia (Mordenti 2007). La società civile è il luogo del consenso e
dell’egemonia, della ‘catarsi’. Gramsci definisce la relazione tra le due sfere come unità-distinzione.
Per un verso “nella realtà effettiva, società civile e stato si identificano” [1590]. Ma le due sfere
tendono anche a elidersi: maggiori sono la coesione della società civile e il consenso al gruppo
dominante, minore è la necessità di esercitare la dimensione coercitiva del potere; specularmente, la
funzione specifica della società politica è assicurare una disciplina legale nei momenti in cui sono in
crisi il comando e la direzione politica all’interno degli apparati privati dell’egemonia. La
connessione tra i due poli dello Stato allargato ha così la forma di una “dialettica dei distinti”: la
tensione dialettica si concilia di volta in volta sotto l’egemonia di uno dei due poli (Prestipino
2008).
L’esistenza dello Stato allargato è resa possibile dall’affermazione storica di un tipo preciso di
“organizzazione privata” nella società civile, e in particolare da un tipo preciso di partito politico. I partiti
sono strutturati su tre livelli. Questi tre livelli sono al contempo tre forme del rapporto tra
organizzazione politica e interessi di classe, tre stadi dell’evoluzione storica della forma-partito, tre
elementi presenti all’interno dei partiti che hanno raggiunto lo stadio di evoluzione più elevato. A
distinguerli sono il grado di omogeneità interna, coscienza di sé e organizzazione dei gruppi sociali.
Il livello più elementare è quello economico-corporativo, in cui la solidarietà e l’azione politica
sono interne a una singola categoria sociale. Il secondo grado è quello economico-politico, in cui
l’azione è basata su una solidarietà di classe limitata al solo ambito economico. Il grado più elevato
è quello egemonico-statale, in cui matura la consapevolezza che i propri interessi di gruppo
debbano diventare anche quelli di altri gruppi sociali. È la fase più politica, in cui il partito può
elaborare un piano generale di egemonia finalizzato a sviluppare tutte le energie nazionali.
Lo Stato integrale è così una forma storica del rapporto tra politica e società. Gli apparati privati
dell’egemonia, il loro ruolo complementare al potere politico e la loro capacità di contribuire alla
costruzione di un ‘piano generale di egemonia’ nascono con la società di massa nella seconda metà
dell’Ottocento. A loro volta, elementi centrali della società di massa sono la produzione di massa,
l’industrialismo e l’incremento della socializzazione della produzione. La socializzazione politica si
estende insieme alla socializzazione economica, e la sua estensione impone ai gruppi dominanti di
conquistare un consenso attivo e organizzato. Il consenso passivo non è più sufficiente.
2
La società civile, che in Marx è parte della “struttura”, per Gramsci costituisce uno dei due elementi
della “sovrastruttura”. L’importanza assegnata nei Quaderni alle dimensioni politiche e culturali ha
dato spazio a interpretazioni culturaliste o addirittura liberali del suo pensiero. Lo studio in qualche
modo fondativo di tale approccio è quello di Bobbio (1976). In esso si sostiene che: a) Gramsci
rovescia la gerarchia marxiana tra struttura e sovrastruttura; b) la società civile è il luogo di
mediazione tra struttura e sovrastruttura; c) Gramsci colloca, al contrario di Marx e del marxismo
tradizionale, il luogo della trasformazione sociale nella sovrastruttura.
Tralasciamo per il momento il punto c, su cui si tornerà più avanti, e concentriamoci sui punti a e b.
L’affermazione che nell’impianto gramsciano la società civile sia il luogo di mediazione tra
struttura economico-sociale e sovrastruttura politico-culturale è corretta. Scrive Gramsci: “tra la
struttura economica e lo Stato con la sua legislazione e la sua coercizione sta la società civile”
[1253]. È all’interno degli apparti privati dell’egemonia che gli interessi economici e corporativi
subiscono quella ‘catarsi’ che li conduce a trascendere la propria immediatezza e divenire parte di
una volontà politica generale, ”ponendo tutte le quistioni su un piano universale e creando così
l’egemonia di un gruppo sociale” [1584]. Nello stesso tempo, gli apparati egemonici mediano tra
struttura economica e sovrastruttura perché conformano “la massa popolare secondo il tipo di
produzione e l’economia di un dato momento”. Questa seconda funzione assegnata da Gramsci alla
società civile evidenzia come sia fuorviante interpretare questo concetto come la manifestazione di
un Gramsci post-marxista che, espandendo il ruolo della politica e della cultura, ne riduce i legami
con la sfera economica. Forma dello stato, cultura ed esigenze tecniche della produzione sono per
Gramsci connesse nella totalità sociale. Egli non rifiuta la concezione di Marx e Lenin secondo cui
lo Stato prende la sua forma da un determinato sistema di produzione, né rifiuta l’idea che lo Stato
sia uno strumento della lotta di classe: “lo Stato è lo strumento per adeguare la società civile alla
struttura economica” [1253]. Egli rende più complessa questa concezione senza negarla2. Il rapporto
che Gramsci delinea tra struttura e sovrastruttura è anti-meccanicistico. Questi due livelli della
formazione sociale costituiscono un “blocco storico” in cui si dispongono come i due poli di una
dialettica dei distinti, cioè sono connessi attraverso un rapporto di interazione reciproca e di
correlazione attiva non necessariamente conflittuale. Tuttavia, la struttura rimane “una causazione
dialettica, non meccanica, delle superstrutture” [503].
L’innovazione di Gramsci rispetto al marxismo precedente ha in primo luogo una dimensione
storico-politica. All’epoca dello Stato liberale conosciuto da Marx e dello Stato zarista dell’epoca di
Lenin, lo Stato si presentava essenzialmente nella forma che Gramsci definisce “dittatura e
coercizione”. La diffusione della socializzazione politica, la nascita della società e della politica di
massa, la necessità di includere, almeno parzialmente, le classi subalterne nelle istituzioni dello
Stato, implicano che la società civile e la stessa società politica siano attraversate da una tensione
dialettica. Il gruppo sociale dominante (la “tesi”) deve includere selettivamente nella propria
conduzione della politica statale alcuni interessi dei gruppi subalterni (l’“antitesi”). Per questa
ragione, accanto al concetto di Stato integrale, elemento fondamentale della teoria politica
gramsciana è il concetto di Rivoluzione passiva. La Rivoluzione passiva è una forma dialettica
dell’esercizio del potere politico, l’inclusione parziale dell’antitesi nella tesi, delle esigenze, dei
bisogni e delle rivendicazioni dei dominati nelle politiche dei dominanti. Nella società di massa e
nello Stato integrale la Rivoluzione passiva diviene tendenzialmente la forma normale dell’esercizio
del potere. Gramsci innova la teoria marxista dello stato perché riconduce alla forma dialettica non
solo la dinamica della società civile, ma lo stesso esercizio del potere all’interno della “società
politica”, che nel marxismo precedente ha invece una dimensione unilaterale di dominio di classe.
Il modo in cui Gramsci affronta il problema della crisi della politica va inquadrato all’interno di
questa cornice teorica.
2
Secondo Coutinho (2006), la supera dialetticamente, cioè introduce elementi di innovazione senza negare gli elementi
fondamentali della teoria originaria.
3
2. Crisi, crisi di autorità, crisi organica
Il termine “crisi”, nel Quaderno 1 (Q1, 18), è associato da un lato al decorso di un processo che si
risolve velocemente in un cambiamento decisivo, dall’altro a una situazione di mobilitazione
collettiva in cui le masse improvvisamente si fluidificano, accelerando processi strutturali prima
impercettibili (Frosini 2009).
