7 Il modello a parole e paradigmi In un modello a parole e

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Il modello a parole e paradigmi
In un modello a parole e paradigmi – che come abbiamo già osservato sarebbe meglio denominare
modello a lessemi e paradigmi, per disambiguare il senso del termine parola in questo contesto –
l’oggetto primario di interesse non è tanto il modo in cui avviene la formazione di ciascuna singola
forma flessa di un lessema, ma la struttura del paradigma di un lessema. Il paradigma presenta
infatti caratteristiche che possono spiegare la struttura di singole forme, ma che non possono essere
colte esaminando le singole forme individualmente.
Il modello a parole e paradigmi prevede naturalmente dei meccanismi di generazione delle singole
forme flesse di un lessema. Questi meccanismi sono detti regole di realizzazione, e condividono in
parte le proprietà dei processi utilizzati in un modello a entità e processi. Tuttavia, le regole di
realizzazione hanno anche delle caratteristiche diverse dai processi: mentre questi ultimi sono
essenzialmente operazioni fonologiche che hanno luogo su entità concepite come morfemi
biplanari, le regole di realizzazione creano un’entità biplanare (una forma flessa) a partire da altre
entità in cui componenti di significato (il significato lessicale di un lessema e un certo insieme di
tratti morfosintattici) e componenti di significante (la forma fonologica che rappresenta il lessema e
i tratti nella forma flessa) sono ancora disgiunte. Una regola di realizzazione non implica quindi la
formazione di un’entità che presenti un isomorfismo tra componenti di significato e componenti di
significante: non è necessario, cioè, che nella forma flessa sia presente e identificabile un morfo
specifico per ogni tratto morfosintattico e un morfo specifico per il significato lessicale del lessema.
La relazione di biplanarità tra significato e significante, in un modello a parole e paradigmi, è
concepita come una relazione valida per ciascuna forma flessa nella sua interezza, ma non per
ciascuno dei singoli elementi che la compongono. In questo modo, non costituiscono più un
problema fenomeni come l’amalgama, i morfi zero e vuoti, i morfi non completamente specificati,
ecc.
Un aspetto della formazione delle forme flesse che si coglie molto bene in un modello a parole e
paradigmi, mentre presenta difficoltà in modelli fondati su morfemi intesi come entità biplanari,
riguarda la distribuzione degli allomorfi cosiddetti suppletivi, sia dei lessemi che delle desinenze.
In un modello a entità e disposizioni o a entità e processi, nessun meccanismo permette di spiegare
perché sono attestati i dati in (1a) ma non quelli in (1b):
(1)
a.
odo
udite
ama
vede
b.
*udo
*odite
*ame
*veda1
“1a sg. pres. ind. di UDIRE”
“2a plur. pres. ind. di UDIRE”
“3a sg. pres. ind. di AMARE”
“3a sg. pres. ind. di VEDERE”
Infatti, in un modello a entità e disposizioni sia i morfi lessicali che i morfi grammaticali
individuabili nelle forme flesse in (1) sono concepiti come significanti di morfemi come quelli in
(2):
(2)
//
________
“udire”
/o/
________
1.SG
/ud/
________
“udire”
/a/
_________
3.SG
/am/
___________
“amare”
/e/
_______
3.SG
/ved/
__________
“vedere”
/ite/
_______
2.PL
1
Naturalmente, veda è attestato come forma del presente congiuntivo di VEDERE, ma non come forma di terza persona
singolare del presente indicativo (parallela a ama e vede), che è il senso che ci interessa in questo esempio.
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Se la formazione di una forma flessa si ottenesse semplicemente tramite disposizione di entità
dotate di significato, in modo che l’unione dei significati delle due entità dia il significato della
forma flessa, non si spiegherebbe perché non si possa formare *udo con il significato “1.sg di
UDIRE” o *ame con il significato “3.sg di AMARE”.2
L’impossibilità delle forme in (1b) non è certo spiegabile in base a fattori di ordine semantico. Si
potrebbe ipotizzare che la causa dell’impossibilità delle forme in (1b) sia di ordine fonologico.
Tuttavia, sembra difficile sostenerlo: sia // che /ud/ terminano in /d/, quindi la loro distribuzione
in relazione a /o/ e /ite/ non può spiegarsi certo con la necessità di evitare incontri di fonemi non
permessi dalle regole fonotattiche dell’italiano.3 Anche *ame e veda non violano alcuna restrizione
fonotattica dell’italiano, come è facilmente dimostrato dal fatto che veda è una forma attestata in un
diverso significato, e che sono attestate forme come lame, teme, seme, esprime, chiome, come,
desume, nelle quali si ha una /m/ preceduta da vocale e seguita da /e/ come in *ame.
