Etica e morale. Felicità o senso del dovere? : Il barattolo delle idee

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OTTOBRE 13, 2007 BY IL BARATTOLO DELLE IDEE LEAVE A COMMENT
Etica e morale. Felicità o senso del
dovere?
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Etica o morale?
In ambito pratico la prima distinzione da fare è tra approcci edonistici e
deontologici. Ovvero tra coloro che pensano che il fine dell’attività dell’uomo sia la
felicità e coloro che pensano al contrario che l’azione umana debba essere rivolta
alla realizzazione del bene e che questo sia auspicabile in sé a prescindere dal
fatto che ci renda felici o meno. Tutte le visioni classiche sono edonistiche, mentre
dal cristianesimo in poi viene introdotta la Legge, o Verbo, intesa come
emanazione di un’autorità divina, che in quanto parola rivelata crea, la distinzione
tra bene e male e con essa il peccato, libera adesione al male. Detto banalmente
per un Greco se commetti il male sei uno stupido, perché non stai facendo i tuoi
propri interessi, che sono poi anche gli interessi della comunità, ma in nessun caso
sei un peccatore. L’azione risanatrice consiste nel fatto che bisogna educare il
singolo a soppesare correttamente i beni fra loro e scartare un bene effimero e
immediato in vista di un bene duraturo. L’interesse del singolo coincide infatti con
l’interesse della comunità. In un mondo conciliato con sé stesso la norma realizza
la piena maturazione di entrambe le cose, giacché è nell’interesse del singolo
accrescere la comunità e nell’interesse della comunità tutelare il singolo. Questa
visione conciliata dell’io con la comunità, del particolare con l’universale, del bene
nell’azione concreta con l’idea del bene in sé è tipica del mondo classico. La
scissione o separazione dei due lembi nasce già con la crisi dell’ellenismo che
riduce la filosofia greca allo sgomento, al mutismo dell’afasia, all’assenza di
passioni dell’atarassia e all’impossibilità di emettere giudizi certi dell’epoché. Di
fronte alla scissione, all’estraneazione di un mondo che allora agli occhi dell’uomo
greco andava in rovina, l’uomo filosofico si richiude in sé stesso, nella sua
interiorità e lì semplicemente tace. Sarà il cristianesimo impostosi tra le filosofie
pratiche post-elleniche a risolvere il problema dal lato dell’universale. Da una parte
verrà posto Dio, atto puro, sommo bene, verità assoluta, dall’altra, la materia,
potenza pura, fonte di inganni e peccato ed infine in mezzo l’uomo che con le sue
scelte può o tendere alla carne e realizzare il peccato o aspirare al cielo e fare
volta per volta la cosa giusta agli occhi di Dio. L’azione riparatrice della violazione
della norma, intesa appunto come peccato, è piuttosto il pentimento del singolo e
il perdono della comunità, come movimento con il quale il singolo e la comunità si
riconciliano tra loro. L’atto morale è piuttosto volto al mantenimento di un equilibrio,
di una proporzione o rapporto tra bene e male. Il peccato, la violazione della
norma, lacera il tessuto etico di una comunità e richiede di essere riparato,
attraverso l’espiazione della colpa e la dialettica di pentimento e perdono. Ogni
volta che qualcuno si rende reo al cospetto della comunità, qualcosa si lacera nella
trama del tutto ed è l’intero che soffre di questo equilibrio, che chiede per il reo la
giusta punizione, come mezzo di espiazione e ravvedimento e alla comunità il
perdono come giusta risposta al percorso escatologico del primo. Nasce così
l’idea che fare la cosa giusta non sempre mi renda felice e che dunque la felicità
non possa essere più considerata il fine della mia azione. Se esiste un bene in
assoluto, qualunque sia l’origine di questo bene, compito dell’azione morale è
realizzarlo e questo è un fine in sé.