Applicato alla politica, il concetto implica un processo di destrutturazione dello Stato integrale, una
scomposizione dell’unità-distinzione tra stato e società civile. La crisi della politica è una crisi di
egemonia, cioè della capacità di direzione politica, ideologica e morale del gruppo dominante,
quindi della sua autorità: gli apparati egemonici non sono più in grado di costruire il consenso con
mezzi normali. Elemento centrale della crisi di egemonia è il distacco dei partiti politici dalle loro
classi sociali di riferimento, che determina un collasso della funzione di rappresentanza e libera il
campo all’intervento di uomini carismatici: “A un certo punto dello sviluppo storico, le classi si
staccano dai loro partiti tradizionali. È questa la crisi più delicata e pericolosa, perché offre il campo
agli uomini provvidenziali e carismatici. [È una situazione] di contrasto tra rappresentati e
rappresentanti, che dal terreno delle organizzazioni private (partiti, sindacati), non può non
riflettersi sullo stato. La crisi è pericolosa quando si diffonde in tutti i partiti, in tutte le classi”
[513]. Le cause scatenanti di una crisi di egemonia possono essere due. La prima è il fallimento di
una grande impresa politica su cui la classe dirigente ha chiesto o imposto il consenso delle masse.
La seconda è il passaggio all’attività politica di masse precedentemente passive, che avanzano
rivendicazioni capaci di destabilizzare un già fragile equilibrio politico. Entrambi i meccanismi
causali sono all’opera secondo Gramsci nel processo che conduce alla crisi del liberalismo e
all’avvento del fascismo (Bracco 1980). La crisi del parlamentarismo, della rappresentanza e dei
partiti è il risultato sia delle conseguenze della Prima guerra mondiale, sia di un equilibrio statico
nel conflitto tra gruppi egemoni e gruppi subordinati, determinato dall’irruzione nella scena del
movimento operaio organizzato. La relazione tra lo Stato e il rafforzamento, attraverso la
mobilitazione collettiva, della società civile, determina una tensione dialettica in cui quest’ultima
acquisisce il ruolo di antitesi dello Stato-governo.
La crisi di egemonia può essere momentaneamente superata con il “passaggio di truppe in forma
acceleratissima di uno o vari partiti in un partito che meglio riassume gli interessi generali”, cosa
che rappresenta “la fusione di una classe sotto una sola direzione per risolvere un problema
dominante”. Ma “quando la crisi non trova questa soluzione organica, ma quella dell’uomo
provvidenziale, significa che esiste un equilibrio statico, che nessuna classe, la conservatrice né la
progressiva hanno la forza di vincere, ma anche la classe conservatrice ha bisogno di un padrone”
[513]. Il fascismo fu la risposta data dalle classi dirigenti italiane alla crisi dell’egemonia liberale
del dopoguerra, e il modo con cui, per Gramsci, la classe conservatrice individuò il proprio padrone.
La crisi di autorità ha quindi come epicentro il rapporto di unità-distinzione tra i due elementi
costitutivi dello Stato integrale. Essa implica un mutamento della forma dello Stato. Nelle fasi di
crisi lo Stato regredisce alla forma economico-corporativa, caratterizzata dalla prevalenza del
momento economico su quello etico-politico. Lo Stato economico-corporativo è tipico per Gramsci
di una fase precisa della storia europea, l’Europa medioevale dei Comuni. Il riavvicinamento dello
Stato a questa forma “semplice”, non allargata, basata sulla dimensione coercitivo-burocratica e
sull’immediatezza degli interessi corporativi, indica quindi una decomposizione della modernità
politica. Essa ha alcune manifestazioni fenomeniche, come la “dissoluzione del regime
parlamentare”, la crescente difficoltà di formare governi e la loro instabilità, la moltiplicazione dei
partiti parlamentari, le costanti crisi interne di questi partiti.
Alla forma di Stato economico-corporativa Gramsci associa poi alcune dimensioni strutturali:
sovrapposizione tra Stato e governo; sovrapposizione tra Stato e società civile; centralità della
rendita rispetto al profitto; intensificazione dello sfruttamento del lavoro; dominio immediato dei
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rapporti di forza. La forma di Stato economico-corporativa è un “ritorno alla pura economicità”
[692], una forma di governo in cui “la politica viene innestata direttamente nell’economia” [57],
propria di quando l’organizzazione politica diviene un involucro finalizzato all’esclusiva
definizione e promozione di interessi corporativi. Ciò non significa che attorno al “dominio della
pura economicità” le classi dirigenti non riescano a ottenere una subordinazione, anche culturale,
dei governati. Ma si tratta di una subordinazione instabile, ottenuta in virtù dell’affermazione della
forza3 più che attraverso una reale adesione alle forme politico-culturali in cui si traduce.
L’egemonia diviene «indiretta», scaturisce dall’esercizio della forza all’interno dei rapporti sociali,
non si sublima nella consensualità allargata del governo politico-statale.
La crisi di egemonia è la dimensione politico-ideologico di una crisi organica. La crisi organica è
propria delle “fasi storiche di transizione”, in cui “il vecchio muore e il nuovo non può ancora
nascere”, come recita una celebre frase dei Quaderni [311]. “Vecchio” e “nuovo” sono le classi
sociali antagonistiche, la conservatrice che ha perso il consenso ma mantiene la forza, la progressiva
che ha guadagnato consenso ma non ha la forza per diventare dirigente. Vecchio e nuovo sono
anche le ideologie e le culture politiche sviluppate dalle classi antagoniste: anche in questo caso
quelle tradizionali declinano, ma quelle innovatrici non hanno raggiunto il necessario grado di
elaborazione, coerenza, diffusione.
La base materiale della crisi organica è il fatto la classe dirigente ha cessato di “far avanzare
realmente l’intera società, soddisfacendo non solo alle sue esigenze esistenziali, ma ampliando
continuamente i propri quadri per la continua presa di possesso di nuove sfere di attività
economico-produttiva” [2012]. Si tratta di un arresto della capacità espansiva dei quadri sociali, che
è per Gramsci l’elemento dinamico della modernità borghese (La Porta 2009). Gramsci segue
inoltre Marx nel considerare la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione centrale
in ogni crisi economica.
In questa situazione si diffondono “scetticismo verso tutte le teorie e le formule generali e
applicazione al puro fatto economico (guadagno ecc.) e alla politica realista” [312]. È, quest’ultima,
una definizione di “crisi” per certi aspetti analoga alla definizione nietzschiana del nichilismo.
L’assonanza tra i due processi culturali è confermata da un’ulteriore specificazione di Gramsci, che
riconduce la crisi organica a un processo di “riduzione della soprastrutture più elevate a quelle più
aderenti alla struttura”. Si osserva uno «schiacciamento», la crisi di ogni forma di generalità e
universalità (cioè della stessa dimensione indicata da Nietzsche come «sede» dei valori astratti), la
sovrapposizione di questa dimensione ai puri fatti, ai processi materiali, alla forza e al calcolo.
Ricordando l’accezione ampia con cui Gramsci definisce la sfera politica, si può dire che la crisi
organica cancelli la capacità della politica di porsi come prassi distinta dalla pura manipolazione
tecnico-economica dei dati della realtà.
Secondo Gramsci questo tipo di crisi colpisce l’Occidente a partire dagli ultimi trent’anni
dell’Ottocento (Burgio 2003). A partire da quel periodo “i raggruppamenti sociali regressivi e
conservativi si riducono sempre più alla loro fase iniziale economico-corporativa, mentre i
raggruppamenti progressivi e innovatori si trovano ancora nella fase iniziale appunto economicocorporativa” [690]. Si tratta di una crisi epocale che, sviluppatasi in modo molecolare, esplode e
produce tutte le sue conseguenze dopo la Prima guerra mondiale, per diventare “catastrofica” con la
crisi economica degli anni Venti, quando si determina un sincronismo tra crisi politica, crisi
culturale e crisi economica.
L’esito di questo processo è ambivalente e dipende in misura significativa dall’evoluzione dei
rapporti di forza tra le classi antagonistiche e dalla loro capacità di costruire soggettività politiche
all’altezza dei propri compiti storici. Proprio la “riduzione delle superstrutture più elevate a quelle
più aderenti alla struttura” può creare le premesse per la formazione di una nuova cultura, e quindi
per la costruzione di una nuova egemonia (Filippini 2009).
Per forza va intesa qui in primo luogo la forza “dei fatti”, cioè il potere di determinare una certa configurazione dei rapporti sociali e
una conseguente riduzione dello spazio di opposizione ad essi.
3
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3. La crisi odierna attraverso le categorie di Gramsci
L’analisi della cirisi della politica moderna che Gramsci conduce nei «Quaderni» offre categorie
utili alla comprensione della contemporanea crisi della democrazia rappresentativa (Crouch 2003,
Mastropaolo 2011, Schedler 1994).
