Eros di Sapienza pratica della giustizia Speranza Escatologica e

Eros di Sapienza pratica della giustizia
Speranza Escatologica e inculturazione della fede
Nel Libro della Sapientia Salomonis
Don Roberto Vignolo
Grazie a voi dell’invito. Ben ritrovati a tutti!
Il tema è interessantissimo a mio avviso, perché questo libro, che ultimamente è tornato
all’attenzione degli studi, in realtà è un libro difficile. Sappiamo che dal punto di vista
canonico, e storico al tempo stesso, è l’ultimo anello di congiunzione tra Antico e Nuovo
testamento, nel senso che è il libro più recente del canone antico-testamentario. Scritto
direttamente in greco. Interessante il fatto che Lutero lo abbia messo tra i libri cosiddetti
apocrifi, nel linguaggio appunto dei protestanti; nel nostro linguaggio diciamo invece che è
all’interno del Canone. Interessante il fatto che anche questo libro, come del resto tutta la
tradizione sapienziale dal punto di vista esegetico è tornato all’attenzione anche per lo sforzo
proprio dell’esegesi protestante. I sapienziali non sono molto amati dalla tradizione riformata;
perché appunto potrebbero essere sospettati di avere un interesse antropologico un po’
troppo limitante rispetto alla prospettiva della fede. In realtà ci sono esegeti protestanti, per
esempio Hübner, che dicono: “Ma che cosa ha mai fatto Lutero, lasciando fuori dal canone un
libro così? Per me è canonico e ispirato”. È un libro che ci fa pensare.
Diciamo che qui c’è un libro che invece piace molto ai cattolici, per tutta una serie di ragioni
che verranno fuori in seguito. Ricordiamoci che è l’espressione del giudaismo ellenistico,
alessandrino. È un ottimo testo per l’inculturazione e l’acculturazione della fede.
Il giudaismo ufficiale, quello che poi è uscito dalle due rivolte giudaiche l’ha completamente
rinnegato. Anche perché scritto direttamente in greco. E tuttavia proprio ieri Vittorio Robiati
Bendaud, della comunità ebraica di Milano, che sta per diventare rabbino, segretario di Laras,
parlando al telefono mi ha detto: “Guarda che però il libro della Sapienza all’interno
dell’ebraismo italiano, che è un ebraismo umanistico, molto umanistico, è stato studiato
proprio nel Cinquecento dalle parti di Ferrara in termini piuttosto controversi”.
Inoltre oggi in genere gli studiosi ebrei stanno recuperando moltissime dimensioni comuni
con noi: Gesù, Paolo, Giuseppe Flavio… e anche la traduzione greca della Bibbia dei LXX.
Tutte cose su cui evidentemente c’era frizione con il mondo ebraico stanno pian piano
diventando motivi di incontro. Interessante anche questo aspetto. Da tenere d’occhio.
Il libro della Sapienza si inserisce, anche dal punto di vista della posizione canonica, in questo
dinamismo di inculturazione e acculturazione.
Il titolo del vostro Convegno usa l’espressione “inculturazione della fede”. A rigore forse si
sarebbe dovuto parlare di acculturazione. Il termine inculturazione è inteso dal punto di vista
della antropologia culturale; sarebbe nient’altro se non il passaggio da una generazione
all’altra, di una tradizione culturale che passa ad una all’altra. Questo è molto sapienziale
perché tutta la sapienza, su tutte le altitudini e longitudini, è un fenomeno di questo genere:
non buttiamo via il vissuto acquisito fino a questo punto, ma cerchiamo di farlo fruire anche
da chi viene dopo di noi. Questo passaggio generazionale ha, appunto, il profilo della
inculturazione.
Mentre invece, là dove c’è il passaggio da un orizzonte culturale ad un altro orizzonte
culturale, dove c’è proprio un fenomeno di contaminazione che viene affrontato in modo più
esplicito e più riflesso, si dovrebbe parlare di acculturazione. In realtà poi lo stesso linguaggio
ecclesiastico ufficiale tende a parlare soprattutto di inculturazione intendendo poi di volta in
volta l’una e l’altra cosa; per cui teniamoci l’uso della parola inculturazione così come è.
Siamo nel contesto della sapienza di Israele, la “sapienza di Salomone”. Questa attribuzione
non sempre c’è nei titoli, ma comunque di fatto è un’opera che pretende questa partnership
autoriale salomonica, espressione di una pseudo-epigrafia. Tra l’altro interessantissimo la
maniera con cui il Libro fa emergere questa pretesa di far parlare, fare scrivere niente meno
che Salomone, il più sapiente re di Israele. Infatti non sappiamo che si tratta di Salomone
finché non arriviamo al capitolo 9, quando lo sentiamo pregare. Molto interessante.
Non si fa mai nel Libro della Sapienza un nome esplicito di qualche personaggio, di qualche
eroe di Israele. Anche qui avremo modo di apprezzare: c’è proprio una tecnica enigmatica,
stile quiz, stile parole crociate, settimana enigmistica. La Sapienza ama molto questo stile che
ha qualcosa a che fare con l’indovinello. Al capitolo 10, per esempio, ci racconta la storia della
salvezza che parte da Adamo e poi arriva giù fino a Mosè; ci racconta di alcuni personaggi
senza mai dire esplicitamente nessun nome. Perché il lettore deve indovinare, il lettore al
tempo stesso si suppone che sia in grado di capire di chi stiamo parlando. Per esempio,
capiamo che è Salomone l’autore quando al capitolo 9 appunto lo sentiamo pregare e dice: “tu
mi hai scelto come re del tuo popolo, come giudice dei tuoi figli e delle tue figlie mi hai detto di
costruirti un tempio sul tuo santo monte un altare nella città della tua dimora” ecco che allora
non si sbaglia. Chi è colui che ha amministrato con giustizia fi dalla primissima inaugurazione
del suo regno? Chi ha amministrato Giuda e Israele con giustizia?
