L’ELUSIONE TRIBUTARIA ALLA LUCE DELLA RECENTE GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE E DELLA CORTE DI GIUSTIZIA CE Per elusione fiscale si intende, nell’accezione più elementare, l’aggiramento di una norma tributaria allo scopo di ottenere un risparmio d’imposta, con mezzi e strumenti formalmente ammessi ma “piegati” al solo obiettivo di risparmiare le imposte e che evitano il verificarsi dei presupposti impositivi ovvero determinano il venire ad esistenza di presupposti fiscalmente meno onerosi oppure positivamente vantaggiosi. L’elusione si distingue quindi dall’evasione, che comporta invece l’inadempimento di obblighi o di obbligazioni già sorti essendosi già verificato il presupposto impositivo. Mentre l’evasione è quindi una condotta di per sé lecita, l’evasione è una condotta illecita in quanto violativa delle leggi d’imposta. L’elusione di distingue poi, sull’altro versante, dal risparmio lecito d’imposta. Il confine fra queste due fattispecie è assai labile; cionondimeno, si è tentato di individuare criteri di individuazione del lecito risparmio. Da un lato, nel fatto che la normativa applicata dal contribuente si colloca su un piano di pari dignità con quella che avrebbe potuto essere applicata dando luogo al prelievo fiscale (esempi di questa pari ordinazione e “dignità” degli strumenti giuridici utilizzati e di quelli utilizzabili sarebbero la cessione di azienda rispetto alla cessione di quote, la trasformazione da società di persone in società di capitali e viceversa). Di contro, si dovrebbe parlare di risparmio fiscale “patologico” in tutti i casi in cui il soggetto d’imposta lo consegue attingendo a disposizioni particolari o a norme lacunose e mal formulate, in modo tale da far giudicare l’operazione uno stratagemma e un sotterfugio. Altro criterio sarebbe quello della disapprovazione del sistema, per cui il risparmio d’imposta non sarebbe lecito, e si avrebbe quindi elusione, in tutti i casi in cui tale risultato sia disapprovato dal sistema. E ciò anche se si siano usati strumenti di pari dignità rispetto a quelli “normali” (ad esempio, sono istituzionali e fisiologici i meccanismi che presiedono, da una parte, al riporto delle perdite e, dall’altra, alle cessioni e conferimenti d’azienda. Eppure la cessione di una azienda redditizia ad una società con solo perdite acquistata per l’occasione e al solo scopo di riportare a nuovo le perdite stesse (cd. “bara fiscale”) è senza dubbio disapprovata dal sistema. Nel nostro ordinamento, il contrasto al fenomeno dell’elusione fiscale è stato sempre attuato, sino ad ora, con singoli interventi legislativi su pratiche elusive in atto o potenziali e non a livello generale con l’adozione di norme che puniscano, come in altro ordinamenti, il cd abuso del diritto. Nella materia, si confrontano principi di segno diverso e talora opposto, caratteristici della cultura, della storia e della composizione sociale del nostro Paese. -L’art. 53 della Costituzione afferma solennemente che tutti sono tenuti a concorrere alle pubbliche spese in ragione della loro capacità contributiva. Se dunque il concorso alle pubbliche spese si attua con il prelievo fiscale e se il prelievo fiscale nella forma indiretta è una delle forme ammesse e legittime di prelievo, sembrerebbe consequenziale, soprattutto in materia di iva, che il soggetto d’imposta che pone in essere una cessione o una prestazione di servizi ovvero pone in essere una complessa operazione imponibile mediante il collegamento di più contratti o di più negozi ottenendo il risultato di una cessione di beni o di una prestazione di servizi, concorra alle pubbliche spese in ragione dell’attività posta in essere secondo l’aliquota prevista dalla legge sia quando la sua condotta si traduca in atti, fatti e negozi anche formalmente soggetti a tassazione, sia quando la sua condotta si estrinsechi in atti fatti e negozi formalmente esenti da imposta o assoggettati ad aliquota agevolata ma il cui risultato è, sostanzialmente ed economicamente, il medesimo di quello cui sarebbe pervenuto utilizzando gli atti, i fatti e i negozi formalmente soggetti all’imposta. -Vi è peraltro una generale disistima da parte dei soggetti di imposta e, in genere, degli operatori economici, della propria capacità contributiva, e, per converso, una sovrastima di quella altrui, il che porta ad una caduta delle motivazioni a “concorrere alle pubbliche spese” e a qualificare il prelievo fiscale in genere, o almeno quello superiore ad una certa soglia, come un cinico spoglio attuato da uno Stato “patrigno”. -Da altro lato, ai sensi del’art. 41 Cost., l’iniziativa economica privata è libera (anche se non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale: art. 41 comma 2 Cost.), e nessuno rimprovero può muoversi all’imprenditore o in genere al soggetto d’imposta se decide, nell’espletamento della sua attività e nell’effettuazione delle scelte imprenditoriali, di seguire la via fiscalmente meno onerosa. -Ancora, uno dei pilastri del nostro sistema civilistico è l’autonomia negoziale delle parti, che possono regolare come credono i loro rapporti anche con negozi atipici e con collegamenti negoziali o con negozi indiretti , purchè lo scopo perseguito sia ritenuto dalla legge meritevole di tutela; ed è pacifico che l’elusione è una pratica perfettamente lecita dal punto di vista del diritto civile. Occorre aggiungere che oggi l’economia e i soggetti che vi operano sembrano aver smarrito l’etica. Molti commentatori lamentano che i contenuti etici siano esclusi dai piani di studi delle scuole di alta economia, che additano come ideali soltanto l’interesse personale e i dividendi, lavati o meno, da distribuire agli azionisti. E’ una spiegazione corretta, ma non completa. Insegnare etica nei Master di economa è certamente utile, ma non basta, in quanto l’homo oeconomicus occidentale è impregnato della convinzione che “la cupidigia è giusta”, e che il profitto rimane l’obiettivo primario ed esclusivo dell’impresa. Occorrerebbe perciò inculcare i valori etici fin dalla scuola primaria (e dalle scuole sportive di grado inferiore), insegnando ai più piccoli che la correttezza e l’onestà sono più importanti del successo a qualunque costo e che il fine non giustifica i mezzi. La mancanza di etica nell’economia è comunque un giudizio che non deve essere generalizzato. Sono infatti diffusissimi, ben più di quanto si creda o venga pubblicizzato dai media, comportamenti economicamente virtuosi in materia di economia di comunione, banche e fondi etici, microcredito, ecc. La giurisprudenza della Suprema Corte in materia di elusione fiscale. Sulla liceità dell’elusione e sulla affermata impossibilità, per l’amministrazione finanziaria, di disconoscere atti, fatti, negozi (anche collegati) nel loro aspetto giuridico-formale per recuperare a tassazione la realtà degli effetti economico –sostanziali dai medesimi prodotti, è interessante esaminare Cass. 18.4.2002 n. 5582 resa su ricorso avverso la decisione della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 91/63/97 del 20 ottobre 1997. E’ una sentenza in materia di posti-barca. E’ noto che la diffusione della nautica da diporto ha da tempo posto all'attenzione degli operatori giuridici l'analisi degli strumenti idonei ad assicurare l'utilizzazione di un "posto barca". Tale esigenza è per lo più soddisfatta mediante la stipulazione di uno specifico contratto di scambio che, per quanto non ancora oggetto di una particolare disciplina da parte del legislatore, è ormai sufficientemente delineato nei suoi elementi strutturali e funzionali, i