In primo luogo, le caratteristiche che Gramsci associa allo Stato economico-corporativo
corrispondono ad alcuni tratti fondamentali del processo politico, sociale, economico e culturale che
viene definito neoliberismo (Harvey, 2011). Da un punto di vista economico, sono propri di
quest’ultimo il primato della rendita sul profitto - la finanziarizzazione dell’economia, fenomeno
ciclico della storia del capitalismo (Arrighi 1994) – e un significativo indebolimento sociale, e
soprattutto politico, del lavoro.
Dal punto di vista politico, la “sovrapposizione tra Stato e governo” richiama la contemporanea
perdita di potere delle assemblee legislative rispetto al potere esecutivo, processo che riguarda tutte
le democrazia occidentali. Proprio mentre il governo dei singoli stati si vede sottrarre lo schmittiano
“monopolio della decisione politica”, a causa dello spostamento della sovranità dal potere pubblico
a quello privato e dalla dimensione nazionale a quella sovranazionale, la politica si concentra nel
governo e nella competizione elettorale per conquistarlo. I partiti principali identificano in modo
esclusivo la propria azione con lo svolgimento di attività di governo e con il proprio ruolo
all’interno degli apparati pubblici (coerentemente con le definizioni che ne ha dato la scienza
politica contemporanea, come quelle di cartel party e party in the office) e rinunciano a creare o a
sostenere la mobilitazione attiva dei gruppi sociali. Spesso questa mobilitazione la ostacolano,
immunizzando lo Stato-governo dall’azione collettiva.
L’incorporazione tra Stato, partiti e governo riproduce la gramsciana rottura dello “Stato allargato”.
Lo Stato torna ad essere Stato economico-corporativo e Stato-coercizione. La “società politica”
regredisce alla propria funzione essenziale: garantire, in una fase di decrescente consenso alle
politiche delle classi dirigenti, le condizioni per il mantenimento degli assetti sociali vigenti e per il
raggiungimento degli obiettivi immediati dei gruppi dominanti. Obiettivi che sono perseguiti non
attraverso una restrizione del processo legislativo (secondo la retorica dello ‘Stato minimo’), ma
con la moltiplicazione e l’estensione della produzione normativa ad aspetti sempre più dettagliati
della vita collettiva e dell’interazione sociale, secondo la definizione dello Stato come factory law
(Mastropaolo 2005, Vecchi 2012). In questo contesto, riemerge la centralità dello Stato-coercizione,
poiché si accresce la tendenza a reprimere e sanzionare penalmente la protesta e il dissenso (della
Porta e Reiter 2003): nella dialettica dello Stato allargato, la forza torna preminente rispetto al
consenso. Come già affermato in precedenza, con «forza» non si deve però intendere
esclusivamente il ricorso agli apparati repressivi. Anche il consenso può essere ottenuto per via
della forza più che per via dell’egemonia. In questo senso, «forza» significa affermazione della
mancanza di alternative alle politiche vigenti, utilizzo degli “apparati privati dell’egemonia” per la
costruzione di dispositivi politico-comunicativi adeguati a dare consistenza a questo messaggio. In
Europa, la rigida delimitazione delle politiche economiche nazionali a parametri e vincoli definiti
dalla Banca centrale europea, ha svolto negli ultimi vent’anni la funzione di aggirare la crisi di
consenso per le politiche economiche liberiste attraverso il ricorso a una superiore “ragione
obbligante”, a una serie di stati di necessità, amplificati per via mediatica, che imporrebbero queste
decisioni indipendentemente dalla volontà e dalla responsabilità degli esecutori politici. La crisi di
consenso è così aggirata attraverso un uso specifico della forza.
Un ulteriore elemento della regressione dello Stato alla dimensione economico-corporativa, la
“sovrapposizione tra stato e società civile”, è accostabile a tre fenomeni contemporanei. Il primo è
la crescita del potere degli interessi privati sulle istituzioni pubbliche. Essa ha un aspetto materiale,
consistente nella capacità dei privati di rendere le decisioni politiche funzionali ai propri interessi, e
un aspetto egemonico, che risiede nella capacità di convincere gran parte del ceto politico della
necessità di una «riappropriazione privata» dei beni pubblici (Burgio 2007). In secondo luogo, la
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sovrapposizione tra stato e società civile richiama il concetto di governance, inteso come processo
politico in cui attori pubblici e attori privati concorrono al policy making. Un processo che comporta
una tendenziale sostituzione della decisione politica a vocazione universalistica con patti
contrattualistici tra le parti, contingenti, situati e legati agli interessi economico-corporativi dei
cosiddetti stakeholders, e quindi una reinterpretazione dei confini tra pubblico e privato come
confini interni alla sfera del privato (Pellizzoni 2012). Il privato diviene un attore pubblico e la
decisione politica trascende i confini del sistema istituzionale. La diffusione della titolarità e della
legittimità ad assumere decisioni politiche ad un numero crescente di attori, quindi la
frammentazione del potere legittimo, è stata definita come neo-feudalesimo giuridico (Supiot 2005).
Il terzo fenomeno riguarda la presenza della «società civile» nei sistemi politici. All’interno delle
liste elettorali cresce il numero di candidati presentati come provenienti dalla «società civile» ed
estranei al professionismo politico, elemento percepito come condizione necessaria alla conquista
del consenso. I partiti politici cercano la propria legittimazione all’esterno non solo di sé stessi, ma
della dimensione del Politico in generale, secondo un processo ventennale di estroflessione della
legittimazione (Prospero 2012). I partiti tendono inoltre ad avvicinare la propria struttura
organizzativa a quella di altre organizzazioni sociali (in primo luogo a quella delle imprese, per certi
aspetti a quella dei movimenti sociali), o a rappresentarsi come non-partiti.
La contemporanea crisi di egemonia non riguarda solo le forze politiche esistenti, ma la formapartito in quanto tale, sempre meno attrattiva dal punto di vista dell’attivismo e della militanza,
sempre meno legittimata sul piano elettorale. In Europa cresce il consenso elettorale alle forze
antipartito (Lupo 2013) e, in sistemi da lungo tempo incentrati su un numero limitato di partiti,
cresce la capacità di inserimento da parte di “terze forze”. Ricorrendo alla formula gramsciana del
“vecchio che muore mentre il nuovo non può ancora nascere”, si assiste al declino del partito come
forma storica prevalente dell’organizzazione politica, mentre un nuovo modello di organizzazione è
ancora in gestazione.
La crisi egemonica della politica si manifesta innanzitutto come crisi del consenso elettorale. In
Europa, da due decenni, le coalizioni di governo (in particolare quelle progressiste, perché suscitano
in origine maggiori aspettative di cambiamento) vengono sanzionate elettoralmente. La fiducia e le
aspettative si spostano velocemente da una coalizione all’altra. Questa oscillazione non produce
significativi cambiamenti nelle politiche adottate (in particolare in quelle economiche), e ciò fa sì
che lo stesso meccanismo dell’alternanza attraversi un logoramento sostanziale aprendo la strada a
nuove forze su cui si possono concentrare aspettative ‘palingenetiche’ di mutamento radicale e
immediato. Lo stesso successo elettorale di queste nuove forze, però, subisce spesso una parabola di
veloce consunzione. In parte perché difficilmente riesce a colmare lo iato tra aspettative sollevate e
politiche realizzate, in parte perché diventano esse stesse vittima del processo di mediatizzazione
della sfera pubblica che ne consente un’ascesa basata sulla frattura vecchio/nuovo, come tale incline
a trasformare velocemente il “nuovo” in “vecchio” e la promessa in delusione, in un parossistico
processo di costruzione della novità che lascia sostanzialmente inalterate le politiche realizzate.
