VAL DI CHIANA LE ORIGINI La valle ebbe origine nel periodo miocenico (era terziaria) come parte dell'arcipelago toscano. Nel periodo successivo detto pliocenico (ultimo dell'era quaternaria) le terre marginali emersero dal mare e si alzarono in diversi rilievi divisi da profonde depressioni con formazioni di argille, conglomerati e sabbie gialle. Essa conservò a lungo questo aspetto di golfo tirrenico comprendente anche il Trasimeno nel quale il Tevere sboccava sotto il colle di Città della Pieve. Una profonda mutazione orogenetica si ebbe quando scaturirono dal fondo i vulcani Vulsinii con quattro grossi crateri, i quali con le loro colate basaltiche ed eruzioni tufacee costituirono una barriera trasversale. Allora le acque si raccolsero in una conca più stretta adducente a Nord al bacino del Valdarno superiore e a Sud alla depressione del Paglia. Un sollevamento del fondo prodotto dai detriti di fiumi e torrenti portò ad una provvisoria sistemazione della valle con tipica conformazione lacustre e vaste aree semipaludose; queste restringendosi spontaneamente fino a prosciugarsi per intervento congiunto dell'uomo e della natura. Si è giunti, quindi, all'attuale assetto schematizzabile in tre zone altimetriche: fondovalle pianeggiante per kmq 350, poggi e ripiani intermedi per kmq 500, alta collina e montagna kmq 210. DELIMITAZIONE GEOGRAFICA La Valdichiana descritta in questo sito corrisponde grossomodo a quella dell'antico bacino Clanis Aretinum ricordato da Plinio il Vecchio (Hist. Nat. III, 52-54) ed il suo territorio è attualmente suddiviso in 20 comuni di cui 9 in provincia di Siena: Cetona, Chianciano Terme, Chiusi, Montepulciano, San Casciano dei Bagni (in parte), Sarteano, Sinalunga e Torrita di Siena, Trequanda; 8 in quella di Arezzo: Cortona, Castiglion Fiorentino, Civitella in Valdichiana, Foiano della Chiana, Lucignano, Marciano della Chiana, Monte San Savino e Arezzo (in parte); vanno, inoltre, considerati lembi di territorio umbro appartenenti ai comuni di: Castiglione del Lago, Città della Pieve e Tuoro (in parte) in provincia di Perugia ed infine Monteleone d'Orvieto e Fabro in provincia di Terni. Così circostritta l'area ha una forma assai allungata in direzione Nord-Sud e occupa oltre 800 Kmq. E' racchiusa tra le colline umbre e i monti cortonesi a E ed il vario sistema collinare-montano che si eleva quasi parallelamente a O del solco longitudinale della valle separandola dalla Val d'Orcia e dalla Val d'Asso. Questo sistema raggiunge le massime elevazioni con il monte Cetona m 1148, il poggio di Pietraporciana m 847 e il colle della Maddalena m 824; sull'altro versante emerge l'Alta di sant' Egidio m 1056, da cui discendono i monti Spino m 952, Cùculo m 923 e Ginezzo m 828, contrafforti della catena montuosa che divide la Valdichiana dall'alta valle Tiberina. Le variazioni altimetriche sono alquanto modeste, insignificanti, poi se riferite alla linea longitudinale più depressa della valle che si mantiene intorno ai 250 m. I limiti geografici quasi coincidono con il brusco cessare di tale caratteristica: infatti a Nord della Chiusa dei Monaci il piano comincia ad essere solcato da corsi d'acqua e a Sud della stretta di Olèvole il Chiani, attraverso una angusta e profonda incisione, scende rapidamente al Paglia a quota 111 m s.l.m. . L'argine di separazione costituisce una sorta di spartiacque artificiale: all'altezza della stazione ferroviaria di Chiusi separa la Valdichiana toscana a Nord dalla Valdichiana romana a Sud (limitata a lembi di territorio di Città della Pieve e di Fabro) che percorsa dal collettore Chianetta che si unisce al torrente Astrone (presso la stazione di Città della Pieve dove un tempo vi era un lago) dando luogo al già citato Chiani, subaffluente del Tevere, che raggiunta la stretta di Olèvole si congiunge col torrente Sorra e lascia la Valle. Il torrente Astrone è l'unico della Valle che corre da Nord a Sud attraversando i comuni di Cetona Montepulciano e Chianciano mentre il Tresa, che corre tutto in territorio umbro, e che anticamente scaricava le sue acque sul Trasimeno fu artificialmente deviato portandolo a sfociare nel lago di Chiusi e rendendolo quindi tributario dell'Arno. La Valle prosegue a Nord comprendendo i "chiari" di Chiusi e di Montepulciano, quindi si allarga nel lungo fondovalle senese-aretino inframezzato da formazioni basso-collinari fino a raggiungere la massima estensione latitudinale (dalla Val d'Esse a Sinalunga), prosegue in territorio aretino tra Monte San Savino e Castiglion Fiorentino dove vi confluisce la valle di Chio, per poi terminare nella goletta di Chiani. La Storia I più antichi terreni del monte Cetona risalgono a circa 225 milioni di anni fa, quando iniziò la deposizione del calcare cavernoso in condizioni di clima caldo-umido. L'ambiente era costiero, lagunare, di acque basse. Dopo alcune decine di milioni di anni il fondo marino cominciò ad abbassarsi gradualmente; il monte Cetona era un'isola circondata dalle acque e separata dall'Appennino dalla depressione dell'odierna Val di Chiana. Il clima era temperato caldo ed il monte ricoperto da una fitta vegetazione. Il bacino di sedimentazione raggiunse la sua massima profondità circa 160 milioni di anni fa. Poi le acque si ritirarono gradualmente e la successione degli eventi geologici e climatici portò ad un ambiente simile a quello attuale. Il monte Cetona conserva nell'area di Belverde, alle sue pendici orientali, uno dei più importanti complessi di stazioni pre-protostoriche dell'Italia centrale. Il più antico popolamento umano sul monte Cetona risale al Paleolitico medio, in cui l'Uomo di Neanderthal visse nelle cavità di Grotte di Gosto, di San Francesco e Lattaia. Una nuova occupazione umana è testimoniata, dopo un vuoto di circa 45.000 anni, durante il Neolitico; i resti più antichi provengono dalla Grotta dell'Orso di Sarteano. Le genti dell'Età del Rame (III millennio a.C.) hanno lasciato significative testimonianze del loro passaggio sia a Belverde che a Sarteano. L'Età del Bronzo è senza dubbio il periodo in cui si verifica il più intenso popolamento del monte Cetona: comunità di pastori-agricoltori si installano in abitati all'aperto o in piccoli ripari sotto roccia e usano le cavità come luogo di sepoltura o a scopo di culto. Grande sviluppo ha in questo periodo l'artigianato ceramico. Il Museo Civico per la Preistoria del Monte Cetona documenta le varie fasi del popolamento umano nel territorio che gravita attorno al Monte Cetona, a partire dal Paleolitico fino alla fine dell'età del Bronzo. Il nucleo principale del Museo è costituito dalla ricca documentazione archeologica lasciata dalle popolazioni della media età del Bronzo. Il Parco Archeologico Naturalistico del Monte Cetona (zona Belvedere-Biancheto) comprende i principali insediamenti preistorici, che è possibile visitare seguendo anche percorsi in cui l'elemento naturalistico è intimamente legato a quello storico-archeologico. Il passaggio tra il II e il I millennio a.C. segna un abbandono degli insediamenti di Belverde e, in genere, una frequentazione più sporadica di tutta l'area del Cetona. Le pendici del monte, sede di importanti insediamenti preistorici, furono abitate anche in età etrusca come testimoniano le necropoli riportate alla luce. In epoca romana la maggiore risorsa naturale del territorio del Cetona, le sorgenti salutari, fu ampiamente sfruttata con la costruzione di edifici termali ad uso pubblico, come quelli di San Casciano dei Bagni, di Sarteano e di Chianciano Terme. Testimonianze di necropoli etrusche e di complessi termali di età romana sono ospitate nel Museo Civico Archeologico "Delle Acque" di Chianciano Terme. Del periodo medioevale si possono ricordare alcuni borghi e castelli presso Sarteano e Cetona. Il Castello Fanelli a Sarteano fu edificato in varie fasi a partire dal XI secolo e si concluse nel XV secolo. Il Castello si è sviluppato intorno all'antica rocca che comprende un mastio e una cinta muraria a scarpa dagli angoli della quale emergono torri rotonde. Sempre nel territorio di Sarteano si trovano l'abitato di Castiglioncello del Trinoro e i ruderi del castello delle Moiane. Nel primo caso, della cinta muraria, rimane solo la "porta senese" in pietra e una torre rotonda con base a scarpa; nel secondo caso invece resta buona parte della cerchia delle mura che racchiudeva un'estensione assai vasta. La storia delle origini e dello sviluppo di questo castello, indicato come tale dal 1122, non è ben chiara. Nel 1328 esso fu compreso tra i domini dei Visconti di Campiglia. Infine, è bene ricordare la località Camporsevoli a Cetona. Si tratta di un piccolo borgo sviluppatosi attorno ad un piccolo castello medievale posto sulla costa orientale del Monte Cetona. Oggi del castello non vi sono più tracce: al suo posto sorge la signorile villa del Marchese Grossi con attorno un grande bosco di pini. Il castello di Camporsevoli fu, negli anni 1232-1235, tra i castelli contesi tra senesi ed orvietani. Coinvolto, nel 1300, dalle gravi lacerazioni politiche interne al comune di Orvieto divenne, in seguito, dominio dei Visconti di Campiglia. Del borgo fa parte anche l'antica chiesa di S. Giovanni, che conserva nel suo interno resti di affreschi del '500. IL CONSORZIO DI BONIFICA DELLA VAL DI CHIANA IL TERRITORIO Morfologia e geologia Altimetricamente il territorio si sviluppa tra quota 100 m. s.l.m., a sud dove avviene la confluenza del sistema Paglia - Tevere, quota 1.148 m. s.l.m. del Monte Cetona ad Ovest e quota 853 m. s.l.m. del Montarale ad Est. La quota media è di circa 400 m. s.l.m. , quindi compresa entro la fascia altimetrica collinare; la ripartizione della superficie del comprensorio in fasce altimetriche è evidenziata nel seguente grafico. Graf. n° 2 – Ripartizione del territorio consortile per fasce altimetriche Nella Val di Chiana, fino a Fabro Stazione, si ha un'ampia zona di pianura, costituita dalle alluvioni del T. Chiani, con quote variabili fra 240 e 260 m.s.l.m. Il sistema collinare in destra idrografica presenta una blanda morfologia, con pendenze non accentuate e corsi d'acqua con un discreto tratto vallivo in fase di sedimentazione. In sinistra le colline risultano invece più acclivi, con forme talora anche aspre e sono incise da corsi d'acqua che scendono verso la vallata con elevate pendenze, erodendo i terreni attraversati. Da Parrano fino a circa la confluenza con il Fiume Paglia, il Torrente Chiani attraversa con corso sinuoso le formazioni geologiche oligoceniche e mioceniche, entro le quali ha inciso un profondo ma ristretto solco vallivo. L'evoluzione geomorfologica del territorio riflette la natura litologica dei terreni, la loro morfologia e le vicissitudini tettoniche cui sono stati sottoposti. Pertanto, in corrispondenza dei terreni più tenaci all'erosione (calcari e calcari marnosi), pur avendo zone morfologicamente rilevate e talora accidentate, queste risultano sostanzialmente stabili. Ove invece affiorano depositi meno resistenti o maggiormente dislocati, si ha una maggiore propensione al dissesto. Tipici esempi si riscontrano nella vallata del Fiume Paglia ove le argille sono intaccate da una estesa erosione calanchiva; in quella del torrente Chiani, ove il flysch arenaceo - marnoso è interessato da numerose frane; a sud di Allerona, ove i sedimenti caotici argillosi e marnosi sono oggetto di consistenti dissesti gravitativi. Il territorio di pertinenza del Consorzio, nella sua zona mediana, presenta in affioramento sedimenti marini, lacustri ed in subordine continentali del pliocene e del pleistocene (argille, sabbie e conglomerati), che in corrispondenza delle vallate del Fiume Paglia e del Fiume Chiani, sono celati da depositi alluvionali attuali e recenti, a tratti terrazzati, mentre nella zona di Sarteano sono ricoperti da una estesa e relativamente potente placca di travertino. Ad oriente ed occidente, si hanno sedimenti oligocenici e miocenici, rappresentati dai depositi caotici argillosi e marnosi e dal flysch arenaceo - marnoso. In corrispondenza delle culminazioni del Monte Cetona e del Monte Peglia, affiorano i terreni più antichi, riferibili al complesso carbonatico mesozoico della serie Tosco - Umbro - Sabina. La porzione sud - occidentale del comprensorio è occupata dalle vulcaniti connesse ai fenomeni magmatici dei monti Vulsini, avvenuti nel pleistocene, che si sovrappongono ai più alti sedimenti pliocenici e pleistocenici. Trattasi di colate laviche e di depositi piroclastici, a vario grado di evoluzione, che danno luogo ad un vasto altopiano a quote comprese tra 400 e 600 metri s.l.m. Nelle zone vallive, pianeggianti e sub pianeggianti, ove affiorano i depositi alluvionali e, parzialmente i detriti dei sedimenti pliocenici marini, si sviluppano suoli relativamente profondi, ad un avanzato stato di maturità. Questi sono caratterizzati da un'alta potenzialità agronomica, per proprietà granulometriche, giacitura e relativamente elevata permeabilità. In media collina diventano più frequenti i regosuoli, a diverso grado di sviluppo in relazione allo stato di troncamento per erosione. La potenzialità agronomica degli stessi è variabile in relazione alla permeabilità, comunque inferiore rispetto ai precedenti. Nella media e alta collina, ove affiorano sedimenti flyschoidi, si hanno suoli bruni calcarei troncati e rendzina a bassa potenzialità e permeabilità, che ne inibiscono parzialmente la utilizzazione agricola. Sull'altopiano vulcanico si hanno principalmente suoli bruni abbastanza sviluppati all'altezza dei depositi piroclastici, caratterizzati da permeabilità media o bassa con buona potenzialità agronomica. Nella stessa area, limitatamente alle zone di affioramento delle lave si possono avere litosuoli a bassissima potenzialità agronomica, destinati per lo più ad attività silvo-pastorali. Nelle fasce altimetriche più elevate, ove affiorano sedimenti carbonatici, si ritrovano suoli modestamente sviluppati, del tipo suoli rossi calcarei e litosuoli, a potenzialità molto bassa per lo più con vegetazione spontanea destinati anch’essi ad attività