7 Il modello a parole e paradigmi In un modello a parole e paradigmi – che come abbiamo già osservato sarebbe meglio denominare modello a lessemi e paradigmi, per disambiguare il senso del termine parola in questo contesto – l’oggetto primario di interesse non è tanto il modo in cui avviene la formazione di ciascuna singola forma flessa di un lessema, ma la struttura del paradigma di un lessema. Il paradigma presenta infatti caratteristiche che possono spiegare la struttura di singole forme, ma che non possono essere colte esaminando le singole forme individualmente. Il modello a parole e paradigmi prevede naturalmente dei meccanismi di generazione delle singole forme flesse di un lessema. Questi meccanismi sono detti regole di realizzazione, e condividono in parte le proprietà dei processi utilizzati in un modello a entità e processi. Tuttavia, le regole di realizzazione hanno anche delle caratteristiche diverse dai processi: mentre questi ultimi sono essenzialmente operazioni fonologiche che hanno luogo su entità concepite come morfemi biplanari, le regole di realizzazione creano un’entità biplanare (una forma flessa) a partire da altre entità in cui componenti di significato (il significato lessicale di un lessema e un certo insieme di tratti morfosintattici) e componenti di significante (la forma fonologica che rappresenta il lessema e i tratti nella forma flessa) sono ancora disgiunte. Una regola di realizzazione non implica quindi la formazione di un’entità che presenti un isomorfismo tra componenti di significato e componenti di significante: non è necessario, cioè, che nella forma flessa sia presente e identificabile un morfo specifico per ogni tratto morfosintattico e un morfo specifico per il significato lessicale del lessema. La relazione di biplanarità tra significato e significante, in un modello a parole e paradigmi, è concepita come una relazione valida per ciascuna forma flessa nella sua interezza, ma non per ciascuno dei singoli elementi che la compongono. In questo modo, non costituiscono più un problema fenomeni come l’amalgama, i morfi zero e vuoti, i morfi non completamente specificati, ecc. Un aspetto della formazione delle forme flesse che si coglie molto bene in un modello a parole e paradigmi, mentre presenta difficoltà in modelli fondati su morfemi intesi come entità biplanari, riguarda la distribuzione degli allomorfi cosiddetti suppletivi, sia dei lessemi che delle desinenze. In un modello a entità e disposizioni o a entità e processi, nessun meccanismo permette di spiegare perché sono attestati i dati in (1a) ma non quelli in (1b): (1) a. odo udite ama vede b. *udo *odite *ame *veda1 “1a sg. pres. ind. di UDIRE” “2a plur. pres. ind. di UDIRE” “3a sg. pres. ind. di AMARE” “3a sg. pres. ind. di VEDERE” Infatti, in un modello a entità e disposizioni sia i morfi lessicali che i morfi grammaticali individuabili nelle forme flesse in (1) sono concepiti come significanti di morfemi come quelli in (2): (2) // ________ “udire” /o/ ________ 1.SG /ud/ ________ “udire” /a/ _________ 3.SG /am/ ___________ “amare” /e/ _______ 3.SG /ved/ __________ “vedere” /ite/ _______ 2.PL 1 Naturalmente, veda è attestato come forma del presente congiuntivo di VEDERE, ma non come forma di terza persona singolare del presente indicativo (parallela a ama e vede), che è il senso che ci interessa in questo esempio. 68 Se la formazione di una forma flessa si ottenesse semplicemente tramite disposizione di entità dotate di significato, in modo che l’unione dei significati delle due entità dia il significato della forma flessa, non si spiegherebbe perché non si possa formare *udo con il significato “1.sg di UDIRE” o *ame con il significato “3.sg di AMARE”.2 L’impossibilità delle forme in (1b) non è certo spiegabile in base a fattori di ordine semantico. Si potrebbe ipotizzare che la causa dell’impossibilità delle forme in (1b) sia di ordine fonologico. Tuttavia, sembra difficile sostenerlo: sia // che /ud/ terminano in /d/, quindi la loro distribuzione in relazione a /o/ e /ite/ non può spiegarsi certo con la necessità di evitare incontri di fonemi non permessi dalle regole fonotattiche dell’italiano.3 Anche *ame e veda non violano alcuna restrizione fonotattica dell’italiano, come è facilmente dimostrato dal fatto che veda è una forma attestata in un diverso significato, e che sono attestate forme come lame, teme, seme, esprime, chiome, come, desume, nelle quali si ha una /m/ preceduta da vocale e seguita da /e/ come in *ame. I dati in (1) si possono spiegare solo facendo ricorso a due proprietà dei lessemi che non sono né di ordine semantico né di ordine fonologico, e che, seguendo la proposta di Aronoff (1994), definiamo come proprie di un livello autonomo di organizzazione di una lingua, il livello propriamente morfologico. Queste due proprietà sono le seguenti: (3) a. i lessemi appartengono a una classe di flessione; b. il paradigma di un lessema può presentare una partizione. Illustreremo ora più in dettaglio ciascuna di queste due proprietà. 