Ci sono però da evidenziare due differenze tra l’elaborazione di Gramsci e la situazione attuale. In
primo luogo, la società civile di oggi non è quella di Gramsci. La discontinuità è segnata dalla crisi
dei principali attori della società civile gramsciana, i partiti di massa e i grandi sindacati. Così come
altre due tra le istituzioni cui Gramsci riconduceva la ‘catarsi’ politica e culturale, la scuola e la
Chiesa, essi non sono più luoghi centrali dei processi di socializzazione. La società civile torna a
spostarsi dal polo gramsciano al polo marxiano, tornando ad essere prevalentemente il luogo
dell’interesse privato e dello scambio economico. Coerentemente con la visione di Gramsci,
secondo cui nelle fasi di crisi “la politica è innestata nell’economia” e quindi “l’egemonia viene
esercitata per via indiretta”, l’egemonia si irradia a partire dalla sfera economica, perché
direttamente connessi alla sfera economica sono i centri di produzione dei codici, dei simboli e dei
significati che guidano l’interazione tra gli individui e tra i gruppi sociali: i media, la pubblicità, le
imprese, la finanza. Si assiste nuovamente alla “riduzione delle superstrutture più elevate a quelle
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più aderenti alla struttura”. La società civile contemporanea è forse ancora più “corazzata” di quella
dell’epoca di Gramsci, ma la corazza che media il rapporto tra potere e cittadino e tra struttura e
sovrastrutture è fatta, piuttosto che da organizzazioni di natura politica e culturale, dai media
(tradizionali e digitali) e da gruppi di interesse di natura economica. Ricorrendo alla forza dei nuovi
‘apparati privati dell’egemonia’, i gruppi sociali dominanti riescono nell’operazione di ‘grande
politica’ di evitare che la critica sociale e le aspettative dei gruppi sociali subalterni si orientino sul
proprio operato, facendo in modo che si concentrino sui partiti e sulle istituzioni pubbliche. Il fatto
che la ‘corazza’ della società civile acquisisca una forma prevalentemente comunicativa e
corporativa, favorisce la rimozione dal dibattito pubblico delle condizioni materiali di vita e delle
loro cause, spostando le aspettative di cambiamento sulla sfera dell’“immaginario”, sulla
comunicazione e sulle forme della politica ed evitando la politicizzazione delle questioni sociali.
Come osserva Baratta (2007, p. 35), la conservazione dello stato di cose esistente si presenta con i
caratteri di ciò che è moderno (trasformazioni produttive e comunicative), nuovo (le riforme
istituzionali) e rivoluzionario (la tecnologia).
Veniamo alla seconda differenza. Tra i fattori costitutivi della crisi non svolge attualmente un ruolo
rilevante l’irruzione nel campo politico di masse precedentemente passive. Non vi sono né un
significativo conflitto tra classi sociali antagonistiche né la capacità di nuovi attori collettivi di
avanzare rivendicazioni emancipative che incidano sugli equilibri sociali. Il conflitto tra le classi è
agito esclusivamente dall’alto, come esercizio unilaterale delle élite, capaci di sottrarre reddito,
diritti sociali e potere politico ai gruppi subalterni. Le fratture sociali tradizionali sembrano
convergere su una onnicomprensiva, e non-partisan, frattura tra politica e società, che esclude il
conflitto classe-contro-classe.
Come nell’epoca di Gramsci, la crisi di egemonia è la manifestazione di una più vasta “crisi
organica”. La crisi politica si intreccia con una crisi epocale delle forme simboliche (“crisi delle
grandi narrazioni”, “crisi delle ideologie”, “postmodernità”) e con la crisi economica più grave
dagli anni Trenta. La crisi egemonica ha inoltre una dimensione internazionale. Nei Quaderni,
Gramsci iniziava ad analizzare una possibile “crisi dell’Occidente”, provocata da un progressivo
rivolgimento delle relazioni internazionali che segnasse la fine della centralità europea. La sua
epoca era quella del passaggio dell’egemonia dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti. Come osserva
Arrighi (1994) le transizioni egemoniche da uno Stato all’altro, cicliche nel capitalismo, coincidono
con fasi di caos sistemico – politico, economico e culturale – a livello internazionale e all’interno
dei singoli Stati. Nella realtà attuale, la transizione egemonica tra gli Stati Uniti e il nuovo Stato
potenzialmente egemone (la Cina) è legata al compimento della crisi della centralità europea e
occidentale, con lo spostamento del centro dell’economia mondiale dall’Occidente all’Asia. Il
“vecchio che muore” è anche la modernità eurocentrica.
Per Gramsci, crisi di egemonia e crisi organica creano le condizioni per Rivoluzioni passive di tipo
neo-bonapartistico. Il cesarismo-bonapartismo rappresenta l’ascesa di una personalità forte che
assume il comando politico e supera la frammentazione e lo stallo provocati dalla crisi. I suoi
aspetti essenziali sono il distacco tra i partiti e le masse e, per questa via, la disgregazione dei partiti
esistenti, perseguita da forze politiche e sociali che hanno interesse a stabilire una nuova egemonia
ricostruendo su nuove basi il rapporto tra masse e potere politico.
Il concetto gramsciano di cesarismo-bonapartismo può essere accostato al fenomeno
contemporaneo del populismo. La letteratura identifica tre caratteristiche essenziali del populismo,
comuni alle sue diverse manifestazioni (Porcaro 2007): l’identificazione di un popolo connotato
esclusivamente dalla virtù e compatto al suo interno, non-partisan; l’attribuzione di tutti i problemi
della società ad élite corrotte e manipolatrici; l’assunto che per risolvere i problemi della società sia
sufficiente eliminare le élite, quelle politiche in particolare, e le mediazioni tra popolo e potere,
istituendo forme di rappresentanza politica in cui i rappresentanti siano omologhi al popolo. Come
il bonapartismo, il populismo svolge una funzione di decostruzione/reintegrazione del rapporto tra
masse e politica. I partiti populisti, che in Europa ricoprono sempre più spesso funzioni di governo
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in virtù di un costante processo di crescita elettorale (Albertazzi e McDonnell, 2007), riconfigurano
tale rapporto come relazione immediata tra leader e cittadini, sottraendo parzialmente ai partiti
progressisti il consenso dei ceti popolari. Il populismo è anche un fenomeno mediatico: a partire
dagli anni Ottanta, il sistema dei media ha perseguito una decostruzione del rapporto dei ceti
popolari con la politica attiva, ponendosi come rappresentante delle esigenze popolari alternativo
alla politica. A tale processo, che corrisponde in Europa soprattutto alla nascita dei grandi network
televisivi privati, è stato dato il nome di cesarismo-bonapartismo mediatico (Grossi, 2009).
Ma il concetto di bonapartismo può essere accostato anche alle forme contemporanee della
tecnocrazia. Oltre che a numerose istituzioni internazionali e ad organismi di natura tecnicoamministrativa (come le authorities), il termine tecnocrazia viene sovente accostato all’Unione
europea, i cui processi decisionali sono difficilmente riconducibili alla rappresentanza democratica,
a causa dello scarso peso del Parlamento rispetto ad organismi decisionali di natura tecnicoesecutiva (Commissione, Banca centrale, etc.). Nella attuale fase storica di crisi economica e
politica, è lo stesso principio elettorale ad essere relativizzato. In primo luogo perché, come si è già
osservato, i vincoli posti dall’Ue alle politiche economiche nazionali tendono a neutralizzare la
differenza politica tra destra e sinistra sul piano delle politiche di governo. In secondo luogo perché
è crescente il ruolo dell’Ue nella stessa costituzione delle coalizioni di governo nazionali. Nei paesi
più colpiti della crisi economica viene sollecitata la formazione di governi di grande coalizione, che
ricordano la gramsciana “fusione di una classe sotto una sola direzione”.
Se la politica democratica ordinaria non riesce a soddisfare le aspettative che il peggioramento delle
condizioni materiali di vita solleva, la struttura delle opportunità politiche diviene favorevole
all’intervento di “élite illuminate” che, prendendo le distanze dalla politica tradizionale, governano
in nome dell’efficacia, della straordinarietà delle situazioni e di aspettative popolari costantemente
eluse (Antonelli e Vecchi 2012). In questo senso, populismo e tecnocrazia possono unificarsi in un
populismo tecnocratico che ricorre ai registri discorsivi e a partiche di governo che sintetizzano
elementi comuni al populismo e alla tecnocrazia, come la contrapposizione alle forze politiche
tradizionali e la rappresentazione di un popolo indifferenziato e privo di interessi contrastanti.
