DUE GIORNI DI QUARESIMA 2009
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ALLEGATI
 SABATO POMERIGGIO
- “Ripartiamo da Dio!”, lettera pastorale di alla Chiesa di Milano del card. Carlo Maria Martini: il
cardinale immagina un dialogo con san Paolo.
“Vorrei anzitutto dialogare con te, Paolo apostolo, che nella lettera ai Galati e in quella ai Romani
proponi il vangelo della Grazia, un radicale ripartire da Dio. Perché questa insistenza? quali
destinatari avevi davanti? di che cosa avevano bisogno?
Paolo: “Avevo davanti a me due tipi di destinatari. Da una parte mi rivolgevo a quei figli della
Legge che erano tentati di prenderla come totalità rassicurante, quella che oggi chiamereste una
“ideologia pratica”. È una mentalità che induce a pensare che nel “fare” certe cose e nel farle
“proprio così” ci sia la chiave di tutto. Erano tentati di presunzione, della pretesa di possedere in
qualche modo il mistero. Ad essi ricordavo che il Dio di Abramo è il Dio che liberamente promette
senza nostro previo merito e che il senso della vita sta nel perdutamente affidarsi al Suo mistero
santo. Questo mistero è insondabile e non può essere imprigionato nei nostri schemi, non dipende
dalle nostre osservanze, non è legato ai nostri principi retributivi. “O profondità della ricchezza, della
sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!”
(Rom 11,33).
Dall’altra parte mi rivolgevo ai pagani di quei tempi: erano “soli”, senza Dio, con tante divinità,
numerose quanto inutili. La loro tentazione era l’ingordigia delle gioie presenti, da cui l’apatia,
l’insensibilità, lo sbriciolarsi del senso della vita in mille cose inconcludenti. Ad essi volevo richiamare
l’esigenza di unificare l'esistenza sull’orizzonte ultimo, di fondare la dignità e la bellezza delle cose
penultime e quotidiane nell’ultimo orizzonte e nell'ultima Patria. Non si può vivere di maschere o di
piccoli idoli: occorre misurarsi sull’Oltre, su quel Mistero assoluto che ci intimorisce e ci attrae, di cui
dolore e morte sono come sentinelle. Ma essi avevano “cambiato la verità di Dio con la menzogna” e
avevano “adorato la creatura al posto del creatore” (Rom 1,25)”.
Chiedo a Paolo: “Ritieni che queste due tentazioni siano ancora presenti in noi, perfino nella
nostra Chiesa?”
Paolo: “Rileggete attentamente le mie lettere e vedrete che parlano di voi.
Parlano in primo luogo a voi che vi sentite tranquillamente dentro la Chiesa. Date per scontato
quel punto di partenza che è il primato di Dio e vi affidate sovente a un dio che è opera della vostra
fantasia e non l’al di là di essa, l’al di là di ogni cosa che può essere pensata o immaginata. Vi fate
delle sicurezze con pratiche umane, anche religiose, con gesti e preghiere. Volete sempre trovare la
chiave risolutiva dei problemi religiosi e pastorali che vi assillano, così da possederla e adoperarla a
piacere. Se parlate di “programmazione” è per sentirvi a posto, per poter accusare altri e magari Dio
stesso dei vostri insuccessi. Questo non è mettere al primo posto Dio e la sua gratuità! Questo è fare
di Dio uno strumento della propria realizzazione umana e pastorale! Perché non lasciate spazio alle
“sorprese” di Dio?
Le mie lettere parlano inoltre a chi ricerca evasioni per non pensare seriamente al suo futuro e
al senso globale della sua vita. Denuncio la povertà e l’insufficienza di molte esistenze che si credono
“piene”. Chi non adora il Dio che è al di là di ogni cosa, è schiavo degli idoli. Occorre ripartire dal
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Mistero indicibile, riprendere in mano con la Sua grazia il significato totale della propria esistenza: e
questo è possibile!”.
- “Conversazioni Notturne a Gerusalemme, sul rischio della fede” Carlo Maria Martini, Georg
Sporschill
Vi sono anche momenti in cui se la prende con Dio?
Le mie difficoltà non hanno riguardato la sfera del quotidiano, quanto piuttosto un grande
interrogativo: non riuscivo a capire perché Dio lascia soffrire suo Figlio sulla croce. Perfino da
vescovo, a volte, non riuscivo ad alzare lo sguardo verso il crocifisso perché questa domanda mi
tormentava. Me la prendevo con Dio.