I dati in (1) si possono spiegare solo facendo ricorso a due proprietà dei lessemi che non sono né di
ordine semantico né di ordine fonologico, e che, seguendo la proposta di Aronoff (1994), definiamo
come proprie di un livello autonomo di organizzazione di una lingua, il livello propriamente
morfologico. Queste due proprietà sono le seguenti:
(3)
a. i lessemi appartengono a una classe di flessione;
b. il paradigma di un lessema può presentare una partizione.
Illustreremo ora più in dettaglio ciascuna di queste due proprietà.
7.1
Classi di flessione
Si osservino i dati in (4):
(4)
Presente indicativo dei verbi AMARE e TEMERE
AMARE
TEMERE
1a singolare 2a singolare 3a singolare 1a plurale 2a plurale 3a plurale
amo
ami
ama
amiamo amate
amano
temo
temi
teme
temiamo temete
temono
Possiamo confrontare i dati in (4) con gli ipotetici dati in (5):
(5)
Ipotetici presenti indicativi dei verbi AMARE e TEMERE
a.
b.
c.
d.
*
*
*
*
1a singolare
amo
amo
temo
temo
2a singolare
ami
ami
temi
temi
3a singolare
ame
ama
tema
teme
1a plurale
amiamo
amiamo
temiamo
temiamo
2a plurale
amate
amate
temete
temete
3a plurale
amano
amono
temono
temano
2
Per una caratterizzazione più accurata di queste forme, si può ipotizzare che entri in gioco anche un morfo zero per il
tempo presente e un altro morfo zero per il modo indicativo. Non li abbiamo considerati per non allungare la
trattazione; ma anche ipotizzandone la presenza, la sostanza dell’argomentazione non cambia: cosa impedisce la
formazione di *am-Ø-Ø-e con il significato di “3.sg. presente indicativo di AMARE”?
3
Secondo molti studiosi, la distribuzione di // e /ud/ si spiega in base a criteri fonologici di ordine prosodico: //
occorrerebbe con desinenze atone, /ud/ con desinenze toniche. Questa analisi implica però considerare la vocale
tematica in -ite come parte della desinenza, soluzione che si presta a critiche (cfr. la discussione svolta supra, cap. 5.3).
Per una critica più generale a qualunque tentativo di spiegare questi fatti di distribuzione con criteri di ordine
fonologico, cfr. Maiden (2003, pp. 12-14).
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Il fatto che distribuzioni di forme come quelle in (5) non siano attestate ci dice qualcosa di nuovo
rispetto a quanto avevamo già visto nel paragrafo precedente. I dati in (4) e (5) mostrano che c’è
una cooccorrenza regolare tra la presenza di una certa desinenza in una certa cella del paradigma e
la presenza di un’altra desinenza in un’altra cella del paradigma (ad esempio, tra -e nella terza
persona singolare e -ono nella terza plurale). La scelta tra due desinenze sinonime, benché non
governata fonologicamente, non è casuale: essa è mediata da una caratteristica di ogni specifico
lessema verbale, che è la sua appartenenza a una determinata classe di flessione. L’informazione
sulla coniugazione cui appartiene un verbo è indispensabile per generare correttamente le sue forme
flesse. L’appartenenza di un lessema verbale a una coniugazione non correla con nessun fattore
sintattico, semantico, o fonologico: ad esempio, appartengono alla prima coniugazione verbi di
qualunque valenza (cfr. nevicare, camminare, amare, regalare), con i significati più svariati, e con
ogni tipo di forma fonologica.4 D’altra parte, solo l’appartenenza del lessema a una coniugazione
può spiegare la distribuzione in (5) delle desinenze di terza persona: se un verbo seleziona -a nella
terza singolare seleziona -ano nella terza plurale, e se seleziona -e nella terza singolare seleziona ono nella terza plurale; altre combinazioni (-a nella terza singolare e -ono nella terza plurale, o -e
nella terza singolare e -ano nella terza plurale) non sono attestate. Dunque la coniugazione cui
appartiene un verbo (più in generale, la classe di flessione cui appartiene un lessema) è un fattore
che ha un ruolo ineliminabile nella generazione delle forme flesse di quel lessema, ed è un fattore
che costituisce informazione propriamente morfologica, non riducibile a informazione di tipo né
semantico, né sintattico né fonologico.
7.2
Partizione dei paradigmi
Mentre l’appartenenza di un lessema a una classe di flessione permette di spiegare fenomeni di
suppletivismo fra morfemi grammaticali, la seconda componente della morfologia intesa come
livello autonomo di organizzazione delle lingue permette di spiegare fatti di suppletivismo debole o
forte, o comunque di allomorfia non fonologicamente governata, tra morfemi lessicali.
Il paradigma di un lessema può presentare una partizione, cioè una suddivisione in raggruppamenti
di celle intermedi tra le singole celle e il paradigma intero. Certe celle (non accomunate né dal fatto
di contenere forme con determinati tratti morfosintattici in comune, né dal fatto di contenere forme
che presentino desinenze con tratti fonologici comuni) sono accomunate dal fatto che nelle forme in
esse contenute il lessema è rappresentato da una stringa di fonemi diversa da quella usata in altri
gruppi di celle. Ciascun insieme di celle così accomunate rappresenta una classe di partizione del
paradigma di un lessema (secondo la terminologia di Pirrelli e Battista, 2000; Pirrelli, 2000).