Come si è visto, dal lato delle classi conservatrici, la crisi può essere superata attraverso “la fusione
di una classe sotto una sola direzione per risolvere un problema dominante”. Se questo tentativo non
riesce, perché il contrasto tra rappresentanti e rappresentati è insanabile e perché la crisi è diffusa
“in tutti i partiti e in tutte le classi”, essa “offre il campo agli uomini provvidenziali e carismatici”.
Populismo e tecnocrazia rappresentano tentativi di “fusione sotto una sola direzione”. Con il
divenire crisi organica della crisi di autorità, c’è la possibilità che anche questi tentativi si rivelino
fragili e transitori e che, oggi come al tempo di Gramsci, tornino le condizioni per l’intervento
provvidenziale e carismatico di un “padrone”, radicalizzando il carattere plebiscitario e verticistico
del processo politico.
4. Modelli di conflitto egemonico
Per Gramsci la crisi democratica determina un bivio tra due esiti potenziali, uno conservatore e
l’altro progressivo. La crisi apre, cioè, un campo dialettico. Questo tipo di formulazione è legata
alla concezione della dialettica sviluppata nei Quaderni. Essa si distanzia dalla concezione
hegeliana, in cui la risoluzione della contraddizione è una. Per Gramsci, in continuità da quanto
affermano Marx ed Engels nel Manifesto, i due poli dell’opposizione dialettica possono non
conciliarsi in alcuna sintesi e andare incontro “alla distruzione reciproca”. Inoltre essi possono dar
luogo a due sintesi opposte, quella conservatrice (Rivoluzione passiva) o quella innovatrice
(Finocchiaro 1998, Prestipino 2004).
La crisi della politica produce anche oggi esiti di tipo bonapartistico, nella forma del populismo e
della tecnocrazia. Cosa succede invece sull’altro versante del bivio? Vediamo quali sono le
categorie impiegate da Gramsci per analizzare i tentativi egemonici da parte di forze sociali e
politiche ‘progressive’.
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Il modello storico di costruzione di una politica egemonica da parte di queste forze è costituita per
Gramsci dal giacobinismo. L’affermarsi dell’egemonia giacobina è resa possibile dalla presenza di
determinate condizioni storico-sociali. In primo luogo, centrale è lo sviluppo di un soggetto storico
– il terzo stato – i cui bisogni ed esigenze entrano strutturalmente in conflitto con gli assetti politici
ed istituzionali esistenti. Inizialmente l’azione del terzo stato rientra in un ambito prettamente
economico-corporativo, che interessa esclusivamente, e materialmente, i membri di tale gruppo
sociale. Si afferma però progressivamente un secondo fattore di ordine soggettivo: una nuova élite
che concepisce la borghesia come il gruppo egemone di tutte le forze popolari. La selezione della
nuova élite, e quindi l’acquisizione del ruolo dirigente da parte dei giacobini, avviene attraverso
“una lotta senza quartiere” in cui essi si impongono alla borghesia conducendola su una posizione
più avanzata “di quella che le premesse storiche dovevano consentire”. La “lotta senza quartiere”
che consente di acquisire la funzione dirigente è a sua volta conseguenza di due fattori: la resistenza
delle vecchie forze sociali e la minaccia internazionale che pesa sulla Francia rivoluzionaria. Queste
due condizioni conducono i giacobini a forzare il processo rivoluzionario potendo contare su un
ulteriore compattamento della popolazione attorno alle proprie posizioni. Per Gramsci, la «potenza»
del fattore soggettivo, cioè di una èlite politico-intellettuale adeguata alle necessità storiche, risiede
nella sua capacità di interpretare non solo i bisogni e le aspirazioni immediate di un concreto gruppo
sociale, ma la direzione complessiva di uno “sviluppo storico integrale”, cioè i bisogni futuri di tutti
i gruppi nazionali.
Il secondo modello Gramsci lo delinea con il concetto di partito politico come blocco storico. Il
partito è l’“unità di teoria e prassi” di cui deve dotarsi una forza storica per evolvere allo stadio
egemonico-statale. L’unità di teoria e prassi implica l’elaborazione coerente di una visione del
mondo, una strategia politica dotata di organizzazione e una forza soggettiva capace di interpretare,
raccogliere e dirigere le forze innovatrici che si sviluppano nel sociale. Un tale modello implica il
superamento dell’autoreferenzialità del politico, perché il partito deve consentire lo svolgersi di
un’incessante dialettica tra i movimenti popolari e la «direzione consapevole» di intellettuali e
dirigenti, oltre che un interescambio interno tra «dirigenti e diretti» che conduca questi ultimi
all’autoemancipazione, cioè alla capacità di assumere direttamente compiti di dirigenza politica nel
partito e nello Stato.
Strettamente connesso a questo è il modello con cui viene pensato il passaggio dei gruppi sociali
subordinati a posizioni egemoni. Egli immagina tale passaggio come uno sviluppo costiuito da sei
stadi: 1. La formazione oggettiva dei gruppi sociali subalterni attraverso gli sviluppi e i mutamenti
nella sfera della produzione economica. 2. La loro adesione alle forze politiche dominanti e il loro
eventuale intervento attivo in queste formazioni. 3. La nascita di nuovi partiti dei dominanti per
mantenere il consenso dei subalterni. 4. La nascita di formazioni politiche dei subalterni finalizzate
a rivendicazioni parziali e ristrette. 5. La nascita di formazioni politiche che affermano l’autonomia
dei subalterni all’interno degli assetti generali esistenti. 6. La nascita di formazioni politiche che
affermano l’autonomia integrale dei subalterni.
Questi tre modelli sono tre diverse possibilità di costruire la successione progressiva tra le tre forme
fondamentali di azione collettiva: l’azione di tipo economico-corporativo, l’azione economicopolitica (“sindacale”) e l’azione egemonico-statale. Ma quali sono i processi e i meccanismi storici
attraverso i quali tali passaggi sono realizzabili? Nei Quaderni sono presenti diverse
sistematizzazioni dei processi che possono condurre un soggetto storico a determinare un
mutamento in senso progressivo degli assetti sociali. Il primo è quello del rapporto tra quantità e
qualità. Con il primo termine Gramsci si riferisce all’attività pratica e alle “leggi di tendenza” del
sistema economico. La nozione di qualità riguarda invece il mondo della cultura e la posizione di
finalità e valori, quindi l’etica e la politica. Il passaggio dalla quantità alla quantità, cioè il divenire
forza storica attiva di un insieme di condizioni date nella prassi, è associato da Gramsci al concetto
di catarsi: la dialettica quantità-qualità indica il passaggio dal momento economico, “egoistico10
passionale”, al momento etico-politico. Essa è “passaggio dall’oggettivo al soggettivo”, “dalla
necessità alla libertà”.
Il nesso necessità-libertà in parte equivale a quello tra quantità e qualità, in parte lo sostituisce e lo
amplia. L’innovazione storica in senso progressivo implica il “fare «libertà» di ciò che è
«necessario». Bisogna quindi riferirsi ai rapporti tecnici di produzione, a un determinato tipo di
civiltà economica che per essere sviluppato domanda un determinato modo di vivere; in questa
necessità storica (che peraltro non è ovvia, ma ha bisogno di chi la riconosca e se ne faccia
sostenitore) si può basare l’«universalità» del principio morale” [1875-76]. Il dinamismo del
processo storico è innescato dal fatto che una specifica forma di vita (costumi, abitudini,
rappresentazioni, forma delle relazioni sociali) divenga inadeguata rispetto allo sviluppo delle forze
sociali, e quindi «irrazionale». In un contesto storico con tali caratteristiche, forze politiche
innovatrici e progressive possono affermarsi laddove siano in grado di inserirsi nella tendenziale
irrazionalità delle forme dell’organizzazione sociale, selezionando tra i fenomeni oggettivi quelli
che mostrano le più ampie potenzialità emancipative e costruendo attorno ad essi nuovi “principi
morali” universalistici.
Per Gramsci la lotta di classe rimane un elemento fondamentale del conflitto egemonico. Affinché
le classi subalterne diventino egemoni e dirigenti, la loro azione deve evolversi prima al livello
economico-politico e poi al livello egemonico-statale. Ma il momento economico e corporativo del
conflitto dei subalterni, il loro “spirito di scissione” nei confronti degli avversari, è una condizione
necessaria a questo sviluppo.