silvo-pastorali. Idrografia Il comprensorio, dal punto di vista idrografico, si suddivide in due distinti bacini: la Val di Chiana Romana e la Val di Paglia. La pianura della Val di Chiana di forma estremamente allungata e stretta con direzione da Nord a Sud, è solcata dal Fiume Chiani originato in Località Ponticelli dalla confluenza del Canale Chianetta nel Torrente Astrone. Il Canale Chianetta è un corso d'acqua artificiale che inizia presso l'abitato di Chiusi Scalo al piede dell'argine di separazione tra la Val di Chiana toscana, tributaria dell'Arno e appunto la Val di Chiana Romana, tributaria del Tevere. Il Torrente Astrone raccoglie le acque della parte più settentrionale del comprensorio ed origina dalle alte colline di Chianciano, Montepulciano e Sarteano. I maggiori affluenti dell'Astrone sono i Torrenti Oriato, Maltaiolo, Bargnano e Piandisette-Matera, quest'ultimo con origine nel Monte Cetona. Proseguendo verso valle si immettono nel Chiani, in sinistra idraulica e dopo un breve tratto vallivo, una serie di piccoli torrenti: Brecceto, Pompeo, Monache, Picchiarello, Macera, Santa Maria, Molinello e Colonna. In destra poco significativi sono gli affluenti nel Chiani fino alla località di Fabro Scalo, vero nodo idraulico della Val di Chiana, dove il Chiani riceve i maggiori affluenti: in sinistra il Ripignolo, proveniente dal picco di Monterale, in destra i torrenti Argento, Fossalto e Grazzano-Noce. La pianura della Val di Chiana, poco a valle del citato nodo idraulico, vede marcatamente accentuarsi la propria pendenza nel senso longitudinale, talché il Chiani assume caratteristiche torrentizie ed andamento tortuoso; le colline in destra e sinistra tendono ad avvicinarsi fino all'immissione del Chiani nella vallata di Orvieto dove sfocia nel Paglia. In tale situazione morfologica gli affluenti del Chiani, sia in destra che in sinistra, non hanno praticamente un corso vallivo ed i più importanti sono: Torrente Sorre, Bagno, Migliare, Fosso dell'Elmo (i cui rami di formazione più alti originano dal Monte Peglia) Fosso Grande e Carcaione. Anche la pianura della Val di Paglia ha una forma allungata e relativamente stretta; la direzione longitudinale è da Ovest a Sud/Est. E' solcata dall'omonimo corso d'acqua che origina dalle pendici del Monte Amiata e dopo un lungo corso pedemontano in territorio toscano e laziale entra in Umbria (Comune di Allerona) e poco dopo ha inizio il corso vallivo che dopo 15 Km. aggira la rupe di Orvieto, riceve il Chiani e confluisce nel Tevere. I maggiori affluenti di sinistra del Paglia sono il Torrente Riotorto, il Fosso della Sala e, molto importanti per gli effetti sulle portate e sul regime idraulico del Paglia, i Torrenti Rivarcale e Repuglie i cui bacini di formazione si estendono fino alle alture di Allerona. In destra, da monte verso valle, si rilevano i modesti affluenti Fosso delle Prese e San Giovanni e successivamente gli importanti affluenti Romealla e Albergo La Nona provenienti dall'altopiano vulcanico dell'Alfina. Da ultimo il Fosso dell'Abbadia che attraversa l'abitato di Orvieto Scalo. Per entrambi i bacini idrografici del Chiani e del Paglia oltre ai suddetti principali corsi d'acqua si devono aggiungere torrenti e fossi minori i cui molteplici ed estesi rami formano una complessa situazione idrogeologica che necessita di mirati e puntuali interventi regimatori che il Consorzio in parte ha già effettuato o ha in corso di esecuzione o sono oggetto di studio. Rilevanti infine le problematiche manuntentorie, specialmente nella vallata del Chiani, della rete di scolo minore delle acque basse realizzata in gran parte dal Consorzio e che si sviluppa per decine di chilometri influenzando direttamente la coltivabilità e quindi le capacità produttive dei terreni agricoli. Nella parte settentrionale del comprensorio, una modesta zona in Comune di Città della Pieve non è tributaria del Chiani ma del Lago di Chiusi e quindi ricadente nel Bacino principale dell'Arno. Il principale corso d'acqua di tale zona è il Torrente Tresa, con i suoi due affluenti Moiano e Maranzano. LA BONIFICA DELLA VALDICHIANA Nel corso del medioevo, le Città-Stato che maggiormente operarono nella valle furono Orvieto, Arezzo, Perugia, Siena e Firenze. Tutte dovettero fare, più o meno concretamente. i conti con il grande problema di questo territorio: ovvero il dissesto idrologico che aveva provocato il progressivo impaludamento della zona. Il fiume Chiana (o Clanis), che come attestano gli scrittori classici era al tempo degli etruschi e dei romani perfettamente navigabile, con una evoluzione quasi naturale, tendeva ad invertire il proprio corso dal Tevere all'Arno. A causa dei grandi interessi che via via si erano creati nella valle, le due città che si dovettero occupare maggiormente del problema furono quelle che per più tempo si divisero ed alternato il dominio sul territorio della Valdichiana e cioè Siena e Firenze. La frammentarietà degli interventi, causata dalla precaria stabilità politica che caratterizzò il periodo medioevale e il primo Rinascimento, fu un ostacolo notevole alla necessaria opera di bonifica. Solo quando, con la caduta di Siena nel 1554, tutto il territorio passò sotto il dominio dei Medici, poté essere approntato un piano coordinato e completo di bonifica. Si occuparono dei lavori nella valle tutti i maggiori artisti e studiosi del `500, da Leonardo Da Vinci ad Antonio da Sangallo, a Baldassarre Peruzzi a Vignola etc., che realizzarono anche molte opere pubbliche e private. Nel 1737 l'opera di bonifica passò dalle mani dei Medici a quelle dei Lorena, che dettero un contributo concreto al raggiungimento dello scopo, inquadrando il discorso in un ampio panorama dì politica territoriale. GLI INTERVENTI ETRUSCHI E ROMANI E IL SUCCESSIVO IMPALUDAMENTO La Val di Chiana è un solco vallivo lungo un centinaio di chilometri, fra la conca di Arezzo e la Valle del Paglia, affluente del Tevere a sud. E' limitata ad Est e ad Ovest da rilievi collinari e montuosi. L' attuale fondovalle fu percorso fin dall' epoca quaternaria e fino all' inizio dell' età storica in tutta la sua lunghezza da un alveo naturale che riceveva le acque fluviali provenienti dal Casentino e quelle di numerosi torrenti laterali (Foenna, Esse di Foiano, Mùcchia, Vingone, Esse di Cortona, Salarco, Salcheto, Parce, Mònaco e altri) determinanti un esteso impaludamento. Si crede che gli Etruschi nel secolo IV a. C. siano stati i primi ad interessarsi al suo regime idraulico al fine di prosciugare i terreni alluvionati e renderli coltivabili. A NO di Arezzo, secondo alcuni, sarebbero stati gli autori del "taglio" della goletta di Chiani e dello stretto di Monte Sopra Rondine, invertendo il corso dell'Arno verso l'attuale Valdarno superiore e liberando la Val di Chiana dalle acque casentinesi. A S di Chiusi avrebbero scavato un fosso volgendo le acque della Chiana nel Paglia da cui affluivano al Tevere all'epoca navigabile fino a Roma. Grazie a questi accorgimenti la valle si sarebbe mantenuta a lungo fertile e abitabile; quando vi giunsero i romani perfezionarono i lavori facendo erigere sul Clanis delle pescaie sorrette da muraglioni con l' intento di rendere la stessa più salubre e pescosa. E così infatti la descrivono le fonti classiche (Plinio il Vecchio, III, 54; Tacito, I, 79; Strabone, V, 225 ss.).Negli Annali Tacito riferisce che fin dall' anno 15, sotto Tiberio, il progetto di invertire il corso delle acque a sèguito di alcune alluvioni che avevano procurato preoccupanti inondazioni a Roma non ottenne l' approvazione del senato romano per l' opposizione di Florentia che temeva tale provvedimento potesse recar danno alla città. Una diga fu in effetti innalzata presso Carnaiola (a Sud di Città della Pieve) per ordine dell' imperatore Nerone nell' anno 65. Durante tutta l' epoca romana le acque vennero ben governate permanendo solo al centro del solco vallivo una plaga paludosa che si restringeva in alcuni passi, come Foiano (porti di Cortona, Valiano e Chiusi, su cui veniva gettato un ponte. Con il collasso dell' organizzazione politica dell' impero si ebbe anche la paralisi della gestione e manutenzione del suolo e del sistema di regimazione delle acque come era stato impostato dagli agronomi etruschi e perfezionato in età romana nel quadro di un processo di colonizzazione che aveva coinvolto l'intera valle. Le paludi ripresero il sopravvento. Le acque provenienti dall'aretino continuando infatti a defluire in direzione del Tevere a mezzo del canale denominato << clanis >>, da cui il nome <<chiana>>, con una pendenza limitata, ricevevano dagli affluenti grosse quantità di materiale intrasportabile che finivano con il determinare l' impaludamento di tutta la zona. Si ignora la data precisa, ma certo intorno al sec. XIII la pianura è di nuovo impaludata ad opera di un progressivo interrimento del fondo provocato da turbe alluvionali scaricate dai torrenti. Il tracciato Adrianeo della Cassia viene di fatto abbandonato e la valle appare luogo desolato e malsano. Non va però dimenticato che lo specchio d' acqua era anche una risorsa economica, e una fonte di sussistenza: intorno ad esso si era formato un sistema di insediamenti legato a questo grande bacino interno, esteso per cinquanta chilometri da nord a sud con un ampia protuberanza nella zona intermedia, fra Brolio e Montecchio. A partire dal secolo IX, i governanti aretini prima e quelli della Repubblica fiorentina poi, decisero di liberare dalle acque ( e conquistare così nuove terre alle coltivazioni ), costruendo un fosso <<maestro>> nella parte Nord del territorio. GLI INTERVENTI MEDIEVALI E LA SITUAZIONE ANTECEDENTE ALL' EGEMONIA MEDICEA SULLA TOSCANA Alla fine del '200 si hanno i primi documenti di "interventi" sulla Chiana, che non hanno nulla a che fare con la lotta all' impaludamento e alla bonifica. A dire il vero isolati tentativi di bonifica furono effettuati nei secoli X-XIII ad opera di monaci, come risulta dai documenti dell'epoca. Intorno ai monasteri e cenobi eremitici, comunità monastiche, con i loro scarsi mezzi, tentarono una paziente opera di canalizzazione e di bonifica. Questi religiosi furono definiti da alcune fonti come "i monaci delle valli e delle paludi". Ma le lotte fra Guelfi e Ghibellini e i conseguenti saccheggi e devastazioni distrussero, in breve tempo, i benefici frutti di quel paziente lavoro monacale. Le colline del Chiuso (tra Cortona, Valiano e Foiano) , per la posizione strategica, erano in antico munite di castelli e dotate, sebbene rudimentalmente, di porti per l' approdo di barche in servizio sulla Chiana. Rimane oggi la denominazione de "Il porto" a Farneta, a Cignano, Fasciano, Bettolle, Creti, Foiano e Cesa. Al riguardo gli Statutari Cortonesi nel 1325, deliberarono "tre navi nuove per i porti di Fasciano, di Foiano e di Creti, e questa di Creti lunga 42 piedi e larga 25". Deliberarono pure che "per le navi di Fasciano e di Foiano fosse chiesto il concorso rispettivamente di Montepulciano e Foiano. La spesa dei restauri al porto di Fasciano gravasse gli abitanti tra la Mùcchia e la Chiana"(Lo Statuto di Cortona dell' anno 1325). Comunque, di quel periodo, oltre alla costruzione della Chiusa dei Monaci (a Nord di Arezzo), una pescaia avente lo scopo di regolare il deflusso verso l' Arno e quindi verso Firenze (intorno al 1151), sono ricordati il porto e un ponte a Valiano (1288), una convenzione per la navigazione fra Foiano e Castiglione (oggi Fiorentino) (1338) e nel 1333 i lavori dello Stato senese per la confluenza della Foenna nella Chiana. Tutti interventi, per quanto minimi, che hanno per oggetto la manutenzione e l' uso del bacino, ma non il suo prosciugamento. Nel 1338 il governo aretino deliberò di avviare un tentativo di bonifica dei territori tra Pieve al Toppo e Ponte alla Nave facendo defluire nell'Arno le acque che vi ristagnavano mediante l' escavazione del cosiddetto fossatum novum e cioè di un fosso longitudinale lungo non più di 4 miglia (circa 6 km) e l' abbassamento di circa 6 m della soglia della Chiusa dei Monaci. Circa un secolo dopo nel 1446 la manutenzione delle opere idrauliche viene affidata al <<Magistrato dei Sei di Arezzo>>. Da questo parziale intervento, su cui si fonderà la bonifica mediceo-lorenese, dovranno trascorrere circa 200 anni prima che il corso della Chiana sia invertito per metà del bacino e altrettanti prima che sia volto interamente verso Nord. Alle oggettive difficoltà idrofisiche si sommavano quelle politico-economiche ; infatti nello scenario politico territoriale dell' epoca era infatti impensabile la possibilità di un accordo tra i governi senese e fiorentino e tra questi e lo Stato pontificio nei cui territori le acque sconfinavano a sud. Per Chiusi l' esistenza di un' area lacustre intorno alla città rappresentava una difesa naturale (da Perugia, Orvieto e dalle scorrerie armate) oltre che un cespite per le popolazioni rivierasche, donde le resistenze fatte valere attraverso Siena fino al sec. XVI contro un progetto di prosciugamento. Già dal 1444 si ha notizia di una cerimonia detta "lo sposalizio delle Chiane" che la città celebrava ogni anno sul suo lago prendendone possesso corporale e suggellandolo con un anello di argento dorato (usanza che seppure modificata, esiste tuttora). Una certa opposizione ai provvedimenti di bonifica fu sempre esercitata dalle popolazioni stanziate in prossimità della Chiana le quali scorgevano in questa operazione l' interesse specifico dei proprietari dei fondi, mentre sarebbero venuti a cessare alcuni introiti tradizionali (caccia, pesca, torbe di concime, prodotti vegetali, pascolo, traghetti e piccola navigazione) che si integravano alla misera economia di quelle comunità. In sostanza, una bonifica generale non fu realizzabile se non quando tutti i territori vallivi vennero unificati sotto i Medici che si assunsero i costi dell' impresa dietro cessione delle terre prosciugate e di censi annuali di grano. Tuttavia, una bonifica parziale dei terreni fiorentini era nei piani dei governanti di Firenze ancor prima dell' annessione di quelli