Si considerino i dati in (6), cioè le forme del presente indicativo di due verbi italiani:
(6)
Paradigma del presente indicativo di due verbi italiani
SEDERE
UDIRE
1a singolare 2a singolare 3a singolare 1a plurale
siedo
siedi
siede
sediamo
odo
odi
ode
udiamo
2a plurale
sedete
udite
3a plurale
siedono
odono
Ciascuno dei verbi in (6) è rappresentato, nelle forme del presente indicativo, da due diverse
stringhe fonologiche, come riepilogato in (7):
(7)
verbo
stringa 1
stringa 2
Le radici di verbi della prima coniugazione possono terminare in quasi qualunque fonema dell’italiano: cfr. creare,
striare, abituare, rubare, bucare, baciare, lasciare, badare, tifare, pagare, plagiare, calare, ragliare, amare, sanare,
sognare, rapare, arare, rasare, tritare, lavare, schizzare, utilizzare, cambiare, arcuare. Mancano verbi della prima
coniugazione la cui radice termini in -a e in -o, ma verbi con radice in -a e in -o non si hanno neanche nelle altre
coniugazioni.
4
70
SEDERE
UDIRE
siedod-
sed-eud-i-
Le celle di prima, seconda e terza persona singolare e terza persona plurale del presente indicativo
di questi verbi (e di numerosi altri verbi dell’italiano) costituiscono una classe di partizione
all’interno del paradigma del verbo, diversa da quella (o quelle) alla quale appartengono le celle di
prima e seconda persona plurale del presente indicativo e altre celle del paradigma.
Abbiamo già visto che la distribuzione delle desinenze di terza persona singolare -a ed -e non è
spiegabile in base a fattori di ordine semantico o fonologico, ma solo attraverso il ricorso a un
fattore propriamente morfologico, cioè l’appartenenza del lessema a una data classe di flessione.
Vedremo ora che anche la distribuzione delle due stringhe in (7) all’interno del paradigma di
ciascun verbo non è spiegabile in base a fattori fonologici o semantici, ma in base a un altro fattore
propriamente morfologico, cioè il tipo di partizione presentata dal paradigma del lessema verbale.
Secondo alcuni autori, sarebbe possibile spiegare come dovuta a un fattore fonologico l’alternanza
tra sied- e sed-: sied- compare infatti in forme in cui la vocale è accentata, sed- in forme in cui la
vocale è atona. Tuttavia questa regolarità (che è frutto di un mutamento fonetico, di dittongazione
delle vocali medie in sillaba aperta, che ha avuto luogo agli albori della lingua italiana) non è
descrivibile come dovuta a una regola sincronicamente produttiva nella fonologia dell’italiano
contemporaneo: essa non si applica a tutti i verbi che presentino una vocale media, come si vede dal
fatto che il verbo SEDARE, che ha la radice sed- omofona di quella di SEDERE, non presenta
l’alternanza tra sed- e sied- (le sue forme di presente indicativo sono sedo, sedi, ecc.). L’alternanza
tra una forma con vocale -e- atona e una con dittongo ascendente -ie- tonico si ha solo in
determinati verbi, e costituisce quindi una proprietà specifica di certi lessemi, non il risultato di una
regola fonologica produttiva dell’italiano contemporaneo (cfr. anche Maiden, 1992; Pirrelli, 2000,
pp. 86-90). Un’alternanza come quella tra od- e ud-, poi, è specifica del solo verbo UDIRE: nessun
altro verbo dell’italiano presenta forme con vocale -o- alternanti con forme con vocale -u-.
La distribuzione in (6) non è spiegabile neppure in base a fatti di ordine semantico. Le due stringhe
di ciascun verbo rappresentano altrettanto bene il significato lessicale del verbo, né è possibile
ipotizzare che ciascuna di esse porti anche un significato aggiuntivo: non c’è infatti alcun elemento
di significato comune alle tre persone del singolare e alla terza persona plurale, ma che escluda
prima e seconda persona plurale, né c’è alcun significato comune alle prime due persone del plurale
ad esclusione della terza. Una distribuzione basata su criteri semantici, nel caso in cui ogni stringa
portasse, oltre al significato lessicale del verbo, anche un qualche significato grammaticale
aggiuntivo (ad esempio, un certo valore della categoria di persona, o di quella di numero), darebbe
luogo a paradigmi come quelli ipotetici illustrati in (8):
(8)
Ipotetici paradigmi con distribuzione delle stringhe governata semanticamente (esemplificati
sul verbo UDIRE)
a.
UDIRE
b.
UDIRE
c.
