APPUNTI DI
RELATIVITA’ RISTRETTA
§1. RICHIAMI STORICI E PREMESSE GENERALI DI MECCANICA CLASSICA
Com’è noto la meccanica classica, codificata da Newton nei tre suoi Principi fondamentali della
dinamica , trae lo spunto da un altro e non meno famoso e fondamentale principio della meccanica,
il cosiddetto Principio di relatività galileiano, che pur non esplicitamente enunciato da Galileo è
da lui pienamente compreso e così mirabilmente espresso:
“Rinserratevi con qualche amico nella maggior stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver
mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anche un gran vaso d’acqua e dentrovi de’ pescetti; sospendavi anco
in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vada versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia
posto a basso; e stando ferma la nave osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vadano
verso tutte le parti della stanza; i pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti
entreranno tutte nel vaso sottoposto; e voi gettando all’amico alcuna cosa, non più gagliardamente la dovete gettare
verso quella parte che verso questa, quando le lontananze sieno uguali; e saltando voi, come si dice, a pie’ giunti,
eguali spazi passerete verso tutte le parti.
Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, perché niun dubbio ci sia che mentre il vassello sta fermo non
debban succeder così, fate muovere la nave con quanta si voglia velocità: che (pur che il moto sia uniforme e non
fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli
potrete comprendere se la nave cammina o pur sta ferma: voi saltando passerete nel tavolato i medesimi spazi che
prima, né, perché la nave si muova velocissimamente, farete maggiori salti verso poppa che verso prua, benché, nel
tempo che voi state in aria, il tavolato sottopostovi scorra verso la parte contraria al vostro salto; e gettando alcuna
cosa al compagno, non con più forza bisognerà tirarla, per arrivarlo,, se egli sarà verso la prua e voi verso la poppa,
che se voi fuste situati per l’opposto; le gocciole cadranno come prima nel vaso inferiore, senza cadere pur una verso
poppa, benché mentre la gocciola è per aria, la nave scorra molti palmi; i pesci nella lor acqua non con più fatica
noteranno verso la precedente che verso la susseguente parte del vaso, ma con pari agevolezza verranno al cibo posto
su qualsivoglia luogo dell’orlo del vaso; e finalmente le farfalle continueranno i loro voli indifferentemente verso tutte
le parti, né mai accadrà che si riduchino verso la parte che riguarda la poppa, quasi che fussero stracche di tener
dietro al veloce corso della nave, dalla quale per lungo tempo trattenendosi per aria, saranno state separate; e se
abbruciando alcuna lacrima d’incenso si farà un poco di fumo, vedrassi ascendere in alto ed a guisa di nugoletta
trattenervisi, e indifferentemente muoversi non più verso questa che quella parte”.
Il senso del brano riportato può essere così riassunto:.
“Non è possibile stabilire, attraverso l’osservazione o una qualsiasi esperienza meccanica, se un
osservatore (e quindi il suo sistema di riferimento) si trovi in quiete oppure in moto rettilineo
uniforme rispetto a un altro considerato in quiete”.
Naturalmente basta guardare fuori dall’oblò della nave per vedere che siamo in moto rispetto
all’acqua così come, salendo sul ponte, l’aria che ci investe subito ci fa sentire che siamo in moto
rispetto ad essa; ma se non potendo vedere l’acqua potessimo osservare soltanto un’altra nave in
movimento, non potremmo stabilire se è quella che si muove nel senso osservato oppure è la nostra
che si muove in senso opposto o se invece, come è forse più probabile ci muoviamo entrambi
(rispetto all’acqua) così come, a rigore non possiamo stabilire se ci muoviamo rispetto all’acqua e
quindi anche rispetto all’aria oppure se la nave è ferma e c’è vento contro di noi.
Le considerazioni esposte negli ultimi due capoversi possono essere così riassunte:
“Tutti i sistemi di riferimento inerziali sono (meccanicamente) equivalenti e la nozione di moto
rettilineo uniforme di un osservatore rispetto ad un oggetto (o sistema di oggetti, in particolare
mezzo fluido o anche altro osservatore) ha carattere soltanto relativo.
Si noti ancora l’interconnessione tra i due tipi di osservazioni, quelle interne al sistema e quelle
esterne: non possiamo scoprire se la nave si muove rimanendo chiusi in coperta, proprio perché, se
ciò potesse accadere, lo stato di moto o non-moto acquisterebbe un significato intrinseco e quindi
assoluto, in contrasto con il carattere puramente relativo nel moto di un sistema rispetto a un altro;
viceversa la possibilità di stabilire quale tra due sistemi sia in moto dovrebbe comportare una
conferma sperimentale nelle osservazioni interne al sistema (altrimenti tale possibilità non avrebbe
alcun significato fisico).
1
Osserviamo ancora che il principio di relatività vale per il momento solamente quando il moto di
entrambi i sistemi è inerziale, ma la definizione di sistema inerziale in meccanica classica non è
esplicita: essa acquista il carattere di una nozione primitiva, come accade in geometria euclidea,
rispetto alla quale il fondamentale 2° principio della meccanica, la ben nota legge F = ma , assume
il carattere di postulato, e come tale (a rigore assieme al terzo principio di azione e reazione)
costituisce una definizione implicita che circoscrive ma non determina la nozione stessa (se no non
sarebbe più primitiva): Sono inerziali tutti (e soli) i sistemi di riferimento per i quali vale la F = m a
Tale caratterizzazione si completa poi con un altro principio - postulato, il ben noto principio
d’inerzia (1° principio della meccanica) che può essere così enunciato:
Ogni sistema persiste nel suo stato di moto relativo (o eventuale quiete) rispetto ad un altro se
non agiscono forze né sull’uno né sull’altro sistema.
Tale principio (che stranamente sembra soltanto ribadire il 2°, assicurandoci che quando F si
annulla si annulla pure a e quindi v è costante e viceversa) ci permette infatti di aggiungere :
Se un sistema è inerziale lo sono pure tutti (e soli) quelli in moto rettilineo uniforme
rispetto ad esso.
Per convincerci basta osservare che se tali sistemi non fossero inerziali non sarebbe neppure
inerziale il primo (quindi contro l’ipotesi) in quanto F = ma non muta, avendo F ed m carattere
intrinseco (misurate entrambe da strumenti le cui letture non dipendono da sistemi di riferimento,
quali sono ad es. dinamometri e bilance), mentre a, qualunque essa sia, non si modifica se ad essa
si aggiunge una velocità costante, come risulta dalle fondamentali trasformazioni di Galileo:
x’
y’
z’
t’
=
=
=
=
x - ut
y
z
t
(Trasformazioni di coordinate che intercorrono tra sistemi
R(x, y, z, t) e R’(x’, y’, z’, t’) quando l’origine del secondo si
muove con velocità u lungo il semiasse positivo delle x del
primo mentre gli assi si mantengono parallele e concordi)
Dalle trasformazioni subito si ricava, derivando rispetto a t = t’ :
dx’/ dt’ = dx /dt - u
dy’/ dt’ = dy / dt
dz’/ dt’ = dz / dt
o vettorialmente:

vX = vX - u
vY’ = vY
vZ’ = vZ
v’ = v – u
NOTA: a rigore, accanto alle
precedenti trasformazioni andrebbe
aggiunta anche: m’ = m per la massa,
3° grandezza fondamentale dopo l e t
(e per il momento solo massa inerziale)
e poi, derivando una 2° volta:
ay’ = ay
ax’ = ax
az’ = az oppure vettorialmente: a’ = a
Il principio di relatività galileiano e le connesse trasformazioni ora riportate caratterizzano, assieme
ai tre principi newtoniani la meccanica classica , che risulta tuttora pienamente valida per descrivere
tutti i fenomeni meccanici (o ad essi riconducibili). In sintesi:
le leggi della meccanica sono valide in tutti i sistemi di riferimento inerziali rispetto ai quali le
formule che le esprimono risultano quindi invarianti (o, come anche si dice, covarianti).
In buona sostanza il principio appena enunciato significa che, nell’ambito della meccanica classica,
ogni formula esprimente leggi soltanto meccaniche, valida in un sistema inerziale R, si traduce nella
stessa formula – scritta però in nuove variabili (in genere le stesse scritte con apice) – in un altro
qualsiasi sistema inerziale R’ (dove le nuove variabili rappresentano le nuove coordinate di spazio
e tempo e più in generale le nuove misure delle stesse grandezze osservate prima in R ed ora in R’);
nulla poi esclude che, in casi particolari, le nuove variabili con apici coincidano con le precedenti,
come ad es. y’= y, z=z’, t’= t, m’= m, v’Y = vY, a’x = ax (mentre invece v’X  vX) se R’ è in moto
rispetto a R con velocità u>0 lungo l’asse x.
2
Si osservi poi che spesso, in un sistema di riferimento in moto rispetto ad un certo oggetto o
fenomeno - e Einstein non mancherà di sottolinearlo, specialmente quando parla della contrazione
delle lunghezze - cambiano in parte o del tutto le modalità di misura (e in certi casi, anche se in
genere in modo non definitivo, la possibilità stessa di tale misura). Misurare ad es. le dimensioni di
un oggetto da un treno in corsa richiede metodi ben diversi dalla tradizionale misura con lunghezze
campione di chi è in quiete rispetto a esso, mentre altre sue misure comportano tecniche solo da
poco a disposizione (uso di raggi infrarossi per la temperatura) o tuttora mancanti (caso tipico
quello della sua massa).
Per meglio chiarire quanto detto si consideri un ascensore di massa M che sale con velocità costante u e si supponga
di far cadere dentro la cabina una pallina di massa m da un’altezza h lanciandola verso il basso con velocità iniziale w.
Descriviamone il moto e le sue relative proprietà prima nel sistema R di chi sale nella cabina e poi nell’altro R’ di un
osservatore fermo lungo le scale, dove essa sale (si supponga che l’urto sia elastico e che la cabina sia ad trasparente ).
______
Per il primo valgono tutte le ben note leggi: h = wt + ½ gt² ; v= 2gh + w² ; E = mgh + ½mw²; inoltre, quando la
pallina rimbalza a terra, la sua quantità di moto passa da mv a -mv mentre l’ascensore rimane fisso. Per il secondo
(che rispetto al primo si allontana con velocità relativa u) valgono le stesse leggi, come subito si verifica, sostituendo a
t, h, w, v rispettivamente t’ = t; h’ = h – ut =, w’ = w – u, v’ = v – u, e si passa quindi da E al valore E’ = mg(h –ut) +
½m(w - u)² (si noti che l’energia totale di un sistema non è una grandezza intrinseca come la massa ma varia in base
all’osservatore; per tutti gli osservatori essa non varia però nel tempo pur trasformandosi nelle diverse forme).
Per quanto riguarda poi la quantità di moto osserviamo che al momento dell’urto i valori iniziali sono: mv’ = m(v—u)
per la pallina e - Mu per la cabina; la velocità (relativa) con la quale la pallina si avvicina alla cabina è pertanto
ancora: v’ – (-u) = v-u +u = v. Dopo l’urto basta ricordare che le velocità finali V 1 e V2 di due corpi, rispettivamente di
massa m1 e m2, che si urtano elasticamente con velocità iniziali v1 e v2 sono date da:
(m1 - m2) v1 + 2 m2v2
(m2 - m1) v2 + 2 m1v1
V1 = ----------------------------V2 = -------------------------------m1 + m2
m1 + m2
Con facili calcoli si ricava allora che sempre risulta: V1 – V2 = v2 – v1 e quindi, anche nel caso nostro, l’osservatore
fisso vede rimbalzare (inizialmente) la pallina con una velocità iniziale -v di allontanamento dalla cabina, esattamente
come per R. In definitiva, pur variando le componenti delle velocità e i valori dell’energia e della quantità di moto,
permangono le leggi del moto uniformemente accelerato e continuano ad essere validi i principi di conservazione
dell’energia e della quantità di moto.
Considerazioni analoghe a quelle espresse si potrebbero fare anche per tutte le onde meccaniche
in generale: anche per esse le formule della meccanica classica restano invarianti in tutti i sistemi
inerziali, sempre che si tenga conto di tutti i sistemi di riferimento che entrano in gioco, uno dei
quali è il mezzo di propagazione.
E’ comunque opportuno approfondire l’argomento in certi suoi aspetti fondamentali, anche perché
analoghe considerazioni si proporranno nella fondamentale esperienza di Michelson - Morley, il
cui esito sempre negativo darà l’avvio alla Relatività ristretta.
Anche in questo caso partiamo da situazioni concrete a tutti ben note: supponiamo cioè di giocare
inizialmente a biliardo nel “gran navilio” di Galileo. Ovviamente, in base al principio di relatività prima largamente esaminato - il moto inerziale della nave, qualunque sia la sua velocità (in modulo
e direzione), non influisce e non può in alcun modo influire sul moto delle palle, se si esclude un
possibile diverso attrito con l’aria nelle diverse direzioni rispetto a quella del moto della nave, nel
caso in cui il gioco si svolga all’aperto, sul ponte della nave. Il discorso non cambia per un tiratore
(con la pistola o con l’arco, ma lo stesso vale per un lanciatore di peso, giavellotto ecc.): a pari
velocità iniziale, sempre escludendo l’attrito con l’aria, gli oggetti lanciati percorrono tutti la stessa
distanza in tempi uguali rispetto al tiratore, indipendentemente dal moto della nave; naturalmente un
osservatore a riva vedrebbe invece il proiettile lanciato verso prua procedere con una maggiore
velocità (accresciuta di quella della nave), ma allo stesso tempo vedrebbe allontanarsi il bersaglio nel breve intervallo di tempo durante il quale il proiettile viaggia verso di esso - in quella medesima
direzione e con quell’identica velocità di accrescimento (mentre verso poppa si avrebbero invece
corrispondenti diminuzioni).