7.1 Classi di flessione Si osservino i dati in (4): (4) Presente indicativo dei verbi AMARE e TEMERE AMARE TEMERE 1a singolare 2a singolare 3a singolare 1a plurale 2a plurale 3a plurale amo ami ama amiamo amate amano temo temi teme temiamo temete temono Possiamo confrontare i dati in (4) con gli ipotetici dati in (5): (5) Ipotetici presenti indicativi dei verbi AMARE e TEMERE a. b. c. d. * * * * 1a singolare amo amo temo temo 2a singolare ami ami temi temi 3a singolare ame ama tema teme 1a plurale amiamo amiamo temiamo temiamo 2a plurale amate amate temete temete 3a plurale amano amono temono temano 2 Per una caratterizzazione più accurata di queste forme, si può ipotizzare che entri in gioco anche un morfo zero per il tempo presente e un altro morfo zero per il modo indicativo. Non li abbiamo considerati per non allungare la trattazione; ma anche ipotizzandone la presenza, la sostanza dell’argomentazione non cambia: cosa impedisce la formazione di *am-Ø-Ø-e con il significato di “3.sg. presente indicativo di AMARE”? 3 Secondo molti studiosi, la distribuzione di // e /ud/ si spiega in base a criteri fonologici di ordine prosodico: // occorrerebbe con desinenze atone, /ud/ con desinenze toniche. Questa analisi implica però considerare la vocale tematica in -ite come parte della desinenza, soluzione che si presta a critiche (cfr. la discussione svolta supra, cap. 5.3). Per una critica più generale a qualunque tentativo di spiegare questi fatti di distribuzione con criteri di ordine fonologico, cfr. Maiden (2003, pp. 12-14). 69 Il fatto che distribuzioni di forme come quelle in (5) non siano attestate ci dice qualcosa di nuovo rispetto a quanto avevamo già visto nel paragrafo precedente. I dati in (4) e (5) mostrano che c’è una cooccorrenza regolare tra la presenza di una certa desinenza in una certa cella del paradigma e la presenza di un’altra desinenza in un’altra cella del paradigma (ad esempio, tra -e nella terza persona singolare e -ono nella terza plurale). La scelta tra due desinenze sinonime, benché non governata fonologicamente, non è casuale: essa è mediata da una caratteristica di ogni specifico lessema verbale, che è la sua appartenenza a una determinata classe di flessione. L’informazione sulla coniugazione cui appartiene un verbo è indispensabile per generare correttamente le sue forme flesse. L’appartenenza di un lessema verbale a una coniugazione non correla con nessun fattore sintattico, semantico, o fonologico: ad esempio, appartengono alla prima coniugazione verbi di qualunque valenza (cfr. nevicare, camminare, amare, regalare), con i significati più svariati, e con ogni tipo di forma fonologica.4 D’altra parte, solo l’appartenenza del lessema a una coniugazione può spiegare la distribuzione in (5) delle desinenze di terza persona: se un verbo seleziona -a nella terza singolare seleziona -ano nella terza plurale, e se seleziona -e nella terza singolare seleziona ono nella terza plurale; altre combinazioni (-a nella terza singolare e -ono nella terza plurale, o -e nella terza singolare e -ano nella terza plurale) non sono attestate. Dunque la coniugazione cui appartiene un verbo (più in generale, la classe di flessione cui appartiene un lessema) è un fattore che ha un ruolo ineliminabile nella generazione delle forme flesse di quel lessema, ed è un fattore che costituisce informazione propriamente morfologica, non riducibile a informazione di tipo né semantico, né sintattico né fonologico. 7.2 Partizione dei paradigmi Mentre l’appartenenza di un lessema a una classe di flessione permette di spiegare fenomeni di suppletivismo fra morfemi grammaticali, la seconda componente della morfologia intesa come livello autonomo di organizzazione delle lingue permette di spiegare fatti di suppletivismo debole o forte, o comunque di allomorfia non fonologicamente governata, tra morfemi lessicali. Il paradigma di un lessema può presentare una partizione, cioè una suddivisione in raggruppamenti di celle intermedi tra le singole celle e il paradigma intero. Certe celle (non accomunate né dal fatto di contenere forme con determinati tratti morfosintattici in comune, né dal fatto di contenere forme che presentino desinenze con tratti fonologici comuni) sono accomunate dal fatto che nelle forme in esse contenute il lessema è rappresentato