UDIRE
stringa1 per il singolare, stringa2 per il plurale
odo
odi
ode
udiamo
udite
udono
stringa1 per la prima persona, stringa2 per le altre persone
odo
udi
ude
odiamo
udite
udono
stringa1 per la terza persona, stringa2 per le altre persone
udo
udi
ode
udiamo
udite
odono
Una distribuzione del tipo di quelle illustrate in (8) non è attestata in alcun verbo italiano.
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Dunque la distribuzione delle diverse stringhe non è spiegabile né in base a criteri di ordine
fonologico né in base a criteri di ordine semantico. Eppure non si tratta di una distribuzione casuale:
se la distribuzione fosse casuale, avremmo distribuzioni diverse in verbi diversi, e anche qualche
caso di distribuzioni come quelle esemplificate in (9):
(9)
Distribuzioni non attestate (esemplificate sul verbo UDIRE)
UDIRE
UDIRE
udo
odo
odi
udi
ude
ode
odiamo
udiamo
udite
odite
odono
udono
Invece, ogni verbo italiano che presenti due diverse stringhe nelle forme del presente indicativo
presenta una distribuzione delle due stringhe come quella in (6); altre ipotetiche distribuzioni
possibili, come quelle casuali in (9) e quelle governate semanticamente in (8), non sono attestate.
Dunque il tipo di partizione che il paradigma di un determinato verbo presenta non è casuale, ma è
una proprietà specifica del singolo lessema verbale (tanto quanto la sua appartenenza a una certa
classe di flessione). La partizione non si spiega né attraverso l’agire di regole fonologiche, né come
correlata a specifiche proprietà morfosintattiche o semantiche delle celle che rientrano in una stessa
classe di partizione: si tratta dunque di un’altra proprietà del livello di analisi propriamente
morfologico, un livello che, seguendo una proposta di Aronoff (1994), viene oggi denominato
livello morfomico.
È importante osservare che non tutti i verbi italiani (e, in generale, non tutti i lessemi di una certa
parte del discorso) hanno la stessa partizione del loro paradigma. Ad esempio, i tre verbi
CONOSCERE, VENIRE e DOLERE hanno partizioni via via più articolate nel presente indicativo, come
mostra la Tabella 1 (ispirata alla presentazione di Pirrelli, 2000, p. 64).
CONOSCERE
VENIRE
DOLERE
cono/sk/o
cono//i
cono//e
cono//amo
cono//ete
cono/sk/ono
vengo
vieni
viene
veniamo
venite
vengono
dolgo
duoli
duole
dogliamo
dolete
dolgono
Tabella 1 – Forme del presente indicativo dei verbi CONOSCERE, VENIRE e DOLERE
Nella tabella 1 vediamo che il paradigma del presente indicativo di CONOSCERE presenta due sole
classi di partizione, con alternanza tra forme basate su // e forme basate su //,
mentre il paradigma del presente indicativo di VENIRE presenta tre classi di partizione, con
alternanza tra forme basate su veng-, vien- e ven-; il paradigma del presente indicativo di DOLERE
presenta addirittura quattro classi di partizione, con alternanza tra dolg-, duol-, // e dol-.
Come possiamo chiamare le diverse stringhe che rappresentano il lessema verbale nelle diverse
classi di partizione del suo paradigma?
In inglese queste stringhe sono comunemente chiamate stem (cfr. Aronoff 1994, Pirrelli e Battista
2000, Stump 2001). Questa parola inglese, in contesti diversi da quello qui in esame, è normalmente
tradotta in italiano con tema; ma il termine tema appare poco adatto a designare le entità in
questione, perché in italiano tema è usato per lo più per indicare una sequenza di radice + vocale
tematica, mentre molte delle entità che stiamo esaminando non contengono una vocale tematica.
Un’altra alternativa poco raccomandabile è chiamare queste forme radici: infatti normalmente si
intende con radice un’entità semplice, non dotata di complessità interna, mentre alcune delle entità
qui in questione sembrano più complesse di altre, e possono essere analizzate come derivate da
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altre: ad esempio, veng- sembra costruito per aggiunta di // a ven-; chiamare sia ven- che vengradici di VENIRE potrebbe generare confusione. Per lo stesso motivo, sembra poco raccomandabile
anche chiamare queste diverse entità allomorfi.5 Aronoff (1994) propone il termine morfoma per
designare ciascuna delle stringhe che può rappresentare un certo lessema e che ha una distribuzione
ben definita all’interno del suo paradigma.
In italiano la terminologia usata per designare queste entità è varia, non ancora stabilizzata nell’uso,
e non sempre univoca anche in uno stesso autore. Uno dei termini che presenta minori inconvenienti
sembra essere base, e quindi d’ora in poi lo adotteremo per designare ciascuna delle diverse
stringhe che possono rappresentare un lessema nelle diverse classi di partizione del suo paradigma.
