Messianismo e filosofia ebraica

annuncio pubblicitario
Messianismo e filosofia ebraica
I due grandi movimenti totalitari del XX secolo, il comunismo e il nazismo, si presentano con
caratteri solo in parte specificamente moderni: infatti a ben guardare essi mantengono non solo
molti elementi tipici dei movimenti apocalittici e messianici sorti in Europa a partire dal Medioevo,
ma soprattutto sono improntati sul modello di una mistica salvazionista che si è conservata intatta
lungo il corso dei secoli. Non a caso, pur lasciando cadere il riferimento teologico, essi si
distinguono dai partiti e dai movimenti politici tradizionali, perché attribuiscono a determinate
speranze o a determinati conflitti sociali un significato trascendente, il mistero e la maestosità del
dramma escatologico. In questo senso, malgrado l’impiego delle tecniche di comunicazione e di
organizzazione più moderne, è evidente che comunismo e nazismo si sono ispirati (o sono l’ultima
determinazione storica) a miti profondamente arcaici, all’antico corpo dottrinale della tradizione
apocalittica popolare (e infatti Rosenberg dedicò un lungo capitolo del suo “Mito del XX secolo”
alle teorie mistiche tedesche del XVI secolo e ai fratelli del libero spirito, mentre Elgels e altri
intellettuali comunisti – ad es. Bloch – coltivarono il mito di Th. Muentzer). Essa fu certamente reinterpretata in termini moderni (pretendendo addirittura alla scientificità!), ma l’esigenza restò la
stessa: purificare il mondo eliminando gli agenti della sua corruzione. Come nella tradizione
apocalittica antica, questi movimenti si considerano un’ élite incaricata della missione di condurre
la storia al suo coronamento e di instaurare il Millennio rovesciando una tirannide mondiale.
Fondamentale era l’attesa nell’arrivo di un Messia, di un propheta (un capo nominato da Dio per gli
“ultimi giorni” e condurre la storia al suo compimento prestabilito) che radunasse coloro che erano
destinati alla salvezza. A questo gruppo particolare, così assolutamente convinto della propria
infallibilità, che si riteneva al di sopra del resto dell’umanità e respingeva ogni pretesa estranea alla
propria missione veniva offerto non solo di migliorare la propria condizione, ma soprattutto
l’occasione di partecipare da protagonisti a una missione ordinata da Dio, eccezionale e prodigiosa,
dando vita ad un movimento del tutto particolare, spinto da un entusiasmo e da una fede incrollabile
e disposto, a motivo della disperazione per il tempo presente, anche al sacrificio e comunque
determinato ad una lotta mortale e spietata contro il nemico.
Concentriamoci sul nazismo. Hitler fu considerato dai suoi seguaci come un Messia destinato a
rinnovare ogni cosa e il Millennio nazista un impero destinato a durare mille anni in cui la razza dei
signori, la razza germanica, avrebbe dominato quelle inferiori. Il sangue ariano era la sostanza
stessa della divinità e coloro nei quali scorreva nel modo più puro erano considerati dei superuomini
col diritto assoluto di dominio su tutta la terra. Ma prima che quell’ideale potesse realizzarsi
bisognava affrontare il grande conflitto con l’Anticristo, il “giudaismo internazionale” che aveva
progettato di assoggettare e distruggere il mondo (come era testimoniato nei “Protocolli dei savi di
Sion”). Perciò i nazisti si consideravano dei salvatori designati da Dio per liberare l’umanità ariana
da quel mostruoso pericolo (Hitler: “ .. credo di agire secondo lo spirito dell’Onnipotente, nostro
creatore: perché difendendomi contro l’ebreo, combatto per difendere l’opera del Signore”;
Rosenberg: “Mentre crolla l’universo, una nuova era comincia .. Uno dei segni preannuncianti
l’imminente lotta per il regime mondiale è l’identificazione del dominio che è causa dei nostri mali
attuali. Allora si apre la via dei tempi nuovi”).