La morte continua a esistere, tutti gli esseri umani devono morire. Perché Dio lo vuole? Con la morte
di suo Figlio avrebbe potuto risparmiare la morte agli altri uomini.
Soltanto in seguito un concetto teologico mi è stato di aiuto nel mio travaglio: senza la morte non
saremmo in grado di dedicarci completamente a Dio. Terremmo aperte delle uscite di sicurezza, non
sarebbe vera dedizione. Nella morte, invece, siamo costretti a riporre la nostra speranza in Dio e a
credere in lui. Nella morte spero di riuscire a dire questo sì a Dio.
Noi cristiani crediamo che tutto sia creato per amore: ma allora da dove viene il male? Perché c’è
tanta sofferenza?
Se osservo il male nel mondo, esso mi toglie il respiro. Capisco chi ne deduce che non esista alcun
Dio. Soltanto quando contempliamo il mondo per quello che è con gli occhi della fede può cambiare
qualcosa. La fede suscita l’amore, porta a battersi per gli altri. Dalla dedizione, mal-grado la
sofferenza, nasce la speranza.
A volte, a posteriori, sentiamo che il male risveglia nell’uomo energie positive. Considero parte del
male le circostanze che portano all’esistenza di bambini di strada, senzatetto e richiedenti asilo, che
sembrano non avere posto nel mondo. Sono “peccati del mondo” anche le catastrofi naturali, che
falciano migliaia di persone. Ho constatato più volte, tuttavia, che proprio questo male risveglia
molte forze positive. I giovani si svegliano e affermano: voglio aiutare! In questo caso il male tira
fuori il meglio dalle persone. Non è una spiegazione soddisfacente, ma intuiamo che dalla sofferenza
possiamo imparare molto.
Nessun essere umano può rispondere all’interrogativo sull’origine del male, se non per
approssimazione: Dio ha donato all’uomo la libertà. Non vuole dei robot, degli schiavi, ma dei
collaboratori. Collaboratori che rispondono alle proposte con un “sì” o con un “no”, che amano
oppure non amano, senza costrizione.
Con la libertà, tuttavia, nascono pure le difficoltà. Puoi dire di “no” anche all’amore di Dio, anche al
bene. Quando Dio dice: “Ho bisogno dite, ti chiamo”, gli uomini possono rispondere: “Non voglio,
preferisco qualcosa di diverso, il denaro, un rapido appagamento”. Così alcuni rendono infelici altri
e, alla fine, anche se stessi. E questo lo definiamo il male che viene dalla libertà. Non sempre gli
uomini usano la loro libertà per il bene. Possono distruggere altre persone, l’ambiente o se stessi.
Se ci trovassimo di fronte a questa scelta: vogliamo persone che non possono fare nulla di male e
non sono libere (robot o schiavi), oppure vogliamo uomini liberi, che amano, che possono dire “sì” o
“no”, la mia risposta sarebbe: ringrazio Dio per la libertà, con tutto il rischio che comporta. L’amore
viene dal mistero che Dio ci prenda sul serio come partner. La nostra risposta all’amore di Dio
richiede un duro lavoro.
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- H. J. Nouwen: Sentirsi Amati, pag 78-80
La seconda risposta al nostro “essere spezzati” è di porlo sotto la benedizione. Per me porre il nostro
“essere spezzati” sotto benedizione è una condizione a priori per favorirlo. Infatti, se è così
spaventoso da affrontare è perchè lo viviamo sotto la maledizione. Vivere il nostro “essere spezzati”
sotto la maledizione significa che sperimentiamo il dolore come una conferma dei sentimenti
negativi che abbiamo verso noi stessi. È come dire: “ho sempre sospettato di essere inutile e
indegno e adesso ne sono sicuro a causa di ciò che mi sta succedendo.” C’è sempre in noi qualcosa
che ricerca una spiegazione per ciò che accade nelle nostre vite e, se abbiamo già ceduto alla
tentazione di un rifiuto di noi stessi, allora ogni forma di sventura tende ad acuirlo. Quando
perdiamo un membro della nostra famiglia o un amico a causa della morte, quando siamo
disoccupati, quando veniamo bocciati ad un esame, quando passiamo attraverso una separazione o
un divorzio, quando scoppia una guerra, quando un terremoto distrugge la nostra casa o ci
danneggia, la domanda che sorge spontanea è “Perchè?”, “perchè a me?”, “perchè adesso?”,
“perchè qui?”. È talmente difficile vivere senza dare una risposta a questi “perchè”, che siamo
facilmente tentati di collegare i fatti, di cui non abbiamo il controllo, alle nostre valutazioni, consce o
inconsce. Quando abbiamo maledetto noi stessi o abbiamo permesso agli altri di farlo, si è davvero
tentati di spiegare tutte le situazioni in cui sperimentiamo il fatto di “essere spezzati”, come
espressione o conferma di questa maledizione. Prima ancora di rendercene conto abbiamo già detto
a noi stessi: “vedi? Hai sempre pensato di non essere buono... adesso lo sai per certo. I fatti della vita
te lo dimostrano.”