Possiamo definire una base di un lessema come una forma del lessema sulla quale operano
determinate regole di realizzazione per formare determinate forme flesse. Le regole di realizzazione
possono semplicemente aggiungere un affisso a una base, o mettere in gioco processi di tipo diverso
dall’affissazione, quali il raddoppiamento di una sottoparte della base, la sottrazione di una sua
parte, ecc.
Come abbiamo visto, spesso un lessema presenta più di una base. Limitandoci ad esaminare le sole
forme del presente indicativo, abbiamo visto che i tre verbi italiani CONOSCERE, VENIRE e DOLERE
presentano rispettivamente due, tre e quattro basi. Pirrelli e Battista (2000; cfr. anche Pirrelli 2000)
hanno condotto uno studio approfondito della flessione verbale italiana, dal quale risulta che un
singolo verbo italiano può presentare al massimo sei basi (è il caso di DOLERE, che presenta, oltre
alle quattro basi che abbiamo già visto, dols- in alcune forme del passato remoto e dolu- nel
participio passato).
Alle diverse basi di un verbo può essere assegnato un indice numerico per indicare la classe di
partizione del paradigma nella quale sono utilizzate. Ad esempio, i paradigmi del presente
indicativo visti in Tabella 1 possono essere schematizzati nel modo illustrato in Tabella 2, dove in
ogni cella del paradigma è presente una variabile che indica la base sulla quale sono costruite le
forme che occupano quella cella e la classe di partizione cui la cella appartiene.6
CONOSCERE
VENIRE
DOLERE
B2
B1
B1
B1
B1
B2
B2
B3
B3
B1
B1
B2
B2
B3
B3
B4
B1
B2
Tabella 2 – Schemi di distribuzione delle basi in tre diverse possibili partizioni del paradigma del
presente indicativo in italiano (basato su Pirrelli, 2000, p. 64)
Ci sono diverse caratteristiche importanti da rilevare nello schema illustrato dalla Tabella 2.
Innanzitutto, non c’è una corrispondenza diretta e necessaria tra la classe di partizione che una base
occupa e la sua forma. Ad esempio, i due verbi FINIRE e VENIRE hanno la stessa partizione nel
paradigma del presente indicativo, una partizione in tre classi, e quindi hanno tre basi ciascuno,
come illustrato in (10):
Si pronuncia contro questa ipotesi anche Aronoff (1994, p. 180, nota 40), che scrive: “we may do severe damage to the
notion of allomorph if we always treat as allomorphs the different forms of a single lexeme that may be selected as
stems. This is because some stems are morphologically complex, while others are not”.
6
Le tabelle 1 e 2 illustrano partizioni relative al solo presente indicativo. Ciascuna delle partizioni qui illustrate è in
realtà parte di una partizione più ampia: ad esempio, la partizione 2 comprende anche le prime tre persone singolari e la
terza plurale del presente congiuntivo, la 3 comprende anche l’imperativo singolare, la 1 comprende tutte le forme
dell’imperfetto indicativo e congiuntivo e alcune altre. Per uno schema completo delle partizioni possibili nei verbi
italiani si veda Pirrelli e Battista (2000, p. 359).
5
73
(10)
B1
B2
B3
FINIRE
VENIRE
fin
fini/sk/
fini//
ven
//
vien
Le tre basi di ciascun verbo hanno un indice che rimanda alla classe di partizione in cui compaiono,
ma come si vede la B2 di FINIRE presenta, rispetto alla B1, l’aggiunta di /isk/, mentre la B2 di
VENIRE presenta aggiunta di // e sostituzione di /e/ con //. Dunque non c’è rapporto di
implicazione tra forma di una base e classe di partizione in cui compare.7
Un’altra caratteristica importante della partizione dei paradigmi è che le partizioni che presentano
meno classi sembrano essere sempre derivabili da partizioni più ricche di classi tramite
un’operazione di unione di due o più classi di partizione (con conseguente neutralizzazione
dell’opposizione tra due o più basi). Ad esempio, da una partizione del presente indicativo come
quella esemplificata da DOLERE, si può giungere a una partizione come quella esemplificata da
VENIRE tramite unione della classe di partizione 4 con la classe di partizione 1; e si può giungere a
una partizione come quella esemplificata da CONOSCERE tramite l’unione della classe 3 con la classe
1. Per questo in nessun verbo italiano sono attestate distribuzioni come quelle esemplificate in (8) e
(9): i lettori interessati potranno verificare che esse non sono derivabili da nessuna operazione di
unione di classi, a partire da una delle partizioni illustrate in Tabella 2 (che esauriscono le possibili
partizioni del presente indicativo di un verbo italiano).