quali implicano, in ogni caso, l'assegnazione, verso corrispettivo, di un delimitato e protetto spazio acqueo antistante la banchina, ma possono prevedere anche la possibilità di usufruire di una serie di servizi collegati all'utilizzazione del natante ormeggiato (Cass. 2 agosto 2000, n. 10 118; 21 ottobre 1994, n. 8657). Ebbene, una società aveva ottenuto in concessione dall'Amministrazione del demanio marittimo, per la durata di cinquant'anni, un tratto di suolo demaniale marittimo in località Lavagna con lo specchio di mare antistante, "allo scopo di costruire e gestire un approdo turistico". L'art. 6 dello statuto era così formulato: "l'azionista avrà diritto, in conformità con quanto previsto dal regolamento, all'assegnazione dei posti ormeggio per imbarcazioni, dei posti parcheggio e/o rimessaggio autovetture ... in rapporto alle azioni da lui possedute, le quali saranno adeguatamente raggruppate nei certificati azionari". I soci della società concessionaria avevano stipulato preliminari di vendita delle proprie azioni con soggetti interessati all'acquisizione dei diritti di utilizzazione dei "posti-ormeggio"; il prezzo di acquisto era stato integralmente versato ai (soci) cedenti; i promissari acquirenti erano stati autorizzati, nel frattempo, ad "occupare per uso personale" i "posti-ormeggio" assegnati dalla società concessionaria "sopportando le spese gestionali"; le operazioni, così configurate, erano state ritenute esenti dall'IVA ai sensi dell'art. 10, n. 4, d.p.r. 633/72, in quanto aventi ad oggetto titoli azionari. L’Amministrazione finanziaria rettificava la dichiarazione annuale presentata dalla società contestandole la mancata fatturazione della cessione dei posti-barca e la conseguente infedeltà della dichiarazione, sostenendo: - che le promesse di vendita dei certificati azionari, poste in essere dai singoli soci, erano in realtà simulate e dissimulavano altrettanti atti di "cessione" di diritti reali di godimento su beni demaniali compiuti dalla società e, come tali, imponibili ai fini IVA ai sensi degli artt. 2 e 11, d.p.r. 633/72; - che la veste giuridica data dalle parti a tali operazioni era inopponibile all'Amministrazione finanziaria, non solo perché non rispondente al loro effettivo intento negoziale, ma anche perché frutto di una scelta effettuata al solo fine di sottrarsi all'applicazione dell'imposta; - che, in ogni caso, la concreta attribuzione del "posto-barca" da parte della società aveva tutti i requisiti per essere considerata quale "assegnazione ai soci" ai sensi dell'art. 2, n.6, d.p.r. 633/72 e, in quanto tale, come operazione imponibile, sia pure ad altro titolo. Replicava il soggetto d’imposta: - che l'assegnazione dei "posti-ormeggio" (o "posti-barca") da parte della società concessionaria aveva natura meramente "ricognitiva" di un'attribuzione perfezionatasi in favore dei singoli soci nel momento dell'acquisto dei titoli azionari; - che, essendo il diritto all'utilizzazione dei "posti-barca" incorporato nei titoli azionari, i singoli soci erano legittimati a disporne mediante il trasferimento dei titoli; - che il corrispettivo della cessione dei titoli azionari era stato percepito dai singoli soci cedenti e non dalla società. La Suprema Corte osservava che l'utilizzazione del posto barca può essere ricollegata, come nel caso di specie, alla titolarità di titoli azionari emessi dalla società concessionaria che ha assunto la gestione del porto turistico, secondo uno schema per molti aspetti analogo a quello della c.d. multiproprietà azionaria, caratterizzata dall'attribuzione, in favore dei singoli soci, del diritto di utilizzare, per una determinata frazione temporale, beni di cui la società resta proprietaria a tutti gli effetti (Cass. 10 maggio 1997, n. 4088; 4 giugno 1999, n. 5494). Ciò in quanto lo schema causale della società è assai elastico e si presta ad essere utilizzato, oltre che per il perseguimento di uno scopo "lucrativo" (e, cioè, di ricavare "utili" dall'esercizio di un'attività economica nei confronti di terzi, destinati poi ad essere ripartiti tra i soci: art. 2247 c.c.), anche per assicurare ai soci la diretta fornitura di beni o di servizi da parte della società (artt. 2511 e 2615, ter, c.c.). In quest'ultimo caso il socio non si limita a partecipare allo svolgimento dell'attività comune, ma assume anche il ruolo di destinatario dei beni e dei servizi alla cui offerta è finalizzato l'esercizio dell'attività sociale. Appunto per questo, in detta ipotesi, la sua posizione si arricchisce di contenuti - (come, ad es., il diritto di poter utilizzare beni appartenenti al patrimonio sociale e l'obbligo di provvedere al versamento di somme di denaro ulteriori in aggiunta a quelle oggetto di conferimento) estranei alla disciplina delle società "lucrative", nelle quali il ruolo del socio è solo quello di partecipante all'impresa sociale. Quindi, ben possono i rapporti relativi alla utilizzazione dei c.d. "posti-barca" essere ricollegati alla titolarità di azioni emesse dalla società di gestione del porto, con la conseguenza che il diritto era stato acquisito dai singoli soci in via originaria al momento dell'acquisto delle azioni e che, pertanto, la loro concreta assegnazione, da parte della società, non assumeva la natura e gli effetti di atto "traslativo" di un bene ricompreso nel patrimonio sociale, ma di atto "dovuto" di (mera) Individuazione" dell'oggetto di diritti già sorti in capo ai singoli soci, in quanto inerenti alle azioni da essi possedute. In conclusione, quindi, la Cassazione riteneva; -che l’amministrazione finanziaria aveva svolto le sue difese in modo poco coerente, invocando due differenti imotivi di inopponibilità (da un lato, aveva eccepito che le promesse di vendita dei certificati azionari, poste in essere dai soci della società cessionaria, erano simulate e nascondevano una cessione di beni demaniali o un’assegnazione ai soci, dall’altro sosteneva che si trattava di atti e negozi di natura elusiva e per tale ragione inopponibili all’Amministrazione). -che della pretesa simulazione non era stata fornita alcuna prova; -e che non era possibile riconoscere all’'Amministrazione il potere di riqualificare i contratti posti in essere dalle parti, assoggettandoli ad un trattamento fiscale diverso e meno favorevole di quello che sarebbe stato altrimenti applicabile; potere che, come la Corte aveva in reiterate occasioni statuito, avrebbe potuto essere riconosciuto solo in presenza di norme che tale possibilità espressamente prevedessero (Cass. 9 maggio 1997, n. 4064, 28 luglio 2000, n. 9944; 3 settembre 2001, n. 11351). Identico orientamento palesava Cass. Sez. 5, Sentenza n. 11351 del 03/09/2001, secondo cui “prima dell'entrata in vigore dell'art. 37 - bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, introdotto dall'art. 7 del D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, - che con disposizione, non avente efficacia retroattiva, ha attribuito all'Amministrazione Finanziaria ampio potere di disconoscere, a fini antielusivi, gli effetti degli atti compiuti dal contribuente al fine di beneficiare di un trattamento fiscale più vantaggioso - detta amministrazione non aveva il potere di riqualificare i contratti posti in essere dalle parti, prescindendo dalla volontà concretamente manifestata dalle stesse, per assoggettarli ad un trattamento fiscale meno favorevole di quello altrimenti applicabile, neppure in virtù degli artt. 1344 e 1418 cod. civ., che sanciscono la nullità dei contratti che costituiscono "il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa". Tali