Salomone, non si può sbagliare!
Sono altre tre le opere bibliche che hanno una pretesa analoga più esplicita di lettura: il Libro
dei proverbi, 31 capitoli di sapienza ascritti a Salomone, anche se poi all’interno emergono
altri singoli nomi, singole raccolte però tutto regalato e dedicato a Salomone. Cantico dei
Cantici shìr hashirìm e poi il Libro di Qoelet ancorché forse l’intenzione autoriale non è
quella di essere una pseudo epigrafia, però di fatto le parole di Qoelet figlio di Davide re su
Gerusalemme poi c’è qualche riferimento salomonico più sapiente di più di tutti quanti i miei
predecessori… insomma ci sta dentro.
Nella tradizione sia ebraica che cristiana questa trilogia salomonica è stata tematizzata in
maniera un po’ diversa di volta in volta.
Il Libro della Sapienza fa sì che questa trilogia diventi una tetralogia: in tal senso proprio
una tetralogia salomonica, oppure possiamo dire usando una formula che risale al nostro
amico Bonora: “il Libro della sapienza è quello che chiude il cosiddetto Pentateuco
sapienziale: Proverbi, Giobbe, Qoelet, Siracide e Sapienza”. Pentateuco sapienziale in rapporto
al quale evidentemente è un modo di parlare allusivo, però significativo. L’espressione di
Bonora ha avuto fortuna e la ritroviamo di frequente nella letteratura.
Io dividerei così, anche per tenere d’occhio il tema dell’inculturazione e il rapporto di questo
libro col canone sapienziale, con la tradizione sapienziale che ci viene da Israele.
Sapienza tradizionale rispettivamente antica e moderna, questa è la definizione che ci può
stare a mio modo di vedere per il Libro dei Proverbi:
- Sapienziale antica: dal capitolo 10 al capitolo 31;
- Sapienziale moderna post esilica: capitoli da 1 a 9 che son il grande cappello teologico e
teologale più impegnativo di tutto quanto il libro, nel quale viene personificata appunto la
sapienza che poi ritornerà così e anche con tratti più forti nel libro della Sapienza stessa.
Sapienza tradizionale: proverbi.
Giobbe e Qoelet io li chiamerei “sapienza critica”. Non tanto espressione di una crisi della
sapienza come spesso si è detto; ma semmai, come mi pare più appropriato dire, “sapienza
della crisi” dove c’è di mezzo la problematica legata alla discussione di un modo rigido di
intendere la retribuzione.
Infine userei l’espressione di “sapienza integrata” e qui integrazione potrebbe essere un
ottimo sinonimo di inculturazione. Sapienza integrata vale per il Libro del Siracide e per il
Libro della Sapienza stessa dove il principio di integrazione che cosa vuole indicare? Vuole
indicare il fatto che, tradizionalmente, i sapienti di Israele si interessano dei problemi della
teologia del quotidiano, dell’universale, di quello che è appunto una teologia della creazione
(di volta in volta sono state proposte tutte queste definizioni comunque tutte abbastanza
calzanti); quindi disinteressandosi di quella che è la problematica specifica di quella che è la
fede di Israele in quanto tale. Sapiente si interessa appunto della problematica teologica e
antropologica in senso lato, etica, e non vuole far riferimento a qualcosa di troppo
etnicamente specifico. Diciamo che la Sapienza sprovincializza, perché appunto tocca
orizzonti universali di problematica; e in tal senso ecco che allora i sapienti non parlano
specificamente della storia di Israele. Leggete il Libro dei Proverbi: non c’è la minima
allusione al libro dell’Esodo o alla tradizione dell’esodo. Leggiamo il Libro della Sapienza: ci
sono addirittura i capitoli da 11 a 19 - tutta la terza parte del libro – che non sono nient’altro
che una Aggadah pasquale. La tradizione dell’esodo viene ri-raccontata proprio come si
potrebbe fare in una celebrazione pasquale, contesto in cui si ripropone questa narrazione
molto libera. Proprio come una Aggadah pasquale, dove si riceve appunto la tradizione della
pasqua, si ha una narrazione che ha tutte le sue libertà in chiave midrashica: seguendo un
testo, ci si ricama sopra, lavorandolo con uno spirito di inquisizione, di ricerca in vista
evidentemente dell’approfondimento della fede.
Il Siracide fa la stessa cosa: i capitoli da 44 a 50 sono l’elogio degli uomini illustri. La fine del
libro non parla più del timore del Signore. Siracide è un sapiente enciclopedico, come del resto
lo è in qualche maniera l’autore del libro della Sapienza, lui si interessa di tutto. Non c’è niente
che non gli interessi: si interessa delle cose più spirituali (vedi l’approfondimento
meraviglioso sul timore del Signore capitolo 2), ma si interessa anche del banale galateo, di
come si sta a tavola. Quella del Siracide è quindi veramente un profilo di grandissimo respiro.
Però nella parte finale del suo libro - da 44 a 50 - riscrive tutta la storia della salvezza in
chiave di grandi figure della fede di Israele. La stessa cosa fa il libro della Sapienza. In questo
senso dico che sono libri della “sapienza integrata”, cioè il sapiente apre capitoli nuovi del
proprio interesse, apre dei nuovi file di ricerca che riguardano l’effettiva tradizione di Israele.