Una terza caratteristica da rilevare è che in ciascun verbo la B1 rappresenta la base fonologicamente
meno complessa, dalla quale spesso le altre possono essere derivate tramite aggiunta o
manipolazione di elementi, e verso la quale convergono eventuali semplificazioni della partizione di
un paradigma (in diacronia, o nelle varietà di apprendenti una L1 o una L2).8
Un’altra caratteristica importante delle classi di partizione è che esse si comportano come entità
attive nell’organizzazione dei paradigmi (con le parole di Maiden, 1992, p. 285: “an active, abstract
structural property of morphological systems”). La prova di ciò è data da una serie di fatti
diacronici. Consideriamo ad esempio il verbo italiano USCIRE: esso deriva dal latino EXIRE; dal
punto di vista dell’evoluzione fonetica, le forme che presentano la base usci- sono inspiegabili; una
regolare evoluzione fonetica avrebbe potuto produrre solo forme come *esciamo, *escite, *escire,
ecc. Lo sviluppo di una base che presenta /u/ al posto di /e/ si spiega per effetto dell’influsso del
nome USCIO (< lat. tardo USTIUM < lat. OSTIUM “porta, apertura”): il significato del verbo USCIRE,
“andare fuori”, è infatti strettamente connesso con quello del nome USCIO, “porta, apertura
attraverso cui si può andare fuori” (“si esce per l’uscio”, nella formulazione di Tekavčić, 1972, p.
273). Come spiegare, però, che il nome USCIO non abbia avuto effetto sull’intero lessema verbale,
ma solo su alcune sue forme? Perché continuiamo a dire esco, esci, esce, escono, e non diciamo
*uscio, *usci, *usce, *usciono? Il fatto si spiega solo facendo ricorso alla nozione di classe di
partizione: l’incrocio con il nome USCIO è stato sfruttato, nel paradigma del verbo USCIRE, per la
creazione di una base che potesse essere impiegata in una certa classe di partizione, e non
nell’intero paradigma del lessema verbale (cfr. Maiden 1995).
Maiden (2003; in stampa) mostra che le classi di partizione spiegano anche la distribuzione di basi
suppletive che hanno origine dalla fusione in un solo paradigma di forme derivanti da lessemi
diversi, come i prosecutori di lat. VADERE, AMBITARE e AMBULARE nel paradigma di ANDARE.
7
In alcuni casi, basi con caratteristiche fonologiche opposte possono occupare la stessa classe di partizione nel
paradigma di lessemi diversi. Ad esempio, la maggior parte dei nomi latini presenta un paradigma bipartito (cfr. Di
Pietro, 2004), con una base (B2) usata nelle forme del nominativo e vocativo singolare e un’altra base (B1) usata in
tutte le altre forme: nel nome ANIMĂL “animale” B2 ha vocale breve e B1 vocale lunga (nominativo sg. animăl, genitivo
sg. animāl-is), mentre nel nome SĀL “sale” accade il contrario (nominativo sg. sāl, genitivo sg. săl-is).
8
Non possiamo qui approfondire questi punti per motivi di spazio. Una trattazione dettagliata di questi argomenti si ha
in Pirrelli (2000) e in Pirrelli e Battista (2000).
74
7.3
Organizzazione delle entrate lessicali
Da quanto abbiamo visto nei paragrafi precedenti, si deduce che l’informazione che un parlante ha a
disposizione sui lessemi della sua lingua va ben oltre la conoscenza di una semplice associazione tra
un significato e un significante.
L’informazione collegata a ciascun lessema riguarda almeno quattro diversi livelli: quello
semantico, quello fonologico, quello sintattico e quello morfologico.
L’informazione semantica riguarda il significato lessicale del lessema. 9 L’informazione sintattica
riguarda tratti morfosintattici inerenti (quali ad esempio il genere dei nomi) e altre caratteristiche del
lessema, come la valenza di un verbo. L’informazione fonologica riguarda le basi del lessema; ogni
lessema ha almeno una base (B1): se ne ha più di una, le basi aggiuntive in alcuni casi sono
derivabili dalla B1 tramite un processo fonologico, in altri casi devono essere elencate (e
memorizzate dai parlanti). Ad esempio, di solito la B2 di un verbo della terza coniugazione è
derivabile dalla B1 tramite l’aggiunta di -(i)sk-, mentre la B2 di UDIRE deve essere memorizzata, in
quanto, come abbiamo già osservato, intrattiene con la B1 un rapporto che non ha paralleli in
nessun altro verbo italiano. Infine, l’informazione morfologica riguarda la classe di flessione cui un
lessema appartiene, la partizione del suo paradigma e l’indicizzazione delle sue basi (cioè
l’associazione tra una base e una classe di partizione del paradigma).
L’informazione del livello morfologico quindi media l’associazione tra significato e significante,
almeno in tutti i casi in cui ad un lessema non è associato un singolo significante, ma una serie di
basi.
7.4
Regole di realizzazione
Abbiamo detto che in un modello a parole e paradigmi le forme flesse di un lessema vengono
costruite attraverso regole di realizzazione.