disposizioni, infatti, considerano l'illiceità quale causa di nullità e non di conversione del contratto in frode alla legge nel contratto che costituisce presupposto per l'applicazione della norma, che le parti intendevano eludere; inoltre le norme tributarie, essendo poste a tutela di interessi pubblici di carattere settoriale e non ponendo, in linea di massima, divieti, pur essendo inderogabili, non possono qualificarsi imperative, presupponendo tale qualificazione che la norma abbia carattere proibitivo e sia posta a tutela di interessi generali, che si collochino al vertice della gerarchia dei valori protetti dall'ordinamento giuridico”. Il caso nasceva perché una società di leasing aveva posto in essere operazioni di locazione finanziaria nelle quali le prestazioni normalmente a carico del concedente erano poste a carico di due diverse società, scorporando gli obblighi di carattere finanziario da quelli più specificamente riferite alla concessione in godimento del bene, imputandole a due diverse società dello stesso gruppo; le prestazioni di carattere finanziario consistevano, in particolare, nel garantire, con una cauzione pari al costo del bene non coperto dai canoni anticipati e con una fideiussione illimitata, l'adempimento degli obblighi dell'utilizzatore verso la società concedente, per un corrispettivo versato anticipatamente dall'utilizzatore al momento della stipulazione del contratto di leasing. L’amministrazione finanziaria osservava che tali pattuizioni, anche se collocate in contratti distinti stipulati tra soggetti diversi, rappresentavano, dal punto di vista funzionale e strutturale, elementi tipici del contratto di locazione finanziaria e, come tali, costituivano costituendo parte integrante di un unico contratto trilaterale; e che risultato pratico di questa (artificiosa) scissione era stata la riduzione della base imponibile, mediante l'imputazione delle componenti del corrispettivo riferite alla parte "finanziaria" ad una diversa società che le aveva fatturate in esenzione, ai sensi dell'art. 10, nn. 1 e 9, d.p.r. 633/72, quali prestazioni di finanziamento e di garanzia. Il ricorso proposto dalla società era accolto dalla Commissione tributaria di primo grado, la quale osservava che l'articolazione della complessa operazione in due contratti tra loro collegati rispondeva a valide ragioni economiche ed era quindi pienamente efficace anche sotto il profilo fiscale, dovendosi escludere che essa fosse stata adottata per scopi elusivi. L'appello dell'Ufficio era respinto dalla Commissione tributaria di secondo grado. Nè diverso era l'orientamento manifestato dalla Corte d'Appello di Bologna che respingeva l'ulteriore impugnazione avanzata dall'Amministrazione. La Suprema Corte ha osservato che è indubbio che la qualificazione di un contratto non dipende dal nomen iuris eventualmente adottato dalle parti, dovendo il suo inquadramento in uno piuttosto che in altro schema "giuridico" essere effettuato sulla base di quanto disposto dalla legge e, quindi, in termini rigorosamente obbiettivi. Ma è altrettanto certo che tale inquadramento deve essere correlato alla "comune intenzione" dei contraenti, accertata alla stregua dei criteri stabiliti dagli artt.1362 e segg. c.c., se del caso anche sulla base di elementi estrinseci (Cass. 6 maggio 1991, n. 4994; 9 aprile 1991, n. 3726) e tenendo conto di situazioni complesse, caratterizzate dal collegamento di più fattispecie negoziali (Cass. 14 aprile 1998, n. 3791): se così non fosse, le parti verrebbero, infatti, ad essere vincolate da effetti giuridici privi di ogni collegamento con la loro volontà, in contrasto con il principio di autonomia privata, il quale implica che, nei limiti imposti dalla legge, tali soggetti abbiano il potere di liberamente determinare il contenuto del contratto (art. 1322 c.c.) e che gli effetti giuridici siano congruenti con lo scopo da essi perseguito. La Suprema Corte escludeva quindi che l'Amministrazione finanziaria potesse, nella fattispecie, determinare la natura di un contratto come un unico contratto trilatero e non come più contratti collegati, prescindendo dalla volontà concretamente manifestata dalle parti e in contrasto con essa. Nè valeva osservare, in contrario, che l'art. 20, d.p.r. 26 aprile 1986, n. 131, stabilisce che ogni atto sottoposto a registrazione va tassato "secondo la sua intrinseca natura e gli effetti giuridici", ancorché non corrispondenti "al titolo e alla forma apparente, perché tale disposizione (che non assume, comunque, il valore di una clausola generale, essendo specificamente riferita all'imposta di registro) si limita a stabilire che l'imposta deve essere applicata sulla base di quanto risulta dall'atto sottoposto a registrazione, e non autorizza quindi a ritenere che ai fini della sua qualificazione possa prescindersi dalla "comune intenzione" dei contraenti. Nè, per altro verso, valeva richiamarsi agli artt. 1344 e 1418 c.c. che sanciscono la nullità dei contratti che costituiscono "il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa". Non è sufficiente, infatti, che una norma sia inderogabile perché possa essere sia qualificata come "imperativa", essendo a tal fine necessario che essa sia di carattere proibitivo e sia posta, altresì, a tutela di interessi generali che si collochino al vertice della gerarchia dei valori protetti dall'ordinamento giuridico (Cass. 8 novembre 1995, n. 11598). Caratteri, questi, certamente non ravvisabili nelle norme tributarie, in quanto esse sono poste a tutela di interessi pubblici di carattere settoriale e, in linea di massima, non pongono divieti, ma assumono un dato di fatto quale indice di capacità contributiva (Cass. 5 novembre 1999, n. 12327; 8 novembre 1995, n. 11598; 19 giugno 1981, n. 4024). Del resto, le disposizioni del codice civile considerano l'illiceità quale causa di nullità e non di conversione del contratto in frode alla legge in quello che costituisce presupposto per l'applicazione della norma che le parti intendevano eludere: resta così confermato, anche sotto tale ulteriore profilo, che neppure tali norme offrono argomenti per giustificare l'attribuzione all'Amministrazione finanziaria del potere di riqualificare i contratti posti in essere dalle parti al fine di beneficiare di un trattamento fiscale più vantaggioso. Concludeva quindi la Suprema Corte che il potere di disconoscere, ai fini tributari, gli effetti degli atti compiuti dal contribuente è stato riconosciuto per la prima volta, in modo espresso, dal legislatore con l'art. 10, legge 29 dicembre 1990, n. 408, con la quale si consentì all'Amministrazione finanziaria di "disconoscere i vantaggi tributari conseguiti in operazioni di fusione, concentrazione, trasformazione, scorporo e riduzione di capitale, poste in essere senza valide ragioni economiche e allo scopo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta". Tale norma ha visto il suo ambito di applicazione progressivamente ampliarsi fino ad essere assorbito in quello dell'art. 7, dlgs. 8 ottobre 1997, n. 358, che ha introdotto l'art. 37 bis nel d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600. In altre decisioni in materia di Iva, fin dal 1991(Cass. 3726/91) la Suprema Corte aveva peraltro superato l’impostazione sopra palesata.In particolare, aveva richiamato e ritenuto applicabile l'art. 8 del R.D. 30.12.1923 n. 3269, considerato un principio di portata generale, secondo cui "le tasse sono applicate secondo l'intrinseca natura degli atti o dei trasferimenti, se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente" (cfr. ora anche art. 19 D.P.R. 