senesi. Infatti già nel 1492 lo Stato Pontificio e i fiorentini avevano discusso progetti di prosciugamento riscontrando l' opposizione del terzo stato interessato cioè Siena, che intendeva in questo modo salvaguardare i già citati interessi di Chiusi. GLI STUDI DI LEONARDO, GALILEO E TORRICELLI Leonardo nel 1502, su interessamento del duca Valentino (Cesare Borgia), ebbe l'incarico di progettare una sistemazione idraulica della regione. Pare che fosse piuttosto scettico sulla possibilità di bonificarla, ma che avesse vagheggiato l' ipotesi della costruzione di un canale navigabile per il trasporto delle persone e delle cose. Infatti, le mappe che eseguì erano funzionali all'ipotesi di un canale navigabile attraverso il bacino dell'Arno fino a Pisa che comprendesse anche le acque del Trasimeno. Il livello medio del lago era di poco superiore (259 s.l.m.) e quelle della Chiana (253 s.l.m.) e la Val di Chiana avrebbe funzionato da bacino di compenso allo scopo di mantenere l'acqua costante nell'Arno. Il progetto leonardesco, primo studio organico di un vasto piano di bonifica del territorio toscano, non ebbe fortuna a causa dell' opposizione pisana. La celebre mappa riprodotta in figura fu disegnata da Leonardo negli anni 1502-1503 (e a questo scopo si era recato nel 1502 in Val di Chiana al seguito di Vitellozzo Vitelli) ed è stata ritrovata solo nel 1865; è conservata a Londra nella Biblioteca Reale di Windsor (dove è, tra l' altro, scampata all' incendio del 1992). Dal disegno si ricava che il fondovalle del bacino era quasi completamente inondato e che solo nel tratto dal porto di Pigli allo sbocco all'Arno (circa 14 km) la Chiana aveva regolare corso di canale. A S le paludi si estendevano con due espandimenti, uno a O in corrispondenza della foce del Foenna, l'altro a E verso Montecchio nei pressi di Castiglion Fiorentino. Le paludi si estendevano quasi ininterrottamente verso S, ove venivano dette "chiarine", fino ai territori dello Stato Pontificio, consentendo due soli passaggi stabili, al ponte di Valiano e a quello di Chiusi. In pratica la situazione idrografica aveva un assetto regolare solo dallo sbocco nell' Arno fino alla Pieve al Toppo (sulla strada Siena - Arezzo), mentre da quest'ultima località fino a Chiusi, si estendeva una intricata palude. Nonostante che il progetto leonardesco sia stato ben al di sopra della realtà dei tempi per poter avere un'attuazione numerosi studi successivi hanno ipotizzato il collegamento del lago Trasimeno al Canale Maestro della Chiana; ad esempio nel 1920 il Sindacato Fiorentino per le Centrali Idroelettriche contemplava come ipotesi di maggior impegno quella del collegamento dei tre laghi per avere un aumento e una maggiore costanza della portata d'acqua in Arno. Il fatto, poi, che non ne venga consigliata l'attuazione per la sua dispendiosità non inficia la sostanziale razionalità dell'ipotesi di Leonardo. Passiamo ora al pensiero di Galileo Galilei e di Evangelista Torricelli: a questo proposito riportiamo quanto scritto da E. Reclus "Dante e gli altri scrittori d'Italia ne parlano come di un luogo maledetto; la rondine stessa non osava avventurarsi nella sua fatale atmosfera. Invano gli abitanti avevano tentato di prosciugare il suolo scavando canali di scarico; l'orizzontalità della estesa piana rendeva illusorio ogni lavoro di risanamento. L'illustre Galileo, consultato sulle misure da prendere, dichiarò che il male era irreparabile: secondo lui non vi era niente da fare. Torricelli riconobbe che sarebbe stato possibile utilizzare le forze dei torrenti per dare alla vallata la pendenza che le mancava e facilitare così lo scolo delle acque; ma mai mise mano all'opera. Le discussioni tra i due stati limitrofi, Roma e Firenze, non permettevano d' altronde che il corso delle acque della Chiana fosse rettificato. Ciascuno dei due governi voleva che le acque torrenziali fossero riversate sul territorio del vicino". Pare, addirittura, che Evangelista Torricelli fosse giunto a paventare un' inondazione di Firenze qualora le acque chianine fossero state interamente riversate in Arno. All'opposizione del Torricelli si deve anche l'abbandono del progetto di "disseccamento" totale della Chiana, commissionato dai fiorentini nel 1635 al castiglionese Enea Gaci, in cui si proponeva sia di scavare ulteriormente il canale Maestro in modo da aumentarne la capacità di deflusso nonché di abbattere la Chiusa dei Monaci. LA BONIFICA MEDICEA E L' APPODERAMENTO DELLA CHIANA La palude copriva ancora, a metà del '500, oltre 11.000 ettari di terreno di cui 8.800 nella Chiana toscana. E' da questo periodo che comincia l'opera costante di prosciugamento dopo che la Comunità di Foiano (1525) e poi quella di Castiglione (1532) hanno ceduto i propri territori allagati a membri della famiglia Medici, che ne faranno il primo nucleo delle future fattorie granducali. La parte della palude nelle vicinanze di Creti fu bonificata già dal 1549 dall'idraulico Vincenzo Vagnotti (di cui ancora oggi porta il nome) per ordine di Cosimo de' Medici il Grande, che trasformò in realtà l'auspicio e il progetto del congiunto Giulio de' Medici, che aveva acquistato nel 1533 la parte di palude posseduta dal comune di Cortona, obbligandosi ad assiccarlo a sue spese, ma morì nel 1534 mancandogli il tempo di porre mano all'opera. Le condizioni dell'acquisto - che poi non verranno rispettate - sono quelle di pagare un tanto per ogni "staioro" di terreno prosciugato e di consentire annualmente il pascolo gratuito dopo i raccolti. Ad orientare definitivamente le sorti della valle verso un destino agricolo contribuisce il raggiungimento dell'unità politica della Chiana toscana con l'annessione di Siena allo Stato Fiorentino dopo la rotta di Marsciano (1554): da questo momento l'unica frontiera rimarrà quella dello Stato Pontificio, che segnerà una divisione politica e soprattutto idraulica e finirà per coincidere, salvo qualche controversia marginale, con lo spartiacque artificiale fra Tevere ed Arno. Per qualche decennio la storia della Valle registra la presenza di un banditismo di frontiera, poi il successo della bonifica sociale è affidato alla bonifica idraulica. Da una perizia commissionata nel 1551 da Cosimo dei Medici a A.B. Ricasoli (corredata da una pianta della Chiana che è considerata la più importante dopo quella di Leonardo) e da altre carte quasi coeve si apprende che le acque muovevano in direzione S dall'altezza del porto di Brolio (NE di Foiano) erano ferme da qui al porto di Pigli (N di Montecchio), donde per i lavori da poco eseguiti scendevano a N verso l'Arno. L'osservazione della cartina del Ricasoli, permette di stabilire che ben undicimila ettari (quasi un decimo della Valle) a partire dalla Pieve al Toppo, a Foiano (della Chiana), Torrita di Siena, Montepulciano e Chiusi, erano coperte da acque stagnanti e quindi improduttivi. Divenuto granduca di Toscana e interessato personalmente alla bonifica di quei territori da cui avrebbe ricavato per sè come proprietario fondiario o per Firenze (non vi era distinzione precisa tra patrimonio privato del granduca e beni pubblici) cospicue derrate di grano e cereali, Cosimo I ordinò che l'escavazione del grande collettore già in funzione nella piana di Arezzo proseguisse dal Porto di Pigli verso S e ne affidò la direzione dei lavori proprio al già citato Ing. Ricasoli (1551). In pochi anni il collettore, che prese il nome di canale "Maestro della Chiana" raggiunse l'altezza dei porti di Cortona (vicino Foiano) facendo così arretrare lo spartiacque a circa metà della valle. Da qui al ponte di Valiano le acque erano ancora stagnanti espandendosi per parecchi km dall' alveo naturale alle plaghe adiacenti; intorno al porto di Brolio formavano un lago, un altro permaneva a Lega a N di Montecchio, entrambi poi prosciugati. Con Ferdinando I de' MEDICI - secondo successore di Cosimo I - iniziarono in modo sistematico i lavori di bonifica della valle così sintetizzabili: a) le acque della Chiana si versano in Arno a partire da Foiano, mentre defluiscono nel Tevere quelle a sud di Valiano (siamo nel 1591); b) le acque della Chiana che vanno verso l'Arno partono ancora più a sud, dal lago di Montepulciano (1599). Nel corso di cinquanta anni si ebbe così uno spostamento dello spartiacque verso sud, dovuto alla inalveazione di alcuni torrenti ed al naturale movimento del terreno. Ed è proprio su questo terreno bonificato che vennero costruite le prime grandi fattorie della valle e le vie di comunicazione interne, indispensabili per il trasporto dei materiali agricoli. Nello stesso periodo i corsi dei torrenti Esse e Foenna, che alluvionavano il bacino di NO fino a Serre di Rapolano e Monte San Savino, e al centro i fondali di Sinalunga, Bettolle, Torrita, furono convogliati nel tratto del canale già conosciuto e invertendo la loro direzione, indotti a defluire verso N. Per far ciò era indispensabile abbassare la " Chiusa dei Monaci " in prossimità di Arezzo, operazione questa, osteggiata dai fiorentini, timorosi che l'Arno e quindi Firenze, potessero subire le conseguenze degli eccessi d'acqua, scaricati dalla Chiana. Il livello di caduta del canale Maestro restava insufficiente a permettere di trasporto delle acque (meno di 3 m in 20 km) inoltre, onde evitare che gli argini fossero travolti dalle piene (dal 1547 al 1607 la Chiusa dei Monaci, indispensabile regolatore delle Chiane, venne devastata dieci volte), furono approntate faticose opere di escavazione, arginature e inalveazioni di torrenti sotto la direzione di Gherardo Mechini. Nel Seicento i lavori di bonifica ebbero una stasi dovuti a contrasti di ordine tecnico, economico e politico. Come Firenze, anche lo Stato Pontificio, confinante a sud della Val di Chiana con il Granducato di Toscana, non era favorevole alla esecuzione di quei lavori, per paura che la palude subisse uno spostamento verso le terre dello Stato della Chiesa. Lo Stato Pontificio, nel cui territorio defluivano ancora le acque della Chiana meridionale e dei suoi affluenti, sollevò il problema forse in seguito all'inondazione di Roma del 1598; e nell'anno 1600 fu raggiunto un accordo con il granducato per la costruzione di un argine di sbarramento sul torrente Astrone prima della sua confluenza nel torrente Chiani: di tale argine detto Clementino dal nome del pontefice allora regnante, restano tracce visibili presso il mulino di Buterone, nelle vicinanze del muro romano fatto innalzare da Nerone. Tali lavori non furono accolti favorevolmente nel versante toscano e infatti provocarono l' innalzamento delle acque della Chiana fino a sommergere parzialmente la torre di Beccati Questo che come risulta da alcuni rilievi ancora nel 1789 era circondata dalle acque. Persistendo la crisi economica che aveva colpito il granducato, per buona parte del sec. XVIII la bonifica subì un rallentamento e, in certe zone, si ebbero effetti regressivi dovuti allo straripamento dei torrenti. Lo spartiacque si stabilizzò tra le paludi di Foiano e il ponte di Valiano. In una carta del 1640 del disegnatore francese Sanson, la Valdichiana è ancora rappresentata come una lunga regione paludosa che si distende da Arezzo fino oltre Chiusi e la cui bonifica appare quasi irrealizzabile (si vedano i pareri di Galileo e Torricelli). L'unico intervento degno di nota di quegli anni fu la decisione di dare inizio nel 1653 ad opere di allargamento e approfondimento del canale Maestro onde scongiurarne l' interramento. In questi anni (1664) si ha la firma di una nuova Concordia tra il governo granducale e la corte pontificia che stabiliva una serie coordinata di interventi al fine di regolamentare le acque di confine, per l' esattezza quelle comprese tra i Chiari di Chiusi e di Città della Pieve. Alla Concordia era legata una pianta dell' area interessata con indicazioni idrografiche e planimetriche oltre a annotazioni sugli insediamenti posti ai margini delle zone paludose. Le opere di bonifica ripresero negli ultimi decenni del granducato mediceo, e continuarono durante il periodo transitorio della "reggenza". In questo periodo le disposizioni di Francesco Stefano di affittare le fattorie di sua proprietà e di incaricare gli affittuari a svolgere i lavori necessari per la bonifica, non ebbero effetti positivi poichè questi si preoccuparono, sopratutto, di capitalizzare l' abbuono che veniva loro riconosciuto anzichè operare seriamente per fare i lavori necessari. Tra le due diverse tendenze, quella dell'essiccazione mediante canali di scolo già attuata dagli Etruschi e dai Romani (ora suggerita dal matematico e ingegnere gesuita Leonardo Ximenes) e quella alluvionale con il sistema detto delle colmate ideato da Leonardo e già sperimentato da Gherardo Mechini alla fine del Cinquecento, prevalse quest'ultima. In vaste aree arginate venivano convogliate le acque di torrenti e reglie a depositarvi i limi e i detriti che trasportavano al fine di sollevarne il fondo e di restituire al canale Maestro acque chiarificate. Sotto la direzione dell' ing. fiorentino Giuliano Ciaccheri a partire dal 1691 venne disposta la colmata del torrente Parce nelle vicinanze del Passo della Querce, deviato il corso del torrente Astrone lungo le colline ad O di Chiusi, approfondito il torrente Foenna ed effettuate altre colmate ai Paglieti, nella piana di Torrita e nel cortonese. Si calcola che nel periodo 1703-1736 le colmate sottrassero alla palude quasi 4000 ha di terreni coltivabili. Nel frattempo nel 1718 in un convegno a Città della Pieve, si era definito ufficialmente ed una volta per tutte, presso Chiusi lo spartiacque tra la Chiana tributaria del Tevere e quella tributaria dell'Arno (più tardi nel 1780 si arriverà alla stipula di un Concordato che prevedeva tra l'altro la costruzione dell'argine di separazione in corrispondenza di detto spartiacque). Nel 1723 a S di Valiano, di traverso al corso della Chiana fu innalzato un "callone di scolo ", mentre un' altra diga regolabile detta "Callone di Campo alla Volta" fu costruita poco a S di Chiusi in territorio pontificio nel 1741. Nel 1737 alla morte dell'ultimo