3
Diverso sarebbe invece il discorso sostituendo il proiettile con un’onda sonora, la cui velocità
nell’aria vale all’incirca 340 m/s; la velocità delle onde sonore dipende infatti solo dal mezzo
(e dalle condizioni di temperatura e pressione alle quali si trova) e dalla sua velocità rispetto
all’osservatore (qui il bersaglio) ma non dall’eventuale velocità della sorgente rispetto al mezzo
stesso. Questo risultato di carattere sia sperimentale che teorico, valido per le onde sonore (onde di
tipo soltanto longitudinale nei fluidi) vale in generale per tutti i tipi di onde, nel senso che la
velocità di un’onda, in generale (escludiamo per il momento la luce e le altre onde
elettromagnetiche) , non dipende dalla velocità della sorgente rispetto all’osservatore mentre
ovviamente dipende dal moto relativo dell’osservatore rispetto al mezzo.
Dipende invece dalla velocità sia della sorgente sia dell’osservatore, sempre s’intende rispetto
al mezzo, la frequenza f ’ dell’onda registrata dall’osservatore. Se f è quella della sorgente:
u ± vo
f ’ = f ------E’ questa la legge del ben noto effetto Döppler, dove u0 è la velocità dell’onda
u ± vS
(sferica) rispetto al mezzo mentre v0 e vS sono rispettivamente le componenti delle
velocità dell’osservatore e della sorgente nella direzione OS (il segno è + se O si avvicina S).
Si noti che l’effetto Döppler non modifica ovviamente il principio di relatività: se ad es. l’auto della
polizia, a sirena spiegata, insegue alla stessa velocità quella dei banditi l’effetto non si presenta e
quindi la frequenza del suono udito dai fuggitivi non cambia (come subito risulta dalla formula),
essendo la situazione d’altra parte equivalente, ai fini del fenomeno, a quella delle due auto ferme in
presenza di vento contrario.
Osserviamo ancora che il meccanismo che porta all’effetto Döppler è significativamente diverso –
almeno dal nostro punto di vista – a seconda che sia la sorgente oppure l’osservatore a muoversi
(quando non si muovono entrambi e sempre, s’intende, rispetto al mezzo) : nel primo caso infatti la
velocità delle onde prodotte e poi percepite non muta rispetto al caso statico anche se la variazione
della distanza tra sorgente e osservatore modifica per quest’ultimo la frequenza dell’onda captata;
nel secondo il moto verso la sorgente (in quiete rispetto al mezzo) da parte dell’osservatore equivale
a un moto relativo rispetto al mezzo stesso e quindi cambia pure la velocità rispetto alle onde che
tale mezzo percorrono, il che comporta come prima, ma con altre modalità ed effetti, un nuova
variazione della frequenza osservata.
Illustriamo ora un’esperienza fondamentale che utilizzando la propagazione delle onde permette, in
linea di principio, di stabilire con la massima precisione (ben superiore a quella offerta dai normali
strumenti a pressione quali ad es. gli anemometri tuttora usati) la velocità infrasonica di un corpo
che si muove nell’aria, ad es. un aereo.
Si pongano sopra la fusoliera dell’aereo (vedi Fig.1) simmetrici rispetto a una sorgente O altre due
D e D’capaci di emettere e/o captare particolari onde (sonore o ultrasuoni). Siano poi S ed S’ due
superfici riflettenti le suddette onde, disposte in modo che sia OS= OS’= r.
Se d = OD = OD’ è opportunamente scelta (per un aereo che vola a circa 950 Km/h l’angolo
ODS’= OD’S’ dovrebbe aggirarsi sui 40°), un’onda emessa da D verso S’verrà riflessa da S’ e
inviata in D’ dopo un tempo che indicheremo con t’. Contemporaneamente un’altra onda emessa da
O viaggi verso S e qui si rifletta tornando in O (che e ricevente) dopo un tempo t. Verifichiamo che,
se v è la velocità dell’aereo (s è quella del suono), si ha t  t’. Vale infatti:
v
r
r
2sr
2r
2r
t = ----- + ------ = -------- = -------------- = ----------s +v
s - v s² - v ² s (1 – v²/s²)
s [F(v)] ²
S'
------->
Fig .1
S
il 1° denominatore è s +v in quanto S va incontro all’onda; il 2° è s -v
perché l’aereo (e O) vola a velocità v ma l’onda riflessa ha sempre velocità s.
Per calcolare invece t’= 2 t(D1S2) = 2 tA (tempo di andata = tempo di ritorno),
essendo sempre s la velocità dell’onda che percorre DS’ per Pitagora si avrà :
(D1S1)² = (s tA)² = r² + (DO)² = r² + (v tA)²
D
O
D'
r
4
da cui:
2 r
2r
t2 = ------------------- = --------
s 1 – v²/s²s
s F(v)
________
NOTA: per comodità di scrittura abbiamo posto  1 – v²/s² = F(v)<1 e useremo spesso tale
notazione, ricorrente in Relatività (dove c sostituisce s; altri pongono invece 1/F(v) = );
allo stesso modo indicheremo spesso con  il rapporto u /c tra la velocità del sistema in
moto e quella della luce. Si osservi che l’unica costante è c, mentre  e  dipendono da c.
________
Risulta pertanto t1 > t2 in quanto vale: 2b/s = t1 [F(v)]² = t2 F(v)  t2 = t1  1 – v²/s²
Cioè il tempo dell’onda che viaggia lungo la direzione del moto è sempre più lungo dell’altro.
Misurando quindi t1 e t2 e conoscendo s ( 340 m/s) si può dunque ricavare v, velocità in questo
caso dell’aereo rispetto all’aria, mezzo in cui si propaga l’onda (sonora).
Come vedremo questo stesso calcolo verrà applicato nell’esperimento di Michelson e Morley, il cui
fallimento sarà determinante per la nascita della Teoria della Relatività: l’aereo è la Terra e al posto
del suono c’è la luce (riflessa da due specchi S e S’) la cui enorme velocità fa sì che D e D’ siano
praticamente coincidenti con O.
Allo stesso modo avremmo potuto calcolare la velocità non di un aereo ma di una nave, disponendo le apparecchiature
sul ponte (non sotto coperta! Lì sotto l’aria viaggia con la nave e vale quindi il discorso del “gran navilio”) e v sarebbe
ancora la velocità della nave rispetto all’aria, uguale a quella rispetto all’acqua solo se non c’è vento. Si noti a tale
proposito che, simulando il volo dell’aereo o nave in una galleria del vento, si troverebbero gli stessi risultati così come,
sempre eseguendo gli stessi calcoli, si concluderebbe che un nuotatore, nuotando sempre alla stessa velocità rispetto
all’acqua di un fiume (non di un lago) impiegherebbe un tempo minore attraversando il fiume largo f e tornando subito
indietro, rispetto a quello che impiegherebbe tuffandosi da un ponte A verso il successivo B e poi tornando, se f = AB.
Per concludere queste considerazioni proponiamo ancora un utile e curioso problema, del tutto simile agli argomenti
appena esposti, noto come “il problema del cane”.
Immaginiamo che un grande battaglione di soldati, formante un quadrato di lato 100 m, sia inizialmente fermo,
schierato con la prima fila di fronte alla sedia del sovrano che, seduto in tribuna, assiste alla parata. Nell’attimo in cui il
battaglione comincia a sfilare con passo regolare un cane, la mascotte della truppa, partendo dall’ultima fila dello
schieramento corre a velocità costante verso la prima e appena raggiuntala fa dietro front correndo di nuovo verso la fila
da cui era prima partito. Sapendo soltanto che il cane ritorna alla fila di partenza proprio nel momento in cui quella fila terminando così la sfilata - passa davanti al sovrano, si chiede di calcolare la lunghezza del percorso fatto dal cane.
Il problema sembra apparentemente mancare di dati, ma non è così. Infatti, detta c la velocità del cane (sempre la
stessa), v quella del plotone ed indicatone con l (= 100 m, come si è scelto) il lato, il tempo totale T sarà la somma di
T1 (andata) e T2 (ritorno), ma sarà anche il tempo necessario al plotone per percorrere la distanza l con velocità v :
l
l
2lc
2l/c
l
2 v/c
T =T1 + T2 = --------- + ---------- = ---------- = ------------- = ------  -------------- = 1
c-v
c+v
c² - v²
1 – v²/c²
v
1 – v²/c²
__
Posto allora z = v/c si ricava 2z = 1- z²  z² + 2z – 1 = 0 => z1 < 0; z2 = -1 +  2
Quindi c = v / z2 = v( 1 + 2) (razionalizzando) e quindi il cane percorre l(1 + 2) = 241, 4 m circa.
Se il cane avesse percorso il plotone in larghezza sarebbe riuscito nell’impresa?
§2. FENOMENI ELETTROMAGNETICI E VELOCITA’ DELLA LUCE
I primi fenomeni elettrostatici (e magnetostatici) e le relative leggi di Coulomb, formalmente
identiche alla legge newtoniana della gravitazione universale, non modificano nella sostanza
l’adeguatezza dei vecchi principi meccanici nel descrivere le nuove forze che permettono di
spiegare tali fenomeni.
Il discorso però cambia quando si considerano le interazioni tra magneti e correnti o tra correnti e
correnti o in definitiva – essendo le correnti nient’altro che flussi di cariche in moto e i magneti
semplici contenitori di micro-correnti subatomiche (ipotesi di Ampère) – interazioni tra cariche e
cariche. Tali interazioni, che complessivamente danno luogo alla forza di Lorentz, dipendono infatti
5
dalla velocità : F = q (E + v X B) e d’altra parte il campo B prodotto da una o più cariche dipende
anch’esso dalla velocità (1° legge di Laplace e 1° legge dell’elettrodinamica:
d B =  i dl X r / 4 r ² r ; B =  q v X r / 4 r ² r ).
Tali campi e forze (le uniche si noti, almeno per il momento, con questa caratteristica, in quanto
nelle forze d’attrito la velocità è quella tra due corpi o mezzi in moto relativo tra loro mentre la
forza centrifuga e quella di Coriolis non fanno ora testo in quanto forze apparenti), proprio in
quanto dipendenti da una velocità che non può essere altro che quella relativa a colui che
sperimenta e misura (oppure quella relativa ad un riferimento assoluto, l’etere) non possono più
quindi essere invarianti rispetto alle trasformazioni di Galileo, come subito si può verificare,
immaginando ad es. di considerare due cariche q uguali, a distanza r tra loro, che viaggiano
affiancate tra loro con velocità v rispetto all’osservatore. In questo caso ciascuna di esse, come è
facile verificare, genera un campo B che in modulo vale:
q²
q²v²
B =  q v / 4 r ² e quindi respinge l’altra con una forza F = -------- - ------------ =
4  r ²
4 r ²
q²
q²
F = --------- (1 -   v ²) minore della sola forza repulsiva F’ = ---------- misurata da un
4  r ²
4  r ²
osservatore in moto assieme alle cariche e quindi in quiete rispetto ad esse.
Osserviamo ancora, fatto estremamente significativo nello sviluppo successivo della teoria della
relatività, che il fattore di riduzione della forza si può scrivere, nel caso del vuoto:
__________
_____
_________________________
1 – v ²/c ² = ( 1 – v ²/c ² ) ² , essendo 1/  0 0 = 1 /  (8,8541878 p F/m  0,4 H/m) =
= 299,792 Mm/s = 299.792 km/s = c velocità della luce nel vuoto.
Tale coincidenza non casuale fu, come è noto, uno dei tanti motivi che spinse Maxwell - l’altro
grande fisico dopo Newton, operatore della sintesi di tutto l’elettromagnetismo nelle sue quattro
fondamentali equazioni – a ritenere la luce (e poi tutte le altre radiazioni) una propagazione di onde
elettromagnetiche (la sua natura ondulatoria, in contrasto con l’ipotesi corpuscolare sostenuta da
Newton, era già stata dimostrata da Young e Fresnel).
Prima di passare a considerare i fondamentali e definitivi contributi alla nascita della teoria della
relatività scaturiti dallo studio dell’ottica, consideriamo ancora un altro non meno sorprendente
risultato dell’elettrodinamica in netto e inspiegabile contrasto con la meccanica classica.
Supponiamo che le due cariche di prima non viaggino affiancate ma, rispetto ad un certo
osservatore (vedi Fig. 2) una di esse (q) viaggi di moto uniforme lungo una
retta r mentre l’altra (q’) percorra similmente un’altra retta r’ incidente r e
perpendicolare ad
essa in P e consideriamo l’istante in cui q’ passa proprio per P.
Poiché ciascuna di esse equivale ad una corrente elementare appare subito
evidente, anche solamente in base alla semplice legge di Biot-Savart che,
mentre q’ esercita un campo B, quindi una forza magnetica Fq’q = q v x B
sopra q (con Fqq  r,B), q non esercita alcuna forza magnetica su q’ in
quanto, nell’istante considerato, q’ sta su r e quindi è a distanza nulla da tale
retta, per cui B’ =0 e pertanto Fqq’ = 0.