La prospettiva politica di Gramsci è la costruzione di uno Stato socialista in cui sia superata la
divisione tra governanti e governati e in cui i subalterni diventino dirigenti. Questo obiettivo non è
raggiungibile se non viene superata ogni forma di dominio di classe. Per questa ragione è fuorviante
l’affermazione di Bobbio (e delle successive forzature culturaliste, riformiste o liberali4 del pensiero
di Gramsci) secondo cui un Gramsci post-marxista collocherebbe interamente nella sovrastruttura le
possibilità di una trasformazione sociale. Il nesso economia-politica-cultura è invece presente sia
nei tre modelli (giacobinismo, partito politico e azione autonomia dei subalterni) che nei due
processi (quantità-qualità e necessità-libertà) immaginati a fondamento del conflitto egemonico per
una sintesi innovatrice. Gramsci completa la logica dialettica del conflitto di classe con la logica
egemonica del confronto, ma non sostituisce la prima con la seconda (Said 1998).
Gramsci ragiona a partire da una sconfitta storica (Mordenti 2007), quella che ha condotto l’Italia
alla dittatura fascista. La sconfitta è il punto di partenza per un’analisi che tematizza la differenza
tra la “rivoluzione in Occidente” e la “rivoluzione in Oriente”. La nascita della società civile come
egli la definisce non rende possibile, in Europa, replicare l’esperienza bolscevica della conquista
militare del potere politico. Solo dopo essere diventati egemoni nella società civile i subalterni
possono diventare dominanti nella società politica. A questo fine la classe operaia deve costruire
alleanze con gli altri gruppi sociali subalterni e deve essere capace di sviluppare una cultura e una
progettualità politica che risponda alle esigenze complessive di tutta la nazione, legando parzialità
del punto di vista di classe e universalismo del progetto politico. L’antitesi deve cioè sviluppare
anche una parte della tesi, secondo un processo speculare a quello che caratterizza la Rivoluzione
passiva. In questo senso la rivoluzione gramsciana è una anti-rivoluzione passiva (Voza 2004). La
conservazione della tesi nell’antitesi costituisce un’innovazione politica e teorica di Gramsci
rispetto a Marx, la cui dialettica assegna al “negativo” un ruolo quasi interamente distruttivo della
tesi. Gramsci innova il marxismo anche nella concezione della ‘società regolata’, che nei Quaderni
è sinonimo di comunismo. Essa non pone fine né al pluralismo né al conflitto per l’egemonia. La
‘società regolata’ di Gramsci è conflitto per l’egemonia. È, cioè, una traduzione della conflittualità e
dell’eterogeneità sociale dal piano economico al piano etico-politico. La persistenza nella società
socialista dell’eterogeneità e della dialettica sociale ha fatto parlare di un Gramsci “democratico4
Cfr., in particolare, Montanari (2002).
11
radicale” che reintroduce nel marxismo alcuni elementi di contrattualismo rousseviano (Coutinho
2006). Nella società regolata la società civile diviene ‘egemone’ rispetto allo Stato, il consenso
subordina il momento coercitivo e la catarsi etico-politica dell’egemonia subordina a sé la
dimensione economica: “la società politica è gradualmente assorbita nella società civile” [662]. La
precondizione di tali processi, però, è l’abolizione del dominio di classe, e la democrazia compiuta
consiste per Gramsci nell’egemonia dei subalterni. Se si rimuovono questi passaggi, la retorica del
superamento della divisione governanti/governati e della prevalenza della società civile sullo Statocoercizione (attualmente utilizzate dal populismo e dalla tecnocrazia) ha la funzione mistificante e
potenzialmente totalitaria di un’unificazione immaginaria della società. In una società civile
spogliata dei suoi caratteri gramsciani e dominata dalle forze dell’economia, della tecnica e della
comunicazione, in cui i rapporti sociali tra le classi non solo rimangono invariati, ma si rafforzano a
vantaggio dei dominanti, l’“assorbimento della società politica nella società civile” può diventare la
forma più compiuta di Rivoluzione passiva.
5. Quale conflitto egemonico nella società contemporanea?
Proviamo a vedere come questo insieme di concetti e modelli analitici possa essere utile ad
individuare un campo di azione per le “forze storiche innovatrici” nella realtà contemporanea.
Avviamo questo ragionamento a partire da quello che è considerato uno dei mutamenti centrali
delle società contemporanee: l’emergere di una economia basata sulla produzione e sulla
circolazione di conoscenza, definitita economia dell’informazione in rete (Benkler 2007),
informazionalismo (Castells 2002-2003), o capitalismo digitale (Formenti 2011). Le nuove forme
della produzione e del consumo, basate sull’uso intensivo di segni, simboli, linguaggi, aprono la
dinamica sociale ad un insieme di ambivalenze rispetto alle quali è interessante sperimentare alcuni
schemi analitici gramsciani. In primo luogo, sono state evidenziate nuove forme di tensione tra i
sistemi di produzione e consumo incentrati sulla comunicazione–conoscenza e il regime della
proprietà privata. In un’economia in cui la dimensione del servizio al cliente sembra acquisire peso
rispetto alla produzione di merci materiali, le imprese tendono a disinivestire in proprietà di capitale
fisso e a cedere gratuitamente i supporti materiali dei servizi. L’“economia dell’accesso” tende a
costituire luoghi di “economia della gratuità” (Rifkin 2000).
Si è parlato di prosumers (Rullani 2004) per definire il rinnovato rapporto tra produttori e
consumatori. Le imprese tendono a perfezionare progressivamente prodotti e servizi sulla base dei
feedback ricevuti dai consumatori. Le aziende di software fanno testare ai consumatori i propri
programmi, le testate giornalistiche chiedono ai lettori di trasformarsi in reporter, le imprese di
aiutarli a commercializzare i propri prodotti. Questo coinvolgimento può giungere alla richiesta di
fornire consulenze specializzate in cambio di premi o dell’incremento del proprio ‘capitale
reputazionale’. Poiché le imprese faticano a reggere i ritmi dell’innovazione con il solo personale
interno, tendono a costituire reti allargate di partecipazione. Grandi imprese che impiegano
centinaia di ricercatori ricorrono alla Rete per chiedere soluzioni a scienziati e ricercatori esterni. È
il modello di produzione «partecipativa» che è stato definito wikinomics (Tapscott e Williams
2010), in cui i confini tra impresa e società s’indeboliscono. Le imprese devono rinunciare ad una
quota della proprietà (in questo caso intellettuale) per consentire al valore-conoscenza di accrescersi
circolando in Rete. Risiede in questi meccanismi una delle ambivalenze del sistema economico
contemporaneo: la risorsa-conoscenza si valorizza circolando; le imprese devono ricondurla a un
regime di appropriazione proprietaria ed erigono a questo scopo barriere sempre più alte sulla
proprietà intellettuale; tali barriere possono però costituire un ostacolo alla valorizzazione
economica della risorsa-conoscenza.
Le ambivalenze nel rapporto imprese-consumatore sono presenti anche sul versante del rapporto
imprese-lavoro. Florida (2003) ha parlato dell’emergere di una “classe creativa”, il cui sistema di
valori sarebbe un insieme contraddittorio di spirito di libertà, diffidenza verso le gerarchie,
tolleranza culturale, propensione alla cooperazione e all’attività di gruppo, tendenza ad avvicinare
tempo di lavoro e tempo di vita e ad associare lavoro e divertimento. Secondo Castells, nella
12
produzione contemporanea “la cultura di Internet” tenderebbe addiritura a “colonizzare” l’impresa.
Quest’ultima è obbligata, per trovare un posizionamento in mercati sempre più saturi, a cercare e
attrarre reti sociali, atteggiamenti, emozioni, attitudini intellettuali di natura extra-mercantile.