La grande chiamata spirituale degli Amati Figli di Dio sta nell’allontanare il loro “essere spezzati”
dall’ombra della maledizione e di metterlo sotto la luce della benedizione. Non è così facile come
può sembrare. Attorno a noi i poteri dell’oscurità sono forti e il nostro mondo trova più facile
manipolare le persone che rifiutano se stesse, che quelle che si accettano. Ma quando restiamo
attentamente all’ascolto della voce che ci chiama Amati, vivere con il nostro “essere spezzati”
diventa possibile, non come una conferma della nostra paura di essere indegni, ma come una
opportunità di purificare e approfondire la benedizione che è su di noi. [...] Così il grande compito
diventa quello di consentire alla benedizione di raggiungerci nel nostro “essere spezzati”. Allora,
esso verrà gradualmente visto come una apertura verso la piena accettazione di noi stessi come
Amati.
- Etty Hillesum, Diario 1941-1943, pag.209
Una cosa è certa: non potrò mai scrivere le cose come la vita le ha scritte per me, in caratteri viventi.
Ho letto tutto, con i miei occhi e con tutti i miei sensi, ma non saprò mai raccontarlo allo stesso
modo. Potrei anche disperarmi per questo, se non avessi imparato che dobbiamo accettare le nostre
forze insufficienti, però con queste forze dobbiamo veramente lavorare.
- Jean Vanier, La Comunità
Nella nostra epoca in cui le città sono spersonalizzate e spersonalizzanti, molti ricercano la comunità,
soprattutto quando si sentono soli, stanchi, deboli e tristi. Per alcuni essere soli è insopportabile; è
un inizio di morte. La comunità appare allora meravigliosa come luogo di accoglienza e di
condivisione. Ma, da un altro punto di vista, la comunità è un luogo terribile. È il luogo della
rivelazione dei nostri limiti e dei nostri egoismi. Quando comincio a vivere per tutto il tempo con
altre persone, scopro la mia povertà e le mie debolezze, la mia incapacità di intendermi con alcuni, i
miei blocchi, la mia affettività o la mia sessualità turbata, i miei desideri che sembrano insaziabili, le
mie frustrazioni, le mie gelosie, i miei odii e le mie voglie di distruggere. Finché ero solo potevo
credere di amare tutti; adesso, stando con altri, mi rendo Conto di quanto sono incapace di amare,
di quanto rifiuto la vita agli altri. E se sono incapace di amare, che cosa resta di buono in me? Non
c'è più che tenebra, disperazione e angoscia. L'amore è un'illusione. Sono condannato alla solitudine
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e alla morte.
La vita comunitaria è la rivelazione penosissima dei limiti, delle debolezze e delle tenebre del mio
essere; è la rivelazione spesso inattesa dei mostri nascosti in me. Ora questa rivelazione è difficile da
accettare. Si cerca presto di allontanare questi mostri, o di nasconderli di nuovo, di pretendere che
non esistano; oppure si fuggono la vita comunitaria e le relazioni con gli altri; o ancora si accusano
loro e i loro mostri.
Ma se si accetta che questi mostri ci siano, si possono lasciare uscire e imparare a domarli. È la
crescita verso la liberazione.
Se siamo accolti con i nostri limiti, e anche con le nostre opacità, la comunità diventa a poco a poco il
luogo della liberazione; scoprendo di essere accettati e amati dagli altri, ci si accetta e ci si ama
meglio. La comunità è allora il luogo in cui si può essere se stessi senza paura né costrizione. Così la
vita comunitaria si approfondisce nella mutua fiducia dei membri. È allora che questo luogo terribile
diventa luogo di vita e di crescita. Non c'è nulla di più bello di una comunità in cui si cominci ad
amarsi realmente e ad avere fiducia gli uni negli altri. «Com'è bello e dolce che i fratelli vivano
insieme; è come 1'olio che scorre sulla barba di Aronne» (Sal 133, 1-2). (...)