Paradossalmente, il modello apocalittico e messianico nasce proprio in ambito ebraico e secondo
Scholem (cfr. “L’idea messianica nell’ebraismo”) è una componente fondamentale di questa
religione. È vero che è poi passata al cristianesimo, ma ha conservato una propria peculiarità: per il
cristianesimo infatti la redenzione è un evento spirituale, invisibile, che si riflette nell’anima
producendo una trasformazione interiore, mentre per l’ebraismo è un evento che si manifesta
pubblicamente, sulla scena della storia e all’interno di una comunità (o un popolo): ogni
trasformazione interiore non può che essere considerata che come una premessa o una condizione
preparatoria di un evento esteriore, mondano. È evidente il nesso tra apocalisse (con tutto l’insieme
di distruzione e rovina: c’è tutta una serie di immagini sfolgoranti espresse in guerre, epidemia,
carestie, cataclismi – naturali ed economici -, apostasie e profanazioni, sconvolgimento dell’ordine
morale e dissolvimento delle leggi naturali) e l’arrivo del Messia: ma bisogna evidenziare che
questa conoscenza di rivelazione degli ultimi tempi è esoterica e criptica, mentre annuncia un
evento futuro che in fondo non è che il ristabilimento di una condizione originaria e poi perduta.
Nell’ebraismo quindi il messianismo (la salvezza, l’utopia) non può essere scisso da una teoria della
catastrofe, del dolore e della rovina: c’è dunque uno sdoppiamento di prospettiva, e di tempi, tra il
regno del Messia e il nuovo eone (che comincia col Giudizio finale), con un intreccio inscindibile di
timore (il terrore e il pericolo della Fine che è sconvolgente) e consolazione. Comunque l’era
messianica è un’età di dolore, come nel parto: ciò per dire anche che la redenzione non è il risultato,
in senso causale, della storia precedente (per cui non c’è progresso nella storia, un suo sviluppo
immanente come sarà poi nel cristianesimo e nella sua versione secolarizzata dell’illuminismo, ma
piuttosto irruzione imprevedibile di Dio nella storia), e che l’attesa della salvezza si accompagna ad
una visione pessimistica del mondo. Questo sentimento dell’impossibilità di prevedere l’era e il
kairos messianico comporta anche da un lato l’idea dell’occultamento del Messia, che è già sempre
presente da qualche parte, che sempre attende nascosto, e dall’altro.
Certo il messianismo implica che l’uomo non può essere padrone del proprio futuro: per questo il
movimenti chiliastici e di messianismo o millenarismo politico medievali e moderni, pur nati
all’interno del cristianesimo (taboriti, anabattisti ecc.), rivelano in realtà la loro fondamentale
matrice ebraica. Essa trova il suo testo più antico nel libro di Daniele cap. VII, dove per la prima
volta il glorioso regno del futuro è immaginato come un potere comprendente il mondo intero. Qui
si può riconoscere anche il paradigma di quella che doveva diventare e rimanere l’immagine
centrale di ogni successiva escatologia rivoluzionaria. Il mondo è dominato da una potenza
malvagia e tirannica di sconfinata distruttività, una potenza non umana ma demoniaca, la cui
tirannia si farà sempre più atroce con sofferenze inflitte alle vittime sempre più intollerabili, finché
giungerà all’improvviso il momento in cui i santi di Dio (il popolo prescelto, benedetto) sapranno
insorgere e rovesciarla acquistando a loro volta il dominio su tutta la terra. Questo sarà il culmine
della storia, e il nuovo Regno sarà eterno. Nelle successive apocalissi di Baruch e di Ezra si parlerà
di un messia che non è un essere sovrumano, ma un re-guerriero (il Leone di Giuda) anche se dotato
di poteri unici e miracolosi. Da queste apocalissi ebraiche dipende poi quella cristiana di Giovanni
e degli scrittori che ne riprendono le idee centrali.
