Luisa Ribolzi La dimensione socio – organizzativa nella formazione degli insegnanti della scuola cattolica Il tema che mi è stato proposto potrebbe essere affrontato da due punti di vista: quale sia il contributo della sociologia e delle scienze dell’organizzazione al processo di qualificazione iniziale e in servizio degli insegnanti della scuola cattolica, e quale sia il punto di vista della sociologia su questo tema. In un intervento breve mi è parso necessario scegliere, ed ho preferito utilizzare la seconda prospettiva, sottolineando in premessa che il problema fondamentale della scuola è oggi quello di ridare centralità alla figura del maestro: ce lo mostrano, paradossalmente, proprio i ragazzi che chiamiamo “devianti”, che ci mostrano come un cattivo maestro sia per loro preferibile a nessun maestro. 1. Innanzitutto, vorrei partire da una considerazione che mi è stata suggerita da una recente esperienza di studio delle “città educative”: così come una città amichevole per i bambini è una città in cui tutti vivono meglio, analogamente le caratteristiche di un buon insegnante di scuola cattolica vanno bene per ogni tipo di scuola: l’obiettivo di una scuola cattolica è infatti quello di formare la persona, che è una categoria comprensiva del cittadino, la cui formazione è obiettivo della scuola statale. Si tratta quindi di determinare quali siano le caratteristiche aggiuntive dell’insegnante di scuola cattolica, non quelle “sostitutive”1. 2. A questa prima considerazione ne segue immediatamente un’altra: la definizione delle caratteristiche di un insegnante, e in particolare di quello che con un brutto neologismo viene chiamato “insegnante performativo”, capace di conseguire gli obiettivi del progetto formativo della scuola in cui opera, è uno dei compiti più difficili in tutta la riflessione sociologica sui processi e le istituzioni formative. In particolare, il compito è reso più difficile dalla sempre minore chiarezza sul ruolo sociale della scuola, e dal fatto che esso sia comunque caratterizzato da una dimensione trasformativi, cioè dalla capacità di modificare – si spera in meglio – le caratteristiche dei propri utenti. Il buon insegnante è perciò quello che sa far cambiare, evolvere, muovere in direzione di un obiettivo, nel pieno rispetto del significato etimologico della parola “educazione”. 3. In questo compito, mi sembra di dover sottolineare la centralità della dimensione relazionale: nei molteplici modelli di socializzazione che la storia ci offre, formali e informali, l’elemento ineliminabile è la relazione educativa, in cui è fondamentale la disuguaglianza fra chi insegna e chi apprende: disuguaglianza che non è di valore, ma di esperienza, capacità, conoscenze, ed è finalizzata a proporre dei modelli verso cui muovere: in un percorso di crescita, la dimensione orizzontale di confronto fra soli pari non è sufficiente, produce una socializzazione di breve respiro. Per questo motivo, l’insegnante è innanzitutto un adulto responsabile che aiuta i ragazzi a sviluppare le proprie potenzialità, e a ridurre la complessità dell’ambiente grazie alla sua capacità di trasmettere gerarchie di importanza. Sul piano della formazione, mi pare perciò che si dovrebbe assegnare maggiore importanza alla verifica Si può notare l’esistenza di un paradosso nelle ricerche sulla scuola cattolica: la maggior parte sono finalizzate a misurare la sua efficacia nel campo degli apprendimenti, ma pochissime – nessuna in Italia per quanto è a mia conoscenza – si propone di misurarne l’efficacia nel campo specifico della trasmissione dei valori cattolici. 1 delle caratteristiche di personalità di chi aspira ad un ruolo docente,e allo sviluppo delle attitudini considerate più desiderabili. 4. Questa dimensione relazionale mi sembra particolarmente sviluppata nella scuola cattolica, che è caratterizzata dall’esistenza di un progetto condiviso fra insegnanti e genitori (e, per i più grandi, studenti). Una seconda fondamentale caratteristica del ruolo docente deve quindi essere ulteriormente potenziata, ed è la capacità