I comuni
L’idea di un’autonomia che si estendesse fino ai confini di una città in Italia ha origini medievali: nasce lì
la spinta a darsi propri ordinamenti che si contrappongano all’autorità imperiale e feudale. Le forme di
autogoverno (in realtà urbane piccole o grandi) sono passate attraverso i secoli e, pur conoscendo
fortune maggiori o minori nelle varie epoche, si sono conservate e sono state riconosciute prima con
l’unificazione d’Italia, poi con l’entrata in vigore della Costituzione.
I circa 8100 comuni sono di varie dimensioni: più della metà dei comuni ha meno di 3mila abitanti, così
come sono comuni realtà come Milano, Roma o Napoli, con problemi da affrontate ben diversi tra loro
(cui corrisponde, evidentemente, un apparato burocratico diverso, più o meno nutrito). Fino al 1990 la
struttura organizzativa e i poteri dei comuni erano standard, risultando indifferente la loro dimensione;
con la riforma del 1990 si è cercato di porre le basi per una struttura dell’ente locale più equilibrata
rispetto alle dimensioni (in particolare, con l’introduzione delle città metropolitane, a tutt’oggi non ancora
istituite, e con l’incoraggiamento alle fusioni tra vari piccoli comuni).
La forma di governo e le elezioni
Fino al 1993 anche i comuni avevano una forma di governo parlamentare, con gli elettori che
votavano per formare l’organo deliberativo (il consiglio comunale), il quale poi eleggeva il sindaco e la giunta
comunale (organi esecutivi). La giunta (e il sindaco) doveva godere della fiducia del consiglio, in
mancanza della quale scattavano le dimissioni: in sostanza era la stessa dinamica riscontrabile a livello
nazionale. La legge 81/1993 ha invece dato un’impostazione presidenziale alla forma di governo: oggi
i cittadini eleggono direttamente tanto il consiglio (che si configura essenzialmente come potere di
indirizzo e controllo) quanto il sindaco, il quale invece nomina direttamente gli assessori. Sindaco,
giunta e consiglio durano in carica 5 anni, applicandosi anche qui il principio simul stabunt, simul cadent.
Il sistema elettorale è maggioritario per l’elezione del sindaco e proporzionale corretto (con premio di
maggioranza) per il consiglio. Il sistema, tuttavia, presenta differenze a seconda delle dimensioni dei
comuni.
Per i comuni con meno di 15mila abitanti il sistema è (per i sindaci) a turno unico: ogni candidato sindaco
è collegato a una sola lista, per cui il voto alla lista va automaticamente al candidato sindaco e viceversa
(si può anche esprimere una sola preferenza per un consigliere); il candidato sindaco che riceve più voti
è automaticamente eletto. La lista che riceve più voti ottiene i due terzi dei consiglieri (premio di
maggioranza), mentre le altre liste si dividono in proporzione i seggi restanti.
I comuni con più di 15mila abitanti prevedono un sistema diverso, potenzialmente a doppio turno per i
sindaci. Un candidato sindaco può essere collegato a più liste (magari più partiti): si può votare per una
lista (e di conseguenza per il sindaco), per il solo sindaco (senza che valga per alcuna lista) oppure con il
voto disgiunto (per un sindaco e una lista non collegata). Se un candidato sindaco ottiene almeno il 50%
dei voti è eletto direttamente; in caso contrario si va al ballottaggio tra i due candidati più votati, con i
partiti esclusi che decidono quale candidato appoggiare. Il 60% dei seggi del consiglio spetta alla lista o
alle liste collegate al sindaco eletto; i seggi restanti sono attribuiti alle altre liste, in proporzione ai voti
ottenuti al primo turno.
L’organizzazione dei comuni
La legge detta alcuni principi generali sull’organizzazione dei comuni, i quali sono comunque autonomi
nell’adozione del loro statuto (a partire dalla legge 142/1990).
Il consiglio comunale (di composizione variabile a seconda del numero di abitanti, da 12 a 60
membri) dura in carica 5 anni ed è guidato da uno consigliere eletto presidente a maggioranza oppure –
per i comuni sotto i 15mila abitanti, se lo statuto non prevede diversamente – dal sindaco stesso.