Tra essi emerge il poeta Commodiano (V sec.) ha offerto uno schema narrativo che verrà
ampiamente ripreso. Cristo, al suo ritorno, sarebbe stato a capo dei discendenti delle dieci tribù
smarrite di Israele, sopravvissute un luoghi nascosti, ignorate dal resto del mondo (un popolo santo,
virtuoso, divinamente favorito perché immune da morte, malattia e fatica). Sarà questa schiera a
liberare Gerusalemme, combattendo con valore e infuriando come leoni che distruggono dove
passano. Dio è con loro facendo appiattire i monti, zampillare sorgenti, abbassando le nubi per
proteggerli dal sole. L’Anticristo fugge nelle regioni settentrionali ma poi ritorna con un’armata di
seguaci (Gog e Magog che si dicevano imprigionati da Alessandro Magno nell’estremo nord). Alla
fine gli angeli di Dio sconfiggono l’Anticristo e vivranno, come popolo eletto nella Santa
Gerusalemme, immortali e felici, mentre intorno la terra offrirà perpetuamente i suoi frutti in eterno.
Il Medioevo conobbe anche una serie di profezie (o Oracoli sibillini), tra le quali spicca quella dello
Pseudo-Methodius (VII sec) perché evidenzia il ruolo dell’imperatore degli ultimi giorni. Essa
descrive la situazione in cui gli Ismaeliti, una volta sconfitti da Gedeone e ricacciati nel deserto,
ritornino e devastino una vasta zona dall’Egitto all’Eufrate (sono le armate dell’Islam). Quando
tutto sembra perduto, un potente imperatore, da molto tempo creduto morto, si scuote
dall’assopimento e insorge pieno d’ira, sconfigge gli ismaeliti e punisce i cristiani che hanno
rinnegato il loro Dio. Segue un periodo di pace e gioia durante il quale l’impero, unito sotto questo
sovrano, fiorisce come mai prima. Irrompono poi le schiere di Gog e Magog finché Dio manda un
capitano della milizia celeste che le distrugge. L’imperatore si reca a Gerusalemme ad aspettarvi
l’apparizione dell’Anticristo e quando l’evento si verifica egli pone la sua corona sulla croce del
Golgota. L’imperatore muore e l’Anticristo inizia il suo regno ma poco dopo la croce appare in
cielo e Cristo avanza sulle nubi in potenza e gloria a uccidere l’Anticristo e a compiere il giudizio
finale.
Nel passato medievale dell’Europa possiamo trovare alcuni elementi che si troveranno enfatizzati
nell’ideologia nazista. Il primo riguarda l’immagine dell’ebreo: spesso assimilato con il musulmano
per i tratti demoniaci, lo si identificava con l’Anticristo (un ebreo della tribù di Dan, nato
dall’accoppiamento di una prostituta con un miserabile in cui il demonio sarebbe entrato al
momento del concepimento), demone al servizio di Satana. Questa immagine, già presente nell’Alto
medioevo, si radicalizzò all’epoca delle crociate e in seguito alla pestilenza della metà del ‘300 in
modo da scatenare l’odio popolare e l’intolleranza verso la loro presenza.
Se questo è un elemento noto, meno noto è l’ideologia imperiale e nazionalista contenuta nel “Libro
di cento capitoli” di un anonimo autore del XVI secolo noto come il “Rivoluzionario dell’Alto
Reno”, l’ultima e più comprensiva espressione dell’escatologia messianica popolare del Medioevo.