634-1972 e art. 20 D.P.R. 26.4.1986 n. 131). Inoltre, aveva osservato che lo stesso concetto di "imponibilità dell'operazione” di cui agli art. 1 e ss. del D.P.R. 633-1972 richiama l'attenzione sull'intento perseguito dalle parti e cioè, in ultima analisi, sulla funzione economico-sociale in concreto assegnata all'atto. Anche in precedenza, in altra fattispecie (Cass. Sez. 1 n. 4987 del 1998), il dato formale-giuridico è stato superato dalla Cassazione in ragione degli effetti economico-sostanziali avuti di mira e conseguiti dai soggetti di imposta, con conseguente riqualificazione dell’operazione posta in essere dal soggetto d’imposta. Il caso si origina da una articolata operazione mediante la quale una società, con il ricorso all'istituto giuridico del conferimento di cui all'art. 2342 c.c., aveva ceduto n. 32.929 capi di bovini del valore di stima pari a lire 52.742.000, nonché debiti connessi all'acquisto per lire 52.206.552.605, ad una società agricola, acquisendo il 41,66% del relativo capitale sociale (pari a L. 500.000.000). Con il conferimento la conferente aveva conseguito un credito IVA di lire 10.020.980.000 (quella pagata all'acquisto) mentre la società agricola aveva conseguito nell'ambito successivo - vantaggi tributari per l'ammontare di L. 6.479.039.189. L'Ufficio IVA, sul presupposto che con l'operazione si fosse effettuata, in sostanza, una cessione di beni con relativo obbligo di fatturazione e assoggettamento ad IVA - omessi nella specie, in quanto ritenuti non dovuti ex art. 2 DPR 633/72, notificava avviso di rettifica, accertando un minor credito di imposta di lire 10.020.980.000 e comminando sanzioni, oltre ad accessori. La Commissione Tributaria di primo grado respingeva il ricorso della società, avendo considerato il conferimento - atto non soggetto ad IVA - simulato per dissimulare il passaggio dei bovini dalla conferente alla conferitaria nell'ambito di un rapporto di commissione - atto soggetto ad IVA concluso fra i suddetti enti anche per l'acquisto del bestiame, come poi per la vendita. La società sosteneva che il conferimento era atto reale e realmente voluto, in quanto utile per conseguire le dichiarate finalità economiche (concentrarsi sulla macellazione facendo ricorso, per l'allevamento da poco intrapreso, alla conferitaria società agricola e, sul piano fiscale, meno oneroso di una cessione. Sostanzialmente, ammetteva la natura elusiva di tutta l'operazione ma ribadiva l'assenza, all'epoca dei fatti, di norme antielusione di carattere generale. La Commissione Tributaria Regionale riteneva a) nella specie le parti intendevano raggiungere lo scopo di un trasferimento o cessione degli animali da soggetto commerciale in regime ordinario, che avrebbe potuto portare integralmente in detrazione l'Iva assolta e chiederne il rimborso, a soggetto operante in regime speciale agricolo, che come tale avrebbe in sede di vendita riscosso l'Iva quantificando la detrazione in modo forfetario, ai sensi dell'art. 34 comma 1, D.P.R. n.633/1972; b) il conferimento non aveva riguardato solo beni, i bovini, ma ha anche sostanzialmente ricompreso delle passività, e cioè in gran parte lo stesso debito per l'acquisto, riducendo il valore del conferimento stesso al risultato della somma algebrica, pari a L. 500.000.000; c) il conferimento de quo ai fini della applicazione della norma fiscale, non era l'intero valore dei beni in natura, ma solo il netto ricavo dell'operazione, vale a dire l'importo effettivamente iscritto in bilancio a tale titolo; d) la ordinaria definizione di conferimento non prevede il trasferimento di una passività, quale appunto il prezzo d'acquisto del bene o di altri debiti; e) è lo stesso dato normativo ad escludere che il conferimento cui si riferisce l'art. 2 lett. b) del D.P.R. n. 633 sia quello comprensivo di attività e passività f) per l'importo di L.500.000.000, pari al controvalore della parte di bovini conferiti in cambio della quota di capitale sociale acquisito, non v'è dubbio che si tratti di conferimento ricadente sotto la previsione dell'art.2 lett.e) citato, e come tale escluso dalla imposizione IVA e soggetto invece all'imposta di registro; g) a conclusioni esattamente opposte si deve pervenire per la qualificazione della parte di beni nominalmente conferiti, ma il cui valore viene ad essere annullato dai debiti di importo corrispondente passati in capo alla società conferitaria, non essendo per questa parte il conferimento altro che una cessione onerosa dalla società a quella agricola,cessione onerosa il cui corrispettivo è costituito proprio dall'accollo di debiti di valore corrispondente operato dalla società cessionaria; h) ne consegue quindi l'assoggettabilità ad IVA della operazione di conferimento dei bovini per la parte eccedente il capitale di L. 500.000.000 conferito, vale a dire per L.52.200.000. Ribadiva la società, nel ricorso per cassazione, che la legittimità dell'atto di conferimento non poteva essere sindacata attraverso nessuna delle norme antielusive esistenti (art. 10 della legge n. 408 del 1990, art. 20 del DPR n. 131 del 1986 e art. 37 del DPR n. 600 del 1973), mentre mancava nel diritto tributaria una norma generale antielusiva, sicché l'Amministrazione finanziaria non poteva riqualificare operazioni o semplici negozi ritenendo di far prevalere la sostanza economica degli effetti prodotti dagli atti sulla forma rivestita da questi. Anzitutto La Suprema Corte, con riferimento all'affermazione, contenuta nella decisione impugnata, secondo cui l'ordinaria definizione di conferimento non preveda il trasferimento di una passività, riteneva che il conferimento di beni in una società non muta la sua natura quando esso comporti anche il trasferimento di passività. Tale trasferimento assume carattere di normalità nei casi di conferimento di azienda, che implica di per sè la coesistenza di attività e passività e, quindi, la successione della società conferitaria nei debiti facenti capo al precedente titolare dell'azienda, ma la situazione non cambia quando le passività ineriscano ad un conferimento in società di beni che non costituiscono un'azienda. Tanto premesso, osservava, però, che nella specie la conclusione cui era pervenuta la Commissione Regionale - e cioè che il trasferimento dei bovini dalla società ricorrente alla società agricola fosse configurabile, ai fini fiscali, per la sua quasi totalità, come una cessione di beni e non come un conferimento in società – era rettamente fondata sulle particolari caratteristiche che aveva assunto l'operazione in questione, ed in particolare sul rapporto esistente tra il valore dei beni trasferiti ed i debiti accollati a seguito del trasferimento. La Commissione Regionale aveva ben osservato che non è ammissibile dal punto fiscale la possibilità di trasferire beni, in esenzione di IVA, conferendoli unitamente a debiti, quali il loro prezzo di acquisto, di importo quasi pari al valore dei beni conferiti. In tal modo con il simbolico conferimento "netto" di una lira potrebbero in realtà cedersi beni del valore di miliardi, con il semplice accorgimento di accompagnarli al contestuale trasferimento di partite debitorie idonee a sostanzialmente annullarne il valore. In realtà, il conferimento in questione era da ritenersi "simbolico" proprio in conseguenza del suddetto rapporto tra bovini ceduti e passività trasferite, consistenti in debiti per l'acquisto degli stessi bovini, e doveva quindi dedursi che esso, in effetti, aveva dato luogo ad una cessione onerosa di beni, il cui corrispettivo era costituito dall'accollo dei debiti da parte della società