L’etica per i Greci e la morale dei cristiani
Per i Greci invece la felicità era intesa come piena realizzazione della propria
natura. Quella della sedia consisterebbe nel farmi stare seduto, del computer nel
fatto che io ci scriva su e dell’essere umano nel fatto che usi la ragione, in quanto
sua caratteristica specifica rispetto a tutte le altre bestie è che egli è un animale
razionale. La felicità per i cristiani è piuttosto una chimera, rimandata ad un al di
là da venire, giacché la condizione umana è essa stessa nel peccato e i tentativi
di riparare ad esso sono sempre provvisori. Il vero peccato è infatti la singolarità
stessa, giacché il male altro non è che la separazione dal bene prodotta dalla sua
stessa condizione di finitudine, per cui a ben vedere l’uomo non può non peccare,
in quanto non può non esistere e l’esistenza stessa in quanto possibilità è
scissione e separazione. Questo concetto pare frustrante, l’idea che qualunque
cosa facciamo sbagliamo può non piacerci, ma nasce dal fatto di aver posto al di
là da noi un bene assoluto, che proprio perché posto al di là è irraggiungibile finché
siamo di qua, ovvero sulla terra. Prendiamo per esempio l’estremo dell’azione
considerata giusta senza ombra di dubbio, ovvero, l’aiuto del prossimo. In quanto
esseri finiti non possiamo aiutare tutti, ma solo alcuni e nel farlo dobbiamo operare
delle scelte. Perché aiutare i bambini in Africa piuttosto che i barboni a casa mia?
Perché preferire i rumeni, piuttosto che i bambini orfani del Perù? La mia scelta
produce un beneficio ai primi, ma un torto a tutti gli altri, perché è francamente
ingiusto che mentre io riesca a nutrire di tutto punto il bambino della tribù dove
alloggio, quello a due chilometri distante da me stia letteralmente morendo di
fame. Quando adottate per esempio un bambino a distanza, non vi pare surreale
che lui mangi vada a scuola e sia ben vestito con i vostri 50 euro al mese, mentre
quello accanto nello stesso luogo debba continuare a morire di fame? Potreste
anche spendere tutto quello che avete in donazioni e poi dedicare l’intera vostra
vita a fare i missionari, il problema comunque non si risolverebbe. Tra l’altro è
questa la ragione per cui i più grandi Santi si ritenevano anche i più grandi
peccatori, più ci si avvicina a Dio e più si realizza la propria finitezza. Il peccato in
questo senso non è nelle mie azioni in sé, ma nel fatto stesso che ho compiuto
una scelta. La scelta stessa è poi risultato della mia finitudine, non essendo
onnipotente infatti non posso aiutare tutti. Eccola là dispiegata la mia condizione
intrinseca di peccatore, il seme del peccato originale: se pecco persino rispetto ad
un atto di generosità assoluta figuriamoci in tutte le mie azioni ordinarie. La
riconciliazione è pertanto rimandata ad un’aldilà e e si offre comunque solo come
grazie ricevuta.
La visione cristiana infine presupporre che esista da qualche parte in astratto
un’idea di bene universale, di bontà infinita mentre quella razionalistica di matrice
classica al contrario considera che il buono e il giusto esistano solo nel momento
in cui viene realizzata un’azione giusta o buona, siano vale a dire soltanto in res,
incarnati nelle azioni concrete. In questo caso si presuppone che esista un meglio
oggettivamente possibile e non un bene in sé. La prima prospettiva è
universalistica e delimita il cosiddetto punto di vista morale, la seconda definisce
invece il punto di vista etico. Fonte di legittimazione in quest’ultimo caso è la
ragione, nel primo l’autorità morale o divina. Facendo degli esempi pratici, mentre
da un punto di vista morale uccidere è sempre sbagliato, da un punto di vista etico
in alcuni casi il male minore può essere proprio uccidere. Si aprono così gli infiniti
dibattiti sul diritto all’aborto, l’eutanasia, la legittimità della guerra, della tortura se
può impedire attentati e così via. Dibattiti che alla luce di quanto detto sin’ora sono
il risultato di uno scontro tra diverse visioni del mondo, di un conflitto tra punto di
vista morale e punto di vista etico.
Oggi difficilmente si opta in modo drastico verso uno dei due punti di vista e la
questione diventa piuttosto come integrare il punto di vista etico con l’aspirazione
universalistica della ragione.
Una buona alternativa ad entrambi i punti di vista è invece la morale kantiana, che
di fatto sintetizza i due approcci. Quest’ultima in linea con la svolta soggettivista
avviata con Cartesio, sostiene che non è possibile conoscere razionalmente un in
sé delle cose e che quanto alle nostre scelte dobbiamo lasciarci orientare dal
criterio della pura ragione pratica. Kant in altre parole parte dal presupposto che
l’azione umana sia rivolta non alla felicità, ma alla realizzazione della legge
morale. L’unico sentimento associato a quest’ultima è dunque quello del dovere
per il dovere ovvero del “puro dovere”. L’adesione alla norma morale produce in
noi un sentimento di realizzazione personale che potremmo tradurre volgarmente
nel “sentirsi a posto con la propria coscienza”. Se la forma universale dell’Io in
ambito teoretico era l’Io penso, in ambito morale allora la forma del puro volere
sarà il “Tu devi”, come puro imperativo, in quanto astratto da qualunque contenuto
materiale. Se ad ogni massima d’azione togliamo, infatti, il contenuto empirico, ad
esempio “devi studiare per andare bene a scuola”, ” devi rispettare il prossimo tuo
come te stesso” ecc. resterà soltanto la pura forma del “devi” e quest’ultima è
riconosciuta da Kant come l’unico contenuto della ragion pura pratica.