Presentata come una comunicazione divina, trasmessa dall’arcangelo Michele, essa annuncia la
costituzione di un’associazione di pii laici che avrebbero portato una croce sul petto e si sarebbero
radunati nella Foresta Nera sotto la guida dell’imperatore Federico (Federico II era stato oggetto di
aspettative escatologiche, in Germania considerato un salvatore e spesso identificato con il messia o
il novus dux della profezia gioachimita): con i suoi seguaci egli avrebbe instaurato un regno
messianico (la figura dell’imperatore si confonde con quella del Cristo della Parusìa) dove ogni
bisogno materiale e spirituale sarebbe stato soddisfatto. Scopo di questa associazione (denominata
Confraternita della Croce) era liberare il mondo dal peccato (eliminando i peccatori – sono per lo
più esponenti del clero ricco, frati e monaci, ma anche usurai, mercanti, bottegai ecc.- anche con
l’assassinio: punire la malvagità è vero e proprio dovere che rende lecita ogni violenza) evitando in
tal modo la punizione divina ed instaurando un controllo totale sul mondo da mantenere con un
terrore onnipresente e incessante (sono istituiti tribunali pubblici in ogni parrocchia per punire i
peccatori, sia quelli denunciati sia quelli che si sono auto-denunciati). Ma il punto più originale di
questo Rivoluzionario è il suo nazionalismo: egli era convinto che nel remoto passato i germani
fossero vissuti insieme in fratellanza avendo ogni cosa in comune. Questo felice stato di cose era
poi stato distrutto dai romani e dalla Chiesa di Roma che avevano introdotto la proprietà e il diritto
canonico, aprendo così la via all’invidia e all’odio. In uno schema di filosofia della storia si sostiene
che il Vecchio Testamento va messo da parte come privo di valore perché erano i germani e non gli
ebrei il popolo eletto (germani che parlavano tedesco sono Adamo e i patriarchi). Iafet era venuto in
Europa e i suoi discendenti avevano qui fondato un vasto impero, un vero paradiso terrestre con un
diritto fondato sul principio di fratellanza, eguaglianza e proprietà comune. È in questo codice (gli
Statuti di Treviri, capitale dell’impero) e non nel decalogo che Dio aveva enunciato i suoi precetti
all’umanità. Da questa stirpe sono esclusi i popoli latini (francesi e italiani compresi), che erano
originari dell’Asia minore, inferiori e fonte di ogni malvagità, che aveva poi contagiato l’intero
mondo e corrotto il modo di vita tedesco. Ma ora l’imperatore Federico stava per restaurare l’antico
ordine di cose sconfiggendo i nuovi imperi (Francia, Inghilterra, Spagna e Italia). La nuova
religione non sarebbe stato il cristianesimo (gli insegnamenti di Cristo erano diretti solo agli ebrei,
non ai germani), ma il vecchio culto germanico, ora restaurato dall’imperatore (da riconoscere come
supremo sacerdote, Dio in terra), con centro a Magonza. “I tedeschi tennero un tempo il mondo
intero nelle loro mani, e lo terranno ancora, e con più forza che mai”: tre secoli prima di Hitler tutto
l’armamentario ideologico del nazismo (pangermanesimo, culto degli antichi germani, nuova
aristocrazia tedesca dello spirito, il salvatore inviato da Dio, il terrore da come strumento politico
ecc.) era già stato formulato.
Un ultimo elemento può essere individuato nel movimento del “libero spirito”: nei suoi adepti si
possono riconoscere i tratti di quell’élite di superuomini amorali (i precursori di Bakunin e
Nietzsche) che il nazismo pensò di realizzare con il corpo delle SS. Questa eresia (nata nel ‘300
proprio nell’are tedesca) e poi proseguita (non senza trasformazioni: vedi ad es. i libertini moderni)
fino al ‘600 ha come asse centrale l’esperienza, misticamente soggettiva, dell’immediata percezione
e comunione con Dio. Gli adepti del Libero Spirito non riconoscevano così alcuna autorità
ecclesiastica (anzi, l’istituzione religiosa è un ostacolo alla salvezza), mentre ritenevano di aver
raggiunto una perfezione così assoluta da renderli incapaci di peccato: essi avevano anzi il diritto,
persino il dovere, di fare quanto era comunemente considerato proibito (antinomianismo), a
cominciare dalla promiscuità sessuale (uno sbrigliato erotismo è segno di libertà ed emancipazione
spirituale). Sulla base di un panteismo di ispirazione plotiniana e dionisiana (come nella filosofia di
Amaury di Bène), essi proclamavano una sorta di auto-divinazione affermando che “Dio è tutto ciò
che è”, e che “ogni cosa creata è divina”: dunque avere lo Spirito incarnato in sé era sorgere dai