Fig. 2
6
Viene quindi clamorosamente a cadere un altro fondamentale principio della meccanica classica,
il 3°, quello di azione e reazione. Questo fatto non è isolato e trova un preciso riscontro nella
pressione della luce. Se infatti al posto di q si fanno viaggiare dei raggi di luce paralleli ad r (quindi
onde piane) mentre Q =q’ si suppone inizialmente fermo in P, ma ora libero di muoversi su di un
piano   r2 (come avviene ad es. per gli elettroni) per effetto del campo elettrico E trasmesso
dall’onda, q inizierà ad oscillare di moto armonico in  attorno a P; di conseguenza, in quanto
carica in moto, subirà pure l’azione di B che darà origine ad una forza F = q v X B, sempre avente
la direzione e il verso dei raggi (in quanto v, come s’è detto segue le oscillazioni di E). Ne deriva
quindi una pressione che può essere facilmente calcolata e sperimentalmente osservata
(illuminando da un lato una leggera lamina, ad es. le palette di un mulinello di mica, posto nel
vuoto) senza difficoltà. Si avrà infatti F = q v B = q v E /c; ma il lavoro d L compiuto su q in un
tempo dt (lavoro pari all’energia W dt che si suppone tutta assorbita nel tempo dt dall’onda di
potenza W) vale dL = W dt = q E v dt (cioè il prodotto della forza elettrica q E agente su q per lo
spostamento v dt ) e quindi:
qEv
1 dL
W
I
F = ------- = ---- ------- = ------, formula che diventa P = ---- , dove P è proprio la
c
c dt
c
c
pressione cercata e I (misurata in Watt / m²) l’intensità dell’onda incidente sulla lamina quando si
assume come q anziché la carica d’una particella quella presente sull’unità della sua superficie S
(cioè la densità di carica : F = PS = S E v / c => P = E v / c = I / c ).
La pressione della luce, o meglio e più in generale la pressione di radiazione, prevista e calcolata da
Maxwell sulla base delle sole equazioni dell’elettromagnetismo ebbe poi, come s’è detto, pieno
riscontro sperimentale: usando ad es. luce solare (I = 700 Watt / m ²) incidente perpendicolarmente
una superficie di 1 m ² totalmente assorbente (annerita con nerofumo) essa vale 2,3 m Pa, mentre
- si noti – vale esattamente il doppio se la superficie non è totalmente assorbente (“urto” totalmente
anelastico) ma invece perfettamente riflettente (elastico).
Questi risultati confermano pienamente, come nel caso delle due particelle in moto esaminato in
precedenza, la non validità del terzo principio della meccanica quando intervengono forze e campi
elettromagnetici e poiché – com’è noto dalla meccanica – il terzo principio equivale al principio
della conservazione della quantità di moto, possiamo affermare che il campo (elettromagnetico) non
conserva la quantità di moto (quindi già solo per questo invaliderebbe la meccanica classica)
a meno che non si attribuisca al campo stesso una quantità di moto (impulso) e quindi una massa
all’energia radiante.
Non è difficile, a questo punto, calcolare tali valori, a partire dalle ultime equazioni:
W
poiché F = ----- , ricordando inoltre che F t = m v , se m sta ad indicare la massa
c
corrispondente all’energia E = W t giunta sulla lamina (nel tempo t, quindi v = c)
mentre p indica l’impulso (cioè la quantità di moto), si ricava subito:
F t
t
W
t
t
E
E
m = ------- = F ------ = ------ ------ = --------- = ---- e quindi anche : m c = p = ----  m c² = E
c
c
c
c
c²
c²
c
Tali formule, attribuendo alla luce (e all’energia radiante in generale) una massa m = E/c²
– sia pure allo scopo di salvare il terzo principio e con esso la meccanica classica (ma il terzo
principio verrà mantenuto anche nella teoria della relatività) – anticipano di fatto uno dei risultati
fondamentali ottenuti da Einstein: l’equivalenza tra massa ed energia.
7
§3. EFFETTO DOPPLER, ABERRAZIONE ASTRONOMICA - ESPERIENZA DI FIZEAU
ESPERIENZA DI MICHELSON – MORLEY - IPOTESI BALISTICA DI RITZ.
Oltre alla pressione, altri fenomeni connessi con la luce presentavano prima dell’avvento della
teoria della relatività aspetti inattesi se non del tutto contradditori.
Il primo è il già citato effetto Döppler. Esso è infatti presente anche in ottica – come deve essere,
trattandosi comunque di onde (e proprio grazie ad esso gli astronomi hanno scoperto che l’universo
si sta espandendo, osservando negli spettri luminosi giunti da lontane galassie una frequenza
minore, cioè uno spettro “spostato verso il rosso “) – ma non proprio secondo le formule note. Dai
dati sperimentali risulta infatti la formula (essendo v la semplice velocità relativa tra sorgente e
osservatore): f’ = f V(c±v) / (c±v) (non c’è più distinzione tra le due), positiva se di avvicinamento.
Il secondo fenomeno riguarda la trasmissione della luce in un mezzo materiale dove, com’è noto, la
luce viaggia sempre con una velocità c’ = c / n minore di c, essendo n (>1) l’indice di rifrazione
assoluto del mezzo stesso. Nel 1851 il fisico francese Fizeau, reduce dal successo ottenuto nella
misura della velocità della luce attraverso la ruota dentata, si propose di determinare con quale
velocità la luce si propaga in mezzo in movimento;
secondo la teoria classica essa dovrebbe essere trascinata dal mezzo con velocità V = c’ ± VM ,
essendo VM quella del mezzo. Il trascinamento osservato fu solo parziale; si trovò infatti:
V = c’ ± ( 1 - 1/n² ) VM.
Altri fenomeni quali l’aberrazione sembravano invece smentire radicali cambiamenti.
L’aberrazione astronomica consiste nel fatto che ogni stella (indipendentemente dalla sua
distanza) sembra descrivere nel cielo, in un anno, una piccola ellisse il cui semiasse
maggiore ha una lunghezza apparente di 20”,5 che espressa in radianti è uguale a 0,0001 cioè al
rapporto tra la velocità orbitale terrestre (30 km/s) e quella della luce.
Mentre questo risultato permetteva, da solo, una verifica del moto orbitale terrestre, i tre
fenomeni , nel loro complesso, sembravano confermare l’ipotesi dell’esistenza di un mezzo
immateriale ma permeante tutto lo spazio vuoto, il cosiddetto etere, attraverso il quale le onde
elettromagnetiche si propagherebbero (esattamente come il suono nell’aria). Esso quindi, a buon
diritto individuerebbe (a meno di traslazioni) il sistema di riferimento assoluto posto già da Newton
a fondamento della sua meccanica. L’aberrazione suggeriva che il Sole fosse fermo rispetto ad esso,
ma si decise comunque, a partire dal 1879 (anno di morte di Maxwell e di nascita di Einstein !) e
proprio, si noti, su suggerimento dello stesso Maxwell, di misurare con quale velocità la Terra si
muoveva rispetto all’etere mediante la celebre già citata esperienza di Michelson –Morley (Fig. 3).
Le prove, ripetute in date ed ore diverse e con diverso
orientamento dello strumento, si protrassero per oltre
vent’anni e con sempre maggior precisione ma diedero
comunque risultato negativo.
La Terra non appariva mai in moto rispetto all’etere:
la velocità della luce risultava sempre la stessa in tutte
le direzioni e in ogni momento dell’anno.
Descrizione dell’esperienza di Michelson- Morley.
In essa si fa uso di una apparecchiatura a specchi (vedi figura
accanto). Un raggio di luce proveniente da una sorgente S
viene mandato sopra uno specchio piano semitrasparente Q
(lastra di vetro debolmente argentata) inclinato a 45° rispetto
ai due specchi , all’interferometro sottostante e alla direzione
del fascio di raggi luminosi.
specchio
sorgente
luminosa
specchio
specchio
semitrasparente
interferometro
Fig. 3. Esperimento di Michelson - Morley
Fig. 3: Esperienza di Michelson - Morley
8
Per effetto della semitrasparenza una parte del raggio attraversa Q e prosegue in linea retta verso lo specchio destro A
mentre un’altra viene riflessa ad angolo retto verso il secondo specchio B (posto in alto) , entrambi alla stessa distanza l
da Q e normalmente riflettenti. Il raggio riflesso da B attraversa Q sovrapponendosi con quello proveniente da A, esso
pure deviato a 45°; entrambi infine vengono raccolti sullo schermo C dell’interferometro sottostante. Se la velocità della
luce (monocromatica) non fosse la stessa lungo i due cammini di uguale lunghezza SAQC ed SQBC, si dovrebbero
osservare in C dei fenomeni di interferenza (in quanto le onde dei due raggi vi giungerebbero sfasate tra loro) sotto
forma di frange alternativamente chiare e scure; in pratica conviene dare una lievissima inclinazione ad uno solo dei due
specchi in modo da creare comunque le frange: se ruotando la piattaforma P sulla quale appoggia l’intera
apparecchiatura si osservassero sia pur minimi movimenti di tali frange risulterebbe dimostrato che la luce presenta
velocità diverse a seconda delle direzioni dello spazio verso le quali viene inviata e, supponendo com’è ovvio l’etere
isotopo, la causa di tale dissimmetria non potrebbe che essere dovuta al moto della Terra rispetto ad esso e non sarebbe
difficile calcolarne la velocità.
I calcoli da eseguire sono – come già si detto -esattamente gli stessi proposti in precedenza nel caso dell’aereo e delle
onde sonore, ma essendo la velocità della luce c circa un milione di volte più grande di quella del suono, le diverse
sorgenti di onde allora indicate ora diventano superflue: ne basta una sola e lo specchio deviatore semitrasparente.
L’esito ripetutamente negativo dell’esperienza di Michelson – Morley costituì per lungo tempo in
fisica un interrogativo senza risposta. Il primo coerente tentativo di spiegazione noto anche come
“ipotesi balistica” venne avanzato da W. Ritz.
Come suggerisce l’espressione Ritz assunse che la velocità della luce nel vuoto fosse c solo rispetto
alla sorgente da cui essa proviene, così come la velocità di un proiettile è quella che esso presenta
rispetto alla canna dell’arma da cui è sparato (quindi rispetto al tiratore) indipendentemente dal suo
stato di moto o di quiete (mentre al contrario la velocità – sempre rispetto al tiratore - delle onde
sonore prodotte dal proiettile non è più 340 m/s se il tiratore è in moto rispetto all’aria in cui esse
viaggiano, si riveda a tale proposito quanto già detto nell’esempio dell’aereo). In tal modo, in pieno
accordo con il vecchio principio di relatività galileiano, la velocità dei due raggi di luce che
percorrono l’interferometro di M. M. risulta sempre c rispetto all’osservatore (e a tutti gli specchi,
in quiete rispetto ad esso) ma al prezzo di modificare buona parte dell’elettrodinamica classica, così
come essa deriva dalle equazioni di Maxwell. Ciò è stato fatto in modo sistematico dallo stesso Ritz
ma resta comunque il problema di stabilire se tale ipotesi è in accordo con l’esperienza, cosa non
facile, essendo al solito la velocità della luce troppo grande rispetto a quella delle varie sorgenti
conosciute (non a caso tutti i vari esperimenti realizzati con sorgenti fisse o mobili e/o specchi
anch’essi fissi o mobili non permisero di dirimere la questione). Le uniche possibilità, come fu fatto
osservare, nascono considerando lunghi cammini di luce aperti, come nel caso delle stelle doppie.
Si indicano con tale espressione i sistemi di due stelle orbitanti attorno al comune baricentro., così
come sono note stelle triple o multiple, a somiglianza quindi con il nostro sistema solare (e
probabilmente altri) formato però da una sola stella e più pianeti. Risultano doppie ad esempio,
osservandole con potenti telescopi, Sirio (attorno alla stella maggiore orbita una nana bianca) e una
delle stelle dell’Orsa Maggiore, anzi oggi si può affermare che sono doppie (o multiple) più della
metà di tutte quelle conosciute. Non tutte però si presentano visivamente separate (doppie visuali), o
perché sono troppo lontane da noi o perché sono troppo vicine tra loro oppure per entrambi i
motivi; anche in questi casi tuttavia esse si distinguono da quelle semplici – sempre che il loro
piano orbitale non sia perpendicolare (o quasi) alla loro direzione – grazie all’effetto Dppler (si
parla allora di doppie spettroscopiche): quando infatti una di esse si avvicina l’altra si allontana e
quindi le righe dello spettro della prima appaiono spostate verso il violetto mentre quelle della
seconda sono spostate verso il rosso e tale situazione si inverte regolarmente ogni mezzo periodo
(salvo, s’intende, la fase stessa di inversione).
Nel caso di due stelle aventi pressappoco la stessa massa esse ruotano sopra un’unica circonferenza
in posizioni diametralmente opposte rispetto al baricentro centrale. Se il piano di tale orbita non è
esattamente perpendicolare alla direzione visuale (cosa che ovviamente capita solo di rado) le
velocità delle due stelle saranno quindi, rispetto all’osservatore terrestre, b + v e b – v, essendo b
9
la componente radiale della velocità del baricentro (dovuta anche al moto orbitale terrestre) e v
quella di ciascuna stella nel moto orbitale attorno al baricentro.
Se valesse l’ipotesi di Ritz le velocità della luce emesse dalle due stelle sarebbero allora
c + b + v per quella che si avvicina e c + b – v per quella che si allontana e quindi oltre all’effetto
Doeppler si dovrebbero presentare delle apparenti perturbazioni dovute al fatto che sulle enormi
distanze che ci separano anche dalle stelle più prossime (per le doppie visuali, quindi quelle
relativamente più vicine, è sempre dell’ordine di decine o centinaia di anni-luce) un raggio emesso
da ciascuna stella nella fase di allontanamento potrebbe essere quasi raggiunto se non superato da
quello emesso dalla stessa stella un semiperiodo dopo (intervallo di tempo che può essere anche
soltanto dell’ordine di qualche mese) nella successiva fase di avvicinamento, anche per non elevati
valori di v. Mai però nulla di tutto ciò è stato osservato.