da una stringa di fonemi diversa da quella usata in altri gruppi di celle. Ciascun insieme di celle così accomunate rappresenta una classe di partizione del paradigma di un lessema (secondo la terminologia di Pirrelli e Battista, 2000; Pirrelli, 2000). Si considerino i dati in (6), cioè le forme del presente indicativo di due verbi italiani: (6) Paradigma del presente indicativo di due verbi italiani SEDERE UDIRE 1a singolare 2a singolare 3a singolare 1a plurale siedo siedi siede sediamo odo odi ode udiamo 2a plurale sedete udite 3a plurale siedono odono Ciascuno dei verbi in (6) è rappresentato, nelle forme del presente indicativo, da due diverse stringhe fonologiche, come riepilogato in (7): (7) verbo stringa 1 stringa 2 Le radici di verbi della prima coniugazione possono terminare in quasi qualunque fonema dell’italiano: cfr. creare, striare, abituare, rubare, bucare, baciare, lasciare, badare, tifare, pagare, plagiare, calare, ragliare, amare, sanare, sognare, rapare, arare, rasare, tritare, lavare, schizzare, utilizzare, cambiare, arcuare. Mancano verbi della prima coniugazione la cui radice termini in -a e in -o, ma verbi con radice in -a e in -o non si hanno neanche nelle altre coniugazioni. 4 70 SEDERE UDIRE siedod- sed-eud-i- Le celle di prima, seconda e terza persona singolare e terza persona plurale del presente indicativo di questi verbi (e di numerosi altri verbi dell’italiano) costituiscono una classe di partizione all’interno del paradigma del verbo, diversa da quella (o quelle) alla quale appartengono le celle di prima e seconda persona plurale del presente indicativo e altre celle del paradigma. Abbiamo già visto che la distribuzione delle desinenze di terza persona singolare -a ed -e non è spiegabile in base a fattori di ordine semantico o fonologico, ma solo attraverso il ricorso a un fattore propriamente morfologico, cioè l’appartenenza del lessema a una data classe di flessione. Vedremo ora che anche la distribuzione delle due stringhe in (7) all’interno del paradigma di ciascun verbo non è spiegabile in base a fattori fonologici o semantici, ma in base a un altro fattore propriamente morfologico, cioè il tipo di partizione presentata dal paradigma del lessema verbale. Secondo alcuni autori, sarebbe possibile spiegare come dovuta a un fattore fonologico l’alternanza tra sied- e sed-: sied- compare infatti in forme in cui la vocale è accentata, sed- in forme in cui la vocale è atona. Tuttavia questa regolarità (che è frutto di un mutamento fonetico, di dittongazione delle vocali medie in sillaba aperta, che ha avuto luogo agli albori della lingua italiana) non è descrivibile come dovuta a una regola sincronicamente produttiva nella fonologia dell’italiano contemporaneo: essa non si applica a tutti i verbi che presentino una vocale media, come si vede dal fatto che il verbo SEDARE, che ha la radice sed- omofona di quella di SEDERE, non presenta l’alternanza tra sed- e sied- (le sue forme di presente indicativo sono sedo, sedi, ecc.). L’alternanza tra una forma con vocale -e- atona e una con dittongo ascendente -ie- tonico si ha solo in determinati verbi, e costituisce quindi una proprietà specifica di certi lessemi, non il risultato di una regola fonologica produttiva dell’italiano contemporaneo (cfr. anche Maiden, 1992; Pirrelli, 2000, pp. 86-90). Un’alternanza come quella tra od- e ud-, poi, è specifica del solo verbo UDIRE: nessun altro verbo dell’italiano presenta forme con vocale -o- alternanti con forme con vocale -u-. La distribuzione in (6) non è spiegabile neppure in base a fatti di ordine semantico. Le due stringhe di ciascun verbo rappresentano altrettanto bene il significato lessicale del verbo, né è possibile ipotizzare che ciascuna di esse porti anche un significato aggiuntivo: non c’è infatti alcun elemento di significato comune alle tre persone del singolare e alla terza persona plurale, ma che escluda prima e seconda persona plurale, né c’è alcun significato comune alle prime due persone del plurale ad esclusione della terza. Una distribuzione basata su criteri semantici, nel caso in cui ogni stringa portasse, oltre al significato lessicale del verbo, anche un qualche significato grammaticale aggiuntivo (ad esempio, un certo valore della categoria di persona, o di quella di numero), darebbe luogo a paradigmi come quelli ipotetici illustrati in (8): (8) Ipotetici paradigmi con distribuzione delle stringhe governata semanticamente (esemplificati sul verbo UDIRE) a. UDIRE b. UDIRE c. UDIRE stringa1 per il singolare, stringa2 per il plurale odo odi ode udiamo udite udono stringa1 per la prima persona, stringa2 per le altre persone odo udi ude odiamo udite udono stringa1 per la terza persona, stringa2 per le altre persone udo udi ode udiamo udite odono Una distribuzione del tipo di quelle illustrate in (8) non è attestata in alcun verbo italiano. 