morti e possedere il cielo, per cui un uomo che aveva conoscenza di Dio nella sua persona portava
con sé il proprio paradiso. Bastava solo riconoscere la propria divinità e si risorgeva come uomo
spirituale, cittadino del cielo sulla terra. All’opposto il peccato era ignorare la propria divinità,
quindi albergare l’inferno in sé, portarlo addosso in questa vita. Di conseguenza i massimi privilegi
erano riservati a questa confraternita (ad es. l’acquisizione di prodigiosi poteri taumaturgici, di fare
miracoli), dove ognuno era così unito a Dio da essere tutt’uno con Lui, al punto che neppure gli
angeli li potevano distinguere. Essi si sentivano onnipotenti, di avere il potere del creatore. Ne
deriva un amoralismo totale (ad es. l’erotismo era indice della raggiunta innocenza = culto
adamitico, in cui si ricreava lo stato edenico, un anarchismo verso ogni forma di regola e istituzione
(“Nulla è peccato se non ciò che si pensa come peccato”; “L’uomo libero ha perfettamente ragione
di fare tutto ciò che gli dà piacere”): l’adepto del libero spirito, rinascendo in uno stato in cui la
coscienza cessava di operare e il peccato era abolito, egli si sentiva un aristocratico infinitamente
privilegiato, membro di un’élite che si credeva destinata a dominare il mondo (“ Quando un uomo
ha veramente raggiunto la grande, alta conoscenza, non è più obbligato a osservare alcuna legge,
alcun ordine, perché è diventato tutt’uno con Dio. … Egli prenderà da tutte le creature quanto la sua
natura desidera e brama, e non avrà in merito alcuno scrupolo di coscienza, perché tutte le cose
create sono sua proprietà .. e tutte le persone e creature sono invero obbligate a servire e ad
obbedire”). In effetti se si spogliano queste idee della loro aura religiosa e mistica, si possono
ritrovare (in combinazione con gli altri fattori prima indicati) molti caratteri propri delle ideologie
totalitarie del XX secolo.
L’idea di messianismo (e di quelle connesse: apocalissi, escatologia, utopia ecc.) nasce dunque
all’interno della cultura ebraica con la sua specifica visione dei rapporti tra Dio e il mondo, la storia
e il popolo eletto. Non stupisce dunque che le riflessioni dei filosofi ebrei siano caratterizzate – più
o meno marcatamente – nel senso di queste tematiche. Esse pertanto sono facilmente riconoscibili
come impronta specifica di una precisa identità culturale anche quando questi autori non siano
rimasti fedeli alle tradizioni religiose dei padri ed abbiano invece abbracciato teorie e dottrine
proprie della modernità (quindi laiche se non addirittura atee).
Come esempio di questo orientamento possiamo scegliere la figura di W. Benjamin (1892-1940), in
particolare quello che egli esprime nelle “Tesi sulla filosofia della storia”, uno scritto che pur nella
sua brevità (sono diciotto brevi tesi) è estremamente denso e quindi in grado di esercitare una vasta
influenza. Qui si ritrova un’originale concezione del tempo, in particolare del nesso tra continuitàdiscontinuità in rapporto alla memoria e allo svolgimento storico, nel quadro di una ispirazione
redentrice in qui convergono motivi teologici ebraici e il materialismo storico: più che al futuro è al
passato che Benjamin guarda come elemento decisivo, dal momento che in esso, come storia dei
vinti, possiamo trovare la luce, cioè quell’idea di redenzione che deve spingerci ad una rottura
rivoluzionaria e messianica con il presente. In quest’ottica è interpretato il materialismo storico che
può e deve vincere se si incontra con la teologia e abbandona le derive deterministiche
socialdemocratiche e storicistiche. Il materialismo storico (e il Messia che esso annuncia) deve
trarre ispirazione e insegnamento dal passato facendo proprie le istanze di redenzione dei vinti di
ieri e di oggi: perciò deve respingere da sé l’Anticristo (cioè in conformismo verso i valori dei
vincitori, come fa invece lo storicista che si immedesima con il loro patrimonio culturale, con la
tradizione che li ha trasmessi da cui invece occorre prendere le distanze come da una barbarie). Non
bisogna accettare una visione linearmente continuista della storia (in senso storicista e
socialdemocratico dove la storia è ridotta ad una sequenza ininterrotta di fatti accertabili), fondata
acriticamente sul concetto di progresso, di evoluzione (se si guarda al futuro come qualcosa di
necessariamente migliore, svanisce nelle masse oppresse l’odio verso il nemico di classe –
condizione indispensabile per il moto rivoluzionario – che viene invece conservato se si guarda al