Si può quindi affermare con ampio margine di certezza che l’ipotesi balistica della luce è
decisamente contraddetta dalle osservazioni, almeno nel margine degli errori sperimentali.
Un altro tentativo per cercare di spiegare l’esito negativo dell’esperienza di M. M., o più
esattamente una semplice ma importantissima constatazione dovuta a Lorentz, contribuì sia pur
indirettamente a suggerire ad Einstein la sua rivoluzionaria ipotesi esplicativa. Lorentz osservò
infatti che per riuscire a giustificare l’inatteso risultato basta supporre che tutti i corpi in moto si
accorcino nella direzione del moto di un fattore esattamente uguale ad F(v): in tal modo
l’inspiegabile differenza tra t1 e t2 ovviamente scompare. Detta in questi termini la proposta poteva
sembrare un semplice “escamotage” per salvare, come si dice, capra e cavoli (l’etere e il suo
riferimento assoluto da una parte e il risultato negativo dell’esperienza dall’altra) ma Einstein ebbe
una grande intuizione e interpretò la contrazione come soltanto apparente, nel senso che essa
risulta valida solo per osservatori in moto rispetto al corpo nella direzione considerata e con velocità
v, mentre per l’osservatore solidale con il corpo le diverse dimensioni del corpo stesso restano
invariate. Questa nuova formulazione non costituiva ancora però una spiegazione esauriente:
occorreva inserirla in un più ampio e articolato contesto, a partire tuttavia da ipotesi esplicative il
più possibile semplici che dovevano inoltre svolgere la funzione di principi assiomatici per una
nuova teoria, così come accade per i tre principi di Newton rispetto alla meccanica classica. In ogni
caso poi la nuova teoria avrebbe dovuto estendere e generalizzare la vecchia meccanica senza però
contraddirla, almeno là (cioè nella stragrande maggioranza dei casi) dove essa appare pienamente in
grado di descrivere e predire i risultati delle esperienze.
Questo programma fu puntualmente realizzato nell’ambito della Teoria della Relatività Ristretta
(“ristretta “ in quanto limitata inizialmente a sistemi di riferimento in moto relativo rettilineo
uniforme), pubblicata nel 1905 sugli “Annalen der Physik” sotto forma di una breve memoria di
circa trenta di pagine. Alla base dell’intera teoria Einstein pose solamente due principi – postulati:
P1) Tutte le leggi della fisica sono invarianti in tutti i diversi sistemi inerziali ovvero tali
sistemi sono equivalenti nel descrivere la totalità dei fenomeni fisici
P2) La velocità della luce nel vuoto è la stessa per tutti gli osservatori (inerziali), non
dipende cioè dal loro moto relativo rispetto alla sorgente; il suo valore è quindi
anch’esso invariante nei diversi sistemi inerziali (c = 299.792.458 m/s)
Con il primo postulato Einstein, prendendo atto del risultato inequivocabilmente negativo
dell’esperienza di M.M., generalizza il principio di relatività galileiano a tutti i fenomeni fisici, non
soltanto meccanici ma ottici ed elettromagnetici senza alcuna riserva. La cosa, proprio in quanto
estensione di un principio già precedentemente formulato, potrebbe sembrare non molto
significativa, ma non è così. Sanzionando la piena e incondizionata equivalenza di tutti gli
osservatori (inerziali per il momento, ma poi anche quest’ultima restrizione scomparirà nella
Relatività Generale) davanti ai fenomeni naturali, l’idea stessa di sistema di riferimento assoluto
10
perde ogni significato fisico e con essa la nozione di “etere”, intesa come mezzo di propagazione
delle onde luminose; anzi è proprio dalla sua scomparsa – visto la totale impossibilità di stabilire se
ci muoviamo rispetto ad esso – che Einstein deriva il suo principio. Comunque sia, l’accettazione di
P1 esclude che si possa dare significato fisico all’etere: se ciò accadesse l‘etere ipso facto
diventerebbe, contro P1 stesso, “il” sistema di riferimento privilegiato e quindi assoluto. Per
descrivere in modo adeguato la propagazione della luce e delle altre onde non meccaniche, tutte già
in precedenza ricondotte a fenomeni elettromagnetici, è sufficiente il concetto di campo.
Mentre il primo postulato sgombera definitivamente il campo da superflue e mai veramente accolte
nuove entità fisiche il secondo, è la logica conseguenza dell’altra smentita sperimentale della
improbabile ipotesi balistica di Ritz, ma nondimeno, conferma e completa il primo postulato:
se infatti non esiste il mezzo (l’etere) e vale incondizionatamente il principio di relatività (che
asserisce il carattere puramente relativo del moto, ora sotto tutti gli aspetti), muoversi incontro a un
raggio di luce (o allontanarsi) deve equivalere ad un moto della sorgente verso l’osservatore (o di
allontanamento), ma la velocità della luce non risente - come s’è detto - di tale moto, dunque la
velocità della luce (nel vuoto) non può essere che la stessa per tutti gli osservatori (inerziali).
Le conseguenze di P2, apparentemente innocuo e di poco conto, sono invece clamorose.
Vediamo di chiarirle con un semplice esempio. Supponiamo che due treni A e B viaggino in senso contrario lungo due
binari paralleli ma alla stessa velocità v che, tanto per fissare le idee (il suo valore non conta), possiamo supporre v =
108 km/h = 30 m/s, pari cioè a un decimilionesimo di quella della luce. Supponiamo inoltre che le due locomotive
passino davanti a un segnale S nello stesso istante e in quel preciso istante il segnale emetta (automaticamente oppure
azionato da un casellante C che comunque è presente, fermo accanto ad esso) un raggio di luce nella direzione lungo la
quale viaggia A: ci chiediamo a quale distanza arriverà il raggio di luce rispetto ad A, B, C dopo un secondo dal
momento dell’invio del raggio (momento nel quale si ipotizza che sia C che i macchinisti di A e B facciano partire i
loro orologi). La risposta non è, come sembrerebbe ovvio :
299.792.458 m per C; 299.792.488 m per B; 299.792.428 m per A
ma semplicemente: 299.792.458 m per tutti! Per tutti gli osservatori infatti la velocità della luce, proprio in base a P2,
è sempre la stessa c = 299.792.458 m/s e quindi, dopo che è trascorso un secondo sull’orologio di ciascuno dei tre, la
distanza percorsa dalla luce non potrà essere che 299.792.458 m per tutti, per definizione stessa di velocità.
Il paradosso è evidente ma subito si scioglie se si suppone che i tre orologi, inizialmente indicanti lo
stesso tempo (t = 0), non si mantengano poi sincronizzati per effetto del moto relativo, se cioè si
suppone che non solo le coordinate ma anche il tempo (che misura la durata di un certo fenomeno)
sia diverso, a seconda del sistema di riferimento in cui viene misurato (a seconda cioè della velocità
relativa che tale sistema presenta rispetto ad altri sistemi nei quali il fenomeno si presenta ben
localizzato nello spazio, in quiete insomma).
E’ opportuno introdurre a tale proposito la nozione di evento, termine che sta appunto ad indicare
nella teoria della relatività un fenomeno di così breve durata e localizzato in una parte di spazio così
piccola da poterlo considerare, al solito nei limiti degli errori di misura, individuato da tre
coordinate spaziali e da una temporale: l’insieme di tutti i possibili eventi diventa quindi uno spazio
a 4 dimensioni che viene detto spazio – tempo.
Le considerazioni appena fatte possono essere, da un punto di vista più strettamente matematico,
così sintetizzate: P2 (ma anche P1 da cui in parte esso deriva, come s’è detto) non è compatibile con
le trasformazioni di Galileo, trasformazioni che, si ricordi, caratterizzano la meccanica classica
ovvero, in altre parole, i due postulati della teoria della relatività (ristretta) comportano
necessariamente l’adozione di nuove trasformazioni delle coordinate spazio – temporali (dette di
Lorentz) che sostituiscono quelle di Galileo. In particolare in tali nuove trasformazioni non si avrà
più : t’ = t, non si avrà più cioè un unico tempo assoluto valido per tutti gli osservatori.
Osserviamo innanzitutto che tali trasformazioni devono ancora essere lineari, cioè equazioni di 1°
rispetto a tutte le variabili: solo così infatti moti osservati come inerziali (ovvero rettilinei uniformi)
da un osservatore (inerziale) si mantengono tali anche per un altro osservatore (inerziale), come
deve essere per P1; se inoltre si assume, come in genere si fa, che i due sistemi di riferimento si
sovrappongano (pur essendo già in moto rettilineo uniforme l’uno rispetto all’altro) si deduce
11
subito che le trasformazioni devono anche essere omogenee nelle coordinate, cioè non devono
presentare termini noti. Con calcoli lunghi e noiosi che possiamo risparmiarci si ottiene:












x–ut
x’ = ------------V 1-u²/c²
Sono queste le nuove fondamentali
Trasformazioni di Lorentz
y’ =
y
che sostituiscono quelle di Galileo
z’ =
z
Si osservi che per c -> 
t’ =
Lorentz -> Galileo.
t - u x / c²
( in pratica solo per velocità prossime a quelle della luce,
--------------cosa possibile solo per alcune particelle elementari,
V 1-u²/c²
sarà necessario abbandonare le trasformazioni di
Galileo, pienamente valide quindi in quasi tutti i casi)
Per chiarire meglio quanto appena detto (soprattutto per gli sviluppi successivi della teoria)
ricordiamo che, utilizzando gli sviluppi in serie di Taylor si ottiene facilmente:
1
1
3
Se ora si pone x² = u²/c², essendo x² già
------------- = 1 + ---- x² + ------ (x²)² + … dell’ordine di 1/1.000.000 per le massime
V 1 - x²
2
8
velocità (ad es. quella orbitale terrestre: 30km/s),
solo per velocità enormi si può porre: 1/F(u)  1 + ½ (u/c)² (il resto non è misurabile);
In pratica, per tutte o quasi le velocità con le quali si ha a che fare (salvo quelle di alcune particelle
elementari di cui si parlerà), vale 1/ F(u) =1: vale cioè la meccanica classica.
Ricaviamo ora, subito e facilmente, le nuove leggi di composizione delle velocità :
dx’
dx - u dt
vx - u
vx’ = ------ = --------------------- = ---------------------- (basta dividere tutto per dt)
dt’
dt - u dx / c²
1 - u vx / c²
_______
_______
dy’
dy 1 – u²/c²
vy 1 – u²/c²
vy’ = ------ = ---------------------- = ----------------------“
“
d’t
dt - u dx / c²
1 - u vx / c²
_______
_______
dz’
dz 1 – u²/c²
vz 1 – u²/c²
vz’ = ------ = ---------------------- = ----------------------“
“
d’t
dt - u dx / c²
1 - u vx / c²
Osserviamo già da adesso che tutte le nuove trasformazioni comportano che valga
sempre : u < c (condizione di esistenza e realtà per le nuove coordinate); d’altra parte anche
assumendo Vx = c (oppure Vy o Vz) sempre risulta: Vx’ = c e quindi:
c è la velocità massima raggiungibile in natura (raggiunta solo dai fotoni, privi di massa).
CONTRAZIONE DEI REGOLI E DILATAZIONE DEL TEMPO.
Sono queste le due conseguenze più significative e apparentemente paradossali (già in parte
incontrate nella precedente trattazione) che subito si ricavano a partire dalle trasformazioni di
Lorentz: cominciamo dalla prima.
12
Si consideri un corpo qualsiasi in moto con velocità u lungo il semiasse positivo delle x di un
sistema di riferimento inerziale R(O,x,y) e sia inoltre, al solito, R’(o’,x’,y’) il corrispondente
sistema di riferimento in quiete con il corpo e quindi in moto rispetto ad R.
Supponiamo che le due estremità del corpo stesso lungo l’asse x’ (che, ricordiamo, scorre sopra
l’asse x) siano x’1 e x’2 e sia x’2 – x’1 = l’ : detto in altre parole il corpo, misurato da un
osservatore in quiete rispetto ad esso, ha lunghezza l’ e tale misura vale qualunque sia il tempo t’ in
cui viene effettuata (ammesso che la durata della misura stessa possa avvenire, come però non
sempre accade, in un intervallo di tempo di durata trascurabile).
Calcoliamo mediante le trasformazioni di Lorentz la lunghezza l del corpo misurata in R:
Sarà allora: x’1 = (x1 - u t) / F(u)
e sottraendo membro a membro si ricava subito
X’2 = (x2 – u t) / F(u)
x’2 –x’1 = l’ = l / F(u) (avendo posto x2 – x1 = l)
______
In conclusione: l = l’  1-u²/c² < l’.
La formula appena trovata ci dice che un corpo in moto, misurato in uno stesso istante t
(tempo di R) appare più corto nel senso del moto, contratto del fattore 1/ =F(u) mentre risultano
invariate le altre dimensioni (come subito si verifica y e z non si modificano).
Osserviamo però un fatto fondamentale: le misure x2 (t) e x1(t) cioè le due misure eseguite in R, la
cui differenza dà il valore contratto, sono eventi contemporanei soltanto in R.
Usando infatti l’altra trasformazione si ottiene in R’ :
t’1 = (t - u x1 / c ²) / F(u)
t’2 = (t - u x2 / c ²) / F(u) cioè t’1  t’2.
La contrazione è quindi un fenomeno apparente, nel senso almeno che risulta tale a tutti gli effetti
per R pur non essendolo per R’ (così come la forza centrifuga è una forza apparente in quanto
osservata solo dal sistema di riferimento in moto circolare).