granduca mediceo Gian Gastone il governo fu affidato in reggenza al principe di Craon. Questi e il suo consigliere conte di Richecourt trovarono una situazione economica disastrata dalla caoticità delle ultime amministrazioni medicee. Per quanto riguardava la Valdichiana, oltre ad essere vietato il libero commercio dei grani ed i prezzi stabiliti sulla base di leggi annonarie superate, i beni della corona, dell'Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano e del clero godevano di completa esenzione fiscale, la proprietà fondiaria era soggetta a manomorte ed altre restrizioni che ne impedivano la commerciabilità. In questa situazione i lavori di bonifica non fecero significativi progressi, mentre più importanti furono le misure di politica economica adottate dai nuovi governanti. Tuttavia anche in questo periodo si realizzarono interventi di bonifica non solo idraulica, come la razionalizzazione della gestione di 120 canali, fiumi, torrenti, reglie (o, come si diceva, capi d'acque) che sboccavano nella Chiana, ma economico e sociale con la costruzione di nuove abitazioni a fronte di una crescente popolazione contadina che poteva giovarsi di campagne rese salubri e di terreni particolarmente fertili. Tutto ciò suole indicarsi con il termine "appoderamento della Chiana", e consistette nella creazione delle famose dieci fattorie. LA BONIFICA LORENESE O LEOPOLDINA Nella seconda metà del '700 la Chiana è descritta in diverse relazioni quasi prosciugata dalla Chiusa dei Monaci al callone di Valiano, con numerose colmate e qualche tratto acquitrinoso ai lati del canale e nei fondali ed ampie strisce incoltivabili adibite al pascolo (comunanze). Nel 1742 rimanevano ancora da bonificare il lago di Chiusi, il lago di Montepulciano e una certa quantità di terreno ricompresa nella fascia circostante il canale Maestro della Chiana. Il terreno bonificato portò ad un aumento della popolazione ed alla realizzazione di nuove case per i contadini. Alla notevole fertilità dei terreni risanati, si aggiunsero nuovi e più razionali criteri di coltivazione, determinando un certo miglioramento delle condizioni generali, ma l'obbiettivo era ancora lontano da essere raggiunto. Con Pietro Leopoldo, l'opera di bonifica assume un significato nuovo: l'intervento non è più unicamente diretto a fine "particulare", ma viene inserito nel nuovo indirizzo della sua politica a favore delle campagne. L'azione non si limita quindi al solo aspetto idraulico ma investe tutta la gamma dei problemi di infrastrutture indispensabili a garantire le condizioni degli abitanti assegnando loro case nuove o rinnovate. Uno dei primi atti compiuti dal Granduca, fu quello di inviare Leonardo Ximenes in Val di Chiana per elaborare un progetto dei lavori necessari al definitivo risanamento della valle. Lo Ximenes propose di abbassare la " Chiusa dei Monaci", di fabbricare diversi sostegni lungo il Canale e dimostrò che l' abbassamento della chiusa non avrebbe arrecato danno alcuno alle piene dell' Arno e quindi a Firenze. Al progetto si opposero alcuni dei maggiori esperti del momento. Primo fra tutti il matematico Tommaso Perelli il quale dimostrò, correva l'anno 1769, l'inopportunità dell'intero progetto dello Ximenes e propose, tra l'altro, di scavare tutta una serie di canali per consentire un deflusso rapido delle acque del Callone di Valiano. Di fronte a due pareri così discordi, Pietro Leopoldo decise di recarsi sul posto e scegliere, con cognizione di causa, il progetto migliore. Si recò in Valdichiana alla fine del 1769 dove potè assistere alla grande colmata tra il callone e il ponte di Valiano. Al termine il granduca redasse una serie di osservazioni sullo stato della bonifica e sugli impedimenti da rimuovere (tra cui quelli delle autorità religiose); al 1771 risale un suo motuproprio con cui invitava i proprietari di terreni paludosi a bonificarli nel loro interesse e per il bene comune. Dopo attenta riflessione il Granduca decise di approvare il progetto del Perelli e redasse un piano operativo generale che prevedeva, tra le molte cose, la costruzione di vie interne di comunicazione e la eliminazione di tutte le gabelle intermedie (1781). Per porre fine ai contrasti che le opere di bonifica della valle avevano suscitato fra i due Stati, si arrivò alla firma di un concordato fra Pietro Leopoldo ed il Papa Pio VI (1780), con il quale, oltre alla regimazione delle acque che scorrevano nella zona di confine, venne convenuto di costruire un argine artificiale sulle colline di Chiusi (dove si trova ancora oggi, vicino alla stazione di Chiusi) a netta separazione fra la Chiana romana e quella toscana. In tal modo il canale Maestro potè riversare in Arno tutte le acque del bacino, comprese quelle del torrente Tresa un tempo immissario del Trasimeno e già convogliate artificialmente nel lago di Chiusi ed escluse quelle del torrente Astrone dirottate a S in territorio umbro nel torrente Chiani. In un registro del canale Maestro compilato nel 1791 e composto da un atlante di oltre 100 carte topografiche, a china ed acquerelli, sono segnati tutti i terreni a ridosso dell' alveo: colorati in giallo quelli appartenenti alla corona, in rosso quelli dell' Ordine di Santo Stefano e in bianco quelli dei proprietari privati. La valle, considerata fin dall'antichità il "granaio d'Etruria" aumentò la produzione cerealicola da 5.200 quintali del 1765 ad oltre 100.000 della fine del 1700. Per conseguire la completa regimazione delle acque saranno necessari alcuni decenni e più ancora per mettere in pratica le riforme e le opere idraulico-agrarie volute da Pietro-Leopoldo. Queste saranno condotte dal 1789 al 1827 personalmente quale esecutore o quale soprintendente l' aretino Conte Vittorio Fossombroni, (nato nel 1754 e morto nel 1844) avvocato, noto come fine diplomatico e saggio amministratore il cui monumento si trova in Piazza S. Francesco ad Arezzo. Nel 1782 il Fossombroni fu, infatti, nominato " Visitatore dei Beni di Campagna", mentre la situazione della valle nel 1789 quando il Fossombroni assunse in pratica la direzione dei lavori era descritta nella "Carta generale della Val di Chiana" contenuta nelle sue "Memorie" ed è così riassumibile: - la maggior parte della valle, compresa tra Valiano ed Arezzo, era completamenta bonificata; - i terreni che si trovavano nelle zone adiacenti ai corsi bassi dei fiumi, erano ancora improduttivi. Partendo da queste osservazioni, il Fossombroni confermò che in Val di Chiana non c'era più bisogno di lavori che la rendessero fertile, ma di un'opera manutenzione coordinata, al fine di stabilizzare le condizioni raggiunte dopo due secoli e mezzo di bonifica. Il Fossombroni, accanito sostenitore del metodo di bonifica mediante "colmata", propose quindi di dare a tutta la campagna circostante il canale Maestro della Chiana, una pendenza regolare, di abbassare nuovamente il livello della Chiusa dei Monaci e di quella del Callone di Valiano al fine di ottenere un più copioso scarico delle acque verso Arezzo. Il conte aretino, manterrà l' incarico anche durante la parentesi del regno d'Etruria e della reggenza di Elisa Baciocchi sorella di Napoleone (1809-1814), poi con Ferdinando III e infine con Leopoldo II. Nel 1820 saranno concordate con la Santa sede le bonifiche interessanti le aree a S dei chiari di Montepulciano e di Chiusi (ancora congiunti nelle stagioni di piena) con lavori al palude della Biffa e alle Bozze e con l'inalveazione dei torrenti Maranzano ed Astrone. La direzione dei lavori era intanto passata a Ferdinando Capei presto travolto da un' inchiesta amministrativa, e quindi all' ing. fiorentino Alessandro Manetti al quale fu affidata la progettazione di un nuovo piano di bonifica. A Capei si deve comunque l' aumento del 1826 della caduta del canale mediante un suo ulteriore approfondimento. Al Manetti e, in epoca post-unitaria, a Carlo Possenti si deve l' esecuzione dell' ampio reticolo dei canali minori (allaccianti e trasversali) che permise la separazione delle acque chiare dalle torbide convogliando le prime direttamente al canale Maestro e le seconde alla fine del canale stesso. E' del Manetti la deviazione del Salarco e la realizzazione di una vasca di contenimento con una cascata artificiale alta 6 metri nel 1846. Il piano elaborato dal Manetti, a partire dal 1838, si poneva in contrasto con le linee di bonifica tradizionale basate essenzialmente sul sistema delle colmate (tanto caro al suo maestro e protettore Fossombroni) che comportava un lento rialzamento dei fondali soggetti ad alluvione anche se già coltivati e, di conseguenza, l'inutilità di procedere ad un rialzamento della Chiusa dei Monaci. Ma tale provvedimento (accettato alla fine dallo stesso Fossombroni) fu indicato da Manetti come risolutore (sotto la sua direzione il regolatore aretino fu abbassato di oltre 5 m) e accolto più tardi, nel 1867, anche dall' ispettore regio Possenti. Se il piano realizzato da Manetti costituì un compromesso tra bonifica per colmata e bonifica per essiccazione, Possenti rimproverò agli esperti degli ultimi due secoli di non aver difeso con più validi argomenti la bonifica per essiccazione che si fondava su principi a suo parere più razionali. Sarebbe stato in sostanza necessario scavare fin dall'inizio al centro della valle, dal Chiaro di Montepulciano alla Chiusa dei Monaci, un ben più profondo canale che potesse ricevere le acque di tutti gli affluenti e, allo stesso tempo, diminuire il deflusso della piena nell' atto di passaggio in Arno. Non risparmiò critiche allo stesso Manetti il cui progetto risentiva ancora troppo dell' influenza del Fossombroni e delle opposizioni dei fiorentini basate su pregiudizi circa le inondazioni della Chiana. Ottenne infine un ulteriore abbassamento della Chiusa dei Monaci, il prolungamento del Canale Maestro della Chiana assegnandoli, negli ultimi dieci chilometri un andamento rettilineo e una nuova inalveazione di torrenti Chiani e Foenna oltre al già citato Salarco. GLI INTERVENTI DEL XX SECOLO La bonifica integrale sarà portata a compimento nel ventennio fascista. Un progetto di colmata dei due laghi residui di Chiusi e Montepulciano approvato nel 1918, non fu fortunatamente attuato. A pari distanza dai due laghi fu eretto un regolatore con cateratte. Resta non scongiurato il pericolo di una colmata naturale: si calcola che il lago di Montepulciano dal 1880 ad oggi abbia ridotto di quasi tre quarti la propria superficie. Tra il 1908 e il 1910 fu allargato il tratto terminale del canale maestro, dal porto a Cesa e fino alla Chiusa dei Monaci. Nel 1928 si diede inizio ai lavori per la realizzazione di un novo corso del Foenna. Nel 1931 e 1933 venivano deviati direttamente sul canale maestro quei rii castiglionesi, precedentemente utilizzati per "colmare" la piana di Castiglion Fiorentino, per mezzo di un nuovo allacciante che attraversa in galleria la Collina di Brolio. Nel 1954 l'ingegner Cassi di Arezzo, sostenuto dall'Associazione agricoltori e dalla Camera di commercio di questa città, aveva redatto un "Progetto di irrigazione della Val di Chiana, degli agri aretino e perugino" che utilizzava le acque del Trasimeno ed interessava quindici comuni delle tre provincie di Arezzo, Siena e Perugia per una superficie di circa 43.000 ettari; si prevedeva tra l' altro, la deviazione nel Trasimeno del Moiano, del Maranzano, dell' Esse e del Mucchia. Il 20 novembre del 1959 fu invece presentata alla Camera dai deputati aretini Bucciarelli Ducci e Fanfani una proposta di legge dal titolo "Istituzione dell' Ente per l' irrigazione della Val di Chiana e delle valli aretine", e si proponeva ancora una volta l' utilizzazione a scopo irriguo delle acque dl Trasimeno integrate da quelle derivanti dalla deviazione dei vari torrenti toscani nel lago. Nel 1965 viene realizzato il progetto di deviazione dei torrenti Tresa, Moiano, Maranzano nel Trasimeno per alleviare i suoi ricorrenti periodi di magra. Nel 1972 l'Ente Irrigazione di Arezzo termina uno sbarramento nell' alta valle del Foenna (sotto il castello del Calcione) allo scopo di costituire una riserva idrica per l'irrigazione. Nella seduta del consiglio comunale di Chiusi del 15 Luglio 1996 è stata approvata l'istituzione di un'area naturale protetta per il lago di Chiusi. LE CASE DI BONIFICA Si tratta come già detto delle case settecentesche fatte costruire dai Granduchi di Toscana e dalla Sacra religione di Santo Stefano, e sul loro esempio, anche dai proprietari privati nelle colline sovrastanti la Chiana, ed altrove; case che, nella Valle venivano ubicate presso le pubbliche strade o lungo le vie interpoderali - spesso in scenografici rettifili - , fiancheggiate dagli immancabili gelsi, le cui foglie servivano per gli allevamenti dei bachi da seta, praticato fino verso il 1940 (nei locali della fortezza di Montepulciano fu attivo dal 1869 al 1926 uno dei più grandi stabilimenti bacologici d'Italia che arrivò a dare lavoro fino a 600 persone). Sono anche dette: "Case Leopoldine" dal nome di Pietro Leopoldo di Lorena già più volte rammentato. G.B. del Corto nella sua "Storia della Val di Chiana" asserisce che le case coloniche settecentesche furono le prime vere case rurali giacchè:" nel Medioevo e fino al secolo XV, i contadini abitavano dentro le mura dei castelli, dove, in caso di guerra, portavano al riparo il bestiame, gli attrezzi agricoli e i raccolti; successivamente abitarono in capanne o piccoli abituri di terra battuta (le cosiddette "case di terra"). Tali case, abitate fino agli anni '50, erano costruite con l'argilla e l'acqua, spesso con la paglia, come nel Vicino Oriente tuttora esistenti, e venivano dette le Casine. Nel 1700 le case rurali sorsero in mezzo al podere ampie e solide. Dovendo ospitare molte persone (ogni podere era esteso in media per 23 ha) le case coloniche sono costituite da due piani; con l' androne o portico, a volta reale, con aggraziate loggette coperte (spesso loggiati sovrapposti) oppure con un portico a terreno e una loggia al piano superiore. Erano dominate dalla torre colombaia o piccionaia a forma