In quanto organo di indirizzo e controllo politico-amministrativo, il consiglio approva lo statuto (con la
maggioranza dei 2/3), approva i regolamenti, il bilancio, delibera sull’ordinamento degli uffici comunali
e l’istituzione/ordinamento di tributi e su altre materie importanti indicate dalla legge (su tutte queste
materie la giunta non può deliberare). Spetta sempre al consiglio controllare l’operato di sindaco e
giunta, potendo tra l’altro sfiduciare il sindaco (provocando di conseguenza lo scioglimento del
consiglio).
Il sindaco oggi ha un ruolo centrale nel comune, anche in forza della sua elezione diretta: egli è
l’organo responsabile dell’amministrazione del comune. È lui a nominare (e revocare) gli assessori, che
rispondono direttamente a lui; convoca e presiede la giunta, rappresenta il comune, è a capo
dell’amministrazione comunale (ed dunque responsabile del suo andamento) e nomina i rappresentanti
del comune in enti, aziende e istituzioni. Restano peraltro alcune funzioni (quelle che il comune svolge
su delega dello Stato) in cui il sindaco è chiamato ad agire come ufficiale del Governo, organo di cui è
tenuto a seguire le direttive.
La giunta è formata, oltre che dal sindaco, da vari assessori (da 2 a 16 a seconda della popolazione del
comune) posti a capo di determinati settori, su delega del sindaco (che nomina e revoca i componenti
della giunta a sua discrezione). Nei comuni con più di 15mila abitanti le cariche di assessore e di
consigliere sono incompatibili, mentre nei comuni più piccoli c’è compatibilità (ma lo statuto può
prevedere la nomina di assessori esterni)
La giunta prepara le deliberazioni da far discutere e votare dal consiglio e, dopo l’approvazione, le fa
eseguire; su tutte le materie non riservate al consiglio o al sindaco (che non hanno rilevanza generale o
non comportano scelte di indirizzo), poi, la giunta ha potere di deliberare direttamente.
Le dimensioni dell’apparato amministrativo varia molto a seconda della dimensione dei comuni (da
pochi dipendenti a strutture molto più complesse). Il sindaco deve nominare un segretario comunale
(scelto da un apposito albo), con il compito di verificare la conformità alla legge dell’operato del
comune; nei comuni con più di 15mila abitanti, infine, il sindaco può nominare un direttore generale
di sua fiducia che dirige l’apparato amministrativo comunale.
Le funzioni dei comuni
I comuni hanno tanto funzioni proprie, quanto funzioni delegate. Quanto alle funzioni proprie, i
comuni hanno competenza generale, per cui esercitano tutte le funzioni relative alla popolazione e al
territorio comunale, soprattutto in determinati settori:
- Servizi sociali: assistenza sociale e scolastica;
- Sviluppo economico: commercio, mercati, fiere, rilascio di licenze per esercizi commerciali (e
vigilanza sugli orari di apertura e chiusura);
- Assetto e organizzazione del territorio (il settore più esteso): predisposizione dei piani regolatori,
rilascio di concessioni edilizie e edificazione/assegnazione delle case popolari, gestione di parte
dell’edilizia scolastica, opere di viabilità, gestione dei servizi di base (fogne, illuminazione
pubblica, acqua, nettezza urbana).
Nei limiti dei loro mezzi economici, i comuni possono impegnarsi in ogni iniziativa ritenuta utile sul
piano locale: anche per questo i comuni hanno sviluppato nel tempo servizi di pubblica utilità in vari
ambiti (trasporti pubblici, interventi per le fasce deboli, lotta alla tossicodipendenza, iniziative culturali),
spesso idonee a supplire l’assenza dello Stato o a migliorare le prestazioni offerte.
Fin dal ‘900 lo Stato ha delegato ai comuni alcune funzioni che richiedono una presenza capillare sul
territorio: si tratta comunque di funzioni statali poiché esercitate nell’interesse dell’intera collettività
nazionale. È il caso, ad esempio, della tenuta dell’anagrafe e dei registri di stato civile, oppure delle liste
elettorali, della celebrazione dei matrimoni, della gestione dell’ordine pubblico (quando manchino i
commissariati). In questi casi il sindaco agisce come ufficiale del Governo.
Altre funzioni sono attribuite o delegate dalle Regioni (che di norma non esercitano attività
amministrative); l’ampiezza delle funzioni attribuite o delegate varia molto tra le varie regioni.