agricola. In conclusione la Suprema Corte, considerato: -che effettivamente il valore dei debiti trasferiti rappresentava il 99 per cento circa del valore dei beni ceduti e riguardava passività relative all'acquisto degli stessi beni; -che a siffatto elemento, già di per sè altamente significativo, andavano aggiunte le particolarità dell'intera operazione quali: - il risultato complessivo dell'operazione, unitariamente considerata, sotto il profilo del regime dell'IVA allora applicabile, rispettivamente, alla società ricorrente ed alla società agricola; - il quasi immediato trasferimento, a distanza di 17 giorni, da parte della società della quota acquisita nella società agricola a terzi- il fatto che i bovini oggetto del conferimento non abbiano mai subito spostamenti fisici e siano, anzi, rimasti nelle stesse stalle, i cui proprietari erano dapprima depositari della società ricorrente e, quindi, soccidari di quella agricola; -che si trattava di un complesso di circostanze rivelatrici di aspetti non coerenti con le finalità di un conferimento di beni in società, destinato a dotare la medesima di mezzi opportuni per lo svolgimento dell'attività economica programmata; -che ciò giustificava sul piano logico e giuridico le conseguenze che ne ha tratte la Commissione Regionale, e cioè che nella specie vi era stata una cessione di beni dalla società ricorrente alla società agricola, come tale da assoggettare ad IVA. Fortemente innovativa è la decisione di Cass. Sez. 5, Sentenza n. 10352 del 05/05/2006, secondo cui “In tema di IVA, nell'ordinamento comunitario, in base all'art. 17 della direttiva CEE 17 maggio 1977, n. 388, e, quindi, anche in quello interno (cfr. la pronuncia del 21 febbraio 2006, resa dalla Corte di Giustizia CE, in causa C - 419 - 2002), deve considerarsi in ogni caso vigente (anche a prescindere dall'applicabilità "ratione temporis" di norme interne antielusive, quale quella introdotta dall'art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973) il principio di indetraibilità dell'IVA assolta in corrispondenza di comportamenti abusivi, volti cioè a conseguire il solo risultato del beneficio fiscale, senza una reale ed autonoma ragione economica giustificatrice delle operazioni, che, perciò, risultano eseguite in forma solo apparentemente corretta ma, in realtà, sostanzialmente elusiva. Il principio del cd. abuso del diritto, di matrice ed applicazione comunitaria, viene quindi esplicitamente recepito dalla Corte. La fattispecie era costituita dalla rettifica operata dall’ufficio Iva nei confronti di una società che aveva la titolarità di un solo immobile, che aveva proceduto alla sua ristrutturazione assolvendo l’Iva sugli acquisti e sulle prestazioni ricevute per poi vendere l’immobile ristrutturato ad un socio portando in detrazione l’Iva pagata per la ristrutturazione. Con l'avviso di rettifica l'Ufficio sosteneva il carattere elusivo dell'attività di acquisto e vendita dell'immobile, in quanto dirette a portare in detrazione l'Iva assolta con la ristrutturazione dell'immobile. La Suprema Corte riteneva che - in tema di IVA - un'operazione economica isolata, compiuta da una società commerciale, non diretta al mercato, quand'anche l'atto costitutivo o lo statuto sociale prevedano che il sodalizio possa compiere operazioni di acquisto, ristrutturazione, vendita e locazione d'immobili, di per sè sola non può valere a dare consistenza ad un'attività imprenditoriale capace di giustificare l'inerenza dell'operazione passiva all'attività svolta, salvo che la società dimostri o che l'operazione, apparentemente singola, non sia isolata e che sia inserita in una specifica attività imprenditoriale, oppure che essa s'inserisca in una attività immobiliare vera e propria, così che - in ambedue i casi - sia destinata, almeno in prospettiva, a generare un lucro in proprio favore. Il soggetto d’imposta ha eccepito che mancava una clausola antielusiva, all'epoca dei fatti oggetto della controversia, nel nostro ordinamento giuridico, ma la Corte ha ritenuto irrilevante la circostanza, richiamando la precedente sentenza n. 22932 del 2005 e affermando che, nella disciplina anteriore all'entrata in vigore del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis introdotto dal D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, art. 7, pur non esistendo nell'ordinamento fiscale italiano una clausola generale antielusiva, non poteva negarsi l'emergenza di un principio tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale. La Suprema Corte ha fatto riferimento, sul punto, ad una pronuncia del 21 febbraio 2006 (il riferimento è piuttosto impreciso, in quanto cita la causa C-0419-2002 mentre il principio è stato enunciato in relazione alle coeve decisioni sulle cause 255/02 e 223/03) della Corte di Giustizia delle Comunità europee, che chiarisce che la 6Halifax direttiva CEE n. 77/388/CEE, direttamente applicabile in quello nazionale, aggiunge alla tradizionale bipartizione dei comportamenti tenuti dai contribuenti in tema di Iva, fra quello fisiologico e quello patologico (proprio delle frodi fiscali), il primo idoneo a consentire una piena detraibilità dell'imposta assolta ed il secondo la sua assoluta indetraibilità, una sorta di tertium genus, in dipendenza del comportamento abusivo ed elusivo del contribuente, comportante il recupero dell'Iva detratta e l'eventuale rimborso in favore del soggetto che abbia posto in essere l'operazione elusiva. La Cassazione conclude che, pertanto, nell'ordinamento comunitario e, quindi, anche in quello interno deve considerarsi vigente il principio di indetraibilità dell'Iva (art. 17 della citata direttiva n. 77/388/CEE) assolta in corrispondenza di comportamenti abusivi, volti cioè a conseguire il solo risultato del beneficio fiscale, senza una reale ed autonoma ragione economica giustificatrice delle operazioni economiche che, perciò, risultano eseguite in forma solo apparentemente corretta ma, in realtà, sostanzialmente elusiva; che la valutazione del carattere abusivo ed elusivo dell'operazione economica svolta dal contribuente è giudizio spettante al giudice del merito il quale è tenuto a darne conto con una motivazione adeguata e logica; Come si vede, qui i supremi giudici abbandonano i tentativi di giustificare gli accertamenti fiscali anti elusione con singole disposizioni delle leggi d’imposta (quali l’art. 8 RD 3269/23, effettivamente di ardua applicazione) ovvero sulla scorta di disposizioni codicistiche civili sulla nullità della causa dei contratti o sulla sua illiceità, ma si spingono ad affermare l’esistenza, nel nostro diritto interno, di un principio generale anti elusione, quanto meno in materia di iva. Il caso nasce da un avviso di rettifica, relativo al periodo di imposta 1990, notificato ad una società a responsabilità limitata, con il quale l’allora ufficio iva negava la detrazione dell’imposta pagata sugli acquisti da tale società in base all’art. 19 del DPR 633/72. Secondo l’Ufficio, la società non aveva realizzato lo scopo sociale poiché la stessa aveva acquistato un solo immobile, ristrutturato e venduto ad un suo socio con il fine esclusivo di detrarre l’Iva assolta con la ristrutturazione. La società ricorreva alla Commissione provinciale e poi a quella regionale, ma entrambi i giudici ritenevano fondato l’avviso di rettifica, osservando che in cinque anni, l’attività della società si era limitata all’acquisto di un solo immobile e questo, dopo la ristrutturazione, era stato ceduto ad un socio. La Suprema Corte ha confermato la pronuncia d merito, appunto affermando -che un'operazione