quadrangolare che, talvolta, assume proporzioni di notevole ampiezza, tutta finestroni a volta e con spesso una croce in ferro a vessillo che la sormonta (e all'interno in qualche caso si ha il monogramma benedettiano di Cristo "JHS" nome greco di Gesù). All'esterno, sulla facciata in genere è posto lo stemma in maiolica colorata del proprietario o una Madonna in terracotta. I due piani avevano in genere due funzioni distinte: _ abitativa e tecnico produttiva al pianterreno il rustico con le stalle per gli animali, le cantine, la tinaia, la stanza per il telaio etc. ; _ al primo piano, al quale si accede in genere per mezzo di una loggia, si hanno molte camere e l'ampia cucina detta casa per antonomasia perché, come la culina degli antichi Romani, era il centro della vita patriarcale delle famiglie, composte fin dopo la seconda guerra mondiale da 20-30 persone ed oltre (necessarie a coltivare poderi così estesi; famiglie composte in genere da più nuclei imparentati tra loro), sotto la guida del "capoccia". Il rustico è rappresentato dalle stalle, talvolta appoggiate alla casa o costruite intorno all'aia, dal granaio, dal porcile, dal pollaio sistemato all'uso chianino sopra il forno, dalle capanne, in molti casi costruite da pilastri in muratura con copertura di tegole, per la conservazione dei fieni, degli attrezzi etc.. L'unico appunto che si può fare a quelle case è la mancanza dei servizi igienici dato che hanno spaziose cucine e grandi focolari muniti di alari spesso veri e propri capolavori dei fabbri locali. RISERVE NATURALI Superficie: 470 Ha Comuni interessati: Montepulciano La Riserva è situata pochi chilometri ad est di Montepulciano, nella parte meridionale della Val di Chiana, a ridosso del confine con l’Umbria, ed oltre all’intero specchio d’acqua comprende parte del Canale Maestro della Chiana e alcuni terreni agricoli adiacenti. Il lago di Montepulciano, insieme al poco distante e ad esso collegato lago di Chiusi, è un residuo della vasta palude che ha occupato gran parte della Val di Chiana fino all’epoca medicea, e rappresenta oggi una delle più importanti zone umide dell’Italia centrale. La Riserva Naturale si colloca infatti lungo la via migratoria che attraversa la Toscana dalla Valle dell’Arno fino a quella del Tevere e rappresenta quindi un importante punto di sosta per l’avifauna che si sposta stagionalmente dai paesi africani all’Europa, oltre ad essere utilizzato da numerose specie di uccelli per lo svernamento e per la nidificazione. Il canneto a cannuccia palustre costituisce la vegetazione predominante della Riserva. Ben sviluppata è anche la vegetazione acquatica, che comprende molte specie scomparse dagli ambienti umidi italiani a causa delle bonifiche e dell’inquinamento; fra queste sono presenti la ninfea, il nannufaro, il limnantemio, il crescione di Chiana, l’erba-vescica e due specie di felci d’acqua, come la rara erba pesce e l’azolla. Le praterie umide che bordano in alcuni punti il canneto ospitano inoltre la rara orchidea palustre e l’ofioglosso, una felce altrettanto rara. Fra le specie nidificanti è compreso il tarabuso, un airone particolarmente raro in Europa per la graduale scomparsa delle zone umide: in Italia se ne contano solo 20-30 coppie. Il tarabuso costruisce il proprio nido all’interno del canneto, come fanno il più piccolo tarabusino e l’airone rosso. Altri aironi, come garzette, nitticore e sgarze ciuffetto, nidificanti nel vicino lago di Chiusi, frequentano giornalmente la Riserva per alimentarsi. L’autunno e l’inverno sono senz’altro i periodi in cui le acque del lago sono più popolate come numero di individui; vi arrivano infatti principalmente dall’Europa settentrionale e orientale un gran numero di anatidi, che svernano nel lago per poi tornare a nidificare nei luoghi di partenza in primavera. Particolare importanza riveste la presenza nella Riserva della moretta tabaccata, anatra tuffatrice considerata a rischio di estinzione a livello globale e rarissima in tutta Italia. Altre specie di rilievo sono la canapiglia, che sverna nella Riserva con un buon numero di esemplari, e il falco di palude, presente sia in inverno che nel periodo primaverile-estivo. Fra le specie presenti tutto l’anno al lago di Montepulciano è da segnalare lo svasso maggiore, elegante uccello presente nella Riserva con ben 50 coppie nidificanti, a cui si aggiungono il martin pescatore, la gallinella d’acqua, il porciglione e la folaga, oltre a numerosi passeriformi legati al canneto quali il basettino, il forapaglie castagnolo, il cannareccione e la salciaiola Il Territorio La storia del lago di Montepulciano e dell’intera Val di Chiana è segnata da continui tentativi di bonifica, iniziati già dagli Etruschi, che cercarono di combattere l’impaludamento della valle, aiutando il fiume Chiana (da Clanis, termine probabilmente etrusco ancora oggi sinonimo toscano di "palude") a migliorare il proprio drenaggio. Risultati consistenti furono comunque raggiunti solo durante il Granducato di Toscana, quando Cosimo I proseguì verso sud l’approfondimento del letto della Chiana iniziato secoli prima dalla città di Arezzo, dando il via così alla grande opera di scavo del Canale Maestro. In seguito a questo primo intervento la Chiana fu costretta a scorrere per metà verso l’Arno, mentre dall’altezza di Foiano, dove i lavori non erano ancora iniziati, continuava a riversarsi più o meno lentamente verso il Tevere, lasciando gran parte del territorio ancora impaludato. Nel ‘700 l’opera di bonifica riprende, questa volta con il metodo della "colmata": vengono realizzati numerosi canali che, con l’apporto dei loro sedimenti, hanno lo scopo di riempire lentamente le depressioni impaludate. Alla fine del secolo fu inoltre terminato lo scavo del Canale Maestro; un argine eretto nel 1780 all’altezza di Chiusi come confine tra Granducato e Stato Pontificio segna ancora oggi lo spartiacque tra la Chiana "fiorentina", tributaria dell’Arno, e la Chiana "romana", ridotta al piccolo torrente Chiani, che scorrendo verso sud raggiunge il Tevere tramite il fiume Paglia. Dopo la bonifica granducale nella zona meridionale della Valdichiana erano rimasti i laghi di Chiusi e di Montepulciano, le cui dimensioni erano comunque molto maggiori delle attuali. In particolare, il lago di Montepulciano nell’ultimo secolo ha visto dimezzata la sua superficie. Accanto ai fenomeni naturali, come l’accumulo della vegetazione morta e dei sedimenti degli immissari, l’interramento, destino finale di tutti i laghi, è stato particolarmente accelerato a causa delle pratiche agricole degli ultimi decenni, che con le lavorazioni meccaniche hanno provocato l’arrivo nello specchio d’acqua di notevoli quantità di depositi terrosi. In particolare i torrenti Parce e Salcheto, che raccolgono le acque dai campi situati a ovest della Riserva, hanno portato al progressivo interramento di questa porzione del lago, con un’avanzata del canneto a discapito delle acque libere. La geologia Il grande Bacino della Val di Chiana si estende grosso modo in direzione nord ovest-sud est, ed è compreso tra la Dorsale Rapolano - Monte Cetona ad occidente e la Dorsale Arezzo - Cortona ad oriente, prolungandosi verso sud fino alla Valle del Tevere attraverso la Val di Paglia. All’interno di questo Bacino affiorano sedimenti marini e salmastri del Pliocene, sormontati da depositi lacustri del Villafranchiano superiore. Nell’intera superficie della Riserva i sedimenti lacustri villafranchiani sono a loro volta ricoperti dalle alluvioni fluviali e dai sedimenti recenti del lago. Il mare pliocenico, che invase la depressione della Val di Chiana a partire da circa 5 milioni di anni fa, si ritirò definitivamente nel Pliocene superiore (circa 2 milioni di anni fa), e nella vallata si instaurò un grande bacino lacustre. I reperti fossili (ossa di mammut, ippopotami e cervi), rinvenuti nei sedimenti lacustri, testimoniano che questo lago occupò la Val di Chiana fino a circa mezzo milione di anni fa, dopodiché la valle divenne fluviale, con l’antenato del fiume Chiana che scorreva verso sud, gettandosi nel Tevere. In seguito, contemporaneamente al manifestarsi degli episodi vulcanici del M. Amiata e di Radicofani, tutta la Toscana meridionale subì un forte e generalizzato sollevamento e al fiume Chiana venne così a diminuire gradualmente la naturale pendenza della vallata verso il Tevere, peraltro già scarsa in origine. Ne seguì un periodo di "indecisione" del fiume tra lo sbocco nel Tevere e lo sbocco verso nord, nell’Arno, con il risultato degli estesi impaludamenti che interessarono tutta la valle fino ai tempi storici recenti. La vegetazione Il lago di Montepulciano è ecologicamente definibile come un lago eutrofico, caratterizzato cioè, come altri specchi d’acqua della regione mediterranea, da un’elevata produttività, che gli deriva dalle alte temperature, raggiunte anche grazie alla scarsa profondità, dalla buona illuminazione solare e dalla presenza di numerose sostanze nutritive, come nitrati e fosfati, provenienti dalla vegetazione marcescente e dalle zone circostanti con il deflusso delle acque. L’agricoltura degli ultimi decenni, generosa nel distribuire fertilizzanti nei campi circostanti il lago, ha spesso accentuato questa caratteristica naturale, portando in passato ai noti fenomeni dell’eccessiva eutrofizzazione, con conseguenti morie di pesci. La situazione è oggi fortunatamente migliorata, anche in seguito all’abbandono di molti terreni agricoli, e il lago continua così ad ospitare interessanti e rare specie botaniche, altrove diminuite o scomparse in seguito alla bonifica e all’inquinamento che hanno coinvolto molte zone umide. In corrispondenza del progressivo interramento del lago nella porzione occidentale, nell’ultimo secolo c’è stato un notevole avanzamento del canneto a cannuccia palustre (chiamato anche fragmiteto, dal nome scientifico della specie prevalente, Phragmites australis) a scapito delle acque libere. La cannuccia, una graminacea dalle fitte radici a rapida espansione, lascia poco spazio alle altre specie vegetali, ma la densità del canneto costituisce un buon rifugio per gli animali che popolano il lago. Fino a pochi anni fa la cannuccia veniva regolarmente tagliata per farne coperture di capanni e altri ripari, ed ancora oggi è utilizzata per il "brustico", pesce di lago cotto su brace di cannuccia. Il fragmiteto si estende nella Riserva per circa 300 ettari, ed è interrotto solo da alcuni "chiari", piccole zone di acque libere eredi degli spazi che i cacciatori creavano nel canneto per i loro appostamenti, che raggiungevano in barchino per mezzo di stretti canali che oggi si stanno gradualmente richiudendo. Ai bordi esterni del canneto, in prossimità di aree un tempo coltivate, e nei punti più elevati, le scarse precipitazioni e le temperature estive provocano il disseccamento del terreno; qui la cannuccia cede il posto a carici e scirpi, tra i quali crescono piante ormai rare come il crescione di Chiana e l’erba-sega maggiore, dalla caratteristiche foglie dentate, che in Toscana vive esclusivamente nei laghi di Chiusi e Montepulciano. Ai carici si sostituisce in alcuni punti una prateria a giunchina, che si insinua anche al di sotto del bosco igrofilo a salici e pioppi sulla sponda orientale del lago. Dove l’acqua riesce a permanere più a lungo anche durante il periodo estivo, come nelle depressioni del terreno, la vegetazione cambia ancora ed è caratterizzata dalle lunghe foglie nastriformi del coltellaccio maggiore e dal gramignone maggiore. Sono queste praterie umide a ospitare la rara orchidea palustre e l’ofioglosso, una felce altrettanto rara, oltre al giunco fiorito e al giaggiolo acquatico, vistose testimonianze della biodiversità di questi ambienti. Spostandosi verso il centro del lago, la fascia di canneto cede il posto alla vegetazione più strettamente acquatica, la cui distribuzione è funzione della profondità. Nelle acque basse e tranquille prossime alle rive galleggiano, spesso formando densi tappeti, due specie di felci acquatiche, le cui dimensioni non superano pochi centimetri. Una di esse, l’erba pesce, ha foglie ovali galleggianti disposte a coppie lungo il fusto, mentre al di sotto dell’acqua le foglie sono filiformi e pelose e svolgono la funzione di radici, anch’esse galleggianti. L’erba-pesce è particolarmente sensibile all’inquinamento delle acque e per questo negli ultimi decenni è scomparsa da molte zone umide italiane. L’altra specie di felce acquatica presente nel lago di Montepulciano, di dimensioni paragonabili alla precedente, è l’azolla, originaria del Nuovo Continente e arrivata in Italia probabilmente con la coltivazione del riso; più piccola dell’erbapesce, l’azolla ha foglie minuscole disposte a rosette, la cui parte superiore accoglie in apposite cavità numerose colonie di batteri azotofissatori, che rendono disponibile per la pianta l’azoto atmosferico; la pagina inferiore delle foglioline, sommersa, porta gli sporocarpi, particolari strutture che danno origine alle spore. Analogamente all’altra felce acquatica e, più in generale, come tutte le altre felci, l’azolla si riproduce infatti per spore e non possiede fiori. In prossimità delle rive e nei fossi ad acqua stagnante galleggia anche la lenticchia d’acqua, che ha il primato di essere la più piccola pianta con fiori, anche se questi sono decisamente invisibili. La parte galleggiante della pianta infatti misura pochi millimetri e rappresenta il fusto, privo di foglie e appiattito; dal suo margine si sviluppano i fiori e dalla sua parte inferiore penzola nell’acqua una sottile radice filiforme. Ancora vicino alle rive e fino a circa due metri di profondità vivono ancorate al fondo e con foglie galleggianti la ninfea e il nannufaro, i cui grandi fiori, rispettivamente bianchi e gialli, colorano in primavera anche il Canale Maestro e le cui foglie si sovrappongono facendo da superficie di appoggio a rane e uccelli. Anche il raro limnantemio, dalle foglie molto simili alla ninfea anche se più piccole, colonizza questa fascia di vegetazione, facendo della Riserva