Vediamo ora un po’ più in dettaglio che cosa sono queste regole di realizzazione. La trattazione che
segue sarà piuttosto informale e generale. Non esiste infatti un modello formale unico per
l’espressione delle regole di realizzazione, che sia condiviso da tutti gli studiosi che adottano un
modello a parole e paradigmi (tra i quali vanno ricordati almeno Arnold M. Zwicky, Mark Aronoff,
e Gregory T. Stump). Stump (2001) presenta una versione altamente formalizzata del modello, con
applicazioni che descrivono in modo esaustivo paradigmi verbali e nominali di diverse lingue, che
non è possibile qui illustrare nel dettaglio per motivi di spazio. Ci limiteremo quindi a presentare
alcune idee chiave condivise da qualunque approccio a parole e paradigmi che adotti regole di
realizzazione.
Innanzitutto, dobbiamo dire che ci sono diversi tipi di regole di realizzazione: regole di formazione
delle basi, regole di formazione delle forme flesse, e forse anche un altro tipo di regole, le regole di
rimando (inglese rules of referral).
Le regole di formazione delle basi assumono sempre come input la base fonologicamente meno
ricca del paradigma (la B1 negli esempi italiani che abbiamo visto), e permettono di derivare da
essa altre basi tramite l’aggiunta di segmenti, o la manipolazione della struttura prosodica (per
esempio con l’assegnazione di accento a una data sillaba della base, o con l’eliminazione di un
accento esistente).
La regola che abbiamo già ricordato, che deriva la B2 dalla B1 in verbi come FINIRE, ha la forma in
(11):
(11)
Verbo [classe IIA1α], [partizione X]: B2 = B1isk10
Per una introduzione sull’argomento si veda Casadei (2003).
Nella formula abbiamo utilizzato, per indicare la classe di flessione cui il verbo appartiene, la numerazione proposta
in Dressler, Kilani-Schoch, Spina e Thornton (2003); per indicare la partizione del paradigma abbiamo utilizzato la
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Altre regole rendono conto della distribuzione delle diverse basi di un lessema nelle classi di
partizione (CP) del paradigma. Ad esempio, per i verbi italiani si ha una regola del tipo di (12):
(12)
Verbo [classe IIA1α], [partizione X]: B2 in CP2, B3 in CP3, … B1 altrove
In (12), CP2, CP3, ecc. sono abbreviazioni per l’elenco delle celle in cui compaiono rispettivamente
le basi B2, B3, ecc. (l’abbreviazione segue un uso adottato da Maiden 2003).
Si osservi, in (12), che per la base B1 non è indicata una specifica classe di partizione in cui essa
compaia: la base B1 è per ogni verbo la base cosiddetta di default, che compare nelle celle che non
siano parte di una classe di partizione esplicitamente definita: lo spazio occupato da B1 è quindi
diverso nei paradigmi di diversi verbi, ed è maggiore quanto minore è il numero di classi in cui è
ripartito un certo paradigma (come si vede anche osservando la tabella 2).
Vediamo ora una regola di realizzazione che genera forme flesse, ad esempio quella che genera
forme come vede o finisce, schematizzata in (13):
(13)
Verbo [classe: II] [persona : 3.sg] [tempo : presente] [modo : indicativo] [voce: attivo]: [X]  [Xe]
In (13), X è una variabile che sta per una base: quale delle diverse basi di un lessema verbale debba
essere selezionata è regolato da (12). Ad esempio, per un verbo come FINIRE, che ha nel presente
indicativo la stessa partizione di VENIRE, (12) ci dirà che alla X di (13) deve corrispondere la B3
//; per verbi che non presentano partizioni nel presente indicativo, come VEDERE, (12) ci dice
che alla X in (13) corrisponde la B1, che è la base cosiddetta di default, cioè quella che si utilizza
quando nessuna regola più specifica richiede la selezione di un’altra base.
Da (13) si vede bene anche un’altra caratteristica della flessione verbale italiana, e cioè che la scelta
di una desinenza di persona/numero (ad esempio, quella di terza singolare) dipende dalla classe di
flessione cui il verbo appartiene, ma non dal tipo di partizione che il suo paradigma presenta: FINIRE
e VEDERE, i cui paradigmi hanno partizioni diverse, formano la terza persona singolare del presente
indicativo attivo nello stesso modo, seguendo entrambi la regola (13). In (13) le partizioni non sono
specificate perché non svolgono un ruolo nella selezione della desinenza di persona/numero. Si
noterà anche che in (13) la classe di flessione è stata specificata come [classe II]: questa
specificazione segue un modello dell’organizzazione delle classi di flessione del verbo italiano che
non riconosce le tre coniugazioni tradizionali, ma ipotizza che i verbi italiani si raggruppino
essenzialmente in due macroclassi, corrispondenti alla tradizionale prima coniugazione e
all’insieme delle altre: ciascuna macroclasse è poi divisa in diverse sottoclassi. Il fatto che la
desinenza di terza persona singolare del presente indicativo sia uguale in verbi tradizionalmente
considerati della II coniugazione e verbi tradizionalmente considerati della III coniugazione è una
delle prove in favore di questa classificazione alternativa delle classi di flessione del verbo italiano,
che raggruppa queste due coniugazioni in una stessa macroclasse.11
Una regola di realizzazione può anche essere più specifica di (13), nel caso di verbi molto
irregolari: ad esempio, la terza persona singolare del presente indicativo del verbo ESSERE richiede
una regola del tipo di (14):
variabile generica X, dato che non è in uso un sistema di numerazione o di denominazione delle partizioni possibili (ma
per una prima proposta si veda Maiden 2003). Un’altra questione è se la B1 di un verbo italiano contenga o meno la
vocale tematica: su questo punto si hanno pareri diversi (per posizioni opposte si vedano Dressler e Thornton (1991) e
Pirrelli e Battista (2000)); ciascuna delle due scelte possibili ha sia conseguenze positive che conseguenze
indesiderabili, che non possiamo qui esplorare per motivi di spazio; nella formulazione della regola in (11) abbiamo
ipotizzato che la B1 non contenga la vocale tematica.