71 Dunque la distribuzione delle diverse stringhe non è spiegabile né in base a criteri di ordine fonologico né in base a criteri di ordine semantico. Eppure non si tratta di una distribuzione casuale: se la distribuzione fosse casuale, avremmo distribuzioni diverse in verbi diversi, e anche qualche caso di distribuzioni come quelle esemplificate in (9): (9) Distribuzioni non attestate (esemplificate sul verbo UDIRE) UDIRE UDIRE udo odo odi udi ude ode odiamo udiamo udite odite odono udono Invece, ogni verbo italiano che presenti due diverse stringhe nelle forme del presente indicativo presenta una distribuzione delle due stringhe come quella in (6); altre ipotetiche distribuzioni possibili, come quelle casuali in (9) e quelle governate semanticamente in (8), non sono attestate. Dunque il tipo di partizione che il paradigma di un determinato verbo presenta non è casuale, ma è una proprietà specifica del singolo lessema verbale (tanto quanto la sua appartenenza a una certa classe di flessione). La partizione non si spiega né attraverso l’agire di regole fonologiche, né come correlata a specifiche proprietà morfosintattiche o semantiche delle celle che rientrano in una stessa classe di partizione: si tratta dunque di un’altra proprietà del livello di analisi propriamente morfologico, un livello che, seguendo una proposta di Aronoff (1994), viene oggi denominato livello morfomico. È importante osservare che non tutti i verbi italiani (e, in generale, non tutti i lessemi di una certa parte del discorso) hanno la stessa partizione del loro paradigma. Ad esempio, i tre verbi CONOSCERE, VENIRE e DOLERE hanno partizioni via via più articolate nel presente indicativo, come mostra la Tabella 1 (ispirata alla presentazione di Pirrelli, 2000, p. 64). CONOSCERE VENIRE DOLERE cono/sk/o cono//i cono//e cono//amo cono//ete cono/sk/ono vengo vieni viene veniamo venite vengono dolgo duoli duole dogliamo dolete dolgono Tabella 1 – Forme del presente indicativo dei verbi CONOSCERE, VENIRE e DOLERE Nella tabella 1 vediamo che il paradigma del presente indicativo di CONOSCERE presenta due sole classi di partizione, con alternanza tra forme basate su // e forme basate su //, mentre il paradigma del presente indicativo di VENIRE presenta tre classi di partizione, con alternanza tra forme basate su veng-, vien- e ven-; il paradigma del presente indicativo di DOLERE presenta addirittura quattro classi di partizione, con alternanza tra dolg-, duol-, // e dol-. Come possiamo chiamare le diverse stringhe che rappresentano il lessema verbale nelle diverse classi di partizione del suo paradigma? In inglese queste stringhe sono comunemente chiamate stem (cfr. Aronoff 1994, Pirrelli e Battista 2000, Stump 2001). Questa parola inglese, in contesti diversi da quello qui in esame, è normalmente tradotta in italiano con tema; ma il termine tema appare poco adatto a designare le entità in questione, perché in italiano tema è usato per lo più per indicare una sequenza di radice + vocale tematica, mentre molte delle entità che stiamo esaminando non contengono una vocale tematica. Un’altra alternativa poco raccomandabile è chiamare queste forme radici: infatti normalmente si intende con radice un’entità semplice, non dotata di complessità interna, mentre alcune delle entità qui in questione sembrano più complesse di altre, e possono essere analizzate come derivate da 72 altre: ad esempio, veng- sembra costruito per aggiunta di // a ven-; chiamare sia ven- che vengradici di VENIRE potrebbe generare confusione. Per lo stesso motivo, sembra poco raccomandabile anche chiamare queste diverse entità allomorfi.5 Aronoff (1994) propone il termine morfoma per designare ciascuna delle stringhe che può rappresentare un certo lessema e che ha una distribuzione ben definita all’interno del suo paradigma. In italiano la terminologia usata per designare queste entità è varia, non ancora stabilizzata nell’uso, e non sempre univoca anche in uno stesso autore. Uno dei termini che presenta minori inconvenienti sembra essere base, e quindi d’ora in poi lo adotteremo per designare ciascuna delle diverse stringhe che possono rappresentare un lessema nelle diverse classi di partizione del suo paradigma. Possiamo definire una base di un lessema come una forma del lessema sulla quale operano determinate regole di realizzazione per formare determinate forme flesse. Le regole di realizzazione possono semplicemente aggiungere un affisso a una base, o mettere