Naturalmente poi, proprio in quanto soltanto apparente, la contrazione è e deve essere reciproca,
in base al principio di relatività. Usando infatti le trasformazioni inverse:
x1 = (x’1 + u t’) / F(u)
si ottiene subito, come prima (in quanto F(u) = F(-u))
x2 = (x’2 + u t’) / F(-u)
______
per lo stesso corpo lungo l, ora però
l‘ = l  1-u²/c² < l in quiete rispetto ad R
Passiamo ora a considerare la dilatazione del tempo. Al solito se T’ = t’2 –t’1
è la durata di un evento misurato da un orologio in quiete in x’ nel sistema R’ in moto
(quindi x’ è fisso), usando le trasformazioni inverse , si ricava (posto T = t2 –t1) :
t’1 + x’ u / c²
t1 = --- --------------- 1-u²/c²
t’2 + x’ u / c²
T’
t2 = --------------------- da cui sottraendo T = ------------- > T’
 1-u²/c²
membro a membro
 1-u²/c²
La durata, osservata da R, appare maggiore ovvero, detto in altri termini e tenuto conto, come
prima, della solita reciprocità:
un orologio in moto risulta in ritardo rispetto ad uno in quiete (dilatazione del tempo).
Si noti ancora che, proprio per il fatto che l’orologio di R’ è in moto rispetto ad R,
t1 e t2 sono relativi a luoghi distinti (necessità quindi delle trasformazioni inverse).
Si faccia attenzione a non confondere la dilatazione del tempo con il ritardo che presentano
successivi segnali che giungono da una sorgente che si allontana a grande velocità dall’osservatore.
Immaginiamo, con un’esperienza ideale, che un’astronave A passi accanto a un osservatore O posto
ad es. sul Sole e poi si allontani da esso con moto rettilineo uniforme con velocità v. Dopo un tempo
T prefissato, letto sull’orologio dell’astronave, che supponiamo sia stato avviato assieme a quello di
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O nel momento dell’incontro, A emette un segnale radio: ci chiediamo in quale istante T0 , letto
questa volta sull’orologio di O, esso raggiungerà l’osservatore. Il calcolo è immediato: se gli effetti
relativistici sono trascurabili (come in genere accade) T0 è dato dalla somma di T col tempo v T/ c
che la luce impiega per percorrere il tratto x percorso da A; vale cioè T0 = T(1 + ), avendo al solito
posto  = v / c. Osserviamo poi, più in generale, che la formula non cambia se A emette due segnali
successivi a distanza T l’uno dall’altro: essi verranno sempre registrati da O con un intervallo pari a
T0 l’uno dall’altro, anche se la loro ricezione verrà progressivamente differita di un periodo OA / c
essendo OA la distanza intercorrente tra O ed A al momento dell’emissione del primo segnale (se
OA è misurato in anni-luce, ad es. vale 2 anni-luce, il differimento è lo stesso valore espresso in
anni, in questo caso vale 2 anni). Se poi A non si allontana da O ma invece si avvicina basterà
cambiare di segno a v e quindi anche a  : T0 = T(1 - ) .
Se v non è elevata e T è di breve durata T0  T ma se v è già dell’ordine delle velocità orbitali dei
pianeti più veloci e T non è troppo piccolo le differenze diventano sensibili. Ricordiamo a tale
proposito che la prima determinazione della velocità della luce eseguita dall’astronomo danese
Roemer nel 1676 (il valore da lui trovato, necessariamente impreciso, risultò soltanto 200.000
Km/s) fu ottenuta proprio a partire dall’allungamento di circa un minuto che il periodo del maggiore
satellite di Giove, Ganimede (sette giorni e quattro ore, calcolato come media di una lunga serie di
periodi osservati) mediamente subisce durante i sei mesi in cui la Terra si allontana da Giove (che,
dodici volte circa più lento del nostro pianeta, in tale semestre registra invece uno spostamento
trascurabile). Se si applica la formula precedentemente indicata assumendo in prima
approssimazione come valore di v la velocità orbitale media terrestre (30 Km/s, che andrebbe però
almeno moltiplicata per il coseno dell’angolo PSG, essendo P la posizione mediamente occupata
dalla Terra nel periodo di sette giorni considerato, S quella del sole, G quella intermedia di Giove),
essendo quindi   10 –4 mentre T = 7x 24x 60+ 4 x 60 = 10320 min si trova proprio T0 –T  1 min.
Se invece v è prossima a quella della luce e quindi la dilatazione relativistica di T non è più
trascurabile occorrerà dividere T per F(v) e quindi si avrà:
1+
1- 
T0 = T ------------ se c’è allontanamento tra O ed A , T0 = T ------------ se c’è avvicinamento.
 1 - 2
 1 - 2
Osserviamo infine che se A è una sorgente luminosa monocromatica e T indica il periodo dell’onda
corrispondente (pari cioè all’inverso della frequenza dell’onda monocromatica), le due formule
precedenti ci permettono di calcolare il periodo e quindi la frequenza f dell’onda osservata da O.
Ricordando poi che 1 - 2 = (1+ )( 1- ) si ricava subito nei due casi:
______________
____________
_____________
____________
F ’ =  (1 - ) / ( 1 + ) =  (c – v) /(c + v) oppure f ’ = (1 + ) / ( 1 - ) =  (c + v) / (c- v)
cioè le due formule che danno l’effetto Doeppler per le onde luminose, come prima indicato.
Un'altra conseguenza connessa alla dilatazione del tempo e non meno apparentemente sorprendente
di quella è l’inversione dell’ordine temporale. Supponiamo infatti che in R due eventi A e B non
siano contemporanei e quindi ad es. A preceda B; ci chiediamo se può esistere un sistema R’ nel
quale A segua B. Il problema è presto risolto:
A precede B (in R)  tA < tB
tA - /c xA tB - /c xB
xB - xA
A segue B (in R’)  t’A > t’B  --------------- > ---------------  0 < tB – tA  ---------F(u)
F(u)
c
E poiché || < 1 (se non addirittura || << 1, come di norma):
14
tB - tA
|xB – xA|
 1 > || > ---------  tB- tA < tAB (avendo posto tAB = ------------)
tAB
c
In parole questo significa che se in un riferimento R (inerziale) un evento A precede un altro B
allora esiste un altro sistema R’ in cui si verifica l’inversione dell’ordine temporale degli eventi
(cioè esiste un’opportuna velocità u =c individuante R’ ) se e solo se il tempo compreso in R tra
A e B è minore di quello impiegato dalla luce a percorrere AB. Ne deriva subito che:
1) l’inversione è impossibile se A e B avvengono nello stesso posto: vale infatti tAB = 0
2) non solo c è una velocità limite non superabile ma più in generale nessun agente o segnale in
grado di produrre effetti fisici può superare c: se infatti un simile agente partendo in A (evento
causa) giungesse in B (evento effetto) verificherebbe la condizione tB- tA < tAB e quindi
esisterebbe un sistema R’ in cui l’evento B precede A cioè in R’ l’effetto precederebbe la causa,
cosa palesemente assurda in quanto l’antecedenza della causa è comunque una condizione
necessaria anche se non sufficiente ( si ricordi l’avvertenza dei filosofi scolastici a non cadere
nel “post hoc, propter hoc “!) per il rapporto causale. Quindi neppure l’azione di una forza,
anche se reciproca (interattiva) può trasmettersi a velocità superiore a c, compresa la gravità.
3) Un evento B va considerato futuro / passato a tutti gli effetti rispetto ad un altro A
- e quindi A può risultare effetto / causa di B - se esiste un riferimento R nel quale non soltanto
B segue / precede A ma per esso il tempo intercorso tra i due eventi è maggiore di quello impiegato
dalla luce a percorrere AB ( l’effetto di una causa lontana deve cioè avere il tempo per arrivare).
Vediamo con alcuni esempi di chiarire ulteriormente i risultati appena ottenuti.
Possiamo evidentemente affermare, in base al punto 1), che ad es. l’abbattimento B delle due torri di New York è futuro
rispetto al momento A d’inizio della loro costruzione, anche se risulta altrettanto ovvio che tra i due eventi non esiste
rapporto di causa-effetto, nonostante che B richieda A per poter avvenire.
Così pure è futuro il definitivo arresto B di un treno successivo all’istante A nel quale viene azionato il segnale
d’allarme da un viaggiatore: per il viaggiatore infatti (ma non per un osservatore fermo lungo la ferrovia) anche in
questo caso i due eventi hanno le stesse coordinate spaziali ed inoltre A è causa di B.
Supponiamo invece che una precisa teoria scientifica sia in grado di prevedere, con pieno successo, la formazione (A)
di una grande macchia solare esattamente alle ore 12 del 1/1/2050, ora di Greenwich.
Se alle 12, 04 in punto (sempre ora di Greenwich ) si verifica (B) un improvviso blackout mondiale nelle
telecomunicazioni, essendo notoriamente pari a circa 8 minuti il tempo impiegato dalla luce emessa dal sole per arrivare
sul nostro pianeta, non possiamo affermare in questo caso che B sia futuro rispetto ad A (ma neppure passato) e meno
che mai possiamo sostenere che il blackout sia conseguenza delle macchie solari; per alcuni possibili osservatori infatti
B non segue A ma lo precede e, non a caso, le macchie solari verranno osservate dagli astronomi solo alle 12,08 cioè
quattro minuti dopo l’istante del blackout!. Insomma, se influsso ci fosse, richiederebbe anch’esso 8 min. per arrivare.
Supponiamo infine che, sempre come prima per una data ed ora precisa, la Nasa abbia programmato per particolari
studi scientifici l’esplosione di una sonda spaziale contenente una carica nucleare che al momento della sua distruzione
si trovi ormai al di fuori del sistema solare, esattamente ad un giorno-luce da noi. Sia che ciò avvenga perché,
esattamente un giorno prima, è stato inviato dalla Terra un comando radio, sia perché al momento dell’assemblaggio
della sonda (avvenuto ad es. tre anni prima) il computer di bordo è stato così programmato, in entrambi i casi
l’esplosione nucleare della sonda costituisce un evento futuro rispetto alla causa che l’ha prodotta (invio del
radiocomando oppure installazione del computer), indipendentemente, si noti, dal supposto rapporto di causa-effetto ma
semplicemente perché il tempo trascorso tra il prescelto primo evento e l’esplosione finale non è minore di quello
impiegato dalla luce (esattamente un giorno) a percorrere la distanza prevista, non solo nella seconda ipotesi (tre anni)
ma anche nella prima (anch’esso esattamente un giorno, quindi stesso tempo) e, d’altra parte, l’esposizione verrebbe
osservata dagli astronomi soltanto il giorno dopo il momento in cui essa si verifica.
La dilatazione del tempo e la concomitante contrazione delle lunghezze potrebbero apparire dei fenomeni puramente
teorici, ma non è così: essi permettono infatti una diretta verifica sperimentale quando si consideri il moto, prossimo a
quello della luce, di alcune particelle elementari, quali ad es. i mesoni, siano essi di tipo  (muoni) oppure di un altro
tipo  (pioni). Entrambi hanno una “vita media “ brevissima, prima cioè di decadere in altre particelle, quando vengono
osservati praticamente in quiete rispetto agli strumenti nei quali vengono rallentati: per i muoni - particelle prodotte a
ritmo costante nell’alta atmosfera per bombardamento da parte dei raggi cosmici dei pochi atomi presenti e aventi la
carica negativa dell’elettrone ma una massa circa 200 volte maggiore di quella dell’elettrone – essa è dell’ordine di un
microsecondo mentre la velocità di quelli più veloci che giungono sino a noi traversando l’atmosfera è di oltre 0.95 c;
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per i pioni – prodotti in laboratorio attraverso interazioni nucleari – è cento volte più breve mentre la loro velocità,
quando vengono accelerati nei ciclotroni, è soltanto 0,75 c. I primi dovrebbero quindi percorrere una distanza massima
di circa 300.000 km/s X 1 / 1000.000 s = 300 m – quindi ben al di sotto degli oltre 4000 m che sicuramente percorrono
(grazie ai dati ottenuti agli oltre 4000 m del Monte Rosa) - mentre per i secondi essa dovrebbe essere di circa cento
volte più piccola, più esattamente di quasi 6 m, in netto disaccordo con le misure ricavate, prossime a 8,5 m. Tali
contraddizioni però subito si sciolgono se si tiene conto degli effetti relativistici, in entrambi i casi non più trascurabili:
nel primo caso F(v) vale infatti 0,3 circa, nel secondo 0,6.
La vita media che va quindi attribuita alle particelle in moto risulta così divisa per F(v), cioè più che triplicata per i
muoni e una volta e mezzo per i pioni - tempo sufficiente per noi in quiete perché entrambe possano percorrere le
distanze suddette; per osservatori solidali con le due particelle è invece la distanza percorsa che risulterebbe contratta
proprio del fattore F(v).
Nonostante queste significative conferme la relatività del tempo appare sempre sconcertante: in
particolare può sembrare impossibile che due eventi contemporanei per un osservatore non lo siano
più per un altro o che addirittura la successione di due eventi non contemporanei per il primo possa
invertirsi per il secondo mentre viceversa non ci stupisce che due eventi spazialmente coincidenti
per uno (ad es. per un viaggiatore l’accendersi e lo spegnersi di una stessa lampada di un vagone
ferroviario, prima e dopo una galleria) non lo siano più per un altro (ad es. un ferroviere che lavora
lungo i binari).