La vita comunitaria è il luogo in cui si scopre la profonda ferita del proprio essere e in cui s'impara ad
accettarla. Si può allora cominciare a rinascere. Sì, noi siamo nati a partire da questa ferita.
-
Una vita da mediano, Ligabue
Una vita da mediano
a recuperar palloni
nato senza i piedi buoni
lavorare sui polmoni
una vita da mediano
con dei compiti precisi
a coprire certe zone
a giocare generosi
lì
sempre lì
lì nel mezzo
finchè ce n'hai stai lì
una vita da mediano
da chi segna sempre poco
che il pallone devi darlo
a chi finalizza il gioco
una vita da mediano
che natura non ti ha dato
nè lo spunto della punta
nè del 10 che peccato
lì
sempre lì
lì nel mezzo
finchè ce n'hai stai lì
stai lì
sempre lì
lì nel mezzo
finchè ce n'hai
finche ce n'hai
stai lì
una vita da mediano
da uno che si brucia presto
perché quando hai dato troppo
devi andare e fare posto
una vita da mediano
lavorando come Oriali
anni di fatica e botte e
vinci casomai i mondiali
lì
sempre lì
lì nel mezzo
finchè ce n'hai stai lì
stai lì
sempre lì
lì nel mezzo
finchè ce n'hai
finchè ce n'hai
stai lì
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 SABATO SERA
- Etty Hillesum, Diario 1941-1943. Ed. Adelphi 2004. Estratto da pp. 169-170
Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che
mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una
cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie
preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la
sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso
promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi
aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa
che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te
in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri
uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa fare molto per modificare le circostanze attuali ma
anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a
dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi
aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi. Esistono persone che
all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento
– invece di salvare te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di
innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi
prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia.
Comincio a sentirmi un po’ più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te. Discorrerò con
te molto spesso, d’ora innanzi, e in questo modo ti impedirò di abbandonarmi. Con me vivrai anche
tempi magri, mio Dio, tempi scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io
continuerò a lavorare per te e a esserti fedele e non ti caccerò via dal mio territorio.
- Elie Wiesel, La notte. Ed. Giuntina, 2003, p.66
(L’autore è stato internato nel campo di concentramento di Auschwitz nella primavera del 1944)
Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell’appello: tre corvi
neri. Appello. Le S.S. intorno a noi con le mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia. Tre
condannati incatenati, e fra loro il piccolo pipel (ragazzino), l’angelo dagli occhi tristi.
Le S.S. sembravano più preoccupate, più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo davanti a migliaia
di spettatori non era affare da poco. Il capo del campo lesse il verdetto. Tutti gli occhi erano fissati
sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra. L’ombra della forca lo copriva.
Il Lagerkapo si rifiutò questa volta di servire da boia.
Tre S.S. lo sostituirono.
I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti
contemporaneamente nei nodi scorsoi.
- Viva la libertà! – gridarono i due adulti.
Il piccolo, lui, taceva.
- Dov’è il Buon Dio? Dov’è? – domandò qualcuno dentro di me. (…)
E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:
- Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…
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- La segnaletica del Calvario, don Tonino Bello
Miei cari fratelli, sulle grandi arterie, oltre alle frecce giganti collocate agli incroci, ce ne sono ogni
tanto delle altre, di piccole dimensioni, che indicano snodi secondari. Ora, per noi che corriamo
distratti sulle corsie preferenziali di un cristianesimo fin troppo accomodante e troppo poco
coerente, quali sono le frecce stradali che invitano a rallentare la corsa per imboccare l’unica
carreggiata credibile, quella che conduce sulla vetta del Golgota? Ve ne dico tre. Ma bisogna fare
attenzione, perché si vedono appena.
La freccia dell’accoglienza.
E’ una deviazione difficile, che richiede abilità di manovra, ma che porta dritto al cuore del Crocifisso.