una delle pochissime zone umide italiane per le quali la pianta è segnalata. Un’altra rarità è l’erba-vescica, una curiosa pianta carnivora che galleggia liberamente sulla superficie del lago, dove le acque sono più calme, senza ancorarsi al fondo; al contrario delle vistose ninfee e nannufari è però poco visibile per il fatto che, in pratica, solo la lunga infiorescenza esce dall’acqua, mentre il resto della pianta resta appena sotto la superficie. Le radici dell’erbavescica portano numerose piccole bolle piene d’aria, chiuse da una lamina fornita di peli; quando piccoli invertebrati acquatici urtano questi peli la "porta" della vescica si apre e la depressione causa l’ingresso impetuoso dell’acqua che si trascina dietro lo sfortunato animale, i cui tessuti in decomposizione vengono presto assimilati dalla pianta. In questo modo l’erba-vescica si procura molte sostanze nutritive, che la mancanza di ancoraggio al terreno gli impedisce di attingere dal suolo. All’aumentare della profondità del lago il fondo viene colonizzato da piante completamente sommerse, come il ceratofillo comune, che forma vere e proprie praterie subacquee insieme a meno numerosi esemplari di millefoglio d’acqua, e alle rare ranocchina maggiore e coda di cavallo acquatica. Durante l’estate l’abbassamento del livello dell’acqua porta il ceratofillo quasi all’emersione in alcuni punti del lago, rendendolo così visibile a chi vi si avventura in barca. Nella parte più profonda del lago la luce riesce a penetrare debolmente, causa della torbidità orbidità dell’acqua, rendendo impossibile la vita alle piante. Queste condizioni di luce scarsa sono però ancora favorevoli per la vegetazione algale, rappresentata principalmente dall’alga verde Chara fragilis, che qui forma estesi tappeti filamentosi. La fauna Pensando al lago di Montepulciano, la prima immagine che viene in mente è senza dubbio quella degli uccelli acquatici che nei diversi periodi dell’anno ne affollano le acque. In particolare sono state segnalate per la Riserva ben 15 specie di uccelli considerate rare e minacciate a livello europeo, delle quali 6 nidificanti nell’esteso canneto che circonda la parte occidentale del lago. Fra le specie nidificanti è compreso il tarabuso, un airone particolarmente raro in Europa per la graduale scomparsa delle zone umide. E’ un uccello strettamente territoriale e bisognoso di tranquillità; ciascuna coppia ha infatti bisogno di un’area di circa 40-50 ettari di canneto per potersi stabilire e riprodurre. Meno esigente in quanto a superfici territoriali, il più piccolo tarabusino è ospite fisso del lago in primavera-estate, e vi nidifica con una quindicina di coppie, per poi ritornare in Africa a passare l’inverno. Entrambi appartengono alla famiglia degli aironi (Ardeidi), presenti al lago di Montepulciano con tutte le otto specie censite nella provincia di Siena. Alcune specie di questi grossi uccelli, specializzati nel catturare pesci e rane, sono le più facili da avvistare, mentre se ne stanno immobili in attesa della preda lungo le sponde dei canali e sulle rive dello specchio d’acqua. La scarsa estensione del bosco a salici e pioppi, limitato ad una sottile fascia a ridosso del confine umbro, non consente la nidificazione nella Riserva di quelle specie di Ardeidi che costruiscono i loro nidi in colonie sugli alberi; la nitticora, la garzetta e la sgarza ciuffetto infatti, pur frequentando giornalmente la Riserva per cibarsi, costruiscono i loro nidi nel vicino lago di Chiusi, dove un intricato boschetto di salici ospita una delle garzaie (così sono chiamate le colonie di aironi, dalla parola spagnola garza che significa appunto airone) più importanti dell’Italia centro-meridionale. L’airone rosso è un altro Ardeide coloniale, presente nella Riserva nel periodo primaverile-estivo, che al contrario delle precedenti specie sfrutta preferibilmente il canneto per la costruzione dei nidi. In aprile l’airone rosso occupa la Riserva con una decina di coppie, che si stabiliscono nella parte allagata del canneto, dove porteranno a termine la nidificazione, per poi ripartire alla fine dell’estate. Nel periodo invernale la Riserva è frequentata regolarmente dall’airone bianco maggiore e dall’airone cenerino, facilmente avvistabili sulle sponde del lago. L’autunno e l’inverno sono senz’altro i periodi in cui le acque del lago sono più popolate come numero di individui, specialmente da quando, con la chiusura della caccia nel lago, avvenuta in modo definitivo nel 1989, è ritornata la tranquillità; vi arrivano infatti principalmente dall’Europa settentrionale e orientale un gran numero di Anatidi, che svernano al lago per poi tornare a nidificare nei luoghi di partenza in primavera. Particolare importanza riveste la presenza nella Riserva della moretta tabaccata, anatra tuffatrice considerata a rischio di estinzione a livello globale e rarissima in tutta Italia, dove nidifica con appena 25-50 coppie, sparse in poche zone umide. Al lago di Montepulciano la moretta tabaccata è presente come svernante e, in modo irregolare, anche come nidificante, scegliendo il folto canneto. Altra specie di rilievo è la canapiglia, che sverna nella Riserva con un buon numero di esemplari. Come accade per la vegetazione acquatica, anche gli uccelli si distribuiscono in funzione della profondità dell’acqua per cercare il proprio cibo. Fra le anatre ci si può facilmente accorgere di ciò avendo la pazienza di osservare, per esempio, le differenze nel modo di nutrirsi delle numerose specie che frequentano il lago. I germani reali e le morette, insieme a canapiglie, codoni, fischioni alzavole e mestoloni, appartengono al gruppo delle anatre di superficie e frequentano le acque basse del lago, fino a poco più di mezzo metro di profondità, dove si immergono con la sola metà anteriore del corpo per strappare la vegetazione del fondo, integrando la dieta anche con piccoli invertebrati acquatici. La moretta, come anche il moriglione e la moretta tabaccata, è un’anatra tuffatrice e riesce ad alimentarsi anche nel mezzo del lago, dove l’acqua è più profonda, grazie alla capacità di immergersi fino a tre metri di profondità. Fra le specie presenti tutto l’anno al lago di Montepulciano un posto di rilievo è occupato dallo svasso maggiore, elegante uccello presente nella Riserva con ben 50 coppie nidificanti nel canneto, uno dei maggiori contingenti di tutta l’Italia centrale. Ad esso si aggiungono gallinelle d’acqua e porciglioni, uccelli appartenenti alla famiglia dei Rallidi, che si fanno spazio fra la cannuccia, in prossimità della riva, per costruire il loro nido e per cibarsi nel fango e nell’acqua bassa, restando sempre bene a ridosso della vegetazione, pronti a rifugiarvisi. Meno timida, la folaga è un altro Rallide numeroso nella Riserva, che si ciba anche nelle acque libere, nuotando spesso insieme alle anatre, dalle quali si distingue bene per la sua colorazione totalmente nera e per la vistosa placca bianca sopra il becco. Passando a piedi accanto al canneto si odono cinguettii e frusciare di cannucce, segnale della presenza delle numerose specie di passeriformi che qui si nascondono, costruiscono il loro nido e si cibano dei semi della cannuccia. Forapaglie castagnolo, salciaiola e il più grosso cannareccione, i cui nomi non lasciano dubbi sul loro habitat, cantano posati sugli steli di cannuccia, sicuri di essere ben mimetizzati grazie alle anonime tonalità di marrone delle loro piume. Lo stesso ambiente è frequentato dal basettino, passeriforme ghiotto dei semi delle canne, presente solo negli ambienti umidi più integri. Tutti gli anni la visita al lago, oltre all’indubbia emozione di poter osservare un così gran numero di animali, può sortire anche delle sorprese per la presenza inaspettata di specie che vi sostano in modo irregolare durante le loro migrazioni; è il caso ad esempio del cavaliere d’Italia, che con un gruppo di diversi individui si ferma saltuariamente al lago per un breve periodo prima di ripartire, del combattente e del piro-piro boschereccio, due trampolieri nidificanti nel nord-Europa. Fa visita al lago anche il massiccio falco pescatore, un bellissimo rapace con un’apertura alare superiore al metro e mezzo, che cattura pesci ghermendoli con le zampe dopo spettacolari tuffi da pali e altri oggetti sopraelevati sull’acqua. Di presenta più regolare è un altro rapace, il falco di palude, che volteggia sul canneto in cerca di prede, mentre anche il nibbio bruno, il lodolaio e il gheppio approfittano della concentrazione di prede nelle rive e nei campi circostanti. Le acque del lago nascondono una fauna molto interessante anche per quanto riguarda gli invertebrati. Nel fango del fondale vive infossato il mollusco Bivalve Unio elongatulus, endemico della penisola italiana, conosciuto nel territorio provinciale solo per il lago di Montepulciano e per alcuni tratti dei fiumi Elsa, Arbia, Merse e Orcia. Questo mollusco ha un curioso sviluppo larvale: la piccola larva è infatti munita di una conchiglia con un uncini che le permettono di ancorarsi alle branchie o alle pinne dei pesci di passaggio, sui quali rimane fissata, parassitandoli, fino al suo completo sviluppo, dopodichè cade sul fondo per infossarsi ed iniziare così la vita da adulto. Le abitudini alimentari di Unio elongatulus, che si nutre filtrando con le branchie le piccole particelle nutritive sospese nell’acqua, lo rendono particolarmente accline all’accumulo delle sostanze inquinanti, fenomeno che, insieme alla distruzione dell’habitat, ne ha causato una forte diminuzione in tutta Italia. Tra le fronde sommerse dei ceratofilli vivono anche Viviparus contectus e Panorbarius corneus, due molluschi Gasteropodi che in Toscana sono ormai segnalati, oltre che per i due laghi chianini, solo per il lago di Massaciuccoli e per il Padule di Fucecchio, essendo scomparsi da molte zone umide a causa delle bonifiche agrarie e dell’inquinamento. Il lago è inoltre una delle pochissime località Toscane in cui è segnalato il raro coleottero Carabus clathratus, qui presente con la sottospecie antonellii, endemica italiana. Oltre a necessitare di acque pulite, in cui cattura nuotando attivamente altri insetti e girini, questo coleottero è fortemente legato all’integrità della vegetazione riparia, dove trascorre l’inverno nascondendosi nel terreno o nelle ceppaie marcescenti degli alberi. Per quanto riguarda la fauna ittica, essa è stata purtroppo in gran parte compromessa per le ripetute introduzioni, in passato, di specie esotiche. Il lago infatti ospita circa una ventina di specie di pesci, delle quali però solo lo spinarello, l’anguilla e il cavedano sono originari di queste acque; ad essi si aggiungono specie europee come la carpa e la tinca, introdotte già in epoca romana, le americane gambusia, pesce gatto, persico sole e l’asiatico pesce rosso, oltre ad altre specie, come l’alborella, originarie dal nord Italia. In particolare il pesce gatto, grazie alla sua adattabilità e resistenza, è al momento nettamente predominante sulle altre specie, e questo a discapito delle specie più pregiate, tradizionalmente pescate a scopo commerciale nel lago. Predatore per eccellenza, anche il luccio infine abita le acque del lago, tendendo agguati nascosto dalla vegetazione. Una recente introduzione ha interessato anche i mammiferi e precisamente la nutria, un roditore originario dell’America del Sud, importato in Europa per la pelliccia. Nel lago di Montepulciano, come in molti altri corpi idrici della Toscana meridionale, la nutria si è stabilita negli ultimi decenni, in seguito alla fuga di individui da alcuni allevamenti, distrutti durante l’alluvione del 1966. La nutria scava le sue lunghe tane sugli argini del lago e dei canali, nutrendosi della vegetazione acquatica, ma frequenta per alimentarsi anche i campi circostanti. Come tutte le specie introdotte, la nutria ha avuto una forte espansione demografica, provocando spesso danni sia all’ambiente naturale che a quello agricolo. A parte questo roditore, gli altri mammiferi segnalati per la Riserva, come ad esempio l’istrice, non sono strettamente legati all’acqua, ma piuttosto frequentano le aree agricole e incolte circostanti. La faina ma soprattutto la volpe possono introdursi talvolta nel canneto in cerca di nidi di anatre o di altri uccelli acquatici da depredare, approfittando dei mesi più caldi, quando il prosciugamento di una parte del canneto, talvolta favorito dall’eccessivo prelievo idrico, rende facile l’agguato. Superficie: 341 Ha Comuni interessati: Chianciano e Sarteano La Riserva Naturale di Pietraporciana occupa la sommità, il versante settentrionale e parte del pendio meridionale dell’omonimo poggio (847 m), facente parte del crinale che, tra Chianciano Terme e Sarteano, separa la Val d’Orcia dalla Val di Chiana, raccordandosi più a sud con il Monte Cetona. Poco più a occidente, subito alla base di questi rilievi, si estendono le Crete della Val d’Orcia e la Riserva Naturale Lucciola Bella. Nella Riserva cresce una inconsueta faggeta di bassa quota, che approfitta della frescura e dell’umidità dominanti nella parte alta del versante settentrionale del Poggio di Pietraporciana, ombreggiato dalle rupi calcaree che affiorano sulla vetta. L’aspetto più interessante della vegetazione della Riserva è la faggeta che si sviluppa sul ripido versante settentrionale del Poggio di Pietraporciana, fra i 750 e gli 850 m di quota, dove l’esposizione a nord la posizione riparata dalle correnti calde mantengono un microclima fresco e umido. Si tratta di un bellissimo esempio di faggeta relitta, un residuo cioè dei più estesi boschi di faggio che, qualche migliaio di anni fa, popolavano quote molto minori delle attuali, in conseguenza dei mutamenti climatici legati alle glaciazioni. Alberi secolari si abbarbicano sullo scosceso versante del Poggio, spesso ricoperti di muschio alla base del tronco. Sebbene il faggio sia la specie dominante, ad esso si accompagnano più o meno numerosi esemplari di cerro, carpino bianco, acero montano, acero opalo, carpino nero e ciavardello. La fitta ombra