In questo senso qui innova. Anche Giobbe e Qoelet sono opere di sapienza post esilica: con
Qoelet siamo non lontanissimi dal contesto del libro della sapienza almeno cronologicamente
un paio di secoli non di più; appunto, siamo nello stesso contesto di cultura ellenizzata e
quindi, da questo punto di vista, Qoelet non ha nessun riferimento alla storia salvifica se non
un vago richiamo al figlio di Davide che però evidentemente non è sfruttato nella direzione di
una rilettura di questa figura. Da questo punto di vista qui – in Siracide e Sapienza - ci sta
benissimo il riferimento ad una inculturazione nel senso più stretto: passaggio tra un epoca
all’altra.
La cosa da considerare di questo libro è anche la sua qualità letteraria veramente eccellente. Il
genere letterario è stato molto discusso: epidittico, cioè un elogio, un encomio della sapienza;
oppure un genere protrettico o esortativo, con l’obiettivo di instillare il senso della giustizia?
Noi abbiamo studiato con Gilbert e quindi siamo tutti schierati per la seconda ipotesi.
Lo schema relativo alla struttura di questo libro è molto interessante ed è costruita con
grande cura, con grandissima finezza. In Italia il discepolo di Gilbert, Rizzetti ha cercato con la
sua tesi di dare forma a questa struttura letteraria che viene fuori un po’ con queste
caratteristiche, tre grandi blocchi: potremmo dire 1-6; 7-9; 10-19.
Ci possono essere delle piccole differenze ma sono differenze minime poi in ogni caso gli
antichi amavano comporre chiudendo una parte con l’anticipazione di quella successiva.
Quindi, di volta in volta non c’è da fare delle tragedie se per caso qualcuno sposta di qualche
versetto il termine dei grandi blocchi.
La parte di elogio effettivo è soprattutto 7 e 9, ecco da lì proprio non si scappa.
Analogamente 10-19 rientra in questa prospettiva di elogio, perché appunto appartiene a
questo genere il fatto poi di illustrare degli esempi specifici, per cui la sapienza merita di
essere appunto celebrata, elogio ed encomio, il linguaggio è praticamente identico, epidittico.
Ma se invece guardiamo i primi sei capitoli qualcuno chiama questi primi sei capitoli il libro
dell’escatologia: per cui la sapienza ha da dire parecchie cose interessanti.
Se noi guardiamo questi primissimi capitoli soprattutto se noi prestiamo ascolto al primo
versetto di questo libro siamo veramente perfino sconcertati nessun libro biblico è così
aggressivo all’indirizzo dei suoi lettori
“Amate la giustizia voi giudici della terra
Pensate al signore con bontà d’animo
Cercatelo con cuore semplice”
Tre imperativi aoristi. Io dico ingressivi. Siamo all’apertura di un libro quindi ad una inizio che
evidentemente tradotto più in termini di ricaduta vuol dire: per piacere cominciate a amare la
giustizia, pensare il Signore rettamente, cercarlo con cuore semplice. Cioè segnano proprio un
principio. Ora io non conosco altro libro biblico che, subito, di primissimo acchito, aggredisca
il lettore con tre pugni nello stomaco di questa portata; che evidentemente hanno poco a che
fare con l’elogio, hanno molto a che fare invece con il genere esortativo tipicamente
sapienziale perché sappiamo che i libri sapienziali alla fine hanno due polmoni: il polmone che
respira venti di constatazione e quello che respira invece venti di ammonimento.
Allora, appunto, constatare e ammonire sono i due grandi polmoni del pensiero, del
linguaggio. Dove la sapienza tutte le volte che impone l’imperativo non lo fa in nome dei cicli
mosaici, ma lo fa in nome della ragionevolezza di questo imperativo. Spiega sempre il perché
di un ammonimento, di un comando. Quindi ci sta benissimo la prospettiva del genere
letterario di elogio, ma attenzione i generi letterari biblici - e anche non biblici - non esistono
mai allo stato puro. Difficilissimo, perché il linguaggio per fortuna ha la sua libertà, ha la sua
ricchezza soprattutto là dove si crea una produzione artistica.
Comunque è fondamentale riconoscere il genere letterario; è la prima cosa da fare quando si
legge anche l’articolo di giornale, non soltanto Genesi 1.
Riconoscere il genere letterario vuol dire non inscatolare nel generico qualcosa che è
specifico. Lo specifico, certo, è contaminato (cfr. la famosa contaminatio dei classici). Quindi in
tal senso è notevole proprio questo attacco così potente di questo libro che, oltretutto, non
parla subito di sapienza, ma parla semmai di giustizia. Allora ho trovato proprio una pagina di
Alonso Schökel che dice: certo il libro della sapienza parla della sapienza, ma il vero filo rosso
di questo libro è il tema della giustizia. È un libro di teologia politica è un libro che proprio
fonda una teologia politica e pratica. Politica in senso lato, evidentemente ma, comunque, in
senso forte. Fondandola teologicamente, speculativamente e perfino misticamente. Il cardinal
Danièlou aveva scritto un libretto che si intitolava “L'Oraison, problème politique”, 1965.