passato, se lo si mantiene vivo nel ricordo). Al contrario, carico dell’oppressione del passato, il
marxismo rompe col presente in senso rivoluzionario: il tempo va visto in senso discontinuista,
disomogeneo (questa è la lezione che viene dal messianismo biblico come nell’immagine
dell’angelus novus di Klee che ha il volto rivolto al passato – una catena di eventi che esso riversa
ai suoi piedi e che egli vede come un’unica catastrofe: egli “vorrebbe fermarsi e svegliare i morti, a
ricomporre ciò che è infranto. Ma dal paradiso si alza una tempesta che si impiglia nelle sue ali,
tanto violenta che l’angelo non riesce più a chiuderle. Questa tempesta lo spinge verso il futuro a
cui gira le spalle, mentre il cumulo di macerie cresce a raggiungere il cielo. Ciò che noi chiamiamo
progresso è questa tempesta”), dove vi sono accelerazioni e salti qualitativi ed è possibile fare
dell’istante presente l’occasione per un’esperienza unica del passato (perciò rivoluzionaria),
conoscibile nei suoi nessi col presente (altrimenti sempre fuggevole e vario nei suoi vari momenti:
al contrario il tempo messianico implica la coscienza dell’unità della storia) e dunque chiamato in
tal modo a realizzare nel ricordo la salvezza del passato nella misura in cui riaccende in esso la
scintilla della speranza.
Tra i filosofi contemporanei, E. Levinas (1905-1995) si distingue per aver cercato più di ogni altro
di integrare la tradizione ebraica nella riflessione filosofica contemporanea: sotto questo aspetto
spiccano le sue “letture talmudiche” in cui non può certo essere eluso il tema del messianismo,
quale elemento cardine della spiritualità ebraica. Di esso però Levinas fornisce un’interpretazione
del tutto particolare (diversa ad esempio da quella di altri intellettuali, non solo di quelli impegnati
sul versante politico – Benjamin abbiamo visto, ma anche Horkhaimer, o Bloch – ma anche di
quelli tesi al recupero della tradizione religiosa come Scholem), comprensibile all’interno della sua
più ampia prospettiva teoretica. Questa (quale risulta dal suo primo capolavoro “Totalità e infinito”
del 1961) si può riassumere nei termini di una precedenza accordata all’etica rispetto all’ontologia:
infatti i rapporti intersoggettivi costituiscono l’orizzonte originario dell’io, dal momento che questi,
prima di essere operante come soggetto conoscente, è implicato in una relazione fondamentale con
l’altro uomo. Così si giustifica il titolo dell’opera, che contrappone infinito (la prospettiva aperta dal
rapporto con l’alterità: l’altro, nella sua irriducibile trascendenza, rinvia ad un’infinita apertura che,
pur alimentando positivamente il desiderio, supera ogni pretesa totalizzante) alla totalità (prodotto
teoretico, che come pretesa di un disvelamento onnicomprensivo dell’essere, è sorto dalla perdita
del particolare nell’universale, che dunque presuppone sempre l’irruzione dell’alterità). Dunque il
rapporto con l’alterità è l’origine del senso in quanto la relazione con il non-totalizzabile implica
l’abolizione di ogni definitività, e con ciò genera una prospettiva temporale infinita, che è
condizione del dirsi della verità.
Ovviamente il tema del messianismo può essere rintracciato in diversi punti dell’opera levinassiana,
ma esso è affrontato direttamente in due letture talmudiche inserite poi in “Difficile libertà”. Questi
testi si presentano quindi come commenti al testo (che noi non considereremo), ma in realtà ne
vogliono estrarre un insegnamento valido anche per il presente. Infatti l’idea del messianismo (idea
plurisignificante e del tutto specifica del mondo ebraico, affermatasi soprattutto ad opera dei profeti
come irresistibile spinta verso un futuro di giustizia qualitativamente diverso dal presente, capace
quindi di orientare la storia e di alimentare la speranza di redenzione) viene tradotta nei suoi
contenuti salvifici, grazie al ricorso degli strumenti concettuali della filosofia (la hegeliana “fatica
del concetto”), in una prospettiva universalistica. Per Levinas infatti la tradizione ebraica costituisce
il terreno preriflessivo e originario in cui sono depositate esperienze individuali e collettive che
richiedono di essere tematizzate e chiarite attraverso la filosofia (essa in fondo ri-dice ciò che è già
stato detto dalla Bibbia, con un altro linguaggio): solo in questo modo possono essere riconosciute
non solo come patrimonio di un determinato popolo, ma come valori che appartengono all’umanità.