Per meglio chiarire la questione proponiamo un altro strano ma analogo esempio ferroviario: supponiamo cioè che un
ferroviere si trovi esattamente in mezzo ad una galleria e veda passare un treno merci con un vagone - piattaforma V
(quelli che trasportano auto, per intenderci) lungo, in moto, proprio come la galleria.
Supponiamo inoltre che agli estremi del vagone, due individui sparino uno contro l’altro nell’attimo in cui, per il
ferroviere, esso entra per intero in galleria: chiediamoci che cosa accade al ferroviere e ad un frenatore, seduto
esattamente in mezzo al vagone V, entrambi raggiunti dalla luce, suono, materia emesse dalle due armi, ovviamente
prima dal lampo, poi dal colpo e infine dal proiettile (o viceversa, fa lo stesso).
Per il ferroviere, poiché la velocità della luce non dipende da quella della sorgente, i due lampi sono contemporanei,
così come lo sono i due colpi (per la stessa ragione, la velocità del suono nell’aria è sempre di circa 340 m/s); i due
proiettili non giungono invece contemporaneamente in quanto arriva prima quello sparato in coda (la cui velocità si
somma a quella del treno mentre per l’altro si sottrae).
Per il frenatore i due lampi, pur viaggiando entrambi alla stessa velocità (in quanto la velocità della luce è anche
indipendente dal moto dell’osservatore) non sono contemporanei: essi infatti si incontrano davanti al ferroviere (fermo a
metà galleria) e quindi non possono incontrarsi davanti a lui che passa di fronte al ferroviere nell’attimo (uguale per
entrambi, visto che in quello coincidono spazialmente) in cui avvengono i due spari ma poi, sia pur di poco, si sposta in
avanti per effetto del moto del treno . Vede quindi prima il lampo di testa. Si faccia attenzione al fatto che così giudica il
ferroviere: per il frenatore invece la situazione appare diversa anche se egli conferma che vede prima il lampo di testa,
quando la testa esce dalla galleria. Non dimentichiamo infatti che, a causa della contrazione delle lunghezze, la
lunghezza di V da fermo deve essere maggiore di quella della galleria G, se si vuole che il ferroviere veda quanto si è
supposto: di conseguenza il frenatore – che vede non V ma la galleria G accorciata per effetto del moto – la vede più
corta di quanto è (misurandola da fermi) quindi, chiaramente, non potrà mai vedere lampi coincidenti.
Insomma il vagone da fermo non sta tutto nella galleria, è più lungo, ma in moto sembra lungo uguale.
Il calcolo conferma subito quanto detto; detti T (testa) e C (coda) i due eventi-sparo, L la lunghezza “vera” della
galleria e supposto per semplicità che per il ferroviere sia X C = 0 ; TC =0 e quindi X T = L ; TT = 0 si ricava subito per
il frenatore, se v è la velocità del treno: X’C = 0 ; T’C = 0 ; X’T = L / F(v) ; T’T = - L v/c² / F(v)
Dove il segno negativo indica che T per il frenatore precede C, mentre L / F(v) è la lunghezza del vagone
essendo pari a X’T – X’C (si noti però che al tempo T’T la coda del vagone è ancora fuori della galleria).
Meno che mai poi sono contemporanei i due colpi (anche in questo caso ode prima il colpo di testa) ma – si noti – per
un motivo sostanzialmente diverso che non richiede spiegazioni relativistiche: la velocità relativa delle prime onde
sonore che lo raggiungono (cui va incontro, in quanto il suono viaggia nell’aria esterna al vagone, non in quella che lo
stesso vagone trasporta) è infatti la somma della velocità del suono con quella del treno (è cioè la velocità relativa ad
esse); quella delle seconde è invece, per la stessa ragione, la differenza. In altre parole possiamo dire che per il suono
esiste in questo caso un sistema di riferimento “assoluto”: è quello in quiete rispetto all’aria, sistema che in assenza di
vento coincide con quello del ferroviere, fermo nella galleria (si noti che in presenza di vento – e forse quello prodotto
dallo stesso treno già è sufficiente a tale proposito – il ferroviere non udrebbe più i due spari contemporanei !). E’
quindi giustificato affermare che le due detonazioni sono contemporanee (sempre in assenza di vento), così come le ode
il ferroviere, mentre tali non appaiono al viaggiatore a causa del suo stato di moto (rispetto all’aria). Non così si può
dire della luce, la cui velocità – solo apparentemente istantanea - risulta invece finita e identica per tutti gli osservatori
anche perché non esiste per essa un mezzo di propagazione (e quindi un sistema di riferimento assoluto): semplicemente
si può e si deve affermare che se i due lampi sono contemporanei per il ferroviere non possono più esserlo per il
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viaggiatore e viceversa ;ciascuno dei due giudicherebbe infatti pienamente convincenti le proprie osservazioni
attribuendo il disaccordo con l’altro al moto relativo di quest’ultimo, ritenendosi in quiete.
Giungono invece contemporaneamente davanti al viaggiatore i due proiettili (trascurando la resistenza dell’aria), e
questo ancora in base al semplice principio di relatività galileiano (il “gran naviglio” è adesso il treno) mentre il
ferroviere – come si è già detto - vede prima passare quello di coda che somma alla sua velocità quella del treno (anche
trascurando la diversa composizione relativistica delle velocità).
Che cosa cambierebbe se le due pistole, anziché poste sul treno, fossero fisse agli estremi della galleria?
Resta poi scontato che se uno dei proiettili colpisse un qualche bersaglio, non soltanto ferroviere e frenatore ma ogni
possibile osservatore vedrebbe l’urto sempre dopo il lampo, essendone quest’ultimo la causa.
L’esempio appena considerato, pur convincendoci (si spera!) che la contemporaneità di due eventi
- cioè la loro coincidenza temporale - dipende (come per quella spaziale) dall’osservatore (in quanto
è relativa al suo sistema di riferimento spazio–temporale), rischia di confonderci ulteriormente le
idee, anche per il (voluto) raffronto con il suono e con i proiettili, cioè con altri due tipi di possibili
messaggi. Esso ci spinge a riesaminare in modo critico i concetti di tempo e di spazio, non tanto
però sotto l’aspetto filosofico (come legittimamente cerca di fare Kant, per esempio) né meno che
mai psicologico, quanto invece dall’unico punto di vista spettante ad un fisico, cioè da quello
operativo che consiste nel considerare tempo e spazio semplicemente come due grandezze che
vengono definite attraverso gli strumenti e i metodi di misura utilizzati.
Il problema viene affrontato da Einstein con il solito rigore, soprattutto senza la paura di cambiare
profondamente il nostro modo di pensare e di operare, anche nelle situazioni più ovvie e scontate.
La nuova idea di base è, come già si è detto, l’evento (indicato con lettere maiuscole: A, B ecc.)
cioè il “punto-istante” individuato da tre coordinate spaziali e una temporale relative ad un certo
sistema di riferimento spazio-temporale. Per definire sia pur idealmente tale nozione non ci sono
problemi particolari per quanto riguarda l’aspetto spaziale: basta utilizzare tre aste rigide ortogonali
uscenti da uno stesso punto O ed una unità di misura comune su di esse, costituita da un regolo
rigido prestabilito da riportare
(eventualmente suddiviso in parti uguali) lungo ciascuna, a partire dall’origine. Per il tempo occorre
invece qualche cautela. Quale che sia il significato da noi associato a questo termine, ciò che
occorre per misurarlo è – osserva Einstein - un orologio, cioè un qualsiasi strumento meccanico
dotato di una lancetta che si muove di moto uniforme. L’orologio non può però essere trasportato da
un posto all’altro, in quanto non possiamo essere sicuri - a priori – che tale moto non influisca sul
funzionamento dell’orologio; occorrerebbe quindi collocare, almeno in teoria, un numero
grandissimo di orologi identici disposti in punti prossimi della regione di spazio che ci interessa
considerare e leggere il tempo locale, cioè il tempo segnato dall’orologio più prossimo.
Naturalmente, comunque siano stati collocati gli orologi (dobbiamo pensare che vengano trasportati
quando non sono ancora in funzione, onde evitare ogni possibile inconveniente, oppure
immaginare addirittura di costruire, per così dire, ciascuno di essi “in loco”) resta il problema
fondamentale in ogni caso di “trasportare non l’orologio ma l’ora” da un punto all’altro della
regione onde sincronizzare tra loro i diversi orologi, definendo in tal modo la contemporaneità di
due eventi in punti diversi dello spazio. Ciò può essere fatto – osserva Einstein – usando un
segnale (o anche più di uno, eventualmente) qualunque esso sia (anche acustico o di altro tipo
meccanico, non conta dal punto di vista teorico né la sua natura né la rapidità)
a patto ovviamente che se ne conosca la velocità. A tale proposito la luce (o un’altra radiazione
elettromagnetica) appare il segnale più conveniente oltre che per la sua enorme velocità - così
grande da considerare, nella vita pratica, la sua propagazione istantanea – per il fatto che essa non
richiede intermediari materiali (e d’altra parte ad essa sempre poi in ultima analisi si ricorre
quando, oltre a non preoccuparci di trasportare orologi, semplicemente si “guarda l’ora” sul nostro
orologio o su altri che siano appunto a portata di vista). Scelto dunque arbitrariamente per O un
certo istante (nel quale si decide di far scattare l’orologio U0, ad es. al tempo t=0) e scelto inoltre un
altro punto P, per sincronizzare Up con U0 basterà fare in modo che Up segni il tempo t = OP/c
nell’attimo in cui un’ onda luminosa, emessa da O nell’istante prima prefissato, giunge in P.
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Chiaramente per tutti i punti della superficie sferica di centro O e raggio OP un qualsiasi evento che
si verifica in O quando t=0 o in istanti successivi (sempre che le distanze da O, nel caso di moto
relativo dei punti, restino uguali) risulterà ancora contemporaneo, nel senso che verrà da tutti
registrato con la stessa coordinata temporale, ad es. all’ istante 5 per tutti gli orologi dei punti sulla
superficie, essendo tali orologi tutti sincronizzati tra loro.
Viceversa due o più eventi avvenuti in punti distinti della superficie stessa risulteranno
contemporanei se i concomitanti segnali luminosi che essi inviano in O giungono assieme.
Questo fatto, nel caso particolare di due punti diametralmente opposti, suggerisce
questa non semplice ma fondamentale definizione di contemporaneità:
Due eventi A e B, verificatisi in punti distinti PA e PB rispetto ad un certo sistema di riferimento R
(inerziale) sono contemporanei per R se due segnali luminosi inviati simultaneamente ai due
eventi, uno da PA, l’altro da PB, raggiungono ancora simultaneamente il punto medio O di PA e PB.
La definizione potrebbe apparire circolare in quanto “simultaneo” sembra un sinonimo di
“contemporaneo”, ma non è tale se si intende che le emissioni dei due segnali , così come il loro
arrivo in O, coincidano sia temporalmente che spazialmente (mentre la coincidenza tra A e B è per
l’appunto solo temporale).
Questa definizione non è esattamente quella proposta da Einstein, anche se ad essa è subito equivalente.
Secondo Einstein gli orologi di due punti P e Q sono sincronizzati quando, inviando al tempo t P un raggio di luce da P
a Q, dove esso si riflette al tempo tQ, ritornando al tempo tP’ in P vale: tQ = ½ (tP + tP’). Così facendo viene abilmente
aggirata la difficoltà di stabilire se un raggio di luce riflesso ha la stessa velocità di quello incidente (si ricordi che in
tutte le misure più precise della luce questa percorre sempre un cammino chiuso riflettendosi su di uno specchio posto a
distanza nota).
Quale che sia la sua formulazione originaria, anche se apparentemente un po’ contorta e delicata, la definizione è
comunque ovvia e necessaria: si supponga ad es. che gli astronomi registrino nello stesso istante (ora di Greenwich)
l’esplosione della Stella polare e della “Croce del sud”; chiaramente le due esplosioni sarebbero da considerarsi
contemporanee per noi terrestri solo se le distanze delle due stelle (così come risultano al momento dell’esplosione)
sono uguali altrimenti dovremmo dire che quella più lontana nello spazio è anche la più lontana nel tempo.
Al solito poi tale supposta contemporaneità sarebbe comunque relativa al particolare sistema di riferimento terrestre:
rispetto ad un altro, in moto rispetto alla Terra, non sarebbe infatti più verificata.
Sempre in base alla definizione di contemporaneità ora adottata appaiono meglio convincenti i risultati dell’es. del treno
e delle pistole: il ferroviere giudica infatti di rimanere in mezzo alla galleria (punto mediano tra quelli dei due lampi)
mentre non altrettanto può dire del frenatore che per lui si è spostato.
Osserviamo ancora una cosa: Einstein si preoccupa – almeno preliminarmente, mettendo per così dire “le mani avanti”
– di evitare il trasporto di orologi (che tra l’altro, quando lui scrive, sono solo di tipo meccanico; ciò comporta che il
tempo viene misurato mediante le oscillazioni di un pendolo o di una molla, che vengono solamente assunte come
isocrone, sia pure per confronto incrociato con altri fenomeni periodici giudicati anch’essi regolari); non si può infatti
escludere a priori – egli afferma - che il trasporto possa influire sul loro meccanismo. Tale preoccupazione è legittima (e
forse comprensibile se si considera che forse già pensa alla Relatività generale, dove la gravità e il moto accelerato
rallentano effettivamente gli orologi) ma appare strana se non incongrua con il postulato di relatività, addirittura nella
sua forma puramente galileana, trattandosi infatti di fenomeni meccanici che non possono risentire di moti inerziali. La
stessa preoccupazione non viene espressa per quanto riguarda il trasporto dei regoli, occorrente per stabilire il sistema di
riferimento sugli assi. Come mai? Va comunque osservato che Einstein non manca tuttavia di sottolineare che pure la
misura di un regolo è operativamente diversa, a seconda che venga eseguita in un sistema in quiete oppure in moto
(inerziale) rispetto ad essa: nel primo caso basta infatti riportare una o più volte – come facciamo quando misuriamo un
muro – il regolo campione (il metro o un suo sottomultiplo) a fianco del regolo da misurare e contare a quanti multipli o
sottomultipli del campione esso corrisponde; nel secondo caso occorre innanzitutto segnare contemporaneamente sulla
scala del metro mobile (o suo multiplo) che scorre accanto al regolo gli estremi del regolo stesso e poi leggere la
differenza tra di essi.