E diciamo che in questo senso qui, il Libro della Sapienza sposa una linea che è già ben
presente nei primi nove capitoli del libro dei Proverbi. Vi inviterei di andare a leggervi per
conto vostro il capitolo due di questo Libro dei Proverbi e vedrete che si parla appunto di un
poema didattico dedicato ai ragazzotti israeliti probabilmente che non vivono in Israele, ma
vivono in qualche contesto di diaspora, di esilio. Potrebbe essere la Siria, non si sa; comunque
Proverbi 1-9 non fa il minimo riferimento alla terra di Israele. I giovani che vivono in
territorio pagano hanno, per l’estensore dell’opera, problemi terra terra, banalissimi ma
realissimi: le cattive compagnie, per la serie voi genitori: “con chi ti dei messo?” Ma sai ci sono
questi gruppi qui un po’ i bulli i teppisti, proprio veramente gioventù bruciata, che fanno
violenza e allora “Ragazzo, con quelli lì no eh!”.
E poi ci sono queste ragazzotte che probabilmente appartengono ad una cultura non israelita
e che sul piano dei costumi affettivi e sessuali hanno un po’ di licenze maggiori: anche con
quelle lì si dice “No eh!”.
Allora, per tenere a freno questo due problemi realissimi che cosa fa il libro dei Proverbi?
Ai capitoli 1-9 fa una proposta di carattere spirituale, etico e perfino è mistica. Cioè alza il
prezzo, alza il prezzo dell’offerta pedagogica. Il Libro della Sapienza s’inserisce nettamente su
questo filone, apparentemente questo prezzo sarà poi ribassato da Qoelet.
Allora nei Proverbi 1-9 la sapienza se vuoi la trovi. Perché come ti metti a cercarla lei ti viene
incontro. Questo dinamismo positivo, che è proprio già consacrato nella relazione più recente
del libro dei Proverbi, è preso di peso e potenziato perfino ulteriormente nel libro della
Sapienza. Dove appunto il problema di un’adesione profonda alla fede di Israele in un
contesto estraneo, appunto alessandrino, viene portato avanti seguendo il principio della
intensificazione della proposta stessa. Inculturazione, non vuol dire semplicemente
adattamento. Il processo di inculturazione è un processo complesso. Esso può comportare una
situazione di confronto critico e, in questo senso, di respingimento, di rifiuto. Il Libro della
Sapienza nei confronti di quella che è la spiritualità, la mentalità, la religiosità degli altri non
può fare un discorso all’ammasso, distingue. Allora quello che viene condannato senza
minimo dubbio e quindi nessun pentimento o deviazione, quello che potremmo chiamare,
anche con un aggettivo abusato, l’irrinunciabile differenza è l idolatria. Questa è proprio
inammissibile, non se ne parla; peggio ancora la zoolatria, non se ne parla proprio; culti
misterici che vengono descritti qualche volta con qualche esagerazione anche di quelli non se
ne parla proprio, soprattutto là dove hanno uno stile dionisiaco, perché sconfina largamente
nell’immoralità. Queste sono tutte cose su cui non c’è nessuna compatibilità, nessuna
mediazione.
Tanto più poi che il Libro della Sapienza si colloca nel contesto di Alessandria d’Egitto dopo il
30 a.C. cioè quando comincia l’invasione romana. Qualcuno ha proposto una data anche più
precisa. Siamo nel contesto della metropoli più acculturata del mondo antico in assoluto.
Ricordo le grandi istituzioni che sono state fondate dal regno dei Tolomei: il museo,
praticamente un istituto di ricerca in cui i Tolomei accoglievano gli intellettuali più qualificati
del tempo e li lasciavano studiare e riprodurre i testi classici; la biblioteca, che a un certo
momento arriva a raccogliere 200.000 volumi. Alessandria d’Egitto è un grandissimo porto
curato da Alessandro Magno e avevano una legge interessantissima: oltre alle tasse portuali
con cui facevano la ricchezza di questa grande città che arrivava a 1 milione di abitanti al
tempo in cui ci permettiamo di collocare il Libro della Sapienza; ogni nave che veniva a
caricare o scaricare ad Alessandria d’Egitto doveva portare un volume, un libro della propria
tradizione. Si può capire che con questo sistema hanno potuto raccogliere tantissimo.
Ricordiamo poi soprattutto Alessandria d’Egitto come contesto in cui viene fatta l’operazione
culturale più grande di tutta la storia dell’antichità in assoluto ovvero la traduzione della
Bibbia dall’ebraico al greco. Operazione che è cominciata appunto grosso modo 250 anni
prima di Gesù e che è terminata addirittura in età Cristiana, perché l’ultimo libro che si ritiene
tradotto appunto dal greco e poi infilato nella raccolta dei Settanta sarebbe quello di Qoelet
che è stato attribuito alla traduzione di Aquila, e si va al II secolo d.C.
Comunque al tempo dell’autore certamente sono tradotti Torah e Nevi’im e buona parte dei
Ketubim, certamente il Libro dei Salmi. Già soltanto a partire da questa traduzione dobbiamo
tenere d’occhio l’inculturazione. La traduzione dei LXX infatti sembra fatta per due esigenze:
per un verso un’esigenza interna, poiché gli Ebrei ad Alessandria d’Egitto sono numerosissimi,
occupano addirittura due quartieri della città e hanno ricevuto la possibilità di farsi quello che
viene chiamato politeuma, cioè una possibilità di essere “un piccolo Stato nello Stato” vale a
dire un ambito con proprie norme, leggi e dirigenti naturalmente a certe condizioni sempre
rispettando la dipendenza dai governanti. La cosa interessante sembra proprio questa, che a
un certo momento proprio questi ebrei che vivono in Egitto e che parlano il greco, la lingua
d’Egitto, la koinè generale, non capiscono più l’ebraico allora hanno bisogno proprio di una
traduzione.