proiettata dai faggi impedisce la crescita di un folto sottobosco, per cui gli arbusti sono piuttosto radi e tipici di ambienti freschi e umidi, con nocciolo, corniolo e berretta da prete. La faggeta di Pietraporciana ospita, fra le altre, due specie arbustive particolarmente rare in tutta Italia. Oltre alla belladonna, un cespuglio con bacche blu velenose segnalato anche per la Riserva Naturale Pigelleto, cresce sotto ai faggi anche la fusaggine maggiore, un parente della più diffusa berretta da prete, da cui si distingue per il frutto suddiviso in cinque lobi piuttosto che in quattro. In provincia di Siena la fusaggine maggiore, specie tipica della zona mediterraneo-montana, oltre che nella Riserva Naturale Pietraporciana è presente solo nell’abetina del Vivo d’Orcia, presso il Monte Amiata. Il sottobosco é ricco di specie erbacee dalla vistosa fioritura. Oltre ad anemoni, epatiche, bucaneve e primule la Riserva é una delle poche località della provincia in cui cresce il rarissimo giglio martagone, una liliacea divenuta rarissima a causa dell'intensa raccolta. Il Territorio Il torrente Astrone, che ha le sue sorgenti poco più a nord, segna il confine settentrionale della Riserva e dopo un lungo percorso va a gettarsi nel torrente Chiani, a sua volta tributario del fiume Paglia. Nella Riserva cresce una inconsueta faggeta di bassa quota, che approfitta della frescura e dell’umidità dominanti nella parte alta del versante settentrionale del Poggio di Pietraporciana, ombreggiato dalle rupi calcaree che affiorano sulla vetta. Il Poggio di Pietraporciana è circondato da suggestive e poco conosciute emergenze storiche e architettoniche, che costituiscono anche facili punti di accesso per una passeggiata nella Riserva. Fra queste c’è il paesino di Castiglioncello sul Trinoro, piccolo borgo arroccato su un ripido crinale, da cui si gode di un immenso panorama sulla Val d’Orcia; vi si arriva da Sarteano oppure, con una difficile strada sterrata, dalla località La Foce, villa cinquecentesca posta sulla tortuosa strada che dalla Val d’Orcia porta a Chianciano. Le rupi calcaree del Poggio di Pietraporciana sono state utilizzate in tempi remoti dall’uomo, come mostrano alcune cavità nella roccia, tra le quali la Grotta del Bruco. Probabilmente l’intero luogo era oggetto di culto dove gli stessi faggi, simbolo di maestosità e solennità, erano rispettati e quindi risparmiati dal taglio. Del resto dai rilievi del comune di Sarteano provengono numerosissime testimonianze archeologiche, che dall’età del Bronzo arrivano fino all’epoca romana. A Poggio Rotondo, tra Castiglioncello del Trinoro e il Poggio di Pietraporciana, sono state rinvenute ad esempio numerose tombe etrusche a pozzetto e a ziro risalenti al VII-VI sec. A. C., i cui reperti sono attualmente custoditi nel Museo Civico Archeologico di Sarteano La geologia Nella maggior parte della Riserva affiora la Formazione di S. Fiora (Cretaceo superiore, 95-65 milioni di anni fa), costituita da varie rocce sedimentarie, quali calcareniti, arenarie, calcari marnosi e argilliti. Il Membro delle Arenarie del Monte Rufeno, un’arenaria calcarea intercalata nella Formazione di S. Fiora e meglio conosciuta come Pietraforte, forma una buona parte del Poggio di Pietraporciana e tutto il crinale che lo collega all’altura di Castiglioncello sul Trinoro. In corrispondenza del fosso Cavallo e del fosso della Ginestra, fino al torrente Astrone che li riceve, affiora in "finestra tettonica" la Formazione della Scaglia toscana, principalmente costituita da rocce sedimentarie (argilliti rosse e verdi, marne e calcari a varia granulometria) risalenti al Cretaceo inferiore-Oligocene medio (140-30 milioni di anni fa). La parte sommitale del Poggio di Pietraporciana, comprese le rupi, è costituita da una placca di biocalcarenite, i cui materiali di disgregazione vanno a costituire parte delle pendici settentrionali del Poggio, dove cresce la faggeta. Si tratta di un calcare organogeno (formato cioè ad opera di organismi viventi) risalente al Pliocene inferiore (5-3,5 milioni di anni fa), che faceva parte di una piattaforma carbonatica situata ai bordi del mare pliocenico, dove le acque erano basse e calde. I biocostruttori di questa antica scogliera furono alghe rosse corallinacee del genere Lithothamnium e microrganismi dotati di guscio calcareo, principalmente rappresentati dal Foraminifero Amphistegina. L’aspetto cariato, vacuolare e facilmente disgregabile di questo calcare è tipico delle rocce biocostruite. Vi si ritrovano inoltre i resti di Bivalvi e Brachiopodi. La vegetazione L’aspetto più interessante della vegetazione della Riserva è la faggeta che si sviluppa sul ripido versante settentrionale del Poggio di Pietraporciana, fra i 750 e gli 850 m di quota, dove l’esposizione a nord la posizione riparata dalle correnti calde mantengono un microclima fresco e umido. Si tratta di un bellissimo esempio di faggeta relitta, un residuo cioè dei più estesi boschi di faggio che, qualche migliaio di anni fa, popolavano quote molto minori delle attuali, in conseguenza dei mutamenti climatici legati alle glaciazioni. Durante le glaciazioni, che ebbero il loro massimo sviluppo circa 10.000 anni fa, i ghiacci ricoprirono gran parte dell’Europa e i ghiacciai alpini arrivarono a lambire la Pianura padana; questo portò a un generale spostamento della fasce vegetazionali montane verso quote più basse, dove si erano create condizioni a loro adatte. Le foreste di faggio "scesero" così di quota, fino a ricoprire le colline più prossime alla costa. Con il ritiro dei ghiacci, il graduale riscaldamento del clima fece indietreggiare il faggio, che andò a ricoprire progressivamente altitudini maggiori, fino a quelle montane attuali; solo alcuni sporadici esemplari rimasero alle quote più basse, laddove le condizioni climatiche locali si mantennero simili a quelle passate. In provincia di Siena esistono altri esempi di faggi a bassa quota, come nelle Riserve Naturali Farma e Castelvecchio, ma solo a Pietraporciana la specie forma una vera e propria faggeta, assimilabile per le specie che vi compaiono alle faggete montane. Dal Podere Pietraporciana un fitto viale di aceri guida verso la faggeta, che compare d’improvviso appena il versante comincia a divenire più ripido, al riparo dell’affioramento roccioso sommitale. Alberi secolari si abbarbicano sullo scosceso versante del Poggio, spesso ricoperti di muschio alla base del tronco. Sebbene il faggio sia la specie dominante, ad esso si accompagnano più o meno numerosi esemplari di cerro, carpino bianco, acero montano, acero opalo, carpino nero e ciavardello. La fitta ombra proiettata dai faggi impedisce la crescita di un folto sottobosco, per cui gli arbusti sono piuttosto radi e tipici di ambienti freschi e umidi, con nocciolo, corniolo e berretta da prete. Dove l’ombra dei faggi si fa meno compatta crescono anche folti alberelli di sambuco, pianta amante dei suoli ricchi di azoto, da sempre utilizzata sia come colorante che per marmellate e preparazioni erboristiche. La faggeta di Pietraporciana ospita, fra le altre, due specie arbustive particolarmente rare in tutta Italia. Oltre alla belladonna, un cespuglio con bacche blu velenose segnalato anche per la Riserva Naturale Pigelleto, cresce sotto ai faggi anche la fusaggine maggiore, un parente della più diffusa berretta da prete, da cui si distingue per il frutto suddiviso in cinque lobi piuttosto che in quattro. In provincia di Siena la fusaggine maggiore, specie tipica della zona mediterraneo-montana, oltre che nella Riserva Naturale Pietraporciana è presente solo nell’abetina del Vivo d’Orcia, presso il Monte Amiata. Gran parte delle piante erbacee che crescono nella faggeta hanno la caratteristica comune di approfittare dei primissimi mesi primaverili per portare a termine il loro ciclo riproduttivo, quando i faggi non hanno ancora le nuove foglie. Dopo aver trascorso l’inverno sotto forma di organi di riserva sotterranei (bulbi, rizomi ecc.), queste piante ripopolano velocemente il sottobosco con le loro foglie e, subito dopo, con le loro fioriture. I primi a comparire, spesso già in febbraio, sono i candidi fiori del bucaneve; i boccioli di questa bulbosa sono rivestiti da una guaina fogliare, adattamento utile nelle faggete di montagna in cui il fusto che porta il fiore deve spesso attraversare uno strato di neve. L’anemone epatica e l’anemone nemorosa, due ranuncolacee dal fiore rispettivamente viola e bianco, spuntano quasi contemporaneamente e, come il bucaneve, hanno escogitato un efficiente meccanismo per diffondere i semi che matureranno più tardi. Grazie alla presenza di un’appendice carnosa e zuccherina i semi del bucaneve e i minuscoli frutti delle anemoni sono infatti particolarmente ricercati dalle formiche che li trasportano lontano favorendo l’espansione della specie. La stessa strategia per la dispersione dei semi caratterizza inoltre le primule, anch’esse fra i primi fiori ad apparire nella faggeta. Qualche tempo dopo, a partire da aprile, compaiono le numerose fioriture bianche dell’asperula, una pianta erbacea tipica delle faggete con suolo profondo e facilmente riconoscibile per le piccole foglie ellittiche attaccate intorno al fusto a gruppi 6-8, ruvide al tatto nella pagina inferiore per la presenza di minuscoli uncini. Come l’asperula, anche la dentaria pennata è una pianta fortemente adattata all’ombra e ricopre, con le sue caratteristiche foglie seghettate, divise in sette lobi, diversi punti della faggeta. Ad esse si aggiunge il sigillo di Salomone, dal cui lungo fusto ricurvo pendono gruppi di fiori bianchi a forma di campana; il rizoma di questa specie era utilizzato per far rimarginare o "sigillare" le ferite, rimedio utilizzato secondo la leggenda anche dal re Salomone. Più difficilmente individuabili sono le fioriture dell’orchidea nido d’uccello, così chiamata per le radici intrecciate e superficiali tramite le quali, grazie alla simbiosi con un fungo, assorbe i materiali in decomposizione. Questa orchidea, priva di foglie e con fusto e fiori giallastri per la totale mancanza di clorofilla, è infatti una pianta saprofita e in questo modo si è resa indipendente dalla luce del sole, così scarsa nel sottobosco delle faggete. Infine, tra le ultime piante a fiorire nella faggeta, verso giugno, ci sono due specie divenute molto rare nei boschi italiani, quali il giglio rosso e il giglio martagone, due grandi e bellissime liliacee intensamente raccolte in passato ed oggi protette dalla legge. In particolare la presenza del giglio martagone a Pietraporciana è degna di nota, poiché questa specie, spiccatamente montana, è rarissima in provincia di Siena. Proseguendo il sentiero che aggira il Poggio di Pietraporciana i faggi cominciano gradualmente a diminuire in favore del cerro, la specie che caratterizza i boschi del resto della Riserva e alla quale si aggiungono specie arboree diverse a seconda dell’umidità e del substrato geologico. Al contatto con la faggeta ed in generale in tutte le esposizioni più fresche della Riserva, sopra i 600 m di quota, il cerro cresce accanto al carpino bianco, al carpino nero, all’acero opalo e a qualche sporadico faggio. Il sottobosco è molto ricco e comprende berretta da prete, pero selvatico, corniolo e biancospino. Ciclamini, primule e numerose cefalantere colorano in primavera queste cerrete, insieme ai tappeti striscianti delle fragole di bosco e della rosa dei campi che, nonostante il nome, è tipica degli ambienti boscati. Nei suoli originatisi dall’arenaria Pietraforte diviene frequente la rovere, amante dei suoli acidi, che insieme al cerro forma il bosco ad alto fusto che ricopre il versante meridionale del Poggio di Pietraporciana. Fra le querce crescono il ciavardello, specie tipica dei suoli acidi, e il raro tiglio selvatico, riconoscibile per le foglie cuoriformi e per le profumate infiorescenze primaverili. Anche il faggio fa la sua sporadica comparsa nelle zone più fresche, spingendosi fino alla parte meridionale del versante, dove si limita però a colonizzare gli impluvi più incassati. Al di sotto dei 600 metri di quota, in condizioni di minore umidità, il cerro si associa alla roverella, al carpino nero, all’acero campestre e all’acero minore, quest’ultimo amante delle situazioni più soleggiate. Nelle zone più pianeggianti della Riserva in passato esistevano numerosi campi coltivati, che facevano capo ai vari poderi disseminati nella zona, oggi in via di ristrutturazione. In seguito all’abbandono queste superfici agricole sono state riforestate con diverse specie di conifere (abete bianco, abete greco, cedro dell’Himalaia, cipresso, douglasia e pino nero) che ricoprono, interrotte da superfici arbustate e prati, la parte sud-occidentale della Riserva, arrivando fino al limite della faggeta. Il rimboschimento a conifere ha interessato anche la parte più alta del versante orientale del Poggio di Pietraporciana, mentre la sommità, troppo pietrosa, è stata risparmiata e oggi vi cresce un prato naturale ben sviluppato, di cui fanno parte molte specie adattate all’aridità del calcare, fra le quali la più abbondante è il forasacco. Questo e altri piccoli pratelli sparsi nella Riserva, interrotti da sparsi arbusti, ospitano molte specie di orchidee selvatiche. La fauna Le specie animali più rappresentative della Riserva sono legate al bosco, e in particolare alla faggeta e alla cerreta, in cui il taglio ceduo è stato abbandonato ormai da più di un ventennio, permettendo lo sviluppo di molti alberi di grosso diametro e di un ambiente ricco e diversificato. Chi ne approfitta sono moltissimi animali, dai più piccoli invertebrati del suolo, che nei boschi indisturbati raggiunge spessori notevoli, ai coleotteri del legno fino naturalmente agli uccelli e ai mammiferi. Le vecchie ceppaie e i tronchi marcescenti vengono attaccati dai funghi, che li decompongono lentamente, e sono cibo per le grosse larve di molti coleotteri, dotate di potenti apparati boccali per attaccare il legno, che digeriscono grazie ad una simbiosi con microrganismi ospitati nel tubo