A prescindere dagli interrogativi appena proposti, alcune semplici considerazioni ci sembrano ora
opportune: tutte i sorprendenti risultati della Teoria della Relatività (almeno quella ristretta) sinora
esaminati o ancora da considerare nascono solo ed esclusivamente dal fatto che la luce, unico
messaggero universale veramente utilizzabile, ha una velocità finita, per quanto grande, del tutto
indipendente dal moto (inerziale) di ciò che la produce e di chi la osserva - quindi con valore c
uguale per tutti – ed inoltre tutti gli osservatori (inerziali) risultano equivalenti sotto ogni aspetto nel
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descrivere un qualsiasi fenomeno fisico. Questo almeno è ciò che postula la teoria della relatività
ristretta.
Dilatazione del tempo e contrazione delle lunghezze sono quindi fenomeni puramente apparenti,
anche se osservabili e verificati (nel senso che essi spiegano alcuni fenomeni, ad es. il citato moto
dei muoni e pioni, altrimenti incomprensibili , così come di esse già si deve tenere conto nella
progettazione di acceleratori di particelle), dovuti unicamente alla trasmissione dei segnali luminosi
necessari per confrontare misure di tempo e lunghezza quando queste vengono eseguite da due
diversi osservatori in moto relativo uniforme.
Non sono quindi gli orologi che ritardano per qualche strana e universale causa che ne altera – quali che siano le loro
caratteristiche costruttive - il funzionamento né, meno che mai, un tempo imprecisato o in un qualche vago modo
metafisicamente inteso che “si dilata “ (nonostante qualche espressione enfatica e magari fuorviante di qualche
commentatore o anche di qualche testo), così come nella contrazione delle lunghezze non avvengono modificazioni
atomiche o molecolari (come aveva invece ipotizzato Lorentz): tempo e spazio, per la fisica, non possono che essere
definiti operativamente, come si e detto, cioè mediante misure con regoli e orologi; tali misure però, per poter essere
confrontate (quando avvengono in posti diversi e in moto tra loro), richiedono segnali (luminosi): è da essi, e solo da
essi, che nascono tutti i problemi (risolti) della Relatività ma anche i suoi apparenti paradossi. Citiamo infine un
modello di un ideale “orologio a luce” – detto anche Orologio di Einstein – che in modo chiaro e intuitivo (e così
denominato perché proposto proprio da lui!) permette un immediato approccio alla questione.
v
Si consideri un semplice cubo di lato l noto (si veda la figura accanto)
N
N''N' N
avente due facce interne opposte costituite da due specchi perfettamente
riflettenti; un brevissimo lampo di luce lanciato perpendicolarmente verso una
di esse, riflettendosi continuamente tra le due facce (nell’ipotesi che non venga
assorbito) costituirebbe un orologio relativistico ideale. Se infatti si immagina
M' M
M
di muoverne un secondo, uguale al primo, con moto rettilineo uniforme in modo
in quiete
in moto
che le due facce si mantengano sempre parallele alla direzione del moto, un
Fig. 4 Orologio di Einstein
osservatore fermo accanto al primo (e che accetti i due postulati relativistici)
sa che la luce del suo orologio viaggia alternativamente lungo un segmento
fisso (che congiunge sempre i due punti medi M e N delle due facce opposte) mentre sa pure che nel secondo la luce,
rispetto a lui, è costretta a viaggiare a “zig-zag” per via del moto (che gli impedisce di congiungere M con N ma
lo fa andare in N’, poi in M’ ecc. in quanto il cubo nel frattempo si sposta) senza però variare la velocità: dunque il
secondo deve rallentare rispetto al suo - proprio nel rapporto F(v), come nell’esperienza di M. M., della quale la nostra
esperienza costituisce una versione ridotta e semplificata. D’altra parte, in base al principio di relatività, ci si rende
subito conto che altrettanto potrebbe dire un altro osservatore in quiete rispetto al secondo orologio: dunque il ritardo in
quanto reciproco è solo apparente, dipende cioè solamente dai due sistemi di riferimento in moto relativo tra loro (ed ai
pur necessari segnali anch’essi luminosi che si dovrebbero inviare volendo effettivamente confrontare i due orologi).
Se poi un terzo orologio in moto venisse girato in modo che la luce viaggi parallelamente al moto stesso (come il cane
del problema!), ci si accorge subito che la dilatazione del tempo non è più sufficiente per giustificare, sempre dal punto
di vista del primo osservatore, il pur necessario sincronismo tra loro dei due orologi in moto: occorre quindi far
intervenire anche la contrazione delle lunghezze (sempre nello stesso rapporto F(v)), anch’essa ancora apparente per le
stesse considerazioni fatte prima.
Prima di concludere questi brevi cenni essenziali di cinematica relativistica vediamo come la Teoria
della Relatività riesce a spiegare tre fenomeni che apparentemente sembrano contraddirla:
l’effetto Doeppler, l’aberrazione astronomica e, almeno in parte, il citato trascinamento della luce in
un mezzo trasparente in moto (esperienza di Fizeau).
Del primo, l’effetto Doeppler – fondamentale in astrofisica, perché grazie ad esso sappiamo che
l’universo si espande, ma con leggi diverse rispetto a quelle sonore - già si è detto (a pag. 14):
esso è perfettamente spiegato con la dilatazione del tempo (o delle durate, nel caso nostro del
periodo T di oscillazione) per un’onda luminosa emessa da una sorgente in moto rispetto
all’osservatore e non per via del moto relativo a un mezzo di propagazione, l’etere (l’ipotetico
equivalente dell’aria per il suono) che per la Relatività non solo non c’è, ma non può esistere.
Per l’aberrazione astronomica, che ancora sembra provare il moto (orbitale) della Terra rispetto a
uno spazio assoluto che ancora potrebbe essere l’etere, tutto si spiega con la diversa composizione
relativistica delle velocità.
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Per meglio capire il problema immaginiamo di percorrere in auto una grande pista circolare in un giorno di pioggia e
cominciamo a supporre che la pioggia cada verticalmente in totale assenza di vento. Questo, al solito, è ciò che vede chi
è fermo: per chi viaggia - com’è noto - la pioggia, per effetto del moto relativo, colpisce obliquamente il parabrezza e se
ad es. la velocità della macchina è uguale a quella verticale delle gocce, la pioggia arriva frontalmente sul vetro, ma
inclinata di 45° rispetto alla verticale. In altre parole il moto dell’auto sembra avere l’effetto di spostare in avanti la
direzione dalla quale proviene la pioggia. Le cose vanno in modo analogo anche se la pioggia non cade verticalmente
ma mantiene tuttavia una direzione fissa nello spazio: basta infatti scomporre la velocità delle gocce in due componenti,
una verticale e l’altra orizzontale. Per effetto del moto circolare dell’auto la pioggia sembrerà quindi provenire da
direzioni continuamente diverse formanti “iperboloidi a una falda”, a sezione circolare. Anche la luce emessa da ogni
stella, indipendentemente dalla sua distanza) si comporta per gli astronomi in modo analogo: il moto orbitale della
Terra, praticamente circolare, fa si che durante l’anno la posizione della stella sulla volta celeste non sia sempre
esattamente la stessa (nonostante si parli di stelle “fisse”) ma si sposti – come già abbiamo detto in precedenza descrivendo una piccola ellisse (che diventa una circonferenza se la direzione della stella è normale al piano
dell’eclittica, mentre si riduce ad un segmento quando appartiene ad esso) il cui semiasse maggiore è visto sotto un
angolo costante il cui semiasse maggiore ha una lunghezza apparente di 20”,5 che espressa in radianti è uguale a 0,0001
cioè al rapporto tra la velocità orbitale terrestre (30 km/s) e quella della luce.
L’aberrazione - che come s’è visto sembrerebbe inaspettatamente riproporre un etere stranamente
immobile rispetto al sole – è facilmente spiegata da Einstein mediante la nuova composizione
relativistica delle velocità. Ricordando infatti:
dx’
dx - u dt
vx - u
v cos  - u
vx ’ = ------ = --------------------- = ---------------------- = v’ cos ’ = ---------------------dt’
dt - u dx / c²
1 - u vx / c²
1 – u cos  v / c²
________
_______
_______
dy’
dy  1 – u²/c²
vY  1 – u²/c²
v sin  1 - u²/c²
vY ’ = ------ = ---------------------- = ----------------------- = v’ sin ’ = ----------------------d’t
dt - u dx / c²
1 - u vx / c²
1 – u cos  v / c²
dove  e ’ indicano gli angoli che u e u’ formano con v (quindi con l’asse x); si è
poi supposto, per semplicità, che vZ = vZ’ = 0. Dividendo e ponendo poi v = c :
______
______
______
v’ sin ’
v sin   1-u²/c²
sin   1-u²/c²
sin   1- u²/c²
---------- = tg ’ = ---------------------- = --------------------- = -------------------  tg 
v’ cos ’
v cos  - u
cos  - u / v
cos  - u / c
L’angolo ’ dal quale sembra venire la luce per l’osservatore in moto è quindi diverso dall’angolo
 che vale per l’osservatore in quiete.
1 – ½ u² /c²
1
c
In particolare, per direzione normale all’orbita (=90°): tg ’  ---------------  ------ = - ----u/c
-u /c
u
e quindi proprio nel rapporto tra velocità della luce e velocità orbitale, come risulta.
Questi risultati spiegano anche, in particolare, un altro famoso paradosso relativistico, quello
cosiddetto della freccia, che alcuni testi riportano.
Considerazioni analoghe a quelle appena svolte per l’aberrazione astronomica permettono poi
facilmente di spiegare il parziale trascinamento della luce nell’esperienza di Fizeau.
Per l’osservatore in moto assieme all’acqua (e quindi in quiete rispetto ad essa) la luce presenta
infatti la ben nota velocità v’X = c / n, come previsto dall’ottica geometrica, mentre per quello fisso
(quindi in moto con velocità –u rispetto all’acqua) è vX e vale,
(utilizzando lo sviluppo in serie : 1/(1 + q) = 1 - q + q²-… e trascurando i termini in u²/c):
v’X + u
vX = -------------------  (v’X + u) ( 1 – v’X u / c² + …)  v’X + u – u(v’X /c)² - v’X (u²/c²)
1 + v’X u / c²
20
c
c 1 2
c
1
 ---- + u – u ( --- ----- ) = ----- + u (1 - ---- ) , proprio come deve essere.
n
n c
n
n²
INTERPRETAZIONI GEOMETRICHE - SPAZIO–TEMPO
E’ opportuno prendere in esame alcune interpretazioni delle varie trasformazioni di coordinate
sinora esaminate, anche perché questo facilita un sempre utile approccio intuitivo. Osserviamo che
tutte quante possono ovviamente essere considerate come affinità, cioè come trasformazioni che,
in quanto tali, mutano rette in rette e lasciano fissa
l’origine (non ci sono infatti termini noti).

Inoltre, poiché sia per le trasformazioni di Galileo
sia per le trasformazioni di Lorentz da noi prese prima
t
t'
D
in esame le coordinate y e z restano invariate, sarà sufficiente
limitarci a considerare quelle nelle sole variabili x e t , quindi
A
B
facilmente visualizzabili in un piano i cui punti rappresentano
eventi di uno spazio ad una sola dimensione, una retta.
11
C
Cominciando da quelle di Galileo, osserviamo che,
11
essendo x’ = x – u t mentre t’ = t, un punto del
_ x'
x=
nuovo asse t’, cioè della retta la cui equazione è
notoriamente : x’ = 0, dovrà avere coordinate x e t
Fig . 5 Trasformazioni di Galileo
tali che x –u t = 0 cioè, in altre parole, il nuovo asse t’
deve coincidere nel piano x,t con la retta di equazione
x = u t mentre gli assi x e x’ restano invece sovrapposti.
Fig. 5 Trasformazioni di Galileo
Osservato innanzitutto che in un qualsiasi sistema (in assi ortogonali
o obliqui non fa differenza) di coordinate, una spaziale (x o x’) e l’altra temporale (t o t’) una retta
passante per l’origine rappresenta sempre e soltanto un moto uniforme, passiamo quindi dagli assi
ortogonali di R agli assi obliqui di R’ (ma l’ortogonalità di R non privilegia affatto R stesso;
basterebbe partire da assi già inizialmente obliqui per eliminare tale apparente dissimmetria).
Si noti poi che, contrariamente al solito, l’asse t è ora verticale e forma con t’ l’angolo  = arctg u.
La fig. 5 a fianco evidenzia poi come eventi contemporanei in R (A e B ) restano tali anche in R’ e
viceversa, ma eventi spazialmente coincidenti in R (A, C) o in R’ (A, D) non lo sono più nell’altro.