L’altra esigenza è esterna, ci dice piuttosto che sono stati gli stessi governanti, i Tolomei
d’Egitto, a chiedere e a sollecitare da parte appunto degli ebrei: “Fateci leggere quello su cui si
basa la vostra vita vogliamo sapere”. Un po’ come noi oggi diciamo nelle moschee: “Per
piacere parliamo italiano” perché vogliamo sapere cosa viene detto, anche nelle prediche.
Vale a dire un’istanza di tipo più culturale-religioso, un’istanza più di tipo politico.
Sappiamo benissimo che poi una cosa non esclude l’altra. È in questo contesto che andiamo a
collocare il nostro libro come un’espressione, una fede che evidentemente lotta tra due poli: il
polo del mantenere la propria identità e il polo invece del ricevere un riconoscimento
attraverso una sorta di assimilazione. Assimilazione che da un lato potrebbe arrivare anche a
far sparire i tratti della propria identità, questo è un rischio; ma che se completamente
rifiutata, dall’altro lato, potrebbe portare ad un irrigidimento identitario.
In un contesto piuttosto complesso perché ad Alessandria abbiamo una tripartizione dal
punto di vista etnico: ci sono gli egiziani originali che poi è la gente del popolo, i greci cioè
quelli che sono arrivati con Alessandro Magno e hanno le prerogative più eccellenti ed
istituzioni culturali come il ginnasio di alto profilo e poi ci sono gli ebrei che hanno voglia di
essere riconosciuto come i greci, soprattutto là dove questo può portare vantaggi economici.
Ad un certo momento, sotto l’impero di Augusto, la comunità ebraica verrà tassata pro-capite
in maniere più pesante di prima e una traccia di questo si ritrova nel libro della Sapienza
stessa capitolo 19,13-17: vi è quindi una relazione piuttosto complessa tra l’ambiente ebraico
di questa città ed il contesto urbano cosmopolita. In particolare ricordiamoci che siamo in
un’epoca in cui è già scattato il fenomeno dell’antisemitismo. Il racconto esodico che appunto
viene ripreso nei capitoli 11-19 del Libro della Sapienza è oggetto non soltanto di versioni
canoniche all’interno della comunità ebraica quando celebra ma anche di nuove narrazioni, di
ri-narrazioni tutt’altro che canoniche, squisitamente antisemitiche. Giuseppe Flavio scriverà
la sua ultima opera Contra Apione e la userà contro questo sacerdote egiziano che era vissuto
precedentemente, e che aveva cominciato a seminare un discredito pesantissimo nei confronti
degli ebrei. Per cui, in questo Libro della Sapienza, c’è proprio un aspetto di polemica con
questi egizi, ma chi sono questi egizi? Nei capitoli della terza parte è evidente che gli egizi
sono quelli di cui si parla nell’Esodo, ma quelli in buona sostanza possono essere identificati
con gli egiziani contro cui appunto di volta in volta ci si trova in contrapposizione.
Tuttavia in modo più specifico si riconosce nel capitolo Secondo del Libro della Sapienza il
discorso attribuito agli empi che esprimono una filosofia fondamentalmente noi diremmo
nichilista. È un pezzo di straordinaria potenza letteraria, che esprime una visione banalmente
epicurea della vita, perché Epicuro non avrebbe mai parlato così del termine, della morte; in
questo senso intercetta come interlocutori quelli che poi sono evidentemente gli avversari più
espliciti. Chi sono questi empi di cui si parla nel nostro libro?
Sono fondamentalmente non tanto dei filosofi epicurei e nemmeno della gente godereccia,
violenta e nichilista in senso più generico, ma sono da riconoscere semmai in quei giudei,
quegli ebrei che si sono assimilati in maniera appunto piatta - e in questo senso qui davvero
totalmente inaccettabile - a quella che è una mentalità ellenistica, una filosofia di vita che
esprime il peggio dell’ellenismo. In questo senso qua è interessante vedere un dinamismo del
libro della Sapienza che riprende lo stile dei primi nove capitoli dei Proverbi. Perché anche nei
primi nove capitoli dei Proverbi si dà la parola alla voce contraria. Parla la Sapienza, ma parla
anche la Follia, la Stoltezza. Parla la Sapienza con tutta quanta la sua attrattiva, ma parla anche
la donna straniera e c’è tutto un capitolo dedicato a un vero e proprio evento di seduzione che
viene illustrato con l’intento di mettere in guardia - istruire appunto - il destinatario giovanile
che è poi tipico dei libri sapienziali. Per noi interessantissimo vedere questo capitolo 2 dove
possiamo udire la filosofia di questa gente che si concentra nello slogan: “siamo nati per caso”.
L’inconveniente di essere nati direbbe Giobbe: siamo nati per caso. E quindi qui dentro
possiamo vedere tratti di filosofia epicurea molto molto degenerata, perché Epicuro insegna a
moderare le passioni, gli stoici insegneranno piuttosto ad estirpare le passioni. Epicuro ha una
filosofia di vita che comunque ha ben poco di religioso. Gli stoici invece hanno una filosofia di
vita che ha molto di religioso, una religiosità di tipo più panteista, ma una religiosità
certamente anche all’insegna di una grandissima responsabilità e di un senso
dell’indipendenza, dell’autarchia portato perfino all’eccesso.
Il libro della Sapienza ha, quindi, questo destinatario interno e deviato rispetto alla comunità
giudaica. Quando poi si cerca di precisare meglio questo destinatario forse c’è anche presente
l’idea di uno di cultura greca di alto livello, che potrebbe avere qualche interesse nei confronti
della cultura e della fede ebraica.