Accogliere il fratello come un dono. Non come un rivale. Un pretenzioso che vuole scavalcarmi. Un
possibile concorrente da tenere sotto controllo perché non mi faccia le scarpe. Accogliere il fratello
con tutti i suoi bagagli, compreso il bagaglio più difficile da far passare alla dogana del nostro
egoismo: la sua carta d’identità! Si, perché non ci vuole molto ad accettare il prossimo senza nome,
o senza contorni, o senza fisionomia. Ma occorre una gran fatica per accettare quello che è iscritto
all’anagrafe del mio quartiere o che abita di fronte a casa mia. Coraggio! Il Cristianesimo è la
religione dei nomi propri, non delle essenze. Dei volti concreti, non degli ectoplasmi. Del prossimo in
carne ed ossa con cui confrontarsi, e non delle astrazioni volontaristiche con cui crogiolarsi.
La freccia della riconciliazione.
Ci indica il cavalcavia sul quale sono fermi, a fare autostop, i nostri nemici. E noi dobbiamo
assolutamente frenare. Per dare un passaggio al fratello che abbiamo ostracizzato dai nostri affetti.
Per stringere la mano alla gente con cui abbiamo rotto il dialogo. Per porgere aiuto al prossimo col
quale abbiamo categoricamente deciso di archiviare ogni tipo di rapporto. E’ sulla rampa del
perdono che vengono collaudati il motore e la carrozzeria della nostra esistenza cristiana. E’ su
questa scarpata che siamo chiamati a vincere la pendenza del nostro egoismo ed a misurare la
nostra fedeltà al mistero della croce.
La freccia della comunione.
Al Golgota si va in corteo, come ci andò Gesù. Non da soli. Pregando, lottando, soffrendo con gli altri.
Non con arrampicate solitarie, ma solidarizzando con gli altri che, proprio per avanzare insieme, si
danno delle norme, dei progetti, delle regole precise, a cui bisogna sottostare da parte di tutti. Se
no, si rompe qualcosa. Non il cristallo di una virtù che, al limite, con una confessione si può anche
ricomporre. Ma il tessuto di una comunione che, una volta lacerata, richiederà tempi lunghi per
pazienti ricuciture. Il Signore ci conceda la grazia di discernere, al momento giusto, sulla
circonvallazione del Calvario, le frecce che segnalano il percorso della Via Crucis. Che è l’unico
percorso di salvezza.
 TESTI GENERALI PER LA RIFLESSIONE
- “La mia forza si manifesta compiutamente nella debolezza” (2Cor 12,9), Luciagnese Cedrone,
Centro Studi USMI
Oggi da più parti si leva il tentativo di rimuovere dall’esperienza ordinaria, o per lo meno di
nascondere, tutto ciò che evidenzia la dimensione debole dell’esistenza, da cui invece nasce la
solidarietà. Si è instaurato e diffuso il modello del più forte, del vincente ad ogni costo, di chi si fa
strada senza sottilizzare sui mezzi. D’altra parte tutti vorremmo trattare le nostre ferite nel modo
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migliore; far sì che non rimangano più, in noi e intorno a noi, punti vulnerabili e debolezze. E’ però
un’illusione, perchè la realtà dell’uomo è proprio la debolezza e non la forza; e manifestazione
lampante ne è la morte.
In tale contesto, il carico di esperienze sofferte non sempre diventa sapienza o si traduce in
un’assimilazione più essenziale e viva del vangelo.
L’esperienza e le parole di Paolo ci guidano a riscontrare che nulla di ciò che è autenticamente
umano è estraneo da ciò che è profondamente religioso e a riflettere sulla debolezza - come persone
di questi nostri tempi - non per farne una lettura semplicistica, quasi ad enfatizzarla come valore in
sé, o in un atteggiamento dallo sfondo masochistico; ma per leggerla come condizione umana
condivisa da Cristo; per viverla come prova Sua e, nel farne esperienza, conoscere perciò anche la
Sua forza. Per chi crede in Lui, niente è più fondamentale del Suo ‘fallimento’. E’ questa una
dimensione della debolezza che può trovare senso solo nella comunione con Cristo Gesù e con il
Padre di cui egli è il volto umano con e per noi.
Prima di tutto allora, per Paolo come anche per noi, c’è un evento: Gesù di Nazaret, crocifisso e
risorto, partecipe in tutto della condizione creaturale e totalmente solidale con la nostra debolezza,
fino all’estremo di una morte infamante e terribilmente dolorosa.
C’è il Padre che non si manifesta a noi nell’affermazione spettacolare della forza, ma esprime la Sua
potenza salvifica nella condivisione solidale della nostra debolezza. Un mistero che ha bisogno di
essere compreso, nella misura del possibile e con la luce che viene dalle Scritture.