economica isolata, compiuta da una società commerciale per meri scopi di fruire di un beneficio fiscale, non diretta al mercato, quand'anche l'atto costitutivo o lo statuto sociale prevedano che il sodalizio possa compiere operazioni di acquisto, ristrutturazione, vendita e locazione d'immobili, di per sè sola non può valere a dare consistenza ad un'attività imprenditoriale capace di giustificare l'inerenza dell'operazione passiva all'attività svolta, salvo che la società dimostri o che l'operazione, apparentemente singola, non sia isolata e che sia inserita in una specifica attività imprenditoriale, oppure che essa s'inserisca in una attività immobiliare vera e propria, così che - in ambedue i casi - sia destinata, almeno in prospettiva, a generare un lucro in proprio favore; -che non rileverebbe la pretesa mancanza di una clausola antielusiva, all'epoca dei fatti oggetto della controversia, nel nostro ordinamento giuridico, essendo inapplicabile retroattivamente la disciplina dell’art. 37 bis DPR 600/73 introdotta dal D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, art. 7, in quanto, come sottolineato anche dalla precedente sentenza n. 22932 del 2005, , pur non esistendo nell'ordinamento fiscale italiano una clausola generale antielusiva, non potrebbe negarsi l'emergenza di un principio tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale. La Suprema corte coglie l’occasione per riaffermare la diretta applicabilità nel diritto interno delle direttive comunitarie. Nel caso in esame, troverebbe quindi immediata e diretta applicazione nell’ordinamento italiano la direttiva 77/388/CEE che sancisce il principio di in detraibilità dell’Iva assolta in corrispondenza di comportamenti abusivi, volti cioè a conseguire il solo risultato del beneficio fiscale, senza una reale ed autonoma ragione economica giustificatrice delle operazioni economiche che, perciò, risultano eseguite in forma solo apparentemente corretta ma in realtà sostanzialmente elusiva. (Ad avviso di chi scrive, malgrado vada sempre più affermandosi, nella giurisprudenza di legittimità, il principio della diretta applicabilità nell’ordinamento nazionale delle direttive comunitarie, anche se pregiudizievoli per il singolo, nel caso di specie non vi erano, a rigori, gli estremi per ravvisare un ‘ipotesi di direttiva autoapplicativa o self-executing, proprio in ragione della mancata specificità dispositiva e del carente dettaglio normativo della direttiva in questione). Da ultimo, con ordinanza n. 12301 del 24.5.2006, la quinta sezione tributaria della Cassazione ha investito della questione le Sezioni unite. Tale sollecito di intervento peraltro, non deriva da un contrasto giurisprudenziale interno o esterno alla sezione, ma riguarda la corretta identificazione della elusione fiscale. Nell’ordinanza, infatti, si chiede ai Collegi riuniti di individuare in modo sistematico i caratteri tipici del fenomeno elusivo, elaborando dei principi che, diversamente da quanto avvenuto sino ad ora, siano in grado di essere utilizzati e applicati universalmente, prescindendo dal caso concreto di volta in volata sottoposto al vaglio di legittimità della Suprema Corte. A cui spetterà quindi l’arduo compito di determinare gli aspetti peculiari del fenomeno elusivo e di tracciare i suoi labili confini con il lecito risparmio d’imposta cui tutti gli operatori tendono. La giurisprudenza comunitaria Gli orientamenti della giurisprudenza della Corte di Giustizia CE emergono chiaramente dalle tre recenti sentenze rese nella cause C-255/02, C-419/02 e C-223/03 e di cui dianzi si è trattato. Le tre controversie hanno ad oggetto operazioni realizzate allo scopo di conseguire un beneficio fiscale in termini di diritto alla deduzione dell’Iva. La Corte si è pronunciata, in primo luogo, sul quesito se operazioni effettuate al solo scopo di rendere possibile il recupero dell’imposta assolta possano costituire un’”attività economica” nel senso dell’art. 4 comma 2 della sesta direttiva (ricordiamo che si tratta della Direttiva del Consiglio 1l 17.5.1977 n. 777388/CEE in materia di armonizzazione degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto:base imponibile uniforme) In secondo luogo, la Corte ha risposto al quesito se sia possibile applicare la dottrina sull’”abuso del diritto” nell’ambito dell’imposta sul valore aggiunto per respingere domande di deduzione dell’Iva avanzate dai soggetti all’imposta. L’avvocato Generale ha rassegnato le proprie conclusioni con atto presentato il 7.4.05, in cui esamina approfonditamente ed esaurientemente i vari aspetti delle questioni. 1-Sul quesito se operazioni effettuate al solo scopo di rendere possibile il recupero del’imposta assolta possano costituire un’”attività economica”, ricordiamo che l’art. 4 comma 2 della sesta direttiva definisce “attività economiche” tute le attività di produttore, di commerciante o di prestatore di servizi. Nella causa 255/02, una banca (Halifax), specializzata in servizi finanziari eSenti da Iva, intendeva costruire dei call-centers su quattro terreni presi in locazione o di sua proprietà. I suoi fiscalisti elaborarono un piano che permetteva alla banca di recuperare la quasi totalità dell’iva sui lavori di costruzione; ciò coinvolgendo altre società del gruppo, una delle quali (LPDS) fungeva da intermediaria per l’acquisizione dei terreni e per coordinare l’appalto delle costruzioni, mediante un cospicuo finanziamento della Halifax (esente da Iva), altra ancora (CWPI) aveva l’incarico di occuparsi dei vari appalti con i singoli costruttori e professionisti indipendenti. I Commisioners (Uffici fiscali del Regno Unito) respingevano le richieste di rimborso Iva per 7 milioni di sterline presentata dalla LPDS (corrispondenti all’importo addebitatole dalla CWPI per eseguire i lavori edilizi sui terreni) e quelle formulate dalla CWPI (relativamente all’Iva pagata sulle prestazioni dei vari costruttori indipendenti). Ritenevano che, di fatto, le uniche vere prestazioni di servizi di costruzione erano state effettuate dai costruttori indipendenti direttamente in favore della Halifax, e che un’operazione, qualunque fosse la sua natura, condotta al solo fine di eludere l’applicazione dell’Iva, non costituisse un atto compiuto nell’ambito di una attività economica”. Conseguentemente, assumevano che né gli obblighi assunti dalla LPDS nei confronti della Halifax né gli obblighi di costruzione assunti dalla CWPI nei confronti della LPDS rappresentavano “cessioni” o “prestazioni” nel senso della Sesta direttiva. La Halifax, la LPDS e la CWPI impugnavano il rigetto avanti al VAT (Value Added Tax) and Duties Tribunal di Londra, che respingeva i ricorsi poi, restituitale la causa dalla High Court of Justice of England, sottoponeva alla corte di Giustizia CEE i quesiti di cui sopra. Nella causa 419/02, una società inglese che si occupava della gestione di ospedali privati e di fornire ai medesimi farmaci e protesi (attività in cui pagava l’Iva sugli acquisti a monte di farmaci e protesi ma non a valle sulle forniture ai suoi clienti, soggette ad aliquota pari a zero), allo scopo di eludere una normativa di assoggettamento all’Iva di tali operazioni che il Regno Unito si accingeva ad adottare, nel periodo compreso tra l’annuncio di tali norme e la loro entrata in vigore, stipulava accordi di pagamento anticipato che neutralizzavano l’impatto della nuova legge sulla sua posizione finanziaria. L’idea era di acquistare, pagandone in anticipo il prezzo, una gran quantità di farmaci e protesi con il risultato che, anche se le merci fossero state specificate