Diciamo che rispetto a quello che è la religiosità chiamiamola pure ‘popolare’ - culti misterici e
culto di Iside, idolatria e zoolatria - si tengono grandissime distanze, nette distanze e allora in
questo senso qui non ci sono mediazioni. Ancor che poi, per esempio, sarebbe interessante
vedere l’uso ‘cosmico e soteriologico’ del mondo animale. Perché gli animali di cui si condanna
evidentemente la zoolatria, la superstizione eccetera poi però tornano come elementi cosmici
insieme ad altri elementi cosmici che Dio manda come fattori salvifici, pensiamo alle famose
piaghe d’Egitto. Per cui, il libro della Sapienza legge nel senso del contrappasso questo
fenomeno: gli egiziani che sono zoolatri vengono puniti attraverso quelle creature che si sono
permesse di scambiare come divine. Questo tipo di discorso è di grande interesse per la
riflessione, perché vi emerge un potente principio di amore per la creazione: ecco perché
questo libro piace ai cattolici. Dio vide che era cosa buona. Possiamo dire che questo tema
dello sguardo amante di Dio nei confronti di tutta la creazione, in tutte le sue forme,
proclamato all’inizio della parola biblica, viene qui applicato con ancora maggiore rigore,
perché la sapienza è vista come qualche cosa che permea dall’interno tutto il mondo creato.
Se ci fosse qualchecosa per la quale Tu non avesti amore, Tu non l’avresti creata (Sap 11).
In questo libro, creazione ed amore coincidono. Il nome di questa sapienza viene ad essere
anche la creazione stessa; la sapienza di cui ogni creatura è traccia e orma.
Per questo nel mio titolo ho parlato di ‘eros sapienziale’.
Sarebbe da mettere in evidenza la figura ideale del sapiente, del saggio che coincide peraltro
con il giusto. Dalla bella riflessione di questo libro emerge un contributo fondamentale sul
rapporto tra regalità e condizione umana. La regalità è una cifra dell’antropologia, la cifra
vincente per interpretare la condizione umana, e qui il discorso sarebbe lunghissimo. Perché il
discorso prende due filoni che si intrecciano, un filone biblico ed uno extra biblico su cui
appunto la sapienza lavora bene, perché li intreccia in modo veramente straordinario
compiendo un’opera di inculturazione formidabile.
Filone biblico: Salmo 8, Genesi 1 e Genesi 2. Ce lo hanno insegnato a catechismo: “L’uomo è
re”. Attenzione, dal punto di vista dell’antropologia del Medio Oriente antico quello che a noi
sembra un dato scontato in realtà è qualcosa di neanche pensabile: l’uomo è tutto meno che
re. Semmai uno è il re e su di lui si concentra tutta quanta l’idea dell’umanità. Perché in effetti
nel re le potenzialità dell’umano sono portate a livello apicale, a livello pieno.
Allora c’è una tradizione che dice che l’uomo è re ma se voi andate a studiare Giobbe 7, salmo
39, Salmo 89, Qoelet 1 e 2 ci viene detto: “In che film?”. Se l’uomo muore non potrà mai essere
re. Magnifica la rilettura di questo principio nella drammaturgia di Shakespeare, nella quale si
dice che la corona del re è vuota, perché la morte è vuota. In mezzo la corona è vuota e sarà
sempre così. Addirittura Ionesco scrive un bellissimo pezzo teatrale: Il re muore, o più
banalmente “il re è nudo”. Molto interessante che proprio la Bibbia ospiti l’affermazione e la
negazione e potremmo dire la ricomposizione, perché poi arriva Siracide 17-18 arriva
Salomone di Sapienza 7 e 9 quando dicono: è vero che si muore, ma se noi prendiamo
seriamente, oserai dire benignamente, la nostra condizione umana di mortali, effettivamente
forse arriviamo anche a liberare l’idea del re dal narcisismo primario infantile. Chi è il re?
Quello che fa tutto quello che vuole. In realtà proprio in questo senso qui anche la riflessione
ellenistica grosso modo elabora una propria teoria della regalità. Anche in tale contesto, la
figura regale non tanto all’insegna dell’onnipotenza narcisistica come pretenderemmo nel
Qoelet che racconta quello che io ho fatto per me, ho costruito, ho piantato, ho venduto, ho
comprato ecc. ecc… per poi dire appunto è tutto un soffio. La cosa interessante è constatare
che, in realtà, il potere che uno ha - grande, piccolo o medio che sia - nella misura in cui è
usato umanamente, filantropicamente ecco che viene a essere una possibilità, una chance: è
questo concetto molto ellenistico che poi va a finire nel Libro della Sapienza. La condizione è
che tu superi due rimozioni. La rimozione della morte e qui grande maestro biblico è fuori di
dubbio Qoelet; ma anche, e qui invece grande maestro biblico è quello della Sapienza, la
rimozione della nascita. Il pezzo a cui io sono particolarmente affezionato è quello che inizia la
parte centrale del Libro della Sapienza capitolo 7: “Anch’io sono un uomo mortale uguale a
tutti, discendente del primo uomo plasmato con la terra, la mia carne fu modellata nel grembo di
mia madre, nello spazio di dieci mesi, ho preso consistenza nel sangue dal seme di un uomo dal
piacere compagno nel sonno anch’io alla nascita ho respirato l’aria comune, sono caduto sulla
terra dove tutti soffrono allo stesso modo, come per tutti il pianto fu la mia prima voce, fui
allevato in fasce circondato di cure e nessun re ebbe un inizio di vita diverso una sola è l’entrata
di tutti nella vita, uguale è l’uscita. Per questo pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e
venne a me lo spirito di sapienza”.