Ci aiuta Paolo, che coglie la fragilità come momento essenziale della condizione umana esposta
perciò alla sofferenza, al limite, alla tentazione del peccato, alla morte; e nello stesso tempo
riconosce che essa non è la parola definitiva sul destino dell’umanità. Una relazione viva, infatti,
un’amicizia reale con il Signore Gesù porta la persona ad affidare a Lui, nel quotidiano, la propria
esistenza; a sentire nella propria debolezza la Sua forza. E in questo rapporto di reciproca comunione
con Lui - che costituisce l’identità stessa dell’uomo - si dischiude la prospettiva di partecipare alla
Vita piena in comunione con Dio.
Può esserci di consolazione l’esperienza che Paolo ha fatto della sua debolezza: «Mi vanterò ben
volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo… Quando sono debole, è
allora che sono forte» (2Cor 12,9).
Le cose non dipendono solo dalle mie forze, perché lo Spirito agisce anche per mezzo delle mie
debolezze; questo però avviene se là dove sono debole, io divento permeabile alla Sua azione. Se mi
baso infatti sui miei punti di forza nel vivere, rischio sempre di appoggiarmi sul mio io, di muovermi
dietro la spinta interiore del fare e di fare del mio io il centro del mondo.
L’importante, quindi, non è vincere le proprie debolezze, o controllarle con successo, ma,
assumendo la fragilità che appartiene ad ognuno da sempre, trovare in sé quella forza che si
alimenta alla fonte che, in noi, non inaridisce mai: lo Spirito di Dio.
A volte ci priviamo della forza che ci deriva dall’entrare nelle sofferenze di Cristo perché di fronte ad
esse chiudiamo gli occhi, non ci fermiamo per guardarle in faccia, per esempio nel colloquio con Lui.
Così esse rimangono in noi come corpi estranei, non vengono interiorizzate e non sono quindi
integrate nel nostro cammino.
Cristiani (e consacrati per primi) sono chiamati ad essere portatori della verità del Crocifisso risorto,
dove appare che il senso della vita sta nell’uscire da sé, affidarsi all’Altro e, in sintonia con Lui nel
quotidiano concreto, dare la vita, prolungando così nello spazio e nel tempo il mistero d’amore di
Cristo e rilanciando la propria esistenza in un orizzonte di speranza.
Fuggire dal dolore non guarisce, ci ricorda Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi al n. 37 e la misura
dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e con il sofferente. Il che
vale per il singolo come per la società.
Allora non si tratta di elaborare una “mistica del limite”, ma di scoprire che la fragilità rivela una
dimensione essenziale dell’uomo e della sua vera identità: quella dell’essere figlio e non creatore di
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se stesso, frutto di una grazia che l’ha preceduto e che gli chiede di affidarsi.
La vocazione della Chiesa e in essa dei consacrati è dunque mostrare la grandezza di Dio nella
piccolezza, umiliante a volte, dei suoi membri; è annunciare il Suo amore onnipotente accettando
anche di apparire sterili e insignificanti agli occhi del mondo.
Cristo ha messo in conto la nostra debolezza, anche la più sgradita e incomprensibile. È questa la
riflessione che Paolo ci consegna e ci chiede di trasformare in vita. Occorre saperlo. Sapendolo, si è
più forti, non più deboli. Si è più forti non perché più bravi, ma perché più veri.
- “Il Papa, San Paolo e la Teologia della Croce”, Udienza Generale di Benedetto XVI, decima
puntata
Dedicata alla teologia della Croce in San Paolo la catechesi di oggi di Benedetto XVI. "Non vivere per
noi ma vivere nella fede in Dio che ci ha amato e ha dato se stesso per noi" è l'esortazione di
Benedetto XVI. "Anche noi – ha concluso – dobbiamo trovare la forza proprio nell'umiltà dell'amore e
la saggezza nella debolezza" entrando così "nella saggezza di Dio".