e consegnate dopo l’abolizione del regime dell’aliquota zero, non sarebbe stata addebitata l’iva, trattandosi di beni pagati mentre ancora sussisteva il diritto al rimborso dell’imposta assolta. Il fornitore da pagare in anticipo veniva individuato in una società del gruppo, mentre altre due società del medesimo gruppo concludevano accordi di pagamento anticipato uguali ma contrari. I Commissioners rifiutavano di autorizzare la deduzione Iva e, dopo il vano ricorso al VAT and Duties Tribunal di Londra, il giudice di appello sottoponeva alla Corte di Giustizia i quesiti di cui sopra. Nella causa C-223/03, un’Università aveva progettato di ristrutturare due edifici di cui aveva la disponibilità per svolgere servizi didattici esterni e i suoi fiscalisti elaborarono alcuni piani per permetterle di recuperare l’intero importo dell’Iva sui lavori di ristrutturazione attraverso una serie di operazioni che coinvolgevano altre e distinte persone giuridiche. Anche in questo caso, i Commissioners, negando la deduzione dell’imposta assolta sui lavori edilizi ricevuti, liquidavano l’imposta secondo l’aliquota di legge, osservando che un’operazione realizzata al solo scopo di evadere o eludere l’iva non poteva considerarsi un’attività economica nel senso voluto dalla sesta direttiva, che essa non costituiva cessione di beni o prestazione di servizi ai sensi della predetta normativa comunitaria e che, in subordine, si trattava di operazione che non poteva essere presa in considerazione nella sua formale natura giuridica perché concretante un abuso del diritto e che invece occorreva fare riferimento alla sua vera natura giuridica, e applicare la sesta direttiva. Il VAT and Duties Tribunal di Manchester, investito della questione, chiedeva lumi alla Corte di Giustizia CE su tali tre aspetti. La Corte ha risposto ai giudici nazionali come segue: 1-quanto alla nozione di attività economica, ha stabilito che, per i principi di neutralità del sistema comune e di certezza del diritto (in forza del quale l’applicazione della normativa comunitaria deve essere prevedibile per coloro che vi sono sottoposti), che tale nozione è in tutto e per tutto oggettiva, e prescinde dallo scopo e dai risultati avuti di mira dai soggetti. 2-Così anche per le cessioni e le prestazioni di servizi, che vanno valutate nella loro oggettività senza tenere conto dei motivi, scopi e ragioni , cioè degli stati soggettivi, dei contribuenti che le hanno poste in essere (ricordiamo che, ai sensi dell’art. 4 comma 2 dela Sesta direttiva, sono “attività economiche” tutte le attività di produttore, di commerciante e di prestatore di servizi” e che, termini dell’art. 5 comma 1, si considera cessione di un bene il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario; mentre, ex art. 6 comma 1, si considera prestazione di servizi ogni operazione che non costituisce cessione ai sensi dell’art. 5 comma 1). 3-Circa la nozione di abuso, la Corte ha individuato due parametri per accertare pratiche abusive e quindi elusive, il primo dato dalla sussistenza di un insieme di circostanze oggettive dalle quali risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla norma comunitaria, l’obiettivo perseguito dalla normativa non è stato raggiunto; il secondo, dato da un elemento soggettivo consistente nella volontà di ottenere un vantaggio derivante dalla normativa comunitaria mediante la creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento. Ad avviso della Corte, pertanto, si configurerebbe un principio interpretativo del diritto comunitario in genere, e della normativa in materia di Iva in particolare, nel senso di contrastare ogni forma di abuso del diritto. Del resto, anche in precedenti controversie, l’Avvocato Generale aveva sostenuto che “ogni ordinamento che aspiri ad un minimo di completezza deve contenere delle misure, per così dire, di autotutela al fine di evitare che i diritti da esso attribuiti siano esercitati in maniera abusiva, eccessiva o distorta. 4-Circa la questione particolare sollevata nella causa C-419/02, la Corte ha statuito che il pagamento di un acconto per beni imprecisati o solo genericamente indicati in un elenco dal quale il compratore può scegliere in futuro uno o alcuno o nessuno di essi e in circostanze in cui l’acquirente può risolvere unilateralmente il contratto in qualsiasi momento e recuperare l’importo versato, non può ritenersi un “pagamento di acconti anteriore alla cessione o alla prestazione di servizi” ai sensi dell’art. 10 n. 2 della Sesta direttiva (che fa riferimento invece al pagamento di acconti per beni e servizi specificati e individuati) e non rende pertanto l’imposta esigibile all’atto dell’incasso dell’acconto stesso. Dopo aver esaminato gli orientamenti pregressi e attuali della Suprema corte di Cassazione e della corte di Giustizia Europea, occorre esaminare, per concludere, la situazione normativa oggi esistente. Ricordiamo che sino al 1998, a differenza di altri ordinamenti, in cui esisteva già una norma generale anti elusione, nel nostro ordinamento si è sempre privilegiata l’adozione di misure di contrasto speciali, che colpivano cioè precise operazioni elusive. Ora l’art. 37 bis DPR 600/73, introdotto dal D.lgs 398797, stabilisce che: “1. sono inopponibili all'amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti. 2. l'amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi tributari conseguiti mediante gli atti, i fatti e i negozi di cui al comma 1,applicando le imposte determinate in base alle disposizioni eluse, al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all'amministrazione. 3. le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano a condizione che, nell'ambito del comportamento di cui al comma 2, siano utilizzate una o più delle seguenti operazioni: a) trasformazioni, fusioni, scissioni, liquidazioni volontarie e distribuzioni ai soci di somme prelevate da voci del patrimonio netto diverse da quelle formate con utili; b) conferimenti in società, nonché negozi aventi ad oggetto il trasferimento o il godimento di aziende; c)cessioni di crediti; d) cessioni di eccedenze d'imposta; e) operazioni di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 544, recante disposizioni per l'adeguamento alle direttive comunitarie relative al regime fiscale di fusioni, scissioni, conferimenti d'attivo e scambi di azioni; f) operazioni, da chiunque effettuate, incluse le valutazioni, aventi ad oggetto i beni e i rapporti di cui all'articolo 81, comma 1, lettere c), c -bis) e c -ter), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del presidente della repubblica 22 dicembre 1986, n. 917; f bis) cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate tra i soggetti ammessi al regime della tassazione di gruppo di cui all’art. 117 del tuir; f ter) pagamenti di interessi e canoni di cui all’art. 26 quater qualora detti pagamenti siano effettuati a soggetti controllati direttamente o indirettamente da uno o piu’ soggetti non residenti in uno stato dell’unione europea. 4. l'avviso di accertamento è emanato, a pena di nullità, previa richiesta al contribuente anche per lettera raccomandata, di chiarimenti da inviare per iscritto entro 60 giorni dalla data di ricezione della richiesta nella quale devono essere indicati i motivi per cui si reputano applicabili i commi 1 e 2. 5. fermo restando quanto disposto dall'articolo 42, l'avviso d'accertamento deve essere specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alle giustificazioni fornite dal contribuente e le imposte o le maggiori imposte devono essere calcolate tenendo conto di quanto previsto al comma 2. 