digerente. Il cervo volante è fra questi coleotteri probabilmente quello maggiormente conosciuto e ammirato; si tratta infatti del più grosso coleottero d’Europa (lungo fino a 8 cm) ed i maschi di questa specie sono dotati di vistosissime mandibole simili ai palchi di un cervo, utilizzate nei combattimenti rituali per la conquista delle femmine. Le uova vengono deposte nelle ceppaie, con una preferenza per le querce, e le larve impiegano ben cinque anni per compiere il loro sviluppo, a causa dello scarso potere nutritivo del legno. La larva dello scarabeo rinoceronte necessita invece di "soli" quattro anni per metamorfosare e i maschi di questa specie sono contraddistinti da un robusto corno sul capo. A questi più conosciuti coleotteri si aggiungono molte altre specie con larve legate al legno morto per il loro sviluppo, appartenenti principalmente alla famiglia dei Cerambicidi e degli Scolitidi. Le larve di quest’ultimo gruppo si sviluppano sotto la corteccia di alberi deperienti o morti, dove scavano gallerie il cui stravagante andamento, diverso per ogni specie, si rende visibile sugli alberi decorticati. Il numero di questi Coleotteri ha subito un forte calo ed è tutt’oggi minacciato dalla scarsità nei boschi di alberi deperienti, morti o marcescenti, spesso asportati perché considerati "inutili" alla produzione forestale. Il picchio rosso maggiore si è saputo adattare benissimo a questa abbondanza di potenziale cibo vivente nei tronchi. Tambureggiando sul legno individua la presenza delle gallerie larvali e, dopo aver forato il tronco, vi infila la lingua, lunga e munita di piccole spine sulla punta, per tirar fuori la larva. Il tambureggiamento sui fusti degli alberi è usato da questo uccello anche per delimitare il proprio territorio e, naturalmente, per scavare sui tronchi più grossi il proprio nido. Il picchio verde ha abitudini molto simili, ma si spinge spesso anche fuori dal bosco, nelle radure erbose circostanti, dove cerca formiche. La presenza e l’abbondanza delle popolazioni di queste due specie di picchi è molto importante per il bosco; essi infatti sono dei potenti scavatori di cavità negli alberi che, dopo la nidificazione, vengono sovente abbandonate, divenendo rifugio per molti altri abitanti della foresta. Nella Riserva vive anche un’altra specie di picchio, il torcicollo, che non scava buchi ma occupa quelli già esistenti. Lo sparviere è uno dei numerosi rapaci diurni nidificanti a Pietraporciana, insieme al raro biancone, al falco pecchiaiolo e al lodolaio. Al contrario di questi ultimi, lo sparviere è strettamente legato al bosco anche per la caccia delle sue prede, che cattura con fulminei agguati volando tra gli alberi. Fra i mammiferi un simbolo dei boschi ben conservati è la martora, il cui habitat ideale è rappresentato dal bosco ad alto fusto, tipologia ambientale che ha subito, storicamente e anche in tempi recenti, una drastica riduzione in favore del bosco ceduo, ma che a Pietraporciana è ancora ben rappresentato. A questo si è aggiunta la caccia per la pelliccia, vietata solo da pochi anni. Tutto ciò ha portato alla rarefazione di questo mustelide in tutta Italia e alla sua scomparsa in molte zone. Oggi la martora in provincia di Siena è localizzata nei pochi boschi di alto fusto rimasti e le Riserve in cui essa è presente saranno essenziali per la ricostituzione del suo habitat, indirizzando la gestione forestale verso l’alto fusto e anche verso l’invecchiamento naturale dei boschi. La faina è un altro mustelide presente nella Riserva, molto simile alla martora ma, al contrario di questa, piuttosto comune in tutta la provincia, grazie al maggiore adattamento anche ad ambienti modificati dall’uomo, tanto che talvolta la si rinviene anche in prossimità dei paesi e delle case. La faina è stata oggetto in passato, e purtroppo talvolta lo è tutt’oggi, di una accanita persecuzione, a causa delle sue occasionali "visite" notturne in pollai o allevamenti di selvaggina, in cui spesso uno sproporzionato istinto predatorio innescato dall’alta densità delle prede è causa del fenomeno del surplus killing, e delle conseguenti stragi che vanno al di là delle esigenze alimentari del predatore. Recenti studi estesi a tutta la provincia di Siena hanno tuttavia mostrato che la dieta della faina è basata principalmente su frutta e bacche, e in secondo luogo su roditori, insettivori, uccelli, uova e insetti, a seconda delle disponibilità stagionali. La pratica di utilizzare trappole e bocconi avvelenati per tenere lontano questo Mustelide ha portato e sta portando ancora oggi grossi danni a carico di altre specie di animali selvatici. Un piccolo roditore legato agli ambienti boschivi della Riserva è il topo selvatico dal collo giallo, meno frequente del diffusissimo topo selvatico o topo campagnolo, dal quale si distingue per il pelo chiaro del sottogola e del petto. Nel bosco si ciba di ghiande, faggiole, noccioli di frutta, rosicchiando la parte legnosa per arrivare alla polpa; spesso comunque frequenta anche le zone aperte, dove trova radici e bacche. Questo topo selvatico, insieme ad altri roditori, è una delle prede della caccia notturna di barbagianni e allocco, rapaci notturni che nella Riserva trovano rifugio nelle cavità degli alberi. Qualche anno fa, fra i mammiferi della Riserva, fu segnalato il lupo, ma non ci sono notizie di una eventuale occupazione stabile di questa area. Sono invece frequenti il capriolo e il cinghiale. Negli spazi a vegetazione rada della Riserva, o semplicemente sul bordo delle strade sterrate che la attraversano, non è difficile scorgere l’upupa, un uccello amante delle larve di formiche e di altri insetti, che ricerca attivamente al suolo usando il lungo becco ricurvo. La contraddistingue la cresta di penne sul capo che si apre al momento dell’atterraggio o nelle situazioni di allarme. L’upupa è un altro dei tanti animali della Riserva che sfruttano i nidi abbandonati dai picchi per deporre e covare le proprie uova. Il biancone, il lodolaio e la poiana preferiscono invece cacciare nelle aree aperte, come la prateria sommitale del Poggio di Piatraporciana o i frequenti prati arbustati e campi incolti della Riserva, spostandosi anche nelle vicine Crete della Val d’Orcia. Anche questi rapaci utilizzano tuttavia il bosco per la loro nidificazione. In particolare il lodolaio non costruisce il proprio nido ma "ricicla" vecchi nidi di cornacchia, abitudine che in passato è costata spesso la vita a tutta la nidiata a causa della pratica di sparare sui nidi dei corvidi per controllare il proliferare di questi uccelli. Le radure sono necessarie anche al falco pecchiaiolo, nidificante nei boschi della Riserva e di tutto il comprensorio del M. Cetona, che al contrario degli altri rapaci sfrutta le aree aperte non per catturare piccoli mammiferi o serpenti ma per ricercare al suolo nidi sotterranei di imenotteri sociali come vespe, bombi e api selvatiche. Gli ambienti umidi della Riserva sono limitati al torrente Astrone e ai suoi affluenti, in cui vivono il vairone, la rovella e in minor misura, il barbo appenninico e il cavedano comune. Anche il granchio di fiume è rinvenibile in questo torrente. Ottimi sostituti di pozze o raccolte d’acqua naturali sono i fontanili che spesso accompagnano i vecchi poderi della Riserva. Queste raccolte d’acqua artificiali si rivelano molto preziose per gli anfibi, che in primavera vi si raccolgono a deporre le uova. Per tutta l’estate ad esempio il piccolo fontanile adiacente al podere Pietraporciana è colonizzato da larve e giovani di tritone crestato, che si preparano a compiere la metamorfosi che li renderà adulti e pronti a lasciare l’acqua fino alla successiva stagione riproduttiva . . IL MONTE CETONA E I SUOI SITI ARCHEOLOGICI MUSEO CIVICO PER LA PREISTORIA DEL MONTE CETONA STORIA DEL MONTE CETONA I più antichi terreni della serie stratigrafica del Cetona risalgono a circa 225 milioni di anni fa. L'ambiente era costiero, lagunare, di acque basse. Dopo alcune decine di milioni di anni il fondo marino cominciò ad abbassarsi gradualmente portando alla formazione di un ambiente aperto e più profondo. Attorno a 160 milioni di anni fa i fondali raggiunsero la quota di oltre 3.000 metri. L'ambiente iniziò a mutare circa 80 milioni di anni fa quando si ebbero i primi movimenti legati alla formazione degli Appennini; l'accumulo di detriti portati dai grandi fiumi provenienti dalla catena alpina (30 milioni di anni) e l'importante fase tettonica (10 milioni di anni) che provocò l'emersione degli Appennini e l'innalzamento del Cetona, mutarono profondamente la morfologia del fondo marino. Circa 3 milioni di anni fa (Pliocene) il Monte Cetona era un'isola circondata dalle acque e separata dall'Appennino dalla depressione dell'odierna Val di Chiana. A metà del crinale attuale, nella zona di Belverde, si estendeva un piccolo lago costiero (come testimonia la presenza in alcuni sedimenti di molluschi di acqua dolce e salmastra). Il clima era temperato caldo ed il monte ricoperto da una fitta vegetazione. Poi le acque si ritirarono gradualmente e la successione degli eventi geologici e climatici portò ad un ambiente simile a quello attuale. In questa fase inizia, sul fianco orientale del monte, la formazione di estese placche di travertino (tipo di calcare di colore biancastro sottilmente stratificato e dall'aspetto poroso) che fratturandosi hanno causato il crollo e l'accumulo di enormi blocchi di roccia. Hanno avuto origine così ripari e cunicoli che nel loro insieme formano un complesso di gallerie e di sale sotterranee frequentate dall'uomo nelle varie epoche preistoriche sia come luoghi di abitazione, sia per la deposizione dei defunti. LA RICERCA ARCHEOLOGICA La ricerca archeologica nel territorio ha avuto inizio nei primi anni di questo secolo ad opera di alcuni nobili famiglie locali. In seguito le ricerche furono affidate dalla Soprintendenza alle Antichità d'Etruria all'archeologo perugino Umberto Calzoni. Egli stesso afferma che si innamorò delle zone per "una fortunata combinazione" dopo una sua visita escursionistica fatta alla fine del 1927 all'Eremo Francescano di Belverde, avendo raccolto lungo i viottoli del bosco molti frammenti di vasellame preistorico. Il Calzoni ha scavato e segnalato, tra il 1927 ed il 1941, una ventina di cavità per alcune delle quali ha fornito un rendiconto, generalmente incompleto, dello scavo e delle modalità di rinvenimento dei materiali (oggi conservati in gran parte nel Museo Archeologico di Perugia), mentre per altre non fu mai curata alcuna edizione anche parziale. Con la scomparsa del Calzoni cessa l'attenzione per il monte Cetona. Per molti anni l'area di Belverde è stata oggetto di prolungate ricerche di clandestini che anno procurato danni irreparabili.L'Università di Siena e la Soprintendenza Archeologica per la Toscana hanno ripreso gli scavi, con scadenza annuale, a partire dal 1984. Sono stati scoperti nuovi stanziamenti all'aperto o in ripari sotto roccia; le ricerche allo stato più avanzato sono quelle nei siti di S.Maria in Belverde, del Riparo del Capriolo e di Buca del Leccio, tutti abitati nell'età del Bronzo. I materiali provenienti dagli scavi recenti, insieme ad alcuni reperti di vecchie collezioni, sono visibili presso il Museo Civico per la Preistoria del Monte Cetona. INSEDIAMENTI PREISTORICI NELL'AREA DI BELVERDE Gli insediamenti preistorici sul monte Cetona, come abbiamo già avuto di sottolineare, sono localizzati soprattutto nell'area di Belverde ed in particolare attorno al Romitorio di S. Maria. Riportiamo in breve le schede illustrative dei siti più importanti scavati e pubblicati dal Calzoni e di quelli oggetto di ricerche recenti. GROTTA DI S. FRANCESCO Deve il suo nome alla tradizione secondo la quale S. Francesco vi soggiornò per un certo periodo. Fu scavata dal Calzoni nel 1927 - 28. È composta da una serie di cavità molto articolate di cui non si conosce l'accesso originario. Nei pressi di questa si è insediato l'uomo di Neanderthal, come è testimoniato dagli strumenti litici e dai resti di fauna ritrovati nel ripiano superiore della cavità. È stata frequentata soprattutto durante il Bronzo Medio. GROTTA DELLA CARBONAIA Deve il suo nome al fatto che l'area antistante l'ingresso veniva utilizzata in passato per la preparazione del carbone. È costituita da un'unica grande cavità irregolare. I materiali più significativi recuperati dal Calzoni al suo interno sono riferibili al Bronzo Medio Appenninico. ANTRO DELLA NOCE - ANTRO DEL POGGETTO - TOMBETTA DELLA STRADA È un complesso di cavità comunicanti che si aprono lungo la strada. Sono state scavate nel 1928. Nella sala principale il Calzoni rinvenne numerose ossa umane tra cui sei crani capovolti ed uno di cane. Sono state frequentate sporadicamente dalla fine del Neolitico ed in modo molto intenso a partire dalla media età del Bronzo. Più rari sono i reperti attribuibili al Bronzo Medio Appenninico ed al Bronzo Recente. GROTTA LATTAIA È una cavità carsica scavata nel 1939 dal Calzoni e nel 1969 dall'Istituto di Paletnologia dell'Università di Roma. È stata frequentata sporadicamente dall'uomo di Neanderthal, più intensamente nelle varie fasi del Neolitico e dell'età del Bronzo. Sono venuti alla luce anche materiali di epoca romana ed ellenistica fra cui una stipe votiva, numerosi ex voto ed alcune monete di bronzo. RIPARO DEL CAPRIOLO In origine doveva trattarsi di una cavità piuttosto ampia la cui volta è progressivamente arretrata per crolli successivi. Lo scavo, effettuato dall'Università di Siena nel 1987, ha messo in luce una stratigrafia che comprende quattro superfici di abitazione intercalate a episodi di crollo. I materiali recuperati sono tutti riferibili al Bronzo Medio iniziale. S. MARIA IN BELVERDE Si tratta di un abitato all'aperto situato in prossimità del Romitorio di S. Maria. Le varie campagne di scavi qui effettuate a partire dal 1984 dall'Università di Siena hanno messo in luce l'esistenza di una stratigrafia comprendente piani di abitati, in parte sovrapposti, che vanno dall'antica età del Bronzo fino al Bronzo finale.