Cari fratelli e sorelle,
nella personale esperienza di san Paolo c'è un dato incontrovertibile: mentre all'inizio era stato un
persecutore ed aveva usato violenza contro i cristiani, dal momento della sua conversione sulla via di
Damasco, era passato dalla parte del Cristo crocifisso, facendo di Lui la sua ragione di vita e il motivo
della sua predicazione. La sua fu un’esistenza interamente consumata per le anime (cfr 2 Cor 12,15),
per niente tranquilla e al riparo da insidie e difficoltà. Nell’incontro con Gesù gli si era reso chiaro il
significato centrale della Croce: aveva capito che Gesù era morto ed era risorto per tutti e per lui
stesso. Ambedue le cose erano importanti; l’universalità: Gesù è morto realmente per tutti, e la
soggettività: Egli è morto anche per me. Nella Croce, quindi, si era manifestato l'amore gratuito e
misericordioso di Dio. Questo amore Paolo sperimentò anzitutto in se stesso (cfr Gal 2,20) e da
peccatore diventò credente, da persecutore apostolo. Giorno dopo giorno, nella sua nuova vita,
sperimentava che la salvezza era ‘grazia’, che tutto discendeva dalla morte di Cristo e non dai suoi
meriti, che del resto non c’erano. Il “vangelo della grazia” diventò così per lui l'unico modo di
intendere la Croce, il criterio non solo della sua nuova esistenza, ma anche la risposta ai suoi
interlocutori. Tra questi vi erano, innanzitutto, i giudei che riponevano la loro speranza nelle opere e
speravano da queste la salvezza; vi erano poi i greci che opponevano la loro sapienza umana alla
croce; infine, vi erano quei gruppi di eretici, che si erano formati una propria idea del cristianesimo
secondo il proprio modello di vita.
Per san Paolo la Croce ha un primato fondamentale nella storia dell’umanità; essa rappresenta il
punto focale della sua teologia, perché dire Croce vuol dire salvezza come grazia donata ad ogni
creatura. Il tema della croce di Cristo diventa un elemento essenziale e primario della predicazione
dell’Apostolo: l'esempio più chiaro riguarda la comunità di Corinto. Di fronte ad una Chiesa dove
erano presenti in modo preoccupante disordini e scandali, dove la comunione era minacciata da
partiti e divisioni interne che incrinavano l'unità del Corpo di Cristo, Paolo si presenta non con
sublimità di parola o di sapienza, ma con l'annuncio di Cristo, di Cristo crocifisso. La sua forza non è il
linguaggio persuasivo ma, paradossalmente, la debolezza e la trepidazione di chi si affida soltanto
alla “potenza di Dio” (cfr1 Cor 2,1-4). La Croce, per tutto quello che rappresenta e quindi anche per il
messaggio teologico che contiene, è scandalo e stoltezza. L'Apostolo lo afferma con una forza
impressionante, che è bene ascoltare dalle sue stesse parole: “La parola della Croce infatti è
stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio... è
piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudei chiedono segni e
i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e stoltezza
per i pagani” (1 Cor 1,18-23).
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Le prime comunità cristiane, alle quali Paolo si rivolge, sanno benissimo che Gesù ormai è risorto e
vivo; l'Apostolo vuole ricordare non solo ai Corinzi o ai Galati, ma a tutti noi, che il Risorto è sempre
Colui che è stato crocifisso. Lo ‘scandalo’ e la ‘stoltezza’ della Croce stanno proprio nel fatto che
laddove sembra esserci solo fallimento, dolore, sconfitta, proprio lì c'è tutta la potenza dell'Amore
sconfinato di Dio, perché la Croce è espressione di amore e l’amore è la vera potenza che si rivela
proprio in questa apparente debolezza. Per i Giudei la Croce è skandalon, cioè trappola o pietra di
inciampo: essa sembra ostacolare la fede del pio israelita, che stenta a trovare qualcosa di simile
nelle Sacre Scritture. Paolo, con non poco coraggio, sembra qui dire che la posta in gioco è altissima:
per i Giudei la Croce contraddice l'essenza stessa di Dio, il quale si è manifestato con segni
prodigiosi. Dunque accettare la croce di Cristo significa operare una profonda conversione nel modo
di rapportarsi a Dio. Se per i Giudei il motivo del rifiuto della Croce si trova nella Rivelazione, cioè la
fedeltà al Dio dei Padri, per i Greci, cioè i pagani, il criterio di giudizio per opporsi alla Croce è la
ragione. Per questi ultimi, infatti, la Croce è moría, stoltezza, letteralmente insipienza, cioè un cibo
senza sale; quindi più che un errore, è un insulto al buon senso.