È una pagina unica in tutta la letteratura greca antica. Maurizio Bettini, lo studioso di
letteratura classica, ha scritto un libro molto interessante sulla nascita nella grecità ignorando
completamente questa pagina un po’ mi spiace e un po’ sono contento, perché si può sempre
dire qualcosa di diverso. Merito di Bettini è quello di aver messo in evidenza il grande
imbarazzo che ha appunto la tradizione letteraria nei confronti nella nascita, anche perché è
una tradizione di maschi. Tra i tanti testi ne cito uno di Plutarco, posteriore rispetto alla
stesura di Sapienza, il quale dice più o meno così: un bambino che nasce certo uno gli vuole
bene perché è suo figlio ma se lo guarda al momento della nascita gli fa schifo, è talmente tutto
sporco di sangue feci e quant’altro e poi strepita … come è possibile accettare una realtà così?
Nessuna donna condividerebbe questo tipo di sentimento. Per dire proprio la rimozione della
nascita che è veramente peggio di quella della morte. E Qoelet che pure è un grandissimo
pensatore, capace di approccio demistificante su tutte le esperienze umane, non funziona a
livello della nascita, ed è per questo che fa fatica a pensare l’altro, anche quando ha superata la
rimozione della morte. La rimozione della nascita è invece superata nel libro della
Sapienza perché appunto c’è un modo di accettare la ‘casualità’ della propria vita, siamo nati
per caso dicono gli empi, capitolo 2 allora il buon Salomone ripercorre e accetta a sfida sulla
nascita e fa vedere che però in realtà questo evento, che è riaffiorare della vita all’origine, è
circondato da un gesto di giustizia, infatti fin dall’inizio: “La giustizia è immortale”, bellissima
affermazione. Ma qual è la giustizia? La giustizia è il fatto che un bambino che nasce cosa fa?
L’unica cosa che può fare è gridare. Speriamo che lo faccia, perché vuol dire che respira. C’è
una bellissima fenomenologia fisiologica che dipende anche dall’attenzione e dall’amore alle
cose, l’amore scientifico per così dire, fisiologico alla realtà. Tutto il libro della sapienza ne
respira magnificamente e questa credo sia la pagina principe. Cosa succede se il bambino
comincia a respirare? Grida, sembrerebbe che l’autore abbia capito questa dinamica. Grida
perché l’aria è carta vetrata per i polmoni di un neonato; esattamente come poi avrà
l’intestino sconvolto, perché non è abituato a mangiare il cibo che pure gli è assolutamente
necessario. Bene, tutta questa contingenza della nascita è avvolta di giustizia; perché? Perché
“fui allevato in fasce e circondato di cure”.
È interessantissimo vedere che al versetto 7, dopo aver descritto appunto questo fenomeno, il
nostro autore dice: “per questo pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne a me lo
spirito di sapienza”. Cosa c’entra questo “per questo/perciò”? In Filippesi 2 Gesù si è fatto
ubbidiente fino alla morte in croce, per questo Dio lo ha esaltato. Ma qui così capiamo un po’
poco. In realtà si può capire benissimo: il grido del bambino è il fondamento della invocazione
e ricerca della sapienza. La preghiera, la necessità assunta responsabilmente attraverso il
gesto dell’invocazione, è per l’autore del Libro della Sapienza perfettamente intrinseca
all’ontologia della nostra finitezza, fino a partire dalla nascita stessa. E a questo riguardo ecco
che allora il modello regale viene molto molto sovvertito; non vanta Salomone la propria
origine: “Io sono nato dalla stirpe di Davide” no, no “Io sono come tutti!”. Molto interessante
vedere l’elezione recuperare il terreno comune della umana condicio. E sotto questo profilo
riassorbire per così dire la dialettica dell’universale e dell’eletto in una maniera feconda. Cioè
l’elezione biblica deve recuperare tutto il terreno comune dell’umano e questa è
un’opera di inculturazione formidabile. Potremmo dire che è la spina dorsale del discorso
biblico e in questo senso qui raggiunge un vertice formidabile.
Allora dicevo, per finire questo discorso su cui poi dovrò finire del tutto se no poi don Flavio
mi sgrida! Ecco che nell’arco biblico il Libro della Sapienza arriva a ribadire il destino
regale dell’uomo, a condizione di istituirlo come un destino sapienziale dove la sapienza
è un dono di rivelazione intrinseco tuttavia alla creazione stessa e a questo riguardo ecco che
diventa un principio interno al mondo che potrebbe molto piacere alla corrente dello
stoicismo: il logos che tiene insieme tutte quante le cose.
In questo senso il libro della Sapienza si stacca dalla prospettiva apocalittica che intenderebbe
invece la sapienza addirittura in grado, nel momento in cui si vede rifiutata, di allontanarsi e
tornare in cielo. Questo ci dice il libro di Enoc capitolo 42. È inammissibile una cosa del genere
per il libro della Sapienza, perché la Sapienza è perfettamente integra anche perché respiro di
tutta la creazione, è intrinseca. Certo, in un animo che fa il male la Sapienza non entra. Vale a
dire: quella realtà che è il fondamento di tutto e che è in qualche maniera l’autorivelazione di
Dio stesso è fino in fondo partecipe della sua creazione e della storia della salvezza e
chiaramente chiede una comunione profonda che arriva fino ai livelli di una effettiva
sponsalità. Questo tipo di sapienza evidentemente è possibile accoglierla a condizione di
un’opzione fino in fondo originaria, di un’opzione fondamentale.