in gioco processi di tipo diverso dall’affissazione, quali il raddoppiamento di una sottoparte della base, la sottrazione di una sua parte, ecc. Come abbiamo visto, spesso un lessema presenta più di una base. Limitandoci ad esaminare le sole forme del presente indicativo, abbiamo visto che i tre verbi italiani CONOSCERE, VENIRE e DOLERE presentano rispettivamente due, tre e quattro basi. Pirrelli e Battista (2000; cfr. anche Pirrelli 2000) hanno condotto uno studio approfondito della flessione verbale italiana, dal quale risulta che un singolo verbo italiano può presentare al massimo sei basi (è il caso di DOLERE, che presenta, oltre alle quattro basi che abbiamo già visto, dols- in alcune forme del passato remoto e dolu- nel participio passato). Alle diverse basi di un verbo può essere assegnato un indice numerico per indicare la classe di partizione del paradigma nella quale sono utilizzate. Ad esempio, i paradigmi del presente indicativo visti in Tabella 1 possono essere schematizzati nel modo illustrato in Tabella 2, dove in ogni cella del paradigma è presente una variabile che indica la base sulla quale sono costruite le forme che occupano quella cella e la classe di partizione cui la cella appartiene.6 CONOSCERE VENIRE DOLERE B2 B1 B1 B1 B1 B2 B2 B3 B3 B1 B1 B2 B2 B3 B3 B4 B1 B2 Tabella 2 – Schemi di distribuzione delle basi in tre diverse possibili partizioni del paradigma del presente indicativo in italiano (basato su Pirrelli, 2000, p. 64) Ci sono diverse caratteristiche importanti da rilevare nello schema illustrato dalla Tabella 2. Innanzitutto, non c’è una corrispondenza diretta e necessaria tra la classe di partizione che una base occupa e la sua forma. Ad esempio, i due verbi FINIRE e VENIRE hanno la stessa partizione nel paradigma del presente indicativo, una partizione in tre classi, e quindi hanno tre basi ciascuno, come illustrato in (10): Si pronuncia contro questa ipotesi anche Aronoff (1994, p. 180, nota 40), che scrive: “we may do severe damage to the notion of allomorph if we always treat as allomorphs the different forms of a single lexeme that may be selected as stems. This is because some stems are morphologically complex, while others are not”. 6 Le tabelle 1 e 2 illustrano partizioni relative al solo presente indicativo. Ciascuna delle partizioni qui illustrate è in realtà parte di una partizione più ampia: ad esempio, la partizione 2 comprende anche le prime tre persone singolari e la terza plurale del presente congiuntivo, la 3 comprende anche l’imperativo singolare, la 1 comprende tutte le forme dell’imperfetto indicativo e congiuntivo e alcune altre. Per uno schema completo delle partizioni possibili nei verbi italiani si veda Pirrelli e Battista (2000, p. 359). 5 73 (10) B1 B2 B3 FINIRE VENIRE fin fini/sk/ fini// ven // vien Le tre basi di ciascun verbo hanno un indice che rimanda alla classe di partizione in cui compaiono, ma come si vede la B2 di FINIRE presenta, rispetto alla B1, l’aggiunta di /isk/, mentre la B2 di VENIRE presenta aggiunta di // e sostituzione di /e/ con //. Dunque non c’è rapporto di implicazione tra forma di una base e classe di partizione in cui compare.7 Un’altra caratteristica importante della partizione dei paradigmi è che le partizioni che presentano meno classi sembrano essere sempre derivabili da partizioni più ricche di classi tramite un’operazione di unione di due o più classi di partizione (con conseguente neutralizzazione dell’opposizione tra due o più basi). Ad esempio, da una partizione del presente indicativo come quella esemplificata da DOLERE, si può giungere a una partizione come quella esemplificata da VENIRE tramite unione della classe di partizione 4 con la classe di partizione 1; e si può giungere a una partizione come quella esemplificata da CONOSCERE tramite l’unione della classe 3 con la classe 1. Per questo in nessun verbo italiano sono attestate distribuzioni come quelle esemplificate in (8) e (9): i lettori interessati potranno verificare che esse non sono derivabili da nessuna operazione di unione di classi, a partire da una delle partizioni illustrate in Tabella 2 (che esauriscono le possibili partizioni del presente indicativo di un verbo italiano). Una terza caratteristica da rilevare è che in ciascun verbo la B1 rappresenta la base fonologicamente meno complessa, dalla quale spesso le altre possono essere derivate tramite aggiunta o manipolazione di elementi, e verso la quale convergono eventuali semplificazioni della partizione di un paradigma (in diacronia, o nelle varietà di apprendenti una L1 o una L2).8 Un’altra caratteristica importante delle classi di partizione è che esse si comportano come