intera. L’ermeneutica levinassiana mira a cogliere significati generali che si trovano racchiusi
nell’insieme dei dati particolari che formano il tessuto narrativo della pagina talmudica commentata
(infatti il Talmud trasmette un insegnamento che riguarda la vita di tutti e che quindi è universale: il
primato dell’etica e della responsabilità per l’altro uomo): egli quindi risale dai problemi rituali
propri della particolarità ebraica a problemi generali tematizzati dalla filosofia e riconducibili al
senso ultimo dell’esistenza e del comportamento umano (questo è il contenuto dei testi talmudici
traducibile nel linguaggio filosofico). Per Levinas nel pensiero rabbinico è presente un’ontologia
aperta alla responsabilità per gli altri che insegna a mettere in discussione l’intera impostazione
della filosofia occidentale (quella per cui si definisce l’uomo a partire dall’io e che ha definito il
primato dal sapere sull’agire). Dunque quali sono le tesi di Levinas sul messianismo? Per lui è una
categoria che nel suo significato autentico ha poco a che fare con le concezioni popolari e personali
del Messia (valorizzate invece da Scholem, che le ritrova anche nelle correnti della mistica) quale
individuo dotato di poteri eccezionali che irrompe nella storia mondana e mette miracolosamente
fine alle violenze e alle ingiustizie, mentre bisogna collegare l’attesa messianica alle esigenze di
liberazione e di giustizia proprie di ogni uomo e di ogni epoca (in questo senso il messianismo è una
categoria universale dell’umano). Al tal fine è necessario discutere la distinzione (una tesi già
presente nel giudaismo classico) tra “epoca messianica” (che sarebbe limitata nella durata e
precederebbe l’epoca definitiva: una sorta di cerniera tra due epoche che mette fine a tutte le
contraddizioni politiche e sociali aprendo la strada ad una dimensione spirituale e metastorica) e
“mondo avvenire” (che consisterebbe nel compimento di tutte le profezie, nella pienezza della
salvezza e nella conseguente fine della storia). In effetti la tradizione rabbinica ci prospetta due
orientamenti interpretativi in proposito: uno di tipo metastorico (per cui la redenzione messianica è
legata al merito umano, un evento che l’agire morale dell’uomo può accelerare o allontanare) e uno
di tipo intrastorico (per cui esiste un ostacolo che l’uomo non può eliminare e che rende necessario
un intervento dall’esterno che aiuti l’uomo a superare i suoi limiti: da questo punto di vista la
redenzione messianica è un evento incondizionato, improvviso e gratuito, che irrompe nella storia
dal di fuori trasformandola totalmente). Da parte sua Levinas rifiuta di pensare i tempi messianici in
funzione del mondo avvenire (in tal modo essi sarebbero finalizzati alla preparazione di
quest’ultimo, che a sua volta risulterebbe una mera rappresentazione mitica dell’aldilà), mentre
privilegia il piano della socialità e della relazione intersoggettiva definendone i tratti caratteristici in
rapporto alle esigenze concrete degli uomini che vivono nella storia (quindi fine della violenza,
instaurazione della giustizia sociale e della pace). L’attenzione verso l’altro uomo diventa quindi
l’elemento essenziale per individuare l’autentica nozione di messianismo e per precisarne il
contenuto salvifico: perciò Levinas valuta positivamente l’impegno e lo sforzo morale degli uomini
che operano concretamente nella storia (nel luogo cioè delle relazioni intersoggettive e in cui
nascono i conflitti che richiedono l’impegno morale), mentre rifiuta una visione escatologica basata
su un termine ultimo verso cui orientare la speranza messianica o in base al quale calcolare l’attesa..