Allora qui chiuderei con la parte finale dello schema: seconda pagina, leggendo le due schede
di Gilbert e di Beauchamp.
La Sapienza non è più inaccessibile: Qoelet l’ha fatta diventare tale. Il discorso sulla
sapienza è oggetto di un dibattito come se si fosse ad una tavola rotonda: Proverbi ti dice
cercala che ti verrà incontro, Qoelet dice io l’ho cercata ma non l’ho trovata è lontana da me la
sapienza, poi di nuovo gli altri diranno: in realtà Dio può rivelarla, il libro della Sapienza torna
proprio a questo principio di accessibilità perché la preghiera permette di ottenerla. Qui
tuttavia non è più soltanto coincidente con la Torah, come si dice in Siracide 24, cioè
rivelazione storica, ma è vista come presenza interiore al cuore di chi l’accoglie, non una
semplice immagine dell’ordine del mondo dal momento che l’autore stesso rifacendosi alla
dottrina degli stoici vede in essa la presenza stessa di Dio nel mondo. Lo stoicismo è
fortemente connotato da un afflato religioso, ma è tendenzialmente un po’ panteista, avendo
di Dio una concezione simile a quello che poi per Spinoza diventerà deus sive natura. Questa
prospettiva per la Sapienza è decisamente inammissibile: l’immanenza di Dio non soffoca
minimamente la sua trascendenza.
 E poi questa bellissima scheda di Beauchamp che fa riferimento a tutti i capitoli dal 10 in
avanti del libro della Sapienza. Dice che la sapienza è l’unità di tutta la storia della salvezza, di
tutte le figure. Perché dice: la Sapienza è scesa in galera con il povero Giuseppe che si è
comportato bene, la Sapienza di volta in volta ha custodito il padre del mondo l’uomo Adamo,
dal momento in cui ha peccato però la sapienza gli ha fatto compagnia. C’è perfino nel libro
della Sapienza traccia di un elogio della vita consacrata verginale. Sembra che questo libro
rifletta le concezioni che troviamo nelle comunità dei terapeuti. I terapeuti erano come la
comunità di Bose dell’antichità. Una comunità di monaci e di monache che appunto viveva tra
le parti del Nilo d’Egitto, stimatissima da Filone che gli dedica anche un bellissimo libretto De
vita contemplativa. Pensateci, della figura di Salomone presentato come il grande amatore
(mille tra concubine e spose) non c’è qui nessuna traccia. No, tutto il contrario. Ci dice che
l’unica vera sposa di Salomone è la Sapienza. Qui mi sembra una lettura un pochino ardita
della storia. È vero nel libro della sapienza non c’è allegoresi, ma credo che in realtà questo
tipo di lettura della figura salomonica abbia sotterraneamente un’interpretazione allegorica.
Tutte queste donne? Ma no, è un modo per dire che Salomone il sapiente aveva un'unica
sposa. Certo, è come dire distruzione del dato letterale per così dire per quanto poi Salomone
è una figura gonfiatissima neanche tutto Israele poteva metterci mille concubine, sono tutte
cifre assolutamente iperboliche. Tuttavia è significativo, un po’ come la finale di Giobbe.
Giobbe viene restituito; alla fine, siccome ha parlato bene, ha interceduto per gli amici, gli
viene restituito tutto quanto il doppio. Oh bello, da dove l’hai presa sta cosa qua? Tutto doppio
tutto doppio… è un modo brutale per dire che comunque c’è una promessa di vita eterna.
Questo è molto interessante perché appunto nel libro della sapienza abbiamo effettivamente
dei prestiti culturali molto specifici tra cui per esempio appunto la questione dell’escatologia,
dell’immortalità dell’anima e del destino di incorruttibilità. Qui sono tutti prestiti di tradizione
platonica, certamente non è la prima volta in cui si parla di queste cose con una differenza
specifica nel senso che ciò che è naturale per Platone e per tutta la grecità in realtà dal punto
di vista della Sapienza è un dono salvifico di Dio. Immortalità, incorruttibilità hanno proprio
questo senso specifico. Che include la risurrezione dei morti e qui c’è un dibattito che non
finisce più, don Flavio saprebbe ricostruirlo molto meglio di me.
Resurrezione è un linguaggio figurato, è un linguaggio simbolico, non è un concetto. Questo è
il punto. Lo si scambia per, ma è una cifra. Allora di volta in volta si può ravvisare l’idea che sta
parlando in realtà appunto di risurrezione il nostro autore di volta in volta appunto perché
usa questo linguaggio che dice appunto nient’altro se non il rifiorire della vita e della luce.
Allora per esempio nelle pagine relative al capitolo terzo, di volta in volta si possono
benissimo leggere queste dimensioni tenendo conto che proprio qui tutto il cosmo in realtà
subisce l’effetto della risurrezione. Perché come è possibile pensare una risurrezione
individuale? Semplicemente individuale? Il principio su cui si basa la risurrezione, principio di
fede in primo luogo, è quello dell’alleanza, ma anche quello della creazione. Cioè il dio di
Abramo di Isacco e di Giacobbe dirà Gesù per questo i morti risorgono: perché c’è un rapporto
personale che Dio onora al di là della morte. Punto e a capo: è un problema di fedeltà di Dio.
Diceva Bultmann un po’ sbrigativamente “Risurrezione dei morti vuol dire signoria di Dio”,
punto e a capo. E l’altro è il principio della creazione che poi si sposa con quello dell’alleanza
che è una promessa sempre ripresa.