Paolo stesso in più di un'occasione fece l'amara esperienza del rifiuto dell'annuncio cristiano
giudicato ‘insipiente’, privo di rilevanza, neppure degno di essere preso in considerazione sul piano
della logica razionale. Per chi, come i greci, vedeva la perfezione nello spirito, nel pensiero puro, già
era inaccettabile che Dio potesse divenire uomo, immergendosi in tutti i limiti dello spazio e del
tempo. Decisamente inconcepibile era poi credere che un Dio potesse finire su una Croce! E
vediamo come questa logica greca è anche la logica comune del nostro tempo. Il concetto di
apátheia, indifferenza, quale assenza di passioni in Dio, come avrebbe potuto comprendere un Dio
diventato uomo e sconfitto, che addirittura si sarebbe poi ripreso il corpo per vivere come risorto?
“Ti sentiremo su questo un’altra volta” (At 17,32) dissero sprezzantemente gli Ateniesi a Paolo,
quando sentirono parlare di risurrezione dei morti. Ritenevano perfezione il liberarsi del corpo
concepito come prigione; come non considerare un’aberrazione il riprendersi il corpo? Nella cultura
antica non sembrava esservi spazio per il messaggio del Dio incarnato. Tutto l’evento “Gesù di
Nazaret” sembrava essere contrassegnato dalla più totale insipienza e certamente la Croce ne era il
punto più emblematico.
Ma perché san Paolo proprio di questo, della parola della Croce, ha fatto il punto fondamentale della
sua predicazione? La risposta non è difficile: la Croce rivela “la potenza di Dio” (cfr1 Cor 1,24), che è
diversa dal potere umano; rivela infatti il suo amore: “Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli
uomini, e ciò che è debolezza di Dio, è più forte degli uomini” (ivi v. 25). Distanti secoli da Paolo, noi
vediamo che nella storia ha vinto la Croce e non la saggezza che si oppone alla Croce. Il Crocifisso è
sapienza, perché manifesta davvero chi è Dio, cioè potenza di amore che arriva fino alla Croce per
salvare l'uomo. Dio si serve di modi e strumenti che a noi sembrano a prima vista solo debolezza. Il
Crocifisso svela, da una parte, la debolezza dell'uomo e, dall'altra, la vera potenza di Dio, cioè la
gratuità dell'amore: proprio questa totale gratuità dell'amore è la vera sapienza. Di ciò san Paolo ha
fatto esperienza fin nella sua carne e ce lo testimonia in svariati passaggi del suo percorso spirituale,
divenuti precisi punti di riferimento per ogni discepolo di Gesù: “Egli mi ha detto: ti basta la mia
grazia: la mia potenza, infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor 12,9); e ancora: “Dio
ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti” (1 Cor 1,28). L’Apostolo si identifica a
tal punto con Cristo che anch'egli, benché in mezzo a tante prove, vive nella fede del Figlio di Dio che
lo ha amato e ha dato se stesso per i peccati di lui e per quelli di tutti (cfr Gal 1,4; 2,20). Questo dato
autobiografico dell'Apostolo diventa paradigmatico per tutti noi.
San Paolo ha offerto una mirabile sintesi della teologia della Croce nella seconda Lettera ai Corinzi
(5,14-21), dove tutto è racchiuso tra due affermazioni fondamentali: da una parte Cristo, che Dio ha
trattato da peccato in nostro favore (v. 21), è morto per tutti (v. 14); dall'altra, Dio ci ha riconciliati
con sé, non imputando a noi le nostre colpe (vv. 18-20). E’ da questo “ministero della riconciliazione”
che ogni schiavitù è ormai riscattata (cfr 1 Cor 6,20; 7,23). Qui appare come tutto questo sia
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DUE GIORNI DI QUARESIMA 2009
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rilevante per la nostra vita. Anche noi dobbiamo entrare in questo “ministero della riconciliazione”,
che suppone sempre la rinuncia alla propria superiorità e la scelta della stoltezza dell’amore. San
Paolo ha rinunciato alla propria vita donando totalmente se stesso per il ministero della
riconciliazione, della Croce che è salvezza per tutti noi. E questo dobbiamo saper fare anche noi:
possiamo trovare la nostra forza proprio nell’umiltà dell’amore e la nostra saggezza nella debolezza
di rinunciare per entrare così nella forza di Dio. Noi tutti dobbiamo formare la nostra vita su questa
vera saggezza: non vivere per noi stessi, ma vivere nella fede in quel Dio del quale tutti possiamo
dire: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me”.
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