Si pensi ad es. al caso in cui: A è un ragazzo a cui cade una moneta sui binari mentre si affaccia a un finestrino di un treno che
arriva in una piccola stazione; B è un uomo che si siede nell’unica panca della stazione davanti ai binari; C è un bambino che
va a raccogliere la moneta dopo che il treno è ripartito; D una donna che si affaccia allo stesso finestrino del treno dopo il ragazzo
Osserviamo ancora che mentre non cambiano le unità di misura sui coincidenti asse x e x’
(caratterizzati da t=t’=0), non altrettanto avviene sugli altri due, come si comprende considerando
che se U’ ha coordinate (1,1) in R’, esse diventano (u,1) in R (quindi, come si è già detto, tg =u).
Passiamo ora a considerare le trasformazioni di Lorentz. In esse oltre ad u compare pure c e proprio
perché c è costante universale si può sempre fare in modo che c valga 1, ad es. modificando l’unità
di misura del tempo (misurando il tempo non più in sec. ma nel suo sottomultiplo, 1/ 300.000.000,
quindi c = 1m / trecentomilionesimo di sec.). Questo comporta che rispetto a tale nuova unità di
misura del tempo, c volte minore dell’originaria, ogni precedente misura venga moltiplicata per il
numero c. In altre parole la nuova misura del tempo – che d’ora in poi verrà indicata con  - sarà
legata alla precedente dalla relazione :  = c t (in quanto 1 sec = 300.000.000 trecentomilionesimi)
Ciò premesso, le trasformazioni di Lorentz si semplificano e si simmetrizzano subito.
Esse infatti diventano (modificando l’ordine dei termini nella 2° eq., in cui : t= /c):
21
x’ = (x –  ) / F(u) con le relative trasformazioni
x = (x’ +  ’) / F(u)
’ = (-  x + ) / F(u) inverse (basta cambiare segno a ) :  = (  x’ + ’) / F(u)
(Si noti che la matrice L2 dei coeff. di tale trasformazione,
tenuto conto anche di F(u), ha determinante che vale 1).
t 
t' ’
Proprio per la simmetria di  rispetto a x e 
e procedendo in modo analogo al precedente, si ottiene
Ut' (0,1)
allora la fig. 2 accanto, dove ancora: tg = .
T'
x'
Anche in questo caso le trasformazioni comportano un
T
ulteriore cambiamento di unità di misura, ma questa volta
Ux' (1,0)
uguale su entrambi i nuovi assi, proprio in base alla simmetria:
le coordinate x ’=1;  ‘=0 del punto UX ’ (punto di ascissa
unitaria sul nuovo asse x’), usando le trasformazioni inverse,
x
O
X
si trasformano infatti in x = 1/F(u); y = /F(u), che essendo
X'
cartesiane ortogonali (non così x’ e y’) permettono subito
Fig . 6 Trasformazioni di Lorentz
di calcolare (sempre in x, ) la distanza OUX’ ; vale infatti:
(OUX’) ² = (1+²) / (1-²) > 1.
Fig 6: Trasformazioni di Lorentz
In altre parole ciò significa: OUX ’ = OUT ’ > OUX =OUT , cioè
le unità di misura nel nuovo sistema (x ‘, ’) (sistema di assi monometrico ma non più ortogonale)
sono sempre maggiori di quelle nel vecchio sistema di assi (x ,) e crescono illimitatamente
con l’avvicinarsi di u a c (1- ² tende infatti a zero) mentre al contrario l’angolo tra gli assi x’e ’
decresce progressivamente ( =0 se u = c)
Osserviamo ancora che non soltanto OUX ‘ >1 ma così pure OX’ >1, avendo indicato con X’
(fig. 2) il punto di ascissa x = 1/ F(u) sull’asse x e ancora, per simmetria, OT’>1, dove T è il punto
di ordinata  = 1/(F(u) sull’asse  mentre, tracciando ancora da OUX’ la parallela all’asse ’, cioè
la retta di equazione x’=1 (e quindi 1= (x - ) / F(u)), essa interseca l’asse x (di equazione =0)
nel punto X di ascissa x = F(u) < 1. Oltre che per X le stesse conclusioni valgono anche per il
punto T sull’asse  per cui si può concludere OX = OT < 1.
Dall’obliquità (simmetrica) di entrambi i nuovi assi e dal cambiamento della loro (comune) unità di
misura non è difficile a questo punto evidenziare le due conseguenze principali delle trasformazioni
di Lorentz, la dilatazione dei tempi e la contrazione delle lunghezze.
Per la prima infatti basta considerare al solito un orologio del sistema R’ e in quiete rispetto ad esso:
se esso segna 0 in O (sia per R’ che per R, in quanto le due origini inizialmente coincidono)
segna 1 in UT ’ (cioè in R’) ma OT’=1/F(u) =  >1 in R.
Per la seconda basta osservare che in R’ il regolo di estremi O e UX ’ , in quiete rispetto a tale
sistema, ha lunghezza 1 (sempre per R’, si ricordi che UX ’ è il punto per cui x’=1) ma presenta
invece la lunghezza contratta OX = F(U) < 1 nel sistema R.
Aggiungiamo infine che ancor più evidente risulta la possibile contemporaneità di due eventi in un
sistema (ad es. T e Ut’ in R’ ; T’ e Ut’ in R) e non contemporaneità nell’altro).
Ma un’altra forse più suggestiva possibilità è quella che permette di separare con immediata
semplicità geometrica passato e futuro assoluti per un dato osservatore R, (assoluti in quanto
giudicati ancora tali da ogni altro osservatore in moto relativo uniforme rispetto ad esso)
dall’altrove, che risulta passato o futuro oppure presente solo in relazione ad R, ma che molti testi
impropriamente chiamano presente assoluto, (casomai presente relativo!).
A tale scopo osserviamo che, grazie alla scelta implicita da noi fatta di c =1, avendo infatti
introdotto la nuova variabile temporale , le equazioni x =  e x = -  (bisettrici dei quattro
quadranti) diventano ora le leggi del moto di due raggi di luce, il primo progressivo lungo l’asse x e
22
l’altro regressivo, partiti da O al tempo  = 0; d’altra parte le due rette sono anche, come già detto,
la posizione limite che possono assumere, sovrapponendosi, i nuovi assi x’ e ’ di un secondo
osservatore R’ in moto uniforme rispetto a R quando u tende a c = 1 (quindi =u, poiché  =45°).
Ciò comporta che (si veda la fig. 7 a fianco),

mentre per i punti della parte bianca (destra o
sinistra) è possibile tracciare un nuovo asse x’
che li renda contemporanei con O (quindi ’ =0)
questo non può valere per i punti rimanenti;
le due regioni di piano bianche sono dunque
quelle corrispondenti al cosiddetto altrove, mentre
la grigia individua il passato e l’azzurra il futuro.
Si osservi inoltre che la regione azzurra o grigia
(come subito si verifica procedendo per ciascuno
dei quattro quadranti) corrisponde a tutti e soli
i punti P di quel piano che soddisfano alla disequazione
Fig. 7
|| > |x|  | ct| > |x|  |t| > |x/c|. Ma |x/c| altro non è che il tempo impiegato dalla luce che parte da
O (per un osservatore in quiete rispetto ad O) per raggiungere il punto-evento P(x, ), mentre t è il
tempo in cui tale evento si verifica rispetto al tempo t = 0 di O. Anche in base al criterio di pag. 15
Si può quindi affermare che P è futuro o passato rispetto ad O, a seconda che sia t >o oppure t < 0.
E’ chiaro poi che tale ripartizione del piano spazio-temporale può essere effettuata per ogni punto
A, non solo per O (basta traslare gli assi), così come si comprende facilmente che aggiungendo una
nuova coordinata i due angoli opposti al vertice passato-futuro verranno sostituiti da un cono (che
diventerebbe un “ipercono” in uno spazio a 4 dimensioni).
Per la meccanica classica, quindi per trasformazioni galileiane, passato e futuro assoluti (per O)
corrispondono invece ai due semipiani (o semispazi oppure “ipersemispazi”, se si considerano
dimensioni maggiori)  >0 e <0 mentre il presente (ora non più relativo ma anch’esso assoluto)
si riduce ai punti della sola retta rossa (o piano o iperpiano)  = 0.
A questo punto non è difficile introdurre l’ultima e fondamentale interpretazione di tipo geometrico,
dovuta al matematico polacco Minkowski, lo spazio-tempo vero e proprio, detto anche cronòtopo,
cioè un unico “continuum” a quattro dimensioni, i cui elementi o “punti” Q(x, y,z,u) sono gli eventi,
ovverosia punti dello spazio tridimensionale associati ad un certo istante del tempo.
Per ottenerlo basta osservare che nelle trasformazioni di Lorentz, come subito si controlla
quadrando e sommando, vale x’² - ’² = x² - ² e quindi essendo y e z invariati si ha pure:
x’² + y’² + z’² - ’² = x² + y² + z² - ²,
quindi
x² + y² + z² - ² = cost.
Se a questo punto, ricordando che i ² = -1 (i : unità immaginaria) si pone: u = i = ict ,
(attenzione a non confondere questo u con la precedente velocità u !) si ottiene:
x² + y² + z² + u² = cost. o, usando un’unica x con 4 indici: (x1) ² + (x2) ² + (x3 )² + (x4) ² = cost.
La formula appena scritta ci dice, in altre parole, che l’espressione a primo membro è invariante per
trasformazioni di Lorentz; ma tale espressione altro non è che la distanza di un generico elemento o
punto Q dal punto origine O. Se non ci fosse la quarta coordinata temporale u = x4 (che, si noti,
essendo immaginaria conserva sempre un carattere particolare che non le permette di essere
omogenea con le altre), le trasformazioni che lasciano invariato il quadrato della distanza di un
punto dall’origine altro non sarebbero che le rotazioni dello spazio attorno all’origine; nulla ci vieta
23
di interpretarle ancora allo stesso modo: le trasformazioni di Lorentz, non solo quelle da noi
scritte ma tutte e sole quelle compatibili con i due postulati relativistici (quale che sia cioè la retta,
non solo l’asse x, lungo la quale abbiamo sinora supposto il moto dei due sistemi di riferimento),
sono tutte e soltanto quelle che possono interpretarsi come rotazioni dello spazio-tempo attorno
all’origine. Naturalmente, a causa del carattere immaginario della quarta coordinata u= x4 =ict,
anche l’angolo  di rotazione risulta immaginario; risulta
infatti = arctg i = i tgh -1 ( vedi fig. 8).
Dal punto di vista puramente algebrico invece tali
trasformazioni sono tutte e soltanto quelle la cui matrice di
passaggio è ortogonale con determinante 1. Ricordiamo che
una matrice quadrata è detta ortogonale se tutti i suoi vettori
riga sono versori, cioè hanno modulo 1 mentre tutti i loro
possibili prodotti scalari sono nulli; idem per i vettori
colonna. Tale risulta L4, quella che si ottiene da L2
Fig. 8
aggiungendo tutti 0 salvo: a22 = a33 =1.
In particolare, nel solito caso in cui la traslazione che dà origine alla trasformazione di Lorentz è
lungo il semiasse positivo delle x = x1 con velocità v (e quindi  = v/c), risulta:

1
i
1
1
x’ = --------- x
+ --------- x4
Più brevemente - senza per ora addentrarci
  1 - ²
 1 - ²
in considerazioni matematiche troppo

complesse - le trasformazioni riportate a fianco
 x’2 =
x2
possono scriversi in forma simbolica: X’ = A X,

dove X è il “quadrivettore” (x1, x2, x3, x4) (analogo
3
3
x’ =
x
discorso per X’) mentre A è la matrice (o, come

si dirà, “quadritensore” del 2° ordine)

- i
1
dei 16 coefficienti ai,k (i, k = 1, …4) delle x i.
4
1
4
 x’ = ---------- x +
-- --------- x Per le trasformazioni inverse basta cambiare

 1 - ²
 1 - ²
di segno a , lasciando tutto il resto invariato.
A questo punto appare più semplice e intuitivo il principio fondamentale di tutta la Teoria della
Relatività Ristretta secondo il quale tutte le leggi della fisica sono invarianti (non mutano cioè la
loro forma) rispetto ad ogni sistema di riferimento inerziale. Esso diventa:
tutte le leggi della fisica sono invarianti per rotazioni dello spazio-tempo.
Ciò significa pure che nel passaggio da un riferimento ad un altro in moto rettilineo uniforme
rispetto al primo con velocità v, quindi da un opportuno sistema di coordinate x i ad un altro x ’ i
legato al primo dalle precedenti trasformazioni, ogni “quadrivettore” U deve trasformare le sue
componenti iniziali (u1, u2, u3, u4) nelle nuove (u’1, u’2, u’3, u’4) allo stesso modo in cui il precedente
quadrivettore delle coordinate (x1, x2, x3, x4) si trasforma nell’altro (x’1, x’2, x’3, x’4).
Basta cioè sostituire le xi con le ui e le x’ i con le u’i : U’ = A U.
Quanto appena affermato è della massima importanza:
Se l’ipotesi relativistica è corretta – se cioè valgono i suoi due postulati – affinché una presunta
legge di natura non venga a priori refutata, occorre che essa sia invariante per rotazioni dello
spazio-tempo. Questo significa che, se nella sua formula compaiono vettori, scrivendoli in forma di
quadrivettori e cambiando riferimento inerziale, questi dovranno trasformarsi con la stessa regola
con la quale si trasformano le 4 coordinate spazio-temporali. In particolare ogni legge fisica dovrà
essere invariante per trasformazioni di Lorentz – quindi non per quelle galileiane (le une infatti
escludono le altre e viceversa). Ogni riconosciuta legge fisica che risulti soltanto Galileo- invariante
va quindi sistematicamente corretta. È questa la grande revisione che la Relatività comporta.
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