6. le imposte o le maggiori imposte accertate in applicazione delle disposizioni di cui al comma 2 sono iscritte a ruolo, secondo i criteri di cui all'articolo 68 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, concernente il pagamento dei tributi e delle sanzioni pecuniarie in pendenza di giudizio, unitamente ai relativi interessi, dopo la sentenza della commissione tributaria provinciale. 7. i soggetti diversi da quelli cui sono applicate le disposizioni dei commi precedenti possono richiedere il rimborso delle imposte pagate a seguito dei comportamenti disconosciuti dall'amministrazione finanziaria; a tal fine detti soggetti possono proporre, entro un anno dal giorno in cui l'accertamento è divenuto definitivo o è stato definito mediante adesione o conciliazione giudiziale, istanza di rimborso all'amministrazione, che provvede nei limiti dell'imposta e degli interessi effettivamente riscossi a seguito di tali procedure. 8. le norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d'imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall'ordinamento tributario, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi. A tal fine il contribuente deve presentare istanza al direttore regionale delle entrate competente per territorio, descrivendo compiutamente l'operazione e indicando le disposizioni normative di cui chiede la disapplicazione. Con decreto del ministro delle finanze da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988 n. 400, sono disciplinate le modalità per l'applicazione del presente comma.." I requisiti richiesti per l’applicazione della norma in esame possono così indicarsi: 1-anzitutto, deve trattarsi di atti, fatti e negozi inquadrabili in una delle operazioni previste dalla norma. L’elencazione di cui al comma 3 deve considerarsi tassativa, in quanto si tratta di norma fiscale speciale e/o eccezionale, non suscettibile di interpretazione analogica; 2-poi, deve trattarsi di atti, fatti, negozi, anche collegati tra loro, “diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi altrimenti indebiti”. Si tratta di requisito avente caratteristiche miste, oggettive e soggettive, nel senso che la finalità di “aggiramento” delle norme dell’ordinamento tributario costituiscono lo scopo della condotta elusiva, sono quindi espressione della volontà elusiva del soggetto d’imposta, ma devono estrinsecarsi in elementi obiettivi, senza rimanere nel foro interno del soggetto stesso, e pervenire al risultato del risparmio d’imposta. La volontà di conseguire un vantaggio fiscale deve quindi tradursi in uno o più fra gli atti, fatti e negozi previsti dal comma 3 che risultino “aggiranti”, l’aggiramento deve essere effettivo e il risparmio di imposta reale ed economicamente apprezzabile. 3-ai suindicati elementi positivi va aggiunto l’imprescindibile elemento negativo costituito dalla “assenza di valide ragioni economiche”, requisito sul quale si tornerà nel prosieguo. Solo in presenza di tutti e tre questi requisiti, si verifica l’effetto previsto dalla norma, cioè la non opponibilità all’amministrazione finanziaria degli atti, dei fatti e dei negozi, anche collegati, posti in essere dal soggetto d’imposta. E quindi solo al ricorrere di tutte e tre queste condizioni la stessa Amministrazione potrà disconoscere i vantaggi tributari conseguiti mediante gli atti, i fatti, i negozi di cui sopra ed all’applicazione delle imposte determinate in base alle disposizioni eluse (ovviamente, al netto di quanto pagato dal contribuente sulla base degli atti, fatti e negozi posti in essere). Deve essere sottolineato che la norma di cui all’art. 37 bis DPR 600/73 non richiede né prevede, quale elemento necessario per concretizzare una fattispecie di elusione, l’anormalità degli atti o della concatenazione di atti né il cd. abuso delle forme giuridiche che in altri ordinamenti (es., in quello tedesco) ha da sempre costituito l’elemento qualificante dell’elusione. Anche se l’aggiramento da cui deve essere oggettivamente connotata la condotta del soggetto d’imposta implica inevitabilmente un uso anomalo degli strumenti civilistici impiegati, e cioè o nell’impiego di atti o negozi tipici in funzione atipica o nell’utilizzazione di negozi e contratti atipici ovvero, ancora, nel collegamento di negozi tipici e/o atipici per finalità atipiche e quindi aggiranti. Riservando ad altra sede l’analisi più approfondita degli elementi sopra elencati, è importante sottolineare che la norma dell’art. 37 bis DPR 600/73 non può quindi essere considerata una norma generale antielusiva, in quanto il comma 1, di portata generale, va combinato con il disposto del comma 3, e quindi la fattispecie è circoscritta ad atti, fatti, negozi, in definitiva a operazioni comunque individuate e tassativamente elencate. Anzi, l’ultimo comma contiene una disposizione “generale” di segno opposto. Precede infatti il comma 8 che “ le norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d'imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall'ordinamento tributario, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi. a tal fine il contribuente deve presentare istanza al direttore regionale delle entrate competente per territorio, descrivendo compiutamente l'operazione e indicando le disposizioni normative di cui chiede la disapplicazione." Da ultimo, appaiono essenziali alcune considerazioni di ordine procedimentale. A-L’accertamento ex art. 37 bis DPR 600/73 è nullo se non è preceduto da una richiesta formale di chiarimenti al contribuente in cui devono essere indicati i motivi per cui si reputano applicabili i commi 1 e 2 (inopponibilità degli atti alla p.a. e disconoscimento dei vantaggi conseguiti); B-l’accertamento deve contenere, oltre a tutti gli elementi di cui all’art. 42 dpr 600773, anche – a pena di nullità – una specifica motivazione in relazione alle giustificazioni fornite dal contribuente in esito alla richiesta di cui al punto A. Queste previsioni di ordine formale e sostanziale dimostrano, da un lato, l’estrema cautela del legislatore nel consentire agli uffici di avvalersi della norma anti elusione ma, da altro lato, sembrano introdurre in modo surrettizio una sorta di inversione dell’onere della prova, nel senso che toccherebbe al soggetto d’imposta, autore di atti, fatti, negozi ecc. contemplati dal comma 3, fornire giustificazioni (implicanti necessariamente deduzione di circostanze, produzione di documenti, richiami a leggi d’imposta e/o a norme prevedenti agevolazioni, deduzioni, ecc.,) circa la mancanza della finalità di aggiramento e della esistenza di valide ragioni economiche nelle operazioni poste in essere e su cui si è incentrata l’attività accertativa dell’amministrazione. Deve allora essere ben chiaro che nelle fattispecie di cui all’art. 37 bis DPR 600/73, come anche in tutte le altre ipotesi in cui nessuna legge ponga presunzioni iuris tantum o iuris et de iure a favore dell’erario, l’onere della prova della condotta elusiva rimane pur sempre a carico dell’amministrazione, che riveste la qualità di attore sostanziale nel processo tributario. Di conseguenza, in caso di silenzio del contribuente a fronte della raccomandata di richiesta di chiarimenti, non soltanto non potrà ricavarsi alcun elemento negativo o di sfavore in danno del soggetto d’imposta, ma incomberà pur sempre all’ufficio, anzitutto, di motivare adeguatamente l’atto impositivo e poi, in sede contenziosa, di provare tutti gli estremi della condotta elusiva. In difetto, la Commissione tributaria dovrà annullare l’accertamento. Torino, 15 febbraio 2007 Paolo Roggero