Nei nuovi modelli organizzativi anche il lavoro, come il consumo, assume una connotazione
«partecipativa». In primo luogo perché vengono sperimentate forme di connessione tra salario e
profitto, per esempio attraverso una (solitamente poco più che simbolica) partecipazione azionaria
dei lavoratori. In secondo luogo perché parte integrante del modello organizzativo tipico
dell’economia cognitiva sono la strutturazione dei gruppi di lavoro in team formalmente dotati di un
certo grado di autonomia, e la continua richiesta al lavoratore di fornire al management idee
sull’organizzazione aziendale e sul processo produttivo. I lavoratori cognitivi accrescerebbero
inoltre il proprio controllo su mezzi di produzione che divengono inseparabili dalla loro persona,
determinando conflitti tra lavoro e imprese circa la proprietà della conoscenza generata (Butera
2008).
L’insieme di processi qui brevemente descritti non ha di per sé nulla di «progressivo». Al contrario,
per quanto riguarda il crescente coinvolgimento dell’attività di consumo e di attività e attitudini
extra-economiche nel ciclo della produzione, si è parlato di total branding (Barile, 2009), cioè di
una crescente sussunzione dell’habermasiano «mondo della vita» al ciclo produttivo. Sul versante
del lavoro, i valori della cosidetta “classe creativa” sono anche le premesse di una più compiuta
identificazione del lavoratore con l’ideologia dell’impresa. Il lavoro lungo le catene del valore della
world factory non sopporta interruzioni del flusso e viene sottoposto a continue pressioni per
incrementare quantitativamente e qualitativamente la produttività, in un contesto di generale
incertezza e di pressione verso il basso sui salari. La “nuova economia” estende a sfere di azione e
interazione sociale sempre più ampie un carattere permanente del capitalismo, cioè la costante
trasformazione in risorsa produttiva di ciò che è improduttivo. Per questa ragione, il capitalismo
cognitivo è stato definito come una forma di accumulazione originaria permanente (Vecchi 2012).
Tuttavia le nuove dinamiche della produzione e del consumo delineano, potenzialmente, un nuovo
campo del conflitto egemonico tra forze conservatrici e forze progressiste. Tale campo è segnato da
una dialettica tra economia e società in cui la prima, per incorporare meccanismi di potenziale
valorizzazione economica che nascono nella seconda, deve accogliere al proprio interno soggetti,
pratiche e culture potenzialmente conflittuali, dovendo compiere sforzi sempre maggiori per
ricondurre l’intero processo al regime di proprietà. Una correlazione che secondo Gramsci è tipica
della dialettica dell’egemonia moderna. Estendendo l’area sociale subordinata alla relazione
mercantile e allo sfruttamento, l’espansione borghese emancipa aree sociali sempre più vaste dalla
sottomissione di natura extra-economica propria delle formazioni sociali pre-capitalistiche,
alimentando, così, sempre più pressanti istanze di riconoscimento politico e di inclusione nella
cittadinanza. Questa dinamica paradossale è la dialettica della relazione egemonica, in forza della
quale l’aumento della capacità di direzione del dominante comporta la costituzione di soggettività
autonome e potenzialmente conflittuali (Burgio 2003).
La tendenza generale delle istituzioni e delle organizzazioni (pubbliche e private), è quella di
“andare verso” gli attori e i processi sociali, cercando di interpretare e ricondurre a sè la
soggettività, le inclinazioni, le emozioni, le forme di cooperazione che si sviluppano nel sociale. La
dialettica odierna tra “economia e società” è caratterizzata da questa dinamica, da un “andare verso”
in cui le soggettività e la cooperazione spontanea sono da un lato incentivati a svilupparsi, dall’altro
ricondotti alla creazione di valore di scambio. Si assiste così ad un assottigliamento delle barriere –
organizzative, normative, culturali – tra istituzioni e società, a un reciproco precipitare delle une
sull’altra, ad una mimesi reciproca. Un processo, si potrebbe dire, di de-differenziazione sociale.
5.1. Le ambivalenze della politica contemporanea
Ciò che avviene in campo economico avviene anche sul piano politico. La politica contemporanea
è attraversata da un flusso produzione-consumo-informazione analogo a quello che caratterizza il
13
mondo economico (De Carolis, 2004). La costruzione di politiche pubbliche e la ricerca del
consenso si basano sull’uso intensivo di strategie di marketing che, segmentando il mercato
elettorale quasi al livello individuale, precedono e seguono la produzione di politiche pubbliche,
analogamente a ciò che avviene per il posizionamento sul mercato delle merci e delle imprese. Al
processo di accumulazione originaria permanente non sfugge la politica. Anch’essa subisce un
processo di mercificazione. La mediatizzazione della sfera pubblica e la popolarizzazione della
comunicazione politica (Mazzoleni e Sfardini, 2009) tendono ad abbassare il discorso pubblico al
livello della prassi e del linguaggio della vita quotidiana: “vanno verso”, collassano su di essa per
suscitare identificazione. Anche in questo campo si è assistito, a partire dagli anni Novanta, ad una
svolta «partecipativa». La vita quotidiana e la «gente comune» sono state immesse con forza nel
flusso comunicativo e rese protagoniste dello spettacolo televisivo. Giornali, siti Internet e
programmi televisivi chiedono costantemente allo spettatore/lettore/navigatore di intervenire con
voti, commenti, considerazioni. Alla base di questa svolta vi è l’esigenza degli editori di vendere
agli inserzionisti pubblicitari un pubblico attivo e coinvolto nel flusso comunicativo, che abbia la
sensazione di scegliere attivamente gli stili di consumo e di vita.
In secondo luogo – relativamente alla reciproca incorporazione tra istituzioni sociali e «vita» alcuni meccanismi del governo politico contemporaneo, come la governance, i metodi deliberativi
top-down, le retoriche della partecipazione diretta veicolate dalle istituzioni, la simulazione, tipica
dei fenomeni populisti, di forme di rappresentanza omologa da parte del ceto politico (che cerca di
apparire uguale “alla gente”), implicano uno schiacciamento dei corpi intermedi della democrazia in
un simulato rapporto diretto tra popolo e potere. Proprio mentre si accentua la distanza tra azione
pubblica e condizione materiali della vita collettiva, la retorica partecipativa diventa onnipresente.
Si tratta di processi che, così come quelli che caratterizzano l’economia della conoscenza,
producono una verticalizzazione del comando mentre simulano l’orizzontalità dei rapporti tra centri
decisionali e corpo sociale. Essi aprono tuttavia un campo dialettico, in cui la rappresentazione
insistita dell’isomorfismo tra istituzioni e società e la costante incorporazione tra economia e società
possono contribuire a dar vita a forme di attivazione dal basso. Da un lato per opporsi al governo
immediato della riproduzione sociale da parte di forze private percepite come «incontrollabili»,
dall’altro per riappropriarsi direttamente di una sfera pubblica segnata dalla crisi dei corpi intermedi
e dalla crisi di autorità dei partiti.
All’analisi di un tale «campo dialettico» possono essere utili gli strumenti concettuali gramsciani
prima richiamati. Rispetto al possibile intervento sulle ambivalenze dell’economia della conoscenza
da parte di forze politiche e sociali progressiste, il gramsciano “lavoro sulla quantità” potrebbe
essere interpretato come azione di governo che espanda e rafforzi i processi e gli attori che,
intrattenendo con il sistema economico una relazione dialettica, non sono riducibili a logiche
mercantili, per esempio contribuendo a costruire e stabilizzare dinamiche di cooperazione sociale
orientata alla produzione di beni collettivi extra-mercato. Un corrispettivo lavoro sulla “qualità”
potrebbe essere inteso come elaborazione di una cultura politica che unifichi le esigenze e i valori
della “classe creativa” e della “cultura di Internet” (componente importante ma subalterna della
produzione contemporanea), con le esigenze di quei soggetti sociali (strati inferiori del terziario,
lavoratori manuali, lavoratori para-subordinati, ecc.), per i quali capitalismo cognitivo e
globalizzazione significano, ancor più in una fase di crisi, precarizzazione, impoverimento,
disoccupazione. Sarebbe operazione politica e intellettuale di rilievo, a proposito di questi ultimi
strati sociali, riattualizzare i sei stadi di sviluppo con i quali Gramsci immagina una politica di
emancipazione dei ceti subalterni, ponendo in relazione tra loro i bisogni e le domande dei nuovi
“soggetti sociali in ascesa” e quelli dei nuovi gruppi sociali subordinati, comprendendo se, e in che
modo, essi condividano una condizione di subalternità materiale, politica e culturale.