I servizi di pubblica utilità offerti dal comune ai cittadini possono essere gestiti direttamente dagli
uffici amministrativi del comune, ma quelli più complessi sono normalmente gestiti da organismi
controllati dall’amministrazione comunale, ma separati da essa. Le forme possibili sono:
- la concessione a terzi: servizi affidati a imprese private che rendono conto al comune;
- l’azienda speciale (o municipalizzata): dotate di personalità giuridica e autonomia (imprenditoriale e
statutaria), si ricorre ad esse per servizi a rilevanza economica e imprenditoriale, come i trasporti
urbani o la gestione dell’acqua pubblica;
- le istituzioni: servono all’esercizio di servizi sociali senza rilevanza imprenditoriale (interventi di
assistenza sociale);
- le società per azioni: il capitale è prevalentemente pubblico (le azioni sono dunque in mano
pubblica).
Le circoscrizioni
La legge ha fatto propria una soluzione adottata per la prima volta tra gli anni ’60 e ’70 dalle città più
grandi, le quali avevano cercato di rendere partecipi i cittadini alle scelte della collettività e di decentrare
l’erogazione di alcuni servizi creando organi di decentramento, su territori più ristretti rispetto al
comune. Oggi i comuni che superano i 100mila abitanti sono tenuti a suddividere il loro territorio in più
circoscrizioni, ognuno dei quali dotati di un proprio consiglio, eletto direttamente dagli abitanti di quel
territorio (con le norme stabilite nello statuto comunale): ogni comune stabilisce nello statuto le
funzioni dei “consigli di quartiere”, i quali possono erogare a livello decentrato determinati servizi,
formulare proposte e pareri, nonché decidere su questioni relative al quartiere. L’istituzione delle
circoscrizioni è facoltativa per i comuni tra i 30mila e i 100mila abitanti.
Le province
Le province sono organi intermedi tra comuni e regioni e sono chiamate a curare gli interessi della loro
comunità territoriale; si tratta di enti di origine “artificiale”, istituiti a fine ‘800 sul calco delle
circoscrizioni territoriali stabilite essenzialmente per le prefetture.
Da molto tempo le province sono considerate enti di secondo piano, idea cui concorrono vari fattori: le
competenze originarie erano limitate (soprattutto in tema di sanità, viabilità e istruzione) e i poteri erano
meno penetranti rispetto agli organi statali periferici legati allo stesso territorio; i cittadini non sentivano
(né sentono) particolarmente l’appartenenza a questo ente; parte delle competenze (soprattutto
sanitarie) sono state erose con l’istituzione delle Regioni. Tutto questo ha fatto ritenere che la provincia
sia un ente al limite dell’inutilità, al punto che alcuni ne hanno invocato la soppressione.
Per evitare questa soluzione drastica, si è ritenuto opportuno rilanciare la provincia come ente intermedio
(e di collegamento) tra Regione e comuni, come ente in grado di gestire problemi troppo grandi per
essere trattati dai comuni e troppo “lontani” dalle Regioni. La riforma delle autonomie locali ha cercato
di cogliere queste sollecitazioni, assegnando più poteri e compiti di programmazione alle province.
Le norme generali di organizzazione sono identiche a quelle dei comuni; anche le province,
comunque, sono dotate di autonomia statutaria. Anche la provincia è dotta di un organo deliberante (il
consiglio provinciale) e di organi esecutivi (Presidente della provincia e giunta provinciale). La loro elezione è
regolata da norme affini a quelle valide per i comuni superiori a 15mila abitanti: il Presidente (che
nomina e revoca gli assessori della giunta) è eletto direttamente, con la previsione di eventuale turno di
ballottaggio nel caso che nessuno dei candidati riceva almeno il 50% dei voti; il 60% dei seggi del
consiglio spetta ai partiti collegati al Presidente, mentre gli altri seggi sono divisi proporzionalmente.
Il consiglio è organo di indirizzo e controllo politico-amministrativo e delibera nelle materie indicate
dalla legge; la giunta è l’organo esecutivo e delibera sulle materie non riservate al consiglio.