11
L’ipotesi che la flessione verbale italiana sia organizzata in due macroclassi di flessione si trova in Vincent (1988),
Dressler e Thornton (1991), e Dressler, Kilani-Schoch, Spina e Thornton (2003). In quest’ultimo lavoro è presentata
una classificazione dettagliata delle diverse sottoclassi di ciascuna macroclasse.
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(14)
Verbo [ESSERE] [persona : 3.sg] [tempo : presente] [modo : indicativo] [voce: attivo]: [X]  [è]
Per evitare che al verbo ESSERE si applichi per errore la regola (13), si fa riferimento a una
convenzione ben nota in linguistica, detta “condizione altrove” o “condizione altrimenti” (in inglese
elsewhere condition), o anche “principio di Pānini”. Secondo questo principio, se una regola più
specifica si applica in un contesto che è incluso in quello di una regola più generale, la regola più
specifica ha la precedenza. Tra (14) e (13) il caso è proprio di questo tipo: il contesto di
applicazione di (13) include quello di (14), dato che il verbo ESSERE è un verbo della II classe;
poiché (14) è più specifica di (13) (si applica al solo verbo ESSERE, non a qualunque verbo della II
classe), sarà (14) ad essere applicata per generare la terza persona singolare del presente indicativo
di ESSERE, e non (13).12
Un ultimo tipo di regole di realizzazione che secondo alcuni studiosi devono essere incluse
nell’insieme di regole possibili in un modello a parole e paradigmi sono le regole di rimando
(inglese rules of referral, cfr. Zwicky (1985, p. 372)). Una regola di rimando non descrive
direttamente la realizzazione di una data forma flessa, ma rimanda per la sua generazione alla regola
di realizzazione di un’altra forma, in tutto o in parte.
Vediamo in (15) un esempio di possibile regola di rimando, che potrebbe essere utilizzata per
generare le prime persone plurali del presente indicativo di tutti i verbi italiani:
(15)
Verbo [persona : 1.pl] [tempo : presente] [modo : indicativo] [voce: attivo]:
[X]  Verbo [persona : 1.pl] [tempo : presente] [modo : congiuntivo] [voce: attivo]
La regola (15) permette di esprimere un fatto ben noto, e cioè che la prima persona plurale del
presente indicativo di un verbo italiano è sempre uguale alla prima persona plurale del presente
congiuntivo dello stesso verbo.13 Questa generalizzazione è valida per verbi di ogni classe, e anche
per verbi molto irregolari, quali ESSERE, AVERE, SAPERE, ANDARE.
Tuttavia alcuni studiosi preferiscono non fare ricorso a regole di rimando, perché queste regole
implicano una direzionalità dalla generazione di una forma a quella di un’altra: in (15), la forma del
congiuntivo appare prioritaria rispetto a quella dell’indicativo, mentre una caratteristica del modello
a parole e paradigmi è la pari dignità tra tutte le forme di un paradigma (a differenza, ad esempio, di
un modello a entità e processi, che prevede forme soggiacenti e forme derivate). Quindi chi vuole
evitare il ricorso a regole di rimando propone di formulare generalizzazioni come quella in (15) in
modo non direzionale, come in (16) (cfr. Aronoff, 1994, p. 83):
(16)
[indicativo] = [congiuntivo] / [persona : 1.pl] [tempo : presente] ____
L’applicazione di (13) genererebbe, presumibilmente, una forma come *sie, ammesso che si- possa essere considerata
la B1 del verbo ESSERE. Pirrelli e Battista (2000, p. 338) osservano che le generalizzazioni sulla distribuzione delle basi
nelle partizioni dei paradigmi rendono conto di tutti i verbi italiani ad esclusione di otto verbi estremamente irregolari:
AVERE, ESSERE, ANDARE, DARE, FARE, STARE, DIRE, SAPERE.
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Qusta identità trova spiegazione nel fatto che diacronicamente si è avuto un processo di sostituzione delle forme del
congiuntivo a quelle dell’indicativo: cfr. Vincent (1980).
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