Il Tu-devi non ha però un contenuto specifico, ma quest’ultimo va volta per volta
individuato nelle situazioni concrete e partire dalle proprie massime d’azione. In
questo modo la prospettiva universalistica e conciliata con quella etica. Il criterio
con il quale possiamo volta per volta decidere cosa è giusto (o anche razionale)
fare è quello dell’universalizzazione: “Agisci in modo che la massima delle tue
azioni, valga in ogni tempo e in ogni luogo come principio di legislazione
universale”.
Universalizzare significa dunque elevare la massima d’azione a legge universale.
Cosa vuol dire in concreto? Poniamo che sia tentato di rubare un deposito
lasciatomi in consegna. La domanda che immediatamente debbo pormi è: posso
io per appropriarmi di una somma di denaro lasciatami in custodia (i famosi cento
talleri di cui parla Kant)? Detta in altre parole posso io rubare nella condizione
specifica in cui qualcuno mi lasci in custodia del denaro? Cosa mi suggerisce di
fare però la legge morale? Essa mi chiede di universalizzare i miei propositi, dargli
cioè la forma del “Tu devi”. La legge suonerebbe più o meno così: “Ogni volta che
qualcuno ti da in deposito una somma di denaro, tu devi appropriartene”. Capire
cosa succederebbe se valesse una simile legge diventa facile: chi sano di mente
mi darebbe più in custodia una somma di denaro, sapendo già che devo
rubargliela? La massima d’azione nella sua forma universale elimina le condizioni
del suo stesso porsi, si dice cioè che contraddice se stessa. Se valesse non
esisterebbe più il deposito e dunque nemmeno la possibilità di rubarlo, ciò vuol
dire che la legge che dovrebbe essere sempre valida non potrebbe mai essere
applicata.
La prospettiva etica era particolarmente calzante e priva di obiezioni in un mondo
che come visto non contrapponeva l’interesse del singolo con quello della
comunità. L’idea che per agire debba commisurare interessi tra loro, porta
inevitabilmente a ragionare sul fatto che il mio interesse potrebbe non coincidere
con quello della comunità e viceversa. In altri termini, mentre agire sulla scorta dei
propri convincimenti personali, per l’uomo Greco significava immediatamente
realizzare anche l’universale, per noi come visto le cose stanno diversamente:
pare proprio che realizzare la nostra individualità significhi sempre peccare,
ovvero, contraddire l’universale. La prospettiva etica ha dunque ceduto
storicamente il passo, nella misura in cui l’individuo s’è scoperto solo, ovvero
isolato, scisso dalla comunità. Dall’altro lato, però, oggi prospettive
universalistiche compiute sono altrettante chimere. Il percorso di umanizzazione
del sapere, avviato con la svolta soggettivistica moderna, ha di fatto destabilizzato
il fondamento, l’idea stessa che possa esistere un bene in sé e dunque una piena
legittimità del punto di vista morale. Anche deontologizzando il concetto di “bontà
infinita”, sottraendolo cioè della pretesa di un esistenza reale seppure in un mondo
al di là come lo concepiva il cristianesimo, resta comunque il fatto che non può
esistere un bene valido in ogni tempo e in ogni luogo. L’essere deve calarsi nel
tempo, il bene valutarsi di volta in volta in ogni singolo contesto. Qualunque norma
deve poi potersi calare nel concreto, ragione per la quale più è generica e rimanda
all’universale e più è “inutile”, più è specifica e calata nel caso particolare e più è
soggetta ad interpretazioni. La conciliazione tra particolare e universale, cruccio
dell’età moderna, è più un “arrangiare” volta per volta questo a quello. Resta
comunque la scelta di fondo se essere socratici o cristiani, razionalisti o fideisti e
dunque, se optare per un approccio morale o un approccio etico.
Se vi è piaciuto l’articolo non esitate a condividere o mettere mi piace. Come pure
a sollevare perplessità ed obiezioni a commento. Riflessioni e critiche in questo
campo sono sempre gradite. �
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veramente buon… https://t.co/RWmFzUMAG7 giugno 1, 2017 8:20 pm
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