I compiti tradizionali delle province riguardavano la viabilità e i trasporti (costruzione e manutenzione
di strade provinciali), l’edilizia scolastica e l’igiene/profilassi sanitaria. La riforma delle autonomie locali
ha assegnato alle province competenze anche in tema di valorizzazione dei beni culturali, di tutela e
valorizzazione del suolo, dell’ambiente e delle risorse idriche, di caccia e pesca (nelle acque interne), di
protezione di flora, fauna e parchi. La provincia, infine, elabora (in accordo con la regione) un piano
territoriale di coordinamento per determinare gli indirizzi generali di assetto del territorio.
Altri enti locali: Città metropolitane, comunità montane, unioni comunali
Nuove esigenze, sorte con il passare del tempo, hanno suggerito la creazione di nuovi enti locali per
tentare di risolvere determinati problemi.
Sono state istituite per prime (1971) le comunità montane, istituite con legge statale e regolate da leggi
regionali: sono state pensate per rispondere alle esigenze dei territori di montagna, comprendenti più
comuni e solitamente con più difficoltà di altri in vari settori (trasporti, risorse, attività economiche
disagiate, …). Le comunità montane, dunque, sono associazioni di comuni (spesso piccoli, anche
appartenenti a province diverse) situati in territorio montano, create col compito di coordinare le
iniziative dei loro comuni e di agire per ridurre lo squilibrio economico con il resto del territorio. In
Italia sono oltre 300 le comunità montane (esse raccolgono quasi metà dei comuni italiani), ognuna
dotata di un organo rappresentativo (consiglio) e di uno esecutivo (giunta, guidata da un presidente)
tutti formati da soggetti indicati dai consigli comunali coinvolti.
Nel 1990 si è parlato per la prima volta di città metropolitane, ossia di enti che si sviluppino nelle
maggiori nove aree metropolitane del Paese (Milano, Torino, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma,
Bari, Napoli – in seguito, peraltro, sono state individuate anche le donne di Palermo, Catania, Messina,
Reggio Calabria, Cagliari e Trieste), in cui l’area effettivamente urbanizzata supera di gran lunga i
confini del comune capoluogo e c’è bisogno di un governo unitario del territorio e dei suoi problemi,
non frammentato sui vari comuni. Il testo unico sulle autonomie locali (2000) prevede che sia la regione
a stabilire quali comuni fanno parte dell’area metropolitana, perché poi essi si accordino per istituire la
città e deliberare lo statuto (da approvare con legge statale). Una volta creata, in quelle aree la città
metropolitana dovrà sostituire la provincia, con organi eletti direttamente dal corpo elettorale. Di fatto,
tuttavia, le città metropolitane non esistono ancora: negli ultimi anni si è arrivati all'approvazione di una
legge (la 42/2009, legata tuttavia al federalismo fiscale) che ha delegato al governo la normazione di
quegli enti, ma i numerosi contrasti tra comuni centrali e periferici, nonché l'atteggiamento molto
negativo delle province (che sarebbero "cancellate" dal nuovo ente locale) hanno impedito di arrivare
all'istituzione delle città metropolitane stesse.
Se fino a qualche anno fa aveva senso parlare soprattutto dei consorzi intercomunali (associazioni
volontarie di comuni costituite per affrontare singoli problemi di comune interesse, dalla raccolta dei
rifiuti alla formazione professionale), oggi ha decisamente più importanza la realtà delle unioni
comunali. Istituite nel 1999 e regolate l'anno successivo, si tratta di enti costituiti da due o più comuni
(confinanti tra loro) allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni di loro competenza, delegate
all'unione dai comuni stessi (solitamente per puntare a una gestione più efficiente e meno dispendiosa
di funzioni e servizi, rispetto alla gestione autonoma da parte di ogni singolo comune); ogni unione a un
atto costitutivo e uno statuto, nel quale sono definiti gli organi dell'ente, le modalità della loro
costituzione, le funzioni e le risorse dell'unione. Se in un primo tempo le unioni comunali avevano
natura transitoria, come primo passo che doveva necessariamente chiudersi con la fusione dei comuni,
oggi questi enti hanno una natura più stabile e impegnano nel loro funzionamento coloro che nei
comuni hanno responsabilità amministrativa: il presidente viene scelto tra i sindaci eletti nei comuni
interessati, mentre gli altri organi sono comunque formati da consiglieri o membri delle giunte, pur nel
rispetto della rappresentanza delle minoranze.