Come sempre, e come Gramsci sottolinea occupandosi di giacobinismo, un tentativo egemonico di
questo tipo avrebbe bisogno di individuare precise controparti sociali, che appaiano parassitarie e
inerziali rispetto alle potenzialità di sviluppo della società della conoscenza, e di innestarsi su
14
processi conflittuali in cui le ambivalenze vengano agite da concreti attori collettivi. Si tratterebbe
di agire sulle potenzialità e sulle possibilità (sulle promesse, disattese, di futuro) immanenti ai
processi produttivi e alle trasformazioni tecnologiche e culturali odierne, di “invertire la
dominanza” tra le attitudini, i linguaggi, le pratiche e le relazioni di natura extra-economica
mobilitate dalla produzione e dal consumo, e la loro costante riconduzione alla rendita e al profitto.
Il campo dialettico costituito dalle ambivalenze della reciproca incorporazione tra istituzioni sociali
(pubbliche e private) e vita (individuale e collettiva), offre ai progetti politici di “innovazione
trasformatrice” diverse possibilità, ma implica la necessità di un profondo rinnovamento dei
contenuti e delle forme con i quali esse possono perseguire la costruzione di ciò che Gramsci
definiva blocco storico. Sul piano politico, l’interpretazione della dialettica dell’“andare verso”
conduce a pensare unitariamente la simulazione populistica del rapporto diretto tra popolo e potere
e la volontà di riappropriarsi della sfera pubblica da parte dei cittadini, inventando creativamente
forme di agire politico che acquisiscono un carattere ibrido tra il partito politico e il movimento
sociale. È la stessa contraddizione tra retorica dell’orizzontalità, svolta «partecipativa» nel
consumo, nel lavoro e nella comunicazione, e pratica della verticalizzazione decisionale, a creare le
condizioni per nuove forme di attivazione dal basso, che agiscano sull’ambivalenza tra
l’enunciazione e la realtà, potendo contare sulla legittimazione involontaria che le retoriche della
partecipazione e dell’omologia tra popolo e potere conferiscono loro.
In Europa sono ormai diversi gli esempi di organizzazione politica ibrida (un insieme di partito e
movimento sociale) capace di allargare i confini della partecipazione sociale. In Germania ha
caratteristiche di questo tipo il partito della Linke, nato dall’unificazione tra un partito politico (la
Pds), un sindacato, un insieme di associazioni e un’area politica interna alla Spd. La coalizione
greca Syriza è anch’essa un’unione tra un partito (Synaspismos), associazioni e organizzazioni di
movimento sociale. Il partito francesce Europe Ecologie è una federazione tra movimenti e
associazioni pre-esistenti. Il Partito Pirata, presente con buoni risultati elettorali in Svezia,
Germania, Svizzera e altri paesi europei, è anch’esso un esempio di organizzazione ibrida tra partito
e movimento. In Italia un tentativo di ibridare la forma-partito con la forma-movimento era stato
compiuto da Rifondazione comunista, che tra il 2004 e il 2007 aveva provato a trasformarsi in una
rete in cui coabitassero il partito e una federazione di movimenti. Nel 2011 si è assistito alla
innovativa costruzione dei comitati elettorali dal «basso», in parte spontanei e non guidati da
esponenti di partito, a Milano e a Napoli in occasione delle elezioni amministrative. Al loro interno
si è sviluppata un’estesa partecipazione, creativa nei contenuti e nelle forme, che ha contribuito
all’affermazione di candidati progressisti che non erano espressione dei principali partiti della
coalizione di centro-sinistra.
La forza politica in cui questa trasformazione della forma politica è più evidente è però il
Movimento 5 Stelle. Il fatto che questa formazione sia diventata la prima forza politica in Italia alle
elezioni del febbraio 2013, offre una sorta di riferimento empirico alla constatazione che le
ambivalenze dei sistemi sociali che si è cercato di evidenziare strutturino il campo sociale. Il M5S
contiene in sé entrambi i poli del bivio gramsciano, la sintesi conservatrice e la sintesi innovatrice.
Esso è internamente segnato da questa copresenza. I contenuti ambientalisti del programma e
l’insistenza sulla democrazia diretta e partecipativa avvicinano il Movimento alla sinistra libertaria
e ambientalista degli anni Settanta e Ottanta (Biorcio e Natale 2012, Corbetta e Gualmini 2013). La
frattura politica/società è il nucleo centrale del suo discorso e viene affrontata proponendo
mutamenti radicali: l’annullamento della differenza tra rappresentati e rappresentanti; la
sostituzione della delega con la partecipazione; la fine del professionismo politico. Parallelamente,
la gestione interna del Movimento è di tipo bonapartistico, basata sul carisma del leader e sulla
gestione tecnocratica dell’impresa privata che gestisce il Blog del leader, principale strumento di
comunicazione con l’esterno. L’iper-democrazia professata è vissuta come un obbiettivo che solo lo
stesso M5S può perseguire, contro tutte le altre forze politiche e sociali organizzate (partiti,
sindacati, ecc.), rischiando così di rovesciarsi nel suo contrario. Vi è l’idea di essere una Totalità, la
rappresentazione di un mondo di cittadini indifferenziato per condizione sociale e orientamento
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politico. L’economia della Rete è caratterizzata da un insieme di partecipazione dal basso e
restrizione piramidale in alto, in cui il vertice è monopolizzato dal ruolo oligopolistico di poche
grandissime imprese. Il M5S è organizzato e prefigura un modello democratico che funziona in
modo analogo, con un insieme di orizzontalismo, partecipazione, democrazia diretta e bonapartismo
non-partisan, o addirittura anti-partisan, cioè contrario all’espressione politica dell’eterogeneità
sociale. L’analogia tra la sua forma e quella dell’economia della Rete contribuisce a spiegarne il
successo. Il successo elettorale del 2013 (inedito per una forza che si presenta alle elezioni per la
prima volta) di un’organizzazione che ibrida la forma-partito con la forma-movimento (a loro volta
“ibridate” con una struttura aziendale), e che contiene al suo interno la tensione dialettica tra
bonapartismo e democrazia radicale, da un lato suffraga l’idea che la crisi odierna produce un
nuovo bivio tra autoritarismo e democratizzazione, dall’altro che l’organizzazione politica sia in
transizione dalla forma-partito a nuove forme.
Il paesaggio sociale contemporaneo rende possibili tanto nuove sintesi cesaristico-bonapartistiche
quanto una idea di governo allargato. La dialettica dell’“andare verso”, il cui esito attuale è quello
di una sofisticazione e intensificazione del governo economico e politico della realtà sociale, può
funzionare anche nella direzione opposta, come moto ri-appropriativo dello spazio pubblico e
capacità di autogoverno da parte degli attori sociali.
Gli schemi analitici gramsciani non sono applicabili in modo immediato alla realtà contemporanea.
Lo stesso modello gramsciano di partito è necessariamente legato alla realtà storica in cui è stato
pensato. L’organizzazione politica delle «masse» nella società contemporanea sarà, probabilmente,
più vicina al modello ibrido tra partito e movimento cui abbiamo fatto riferimento, in cui la pluralità
e l’eterogeneità saranno dominanti rispetto all’omogenenità del partito di massa. Inoltre, Gramsci è
senz’altro un pensatore del ruolo attivo e volontario dei soggetti storici nella trasformazione sociale,
che non discende mai, deterministicamente, dai mutamenti della struttura sociale. Tuttavia,
l’accresciuta complessità ed eterogeneità della realtà sociale odierna rende ancora più necessaria, ai
fini di uno sviluppo in senso progressista, la costruzione volontaria di soggettività storiche in grado
di sperimentare forme efficaci di azione collettiva e di elaborare nuove culture politiche a vocazione
universalistica. Le ambivalenze della società contemporanea e i recenti tentativi, spesso coronati dal
successo elettorale, di costruire forme innovative di organizzazione e azione politica, suggeriscono
che “il vecchio muore” e “il nuovo” sta, contraddittoriamente, nascendo.
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