I “giorni del Messia” non comportano dunque la liberazione dal tempo, ma accadono nel tempo
comportando un insieme di caratteri etici che rientrano in una più generale idea filosofica
dell’uomo. Beninteso, non si tratta di escludere la libera iniziativa di Dio, ma di mantenere viva la
tensione dialettica tra le due posizioni: infatti l’impegno morale non è altro che la risposta
dell’uomo all’iniziativa salvifica di Dio che irrompe nella storia dal “di fuori” (così “l’uomo riceve
la salvezza e nello stesso tempo ne è l’artefice”). Mentre dunque si deve sottolineare l’importanza
dell’azione morale, non la si deve considerare semplicemente come un atto che richiede una
ricompensa: piuttosto di deve riflettere sul ruolo dell’individuo nella storia, sull’efficacia del suo
sforzo personale senza però dimenticare l’irruzione dell’alterità e della trascendenza. In altri termini
l’avvento dei tempi messianici non può derivare esclusivamente dallo sforzo individuale, ma
necessita di un elemento imprevedibile (anche traumatico e violento) che va al di là dell’impegno
umano. Però questo intervento esteriore deve essere ricondotto alla sfera delle relazioni
intersoggettive, corrispondendo all’epifania del volto dell’altro uomo (è in questo infatti che è
inscritta la vera irruzione traumatica dell’alterità e della trascendenza, l’evento epifanico che
irrompe da un altrove separato e invisibile e che non è altro che la traduzione filosofica del
decalogo ebraico che ingiunge di non uccidere ma di servire secondo giustizia l’altro uomo). Non ci
può essere perciò contrasto tra l’avvento dei tempi messianici e il divenire della storia mondana:
collegando il messianismo al problema filosofico della relazione intersoggettiva in termini di forte
connotazione etica, Levinas prende anche le distanze da un messianismo connotato politicamente
che, mentre corrisponderebbe alla liberazione da un dominio straniero per mano di un re o di una
persona dotata di poteri eccezionali, comporterebbe anche la fine della storia (hegelianamente, con
questo intervento si realizzerebbe l’universale nella weltgeschichte). Ora la salvezza non occupa il
punto estremo della storia, non è la sua conclusione, mentre eticamente la venuta del messia è
possibile in ogni momento, se ogni uomo risponde all’appello del comandamento che lo destina ad
essere responsabile nei confronti del prossimo. Il messia allora non sarebbe una persona
eccezionale, dotata di poteri o caratteristiche individuali sovrumane, ma un maestro che attraverso
l’insegnamento trasmette i valori messianici di pace, giustizia, misericordia, pietà: da questo punto
di vista il messianismo sarebbe un evento che coagula un insieme di valori morali e che non è legato
in modo esclusivo ad una persona portatrice di quei valori. Levinas sostiene quindi una visione
impersonale di Messia, “una “forma di esistenza la cui individuazione non si dà in un essere unico”:
il messianismo è piuttosto una vocazione personale degli uomini, il Messia è l’uomo che soffre, che
prende su di sé la sofferenza degli altri, rendendone possibile la sopravvivenza (in questo senso è “il
consolatore”). La formula che fa del messia colui che governa Israele va quindi interpretata
kantianamente (e alla luce di una visione etica basata sulla responsabilità nei confronti dell’altro
uomo) come “colui che governa (o è sovrano di) se stesso”, colui che offre liberamente se stesso per
prendere su di sé tutte le sofferenze del mondo (Israele è il simbolo dell’intera umanità, non una
nazione particolare): in questo senso ogni soggettività può e deve essere messianica. Ciò esclude
una visione idilliaca del messianismo come ad un sogno di perdono universale: al contrario la
redenzione implica l’instaurazione della giustizia, e quindi non vi sarà salvezza per coloro che non
sono capaci di cercare la luce, che non attendono e non credono alla venuta del messia. Il
messianismo allora non è un tratto particolare del popolo ebraico e della sua storia, ma una struttura
universale dell’umano in generale, che consiste nell’assunzione di responsabilità nei confronti del
prossimo. Ogni uomo deve essere messia se vuole essere pienamente uomo, e può esserlo ogni volta
che ascolta la voce del comandamento etico che gli impone di servire l’altro uomo, l’universo, e di
instaurare la giustizia e una società giusta, al di là di ogni merito individuale e di ogni retribuzione
quali valori universali che si estendono a tutti gli uomini.
Scarica