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REPUBBLICA ITALIANA
N.1096/05
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Reg.Dec.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato
N. 4127 Reg.Ric.
ANNO 2004
la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 4127/2004 proposto da:
visto il ricorso n. 8599/2000, proposto da CARUSO ANNA ANTONIETTA, rappresentata
e difesa dall’Avv. Eliseo Laurenza ed elettivamente domiciliata in Roma viale Parioli n. 67,
presso lo studio dell’avv. Antonio Lamberti;
contro
il MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE ed il PROVVEDITORATO AGLI
STUDI DI CASERTA, in persona dei legali rappresentanti pro tempore, non costituiti;
per l’annullamento
della sentenza n. 2074/2003, resa dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Campani,
sezione II, che ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso diretto al riconoscimento del
diritto alla corresponsione di somma equivalente alla retribuzione spettante quale docente
supplente di sostegno a tempo determinato, nella scuola elementare della Provincia di
Caserta, per l’ano scolastico 1997/1998, somma non percepita a causa di atti del
Provveditorato agli Studi di Caserta dichiarati illegittimi ed annullati con sentenza n.
3174/99 della Seconda Sezione del T.A.R. Napoli; nonché al risarcimento dei danni
cagionati da detto provvedimento illegittimo;
Visti gli atti e i documenti depositati con il ricorso;
Visti gli atti tutti di causa;
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N.R.G. 4127/2004
Alla pubblica udienza del 17 dicembre 2004 udito il relatore, Cons. Francesco
Carringella;
Udito altresì l’avv. Sasso per delega dell’avv. Laurenza;
Ritenuto e considerato, in fatto e diritto, quanto segue.
FATTO E DIRITTO
1. Con il ricorso di primo grado in epigrafe Caruso Anna Antonietta, premesso
che, con la sentenza n. 3174/1999, il Tribunale Amministrativo aveva sancito il suo diritto
al conferimento dell’incarico di supplenza in conseguenza dell’annullamento delle nomine
di altri docenti privi dei requisiti ex l. 482/68, affermava che il Ministero della P. I. avrebbe
dovuto, in esecuzione di tale pronuncia, passata in giudicato, provvedere alla restitutio in
integrum della sua posizione ai fini economici, il che non era, invece, avvenuto.
Deduceva, pertanto, i vizi di violazione degli artt. 36, 38 e 97 della Cost., dell’art.
2043 cod. civ. e della suddetta sentenza del T.A.R. Campania, chiedendo la condanna
dell’Amministrazione intimata al pagamento della retribuzione, relativa all’incarico di
supplenza, illegittimamente non assegnatole per l’anno scolastico 1997/98, oltre gli
accessori di legge.
Affermava, in ogni caso, di aver subito danni ulteriori, per effetto del
comportamento tenuto nella vicenda dal Provveditorato agli Studi di
Caserta, danni consistiti in un “ulteriore e lungo tempo di precarietà,
sofferenze e disagi, anche in considerazione del suo stato d’invalida”, onde
sosteneva di avere diritto ad essere ristorata, anche in via equitativa, di tali
danni.
Allegava, al ricorso, copia della predetta sentenza della Sezione.
Il Collegio di prime cure dichiarava l’inammissibilità della domanda volta alla
corresponsione delle retribuzioni in parola, trattandosi di tipica azione d’ottemperanza al
giudicato , proposta in difetto del presupposto di ammissibilità dato dalla preventiva messa
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N.R.G. 4127/2004
in mora di cui all’art. 90 del R. D. 17 agosto 1907, n. 62 e senza il preventivo deposito
prescritto del medesimo ricorso, nella Segreteria del T.A.R., con la copia del giudicato,
giusta quanto prescritto dall’art. 91, comma 1°, cit. con conseguente omissione degli
adempimenti di Segreteria, previsti dal comma 2° del medesimo articolo, volti a garantire il
contraddittorio con l’Amministrazione.
Quanto, poi, alla seconda parte della domanda, con la quale la ricorrente ha chiesto
la condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno, consistente nel pregiudizio,
subito per aver dovuto intraprendere la via giudiziaria, onde ottenere l’affermazione del suo
diritto, e nelle sofferenze, materiali e morali, correlate alla tardiva affermazione del
medesimo diritto, anche in considerazione del suo stato d’invalida civile, il Tribunale ha
osservato, da un lato, che la possibilità di ricorrere al giudice, per ottenere il riconoscimento
del proprio diritto violato, non costituisce, in sé, un danno, quanto, piuttosto, un rimedio,
posto dall’ordinamento a disposizione dei cittadini; e che, quanto alle asserite sofferenze,
materiali e morali, connesse alla tardiva affermazione, per la via giudiziale, del suo diritto,
si tratta di una domanda assolutamente generica e completamente sfornita di prova, come
tale inidonea a fondare una pronuncia di condanna, anche in via equitativa,
dell’Amministrazione, al risarcimento del danno aquiliano.
La ricorrente originaria contesta in sede di appello gli argomenti
posti a
fondamento del decisum di primo grado.
Nessuno si è costituito per l’amministrazione della pubblica istruzione.
All’udienza del 17 dicembre 2004 la causa è stata trattenuta per la decisione.
2. L’appello è fondato.
2.1. In ordine a primo capo della domanda, osserva il Collegio che erroneamente il
Tar ha operato la relativa qualificazione in termini di domanda di ottemperanza, come tale
proposta in difetto dei presupposti procedurali sopra menzionati. Nella specie non viene
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infatti in rilievo una domanda intesa ad azionare il diritto al pagamento degli emolumenti
spettanti in relazione ad una prestazione lavorativa eseguita ovvero alla ricostruzione di
una carriera illegittimamente interrotta per effetto di un provvedimento illegittimo bensì
un’iniziativa tesa al ripristino del patrimonio in ragione del pregiudizio sofferto per la
mancata instaurazione di un rapporto di lavoro a titolo di supplenza.. La domanda diretta al
pagamento degli emolumenti non costituisce pertanto, diversamente da quanto accade nelle
altre fattispecie prima rammentate, domanda di ottemperanza in senso stretto, sul piano
della ricostruzione giuridica ed economica della carriera, bensì domanda di risarcimento
dei danni sofferti per effetto dell’adozione di un illegittimo provvedimento ostativo
all’instaurazione del rapporto di lavoro. Detta domanda, similmente a quanto accade in caso
di risarcimento per illegittima esclusione da un concorso per il pubblico impiego o da una
gara di appalto, affonda in definitiva le sue radici nel principio generale del neminem
laedere scolpito dal disposto dell’articolo 2043 c.c.
Nel merito gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito generatore del
danno sono integrati in quanto:
a) il dato oggettivo della condotta illecita è integrato dal preventivo decisum
passato in cosa giudicata di annullamento degli atti mercé i quali l’amministrazione ha
conferito l’incarico di supplenza ad altri docenti non dotati dei requisiti piuttosto che alla
ricorrente avente diritto;
b) la colpa è insita nella oggettiva violazione delle regole in materia di diritti dei
riservatari, in assenza di qualsiasi plausibile deduzione
amministrativa in ordine alla
scusabilità dell’errore commesso in sede di conferimento dell’incarico (vedi sul punto,
Cons. Stato, sezione IV, decisione n. 5500/2004);
c) il danno economico in senso stretto si è concretato nella mancata percezione
degli emolumenti che sarebbero spettati in caso di conferimento della supplenza annuale,
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comprensivi dei contributi previdenziali omessi, con detrazione, in omaggio ai principi in
tema di compensatio lucri cum damno, degli emolumenti percepiti in relazione alla
supplenza temporanea svolta nell’anno in corso.
2.2. E’ altresì fondata la domanda intesa al risarcimento degli ulteriori danni non
patrimoniali cagionati dal comportamento amministrativo.
Il paradigma normativo nel quale deve trovare collocazione la domanda in esame è
senz’altro quello dell’art. 2059 c.c.
Sintetizzando i termini dell’ evoluzione del sistema della tutela a fronte dei danni
civili, è sufficiente qui rammentare che, alla luce dei più recenti sviluppi giurisprudenziali,
la tematica della responsabilità risarcitoria per fatto illecito ha conosciuto, proprio sul
versante del danno non patrimoniale, una rivisitazione teorica e sistematica che ha
ridisegnato il perimetro dei danni non patrimoniali suscettibili di risarcimento.
Con le sentenze 8823/2003 e 8828/2003 della III sezione civile della Corte di
Cassazione, alle quali si è uniformata la sentenza n. 233/2003 della Corte Costituzionale, il
diritto vivente ha infatti sancito il principio secondo cui il danno non patrimoniale, pur in
assenza di reato ai sensi dell’articolo 185 del codice penale, va sempre risarcito ove
connesso alla lesione di diritti essenziali della persona sanciti dalla Carta Costituzionale.
Con specifico riferimento a fattispecie nella quale era stato
riconosciuto a favore della moglie, della figlia e della madre della vittima
deceduta il risarcimento del danno biologico, sotto il profilo esistenziale,
pur in difetto di prova di una patologia che potesse comprovare la lesione
del diritto alla salute intesa come integrità fisica e psichica, la Cassazione ha
ritenuto che l'ammissione al risarcimento del danno non patrimoniale da
uccisione di congiunto, consistente nella perdita del rapporto parentale
(inserito da un'ormai cospicua giurisprudenza di merito nell'ambito del
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cosiddetto danno esistenziale), fosse sostanzialmente da condividersi, pur se
con le seguenti, testuali precisazioni:
« Il risarcimento del danno non patrimoniale è previsto dall'art.
2059 c.c. (« Danni non patrimoniali »), secondo cui: « Il danno non
patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge ».
All'epoca dell'emanazione del codice civile (1942) l'unica previsione
espressa del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa
nell'art. 185 del c.p. del 1930.
La tradizionale restrittiva lettura dell'art. 2059, in relazione all'art.
185 c.p., come diretto ad assicurare tutela soltanto al danno morale
soggettivo, alla sofferenza contingente, al turbamento dell'animo transeunte
determinati da fatto illecito integrante reato (interpretazione fondata sui
lavori preparatori del codice del 1942 e largamente seguita dalla
giurisprudenza), non può essere ulteriormente condivisa.
Nel vigente assetto dell'ordinamento, nel quale assume posizione
preminente la Costituzione — che, all'art. 2, riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell'uomo —, il danno non patrimoniale deve essere inteso come
categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore
inerente alla persona.
Tale conclusione trova sostegno nella progressiva evoluzione
verificatasi nella disciplina di tale settore, contrassegnata dal nuovo
atteggiamento assunto, sia dal legislatore che dalla giurisprudenza, in
relazione alla tutela riconosciuta al danno non patrimoniale, nella sua
accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti
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alla persona non connotati da rilevanza economica (in tal senso, v. già
Corte costituzionale, sent. 88/1979).
Nella legislazione successiva al codice si rinviene un cospicuo
ampliamento dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del
danno non patrimoniale anche al di fuori dell'ipotesi di reato, in relazione
alla compromissione di valori personali (art. 2 della legge n. 117/1988:
risarcimento anche dei danni non patrimoniali derivanti dalla privazione
della libertà personale cagionati dall'esercizio di funzioni giudiziarie; art.
29, comma 9, della legge n. 675/1996: impiego di modalità illecite nella
raccolta di dati personali; articolo 44, comma 7, del d.lgs. n. 286/1998
adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; art. 2
della legge n. 89/2001: mancato rispetto del termine ragionevole di durata
del processo).
Appare inoltre significativa l'evoluzione della giurisprudenza di
questa Suprema Corte, sollecitata dalla sempre più avvertita esigenza di
garantire l'integrale riparazione del danno ingiustamente subito, non solo
nel patrimonio inteso in senso strettamente economico, ma anche nei valori
propri della persona (art. 2 Cost.). In proposito va anzitutto richiamata la
rilevante innovazione costituita dall'ammissione a risarcimento (a partire
dalla sent. 3675/81) di quella peculiare figura di danno non patrimoniale
(diverso dal danno morale soggettivo) che è il danno biologico, formula con
la quale si designa l'ipotesi della lesione dell'interesse costituzionalmente
garantito (art. 32 Cost.) alla integrità psichica e fisica della persona. Non
ignora il Collegio che la tutela risarcitoria del cosiddetto danno biologico
viene somministrata in virtù del collegamento tra l'art. 2043 c.c. e l'art. 32
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Cost., e non già in ragione della collocazione del danno biologico
nell'ambito dell'art. 2059, quale danno non patrimoniale, e che tale
costruzione trova le sue radici (v. Corte costituzionale, sent. 184/1986)
nella esigenza di sottrarre il risarcimento del danno biologico (danno non
patrimoniale) dal limite posto dall'art. 2059 (norma nel cui ambito ben
avrebbe potuto trovare collocazione, e nella quale, peraltro, una successiva
sentenza della Corte costituzionale, la n. 372/1994, ha ricondotto il danno
biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria).
Ma anche tale orientamento, non appena ne sarà fornita l'occasione, merita
di essere rimeditato.
Nel senso del riconoscimento della non coincidenza tra il danno non
patrimoniale previsto dall'art. 2059 e il danno morale soggettivo va altresì
ricordato che questa Suprema Corte ha ritenuto risarcibile il danno non
patrimoniale, evidentemente inteso in senso diverso dal danno morale
soggettivo, anche in favore delle persone giuridiche; soggetti per i quali
non è ontologicamente configurabile un coinvolgimento psicologico in
termini di patemi d'animo (v., da ultimo, sent. 2367/2000).
Si deve quindi ritenere ormai acquisito all'ordinamento positivo il
riconoscimento della lata estensione della nozione di danno non
patrimoniale, inteso come danno da lesione di valori inerenti alla persona,
e non più solo come « danno morale soggettivo ».
Non sembra tuttavia proficuo ritagliare all'interno di tale generale
categoria specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo: ciò che
rileva, ai fini dell'ammissione a risarcimento, in riferimento all'art. 2059, è
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l'ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal quale
conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica.
Venendo ora alla questione cruciale del limite al quale l'art. 2059
del codice del 1942 assoggetta il risarcimento del danno non patrimoniale,
mediante la riserva di legge, originariamente esplicata dal solo art. 185 c.p.
(ma v. anche l'art. 89 c.p.c.), la Cassazione ha ritenuto che , venendo in
considerazione valori personali di rilievo costituzionale, deve escludersi che
il risarcimento del danno non patrimoniale che ne consegua sia soggetto al
limito derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 c.p.
Una lettura della norma costituzionalmente orientata impone di
ritenere inoperante il detto limite se la lesione ha riguardato valori della
persona costituzionalmente garantiti. Occorre considerare, infatti, che nel
caso in cui la lesione abbia inciso su un interesse costituzionalmente
protetto, la riparazione mediante indennizzo (ove non sia praticabile quella
in forma specifica) costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela
minima non è assoggettabile a specifici limiti, poiché ciò si risolve in rifiuto
di tutela nei casi esclusi (v. Corte costituzionale, sent. 184/1986, che si
avvale tuttavia dell'argomento per ampliare l'ambito della tutela ex art.
2043 al danno non patrimoniale da lesione della integrità biopsichica; ma
l'argomento si presta ad essere utilizzato anche per dare una
interpretazione conforme a Costituzione dell'art. 2959).
D'altra parte, il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione
del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore
della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso
che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti alla
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persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente,
ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge,
al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale ».
La sentenza così prosegue:
« Venendo ora ad esaminare la questione della ammissione a
risarcimento del danno non patrimoniale da uccisione di congiunto,
consistente nella definitiva perdita del rapporto parentale (con tale
espressione sinteticamente lo designa una ormai cospicua giurisprudenza di
merito, che lo inserisce nell'ambito del cosiddetti danno esistenziale),
osserva il Collegio che il soggetto che chiede iure proprio il risarcimento
del danno subito in conseguenza della uccisione di un congiunto lamenta
l'incisione di un interesse giuridico diverso sia dal bene salute del quale è
titolare (la cui tutela ex art. 32 Cost., ove risulti intaccata l'integrità
biopsichica, si esprime mediante il risarcimento del danno biologico), sia
dall'interesse all'integrità morale, la cui tutela, agevolmente ricollegabile
all'art. 2 Cost., ove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si
esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo. L'interesse
fatto valere nel caso di danno da uccisione di congiunto è quello alla
intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell'ambito
della famiglia, alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle
attività realizzatrici della persona umana nell'ambito di quella peculiare
formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli
artt. 2, 29 e 30 Cost.
Si tratta di interesse protetto, di rilievo costituzionale, non avente
natura economica, la cui lesione non apre la via ad un risarcimento ai sensi
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dell'art. 2043, nel cui ambito rientrano i danni patrimoniali, ma ad un
risarcimento (o meglio: ad una riparazione) ai sensi dell'art. 2059, senza il
limite ivi previsto in correlazione all'art. 185 c.p. in ragione della natura
del valore inciso, vertendosi in tema di danno che non si presta ad una
valutazione monetaria di mercato.
Il danno non patrimoniale da uccisione di congiunto, consistente
nella perdita del rapporto parentale, si colloca quindi nell'area dell'art.
2059 in raccordo con le suindicate norme della Costituzione.
Il suo risarcimento postula tuttavia la verifica della sussistenza degli
elementi nel quali si articola l'illecito civile extracontrattuale definito
dall'art. 2043. L'art. 2059 non delinea una distinta figura di illecito
produttiva di danno non patrimoniale, ma, nel presupposto della sussistenza
di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell'illecito civile, consente, nei
casi determinati dalla legge, anche la riparazione di danni non patrimoniali
(eventualmente in aggiunta a quelli patrimoniali nel caso di congiunta
lesione di interessi di natura economica e non economica).” (vedi da ultimo
Cass. sent. 11.11.2003 n. 16946 e Corte Cost. e ord. 12.12.2003 n. 356).
2.2.1. In definitiva gli arresti in parola danno la stura ad una
(re)impostazione dell’area della tutela aquiliana secondo una struttura
bipolare.
Al risarcimento del danno patrimoniale, da sempre saldamente collocato nel
paradigma dell’art. 2043 c.c., si affianca il risarcimento del danno non patrimoniale, che
può ora trovare protezione più ampia ed articolata nell’art. 2059 c.c., il quale, in una lettura
costituzionalmente orientata, divenuta imprescindibile per evidenti ragioni di allineamento
dell’interpretazione normativa a principi di civiltà giuridica, non va più restrittivamente
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applicato in via esclusiva ai richiamati casi del tradizionale danno morale soggettivo in
virtù della tralaticia identificazione dell’unica ipotesi di danno non patrimoniale
espressamente previsto dalla legge con il danno da reato ex art. 185 c.p.,
ma deve
assicurare la riparazione, oltre che in ogni altra ipotesi legale espressa di danno non
patrimoniale risarcibile (si fanno, esemplificativamente, i casi dell’art. 89 c.p.c., dell’art. 2
l. n. 117/1988, dell’art. 29 l. n. 675/1996, dell’art. 44 d. lgs. n. 286/1998, dell’art. 2 l. n.
89/2001), anche a quelle lesioni che, incidendo su valori e prerogative della persona, dotate
di posizione preminente nell’assetto costituzionale – in cui i diritti inviolabili dell’uomo ed
il divieto di discriminazioni irragionevoli assurgono a rango di principi fondanti,
irrinunciabili ed immodificabili (artt. 2 e 3 Cost.) – non possono non costituire figure di
danno risarcibile, a prescindere da connotazioni penalistiche, finalmente non più
condizionanti.
Ne deriva che:
- il danno non patrimoniale (risarcibile) deve essere inteso come categoria ampia,
nella quale trovano collocazione giuridica tutte le ipotesi in cui si verifichi la lesione di beni
o valori inerenti alla persona, ovvero sia il danno morale soggettivo (o danno da reato,
concretantesi nel turbamento dell’animo della vittima), sia il danno biologico in senso
stretto (o danno all’integrità fisica e psichica, coperto dalla garanzia dell’art. 32 Cost.), sia
il c.d. danno esistenziale (o danno conseguente alla lesione di altri beni non patrimoniali di
rango costituzionale);
- proprio perché con il danno non patrimoniale vengono in evidenza beni e valori
personali di rilievo costituzionale, deve escludersi che, in caso di loro lesione, la
risarcibilità ex art. 2059 c.c. sia soggetta al limite dell’espressa previsione di legge,
tradizionalmente fatta coincidere con il disposto dell’art. 185 c.p., essendosi peraltro già da
tempo fatta strada in contesti affini a quello di odierno interesse la tutelabilità diretta ed
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immediata delle posizioni giuridico-soggettive che, concorrendo a definire il valore della
persona, possono ricondursi alle “figure matrici” dei diritti inviolabili dell’uomo, delle
libertà fondamentali e degli altri diritti dell’individuo riconosciuti dalla Costituzione
repubblicana, tanto da potersi definire ius receptum nella giurisprudenza sia di merito sia di
legittimità, che l’ha ampiamente affermata soprattutto nel campo del diritto alla salute ed
anche in quegli altri campi in cui vengono in evidenza prerogative intrinsecamente
espressive della persona umana (per esempio, nel campo della libertà di pensiero: Cass.
14.5.1997 n. 4244);
- in ogni caso, le norme della legge fondamentale che garantiscono quei beni e
valori ben possono rappresentare esse stesse previsioni di legge che soddisfano il rinvio di
cui all’art. 2059 c.c.
2.2.3. Disegnato
il quadro normativo e giurisprudenziale di
riferimento, il Collegio reputa in concreto sussistenti i presupposti per il
risarcimento dei danni non patrimoniali cagionati dall’omessa attribuzione
della supplenza annuale alla docente oggi appellante.
Rinviando alle considerazioni sopra svolte su condotta e colpa (vedi
punto 2.1.), e venendo all’ingiustizia del danno, essa si risolve, con
riferimento al danno non patrimoniale che affonda le sue radici nell’articolo
2059 c.c., non solo nella lesione , in assenza di una causa giustificativa, di
una situazione giuridico-soggettiva attiva meritevole di protezione per
l’ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale come diritto
soggettivo, interesse legittimo o persino interesse adespota (Cass. 22.7.1999
n. 500); ma anche, per quanto predicato dagli arresti citati della Cassazione
in ordine all’articolo 2059 c.c., nell’incisione di diritti della persona garantiti
dalla Costituzione, sulla base della categoria dei diritti inviolabili ex art. 2
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Cost e, più in generale, dei principi fondamentali e nella parte I della Carta
costituzionale (uguaglianza, libertà variamente tipizzate, famiglia, salute,
studio, ecc.).
Nella specie l’appellante, privata di un incarico lavorativo spettantele
quale titolare di una riserva per le sue condizioni di minorazione fisica, ha
patito un vulnus dato dalla lesione di situazioni di rilievo costituzionale nei
sensi sopra specificati
Viene in definitiva in rilievo la lesione del diritto , che trova
fondamento negli articoli 2, 4 e 36 della Costituzione, ad esplicare la sua
personalità attraverso il lavoro.
Detto diritto assume una particolare
pregnanza, alla luce degli articoli 3, 32, 36 e 38 della Costituzione, come
attuati dalla legislazione in tema di riconoscimento delle riserve in favore
dei soggetti appartenenti a categorie protette, con riferimento a soggetti che
vedano menomata la sua capacità competitiva nel mercato del lavoro in
ragione delle condizioni di minorazione fisica. Soggetti per i quali l’accesso
al lavoro costituisce essenziale strumento di affermazione della piena
dignità della persona e, al tempo, dimostrazione, del loro pieno inserimento
sociale. Sotto questa angolazione, si può apprezzare la lesione del principio
dell’«eguaglianza sostanziale» ex art. 3, co. 2, Cost. , vieppiù radicato in
capo a chi versi in stato di grave minorazione fisica, al fine di ottenere dalle
autorità pubbliche competenti la rimozione degli ostacoli che, limitando di
fatto la libertà e l’uguaglianza del soggetto “svantaggiato”, ne impediscono
o ne limitano l’integrazione sociale e frustrano il pieno affermarsi della sua
personalità (vedi Corte costituzionale sent. 8.6.1987 n. 215 e più di recente
sent. 5.12.2003 n. 350, che, in nome del più volte richiamato canone
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dell’uguaglianza, dà evidenza al diritto del soggetto fisicamente minorato ad
ottenere dallo Stato la rimozione degli ostacoli di ordine sociale che
impediscono il pieno sviluppo della sua personalità e la predisposizione di
adeguati strumenti di inserimento e di socializzazione, quali fondamentali
fattori di tutela della sua salute psico-fisica).
2.2.4. Tanto detto sulla ricorrenza del danno ingiusto sub specie
eventi, il Collegio reputa sussistenti e provati, sul piano dell’an, anche i
danni conseguenziali di matrice non patrimoniale.
Sul piano della prova, è jus receptum l’affermazione secondo la
quale l’immaterialità dei pregiudizi in questione (lesione di beni e valori
inerenti alla persona) rende percorribile in via principale lo strumento della
prova per presunzioni, sulla scorta di valutazioni prognostiche anche basate
su fatti notori o massime di comune esperienza (sulla piena ammissibilità
del ricorso a prove logiche in tema di danno non patrimoniale v’è ampia
concordia in giurisprudenza: fra le molte, Cass. 21.12.1998 n. 12767; Cass.
19.8.2003 n. 12124).
Nel caso di specie, il fatto certo della privazione dell’attività lavorativa a danno di
soggetto versante in condizioni di minorazione fisica, in quanto tale colpita da disagi nella
vita quotidiana, consente di risalire al fatto ulteriore del peggioramento della qualità
dell’esistenza e della compressione della dignità personale in ragione del mancato
espletamento di attività lavorativa costituente strumento essenziale per l’integrazione
sociale e l’affermazione della persona nel contesto dato. Il rapporto di derivazione
immediata e diretta del danno dal fatto lesivo accertato non richiede particolari sforzi
argomentativi.
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Detti danni sono suscettibili di liquidazione equitativa ex artt. 1226 e 2056 c.c.,
alla luce della gravità e della durata della lesione (perdita di incarico annuale) e della
rilevanza delle conseguenze sopra descritte, nella misura di 5.000 (cinquemila) euro.
3. Le considerazioni sopra esposte conducono in definitiva all’accoglimento
dell’appello, alla riforma integrale della sentenza ed alla condanna dell’amministrazione
della pubblica istruzione al pagamento, a titolo di risarcimento danni, delle somme d cu ai
capi 2.1. e 22.4. Su dette somme sono dovuti, secondo consolidati criteri giurisprudenziali
(Cass. 8.4.2003 n. 5503), interessi annuali di indice medio pari all’odierno tasso legale, nel
tempo compreso tra la data dell’illecito, identificabile con l’adozione dei provvedimenti
amministravi lesivi, e quella della liquidazione, coincidente con la pubblicazione della
presente decisione.
Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate nella misura
in dispositivo fissata.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta),
definitivamente pronunciando, accoglie l’appello in epigrafe, annulla la
sentenza appellata e, in accoglimento del ricorso di prime cure, condanna
l’amministrazione della Pubblica Istruzione al pagamento delle somme in
motivazione specificate, incrementate degli interessi legali fino al soddisfo.
Condanna altresì l’amministrazione al pagamento in favore della
società appellante delle spese dei due gradi di giudizio che si liquidano nella
misura di 4.000 (quattromila) euro.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità
amministrativa.
Così deciso in Roma, addì 17 dicembre 2004, dal Consiglio di Stato
N.R.G. 4127/2004
17
in s.g. (Sez. VI) riunito in camera di consiglio con l'intervento dei seguenti
Magistrati:
Giorgio GIOVANNINI
Presidente
Lanfranco BALUCANI
Consigliere
Rosanna DE NICTOLIS
Consigliere
Domenico CAFINI
Consigliere
Francesco CARINGELLA
Consigliere Est.
Presidente
Consigliere
Segretario
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
il.....................................
(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)
Il Direttore della Sezione
CONSIGLIO DI STATO
In Sede Giurisdizionale (Sezione Sesta)
Addì...................................copia conforme alla presente è stata trasmessa
al Ministero..............................................................................................
a norma dell'art. 87 del Regolamento di Procedura 17 agosto 1907 n.642
Il Direttore della Segreteria
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