entità attive nell’organizzazione dei paradigmi (con le parole di Maiden, 1992, p. 285: “an active, abstract structural property of morphological systems”). La prova di ciò è data da una serie di fatti diacronici. Consideriamo ad esempio il verbo italiano USCIRE: esso deriva dal latino EXIRE; dal punto di vista dell’evoluzione fonetica, le forme che presentano la base usci- sono inspiegabili; una regolare evoluzione fonetica avrebbe potuto produrre solo forme come *esciamo, *escite, *escire, ecc. Lo sviluppo di una base che presenta /u/ al posto di /e/ si spiega per effetto dell’influsso del nome USCIO (< lat. tardo USTIUM < lat. OSTIUM “porta, apertura”): il significato del verbo USCIRE, “andare fuori”, è infatti strettamente connesso con quello del nome USCIO, “porta, apertura attraverso cui si può andare fuori” (“si esce per l’uscio”, nella formulazione di Tekavčić, 1972, p. 273). Come spiegare, però, che il nome USCIO non abbia avuto effetto sull’intero lessema verbale, ma solo su alcune sue forme? Perché continuiamo a dire esco, esci, esce, escono, e non diciamo *uscio, *usci, *usce, *usciono? Il fatto si spiega solo facendo ricorso alla nozione di classe di partizione: l’incrocio con il nome USCIO è stato sfruttato, nel paradigma del verbo USCIRE, per la creazione di una base che potesse essere impiegata in una certa classe di partizione, e non nell’intero paradigma del lessema verbale (cfr. Maiden 1995). Maiden (2003; in stampa) mostra che le classi di partizione spiegano anche la distribuzione di basi suppletive che hanno origine dalla fusione in un solo paradigma di forme derivanti da lessemi diversi, come i prosecutori di lat. VADERE, AMBITARE e AMBULARE nel paradigma di ANDARE. 7 In alcuni casi, basi con caratteristiche fonologiche opposte possono occupare la stessa classe di partizione nel paradigma di lessemi diversi. Ad esempio, la maggior parte dei nomi latini presenta un paradigma bipartito (cfr. Di Pietro, 2004), con una base (B2) usata nelle forme del nominativo e vocativo singolare e un’altra base (B1) usata in tutte le altre forme: nel nome ANIMĂL “animale” B2 ha vocale breve e B1 vocale lunga (nominativo sg. animăl, genitivo sg. animāl-is), mentre nel nome SĀL “sale” accade il contrario (nominativo sg. sāl, genitivo sg. săl-is). 8 Non possiamo qui approfondire questi punti per motivi di spazio. Una trattazione dettagliata di questi argomenti si ha in Pirrelli (2000) e in Pirrelli e Battista (2000). 74 7.3 Organizzazione delle entrate lessicali Da quanto abbiamo visto nei paragrafi precedenti, si deduce che l’informazione che un parlante ha a disposizione sui lessemi della sua lingua va ben oltre la conoscenza di una semplice associazione tra un significato e un significante. L’informazione collegata a ciascun lessema riguarda almeno quattro diversi livelli: quello semantico, quello fonologico, quello sintattico e quello morfologico. L’informazione semantica riguarda il significato lessicale del lessema. 9 L’informazione sintattica riguarda tratti morfosintattici inerenti (quali ad esempio il genere dei nomi) e altre caratteristiche del lessema, come la valenza di un verbo. L’informazione fonologica riguarda le basi del lessema; ogni lessema ha almeno una base (B1): se ne ha più di una, le basi aggiuntive in alcuni casi sono derivabili dalla B1 tramite un processo fonologico, in altri casi devono essere elencate (e memorizzate dai parlanti). Ad esempio, di solito la B2 di un verbo della terza coniugazione è derivabile dalla B1 tramite l’aggiunta di -(i)sk-, mentre la B2 di UDIRE deve essere memorizzata, in quanto, come abbiamo già osservato, intrattiene con la B1 un rapporto che non ha paralleli in nessun altro verbo italiano. Infine, l’informazione morfologica riguarda la classe di flessione cui un lessema appartiene, la partizione del suo paradigma e l’indicizzazione delle sue basi (cioè l’associazione tra una base e una classe di partizione del paradigma). L’informazione del livello morfologico quindi media l’associazione tra significato e significante, almeno in tutti i casi in cui ad un lessema non è associato un singolo significante, ma una serie di basi. 7.4 Regole di realizzazione Abbiamo detto che in un modello a parole e paradigmi le forme flesse di un lessema vengono costruite attraverso regole di realizzazione. Vediamo ora un po’ più in dettaglio che cosa sono queste regole di realizzazione. La trattazione che segue sarà piuttosto informale e generale. Non esiste infatti un modello formale unico per l’espressione delle regole di realizzazione, che sia condiviso da tutti gli studiosi che adottano un modello a parole e paradigmi (tra i quali vanno ricordati almeno Arnold M. Zwicky, Mark Aronoff, e Gregory T. Stump). Stump (2001) presenta una versione altamente formalizzata del modello, con applicazioni che descrivono in modo esaustivo paradigmi verbali e nominali di diverse lingue, che non è possibile qui illustrare nel dettaglio per motivi di spazio. Ci limiteremo quindi a presentare alcune idee chiave condivise da qualunque approccio a parole e paradigmi che adotti regole di realizzazione. Innanzitutto, dobbiamo dire che ci sono diversi tipi di regole di realizzazione: regole di formazione delle basi, regole di formazione delle forme flesse, e forse anche un altro tipo di regole, le regole di rimando (inglese rules of referral). Le regole di formazione delle basi assumono sempre come input la base fonologicamente meno ricca del paradigma (la B1 negli esempi italiani che abbiamo visto), e permettono di derivare da essa altre basi tramite l’aggiunta di segmenti, o la manipolazione della struttura prosodica (per esempio con l’assegnazione di accento a una data sillaba della base, o con l’eliminazione di un accento esistente). La regola che abbiamo già ricordato, che deriva la B2 dalla B1 in verbi come FINIRE, ha la forma in (11): (11) Verbo [classe IIA1α], [partizione X]: B2 = B1isk10 Per una introduzione sull’argomento si veda Casadei (2003). Nella formula abbiamo utilizzato, per indicare la classe di flessione cui il verbo appartiene, la numerazione proposta in Dressler, Kilani-Schoch, Spina e Thornton (2003); per indicare la partizione del paradigma abbiamo utilizzato la 9 10 75 Altre regole rendono conto della distribuzione delle diverse basi di un lessema nelle classi di partizione (CP) del paradigma. Ad esempio, per i verbi italiani si ha una regola del tipo di (12): (12) Verbo [classe IIA1α], [partizione X]: B2 in CP2, B3 in CP3, … B1 altrove In (12), CP2, CP3, ecc. sono abbreviazioni per l’elenco delle celle in cui compaiono rispettivamente le basi B2, B3, ecc. (l’abbreviazione segue un uso adottato da Maiden 2003). Si osservi, in (12), che per la base B1 non è indicata una specifica classe di partizione in cui essa compaia: la base B1 è per ogni verbo la base cosiddetta di default, che compare nelle celle che non siano parte di una classe di partizione esplicitamente definita: lo spazio occupato da B1 è quindi diverso nei paradigmi di diversi verbi, ed è maggiore quanto minore è il numero di classi in cui è ripartito un certo paradigma (come si vede anche osservando la tabella 2). Vediamo ora una regola di realizzazione che genera forme flesse, ad esempio quella che genera forme come vede o finisce, schematizzata in (13): (13) Verbo [classe: II] [persona : 3.sg] [tempo : presente] [modo : indicativo] [voce: attivo]: [X] [Xe] In (13), X è una variabile che sta per una base: quale delle diverse basi di un lessema verbale debba essere selezionata è regolato da (12). Ad esempio, per un verbo come FINIRE, che ha nel presente indicativo la stessa partizione di VENIRE, (12) ci dirà che alla X di (13) deve corrispondere la B3 //; per verbi che non presentano partizioni nel presente indicativo, come VEDERE, (12) ci dice che alla X in (13) corrisponde la B1, che è la base cosiddetta di default, cioè quella che si utilizza quando nessuna regola più specifica richiede la selezione di un’altra base. Da (13) si vede bene anche un’altra caratteristica della flessione verbale italiana, e cioè che la scelta di una desinenza di persona/numero (ad esempio, quella di terza singolare) dipende dalla classe di flessione cui il verbo appartiene, ma non dal tipo di partizione che il suo paradigma presenta: FINIRE e VEDERE, i cui paradigmi hanno partizioni diverse, formano la terza persona singolare del presente indicativo attivo nello stesso modo, seguendo entrambi la regola (13). In (13) le partizioni non sono specificate perché non svolgono un ruolo nella selezione della desinenza di persona/numero. Si noterà anche che in (13) la classe di flessione è stata specificata come [classe II]: questa specificazione segue un modello dell’organizzazione delle classi di flessione del verbo italiano che non riconosce le tre coniugazioni tradizionali, ma ipotizza che i verbi italiani si raggruppino essenzialmente in due macroclassi, corrispondenti alla tradizionale prima coniugazione e all’insieme delle altre: ciascuna macroclasse è poi divisa in diverse sottoclassi. Il fatto che la desinenza di terza persona singolare del presente indicativo sia uguale in verbi tradizionalmente considerati della II coniugazione e verbi tradizionalmente considerati della III coniugazione è una delle prove in favore di questa classificazione alternativa delle classi di flessione del verbo italiano, che raggruppa queste due coniugazioni in una stessa macroclasse.11 Una regola di realizzazione può anche essere più specifica di (13), nel caso di verbi molto irregolari: ad esempio, la terza persona singolare del presente indicativo del verbo ESSERE richiede una regola del tipo di (14): variabile generica X, dato che non è in uso un sistema di numerazione o di denominazione delle partizioni possibili (ma per una prima proposta si veda Maiden 2003). Un’altra questione è se la B1 di un verbo italiano contenga o meno la vocale tematica: su questo punto si hanno pareri diversi (per posizioni opposte si vedano Dressler e Thornton (1991) e Pirrelli e Battista (2000)); ciascuna delle due scelte possibili ha sia conseguenze positive che conseguenze indesiderabili, che non possiamo qui esplorare per motivi di spazio; nella formulazione della regola in (11) abbiamo ipotizzato che la B1 non contenga la vocale tematica. 11 L’ipotesi che la flessione verbale italiana sia organizzata in due macroclassi di flessione si trova in Vincent (1988), Dressler e Thornton (1991), e Dressler, Kilani-Schoch, Spina e Thornton (2003). In quest’ultimo lavoro è presentata una classificazione dettagliata delle diverse sottoclassi di ciascuna macroclasse. 76 (14) Verbo [ESSERE] [persona : 3.sg] [tempo : presente] [modo : indicativo] [voce: attivo]: [X] [è] Per evitare che al verbo ESSERE si applichi per errore la regola (13), si fa riferimento a una convenzione ben nota in linguistica, detta “condizione altrove” o “condizione altrimenti” (in inglese elsewhere condition), o anche “principio di Pānini”. Secondo questo principio, se una regola più specifica si applica in un contesto che è incluso in quello di una regola più generale, la regola più specifica ha la precedenza. Tra (14) e (13) il caso è proprio di questo tipo: il contesto di applicazione di (13) include quello di (14), dato che il verbo ESSERE è un verbo della II classe; poiché (14) è più specifica di (13) (si applica al solo verbo ESSERE, non a qualunque verbo della II classe), sarà (14) ad essere applicata per generare la terza persona singolare del presente indicativo di ESSERE, e non (13).12 Un ultimo tipo di regole di realizzazione che secondo alcuni studiosi devono essere incluse nell’insieme di regole possibili in un modello a parole e paradigmi sono le regole di rimando (inglese rules of referral, cfr. Zwicky (1985, p. 372)). Una regola di rimando non descrive direttamente la realizzazione di una data forma flessa, ma rimanda per la sua generazione alla regola di realizzazione di un’altra forma, in tutto o in parte. Vediamo in (15) un esempio di possibile regola di rimando, che potrebbe essere utilizzata per generare le prime persone plurali del presente indicativo di tutti i verbi italiani: (15) Verbo [persona : 1.pl] [tempo : presente] [modo : indicativo] [voce: attivo]: [X] Verbo [persona : 1.pl] [tempo : presente] [modo : congiuntivo] [voce: attivo] La regola (15) permette di esprimere un fatto ben noto, e cioè che la prima persona plurale del presente indicativo di un verbo italiano è sempre uguale alla prima persona plurale del presente congiuntivo dello stesso verbo.13 Questa generalizzazione è valida per verbi di ogni classe, e anche per verbi molto irregolari, quali ESSERE, AVERE, SAPERE, ANDARE. Tuttavia alcuni studiosi preferiscono non fare ricorso a regole di rimando, perché queste regole implicano una direzionalità dalla generazione di una forma a quella di un’altra: in (15), la forma del congiuntivo appare prioritaria rispetto a quella dell’indicativo, mentre una caratteristica del modello a parole e paradigmi è la pari dignità tra tutte le forme di un paradigma (a differenza, ad esempio, di un modello a entità e processi, che prevede forme soggiacenti e forme derivate). Quindi chi vuole evitare il ricorso a regole di rimando propone di formulare generalizzazioni come quella in (15) in modo non direzionale, come in (16) (cfr. Aronoff, 1994, p. 83): (16) [indicativo] = [congiuntivo] / [persona : 1.pl] [tempo : presente] ____ L’applicazione di (13) genererebbe, presumibilmente, una forma come *sie, ammesso che si- possa essere considerata la B1 del verbo ESSERE. Pirrelli e Battista (2000, p. 338) osservano che le generalizzazioni sulla distribuzione delle basi nelle partizioni dei paradigmi rendono conto di tutti i verbi italiani ad esclusione di otto verbi estremamente irregolari: AVERE, ESSERE, ANDARE, DARE, FARE, STARE, DIRE, SAPERE. 13 Qusta identità trova spiegazione nel fatto che diacronicamente si è avuto un processo di sostituzione delle forme del congiuntivo a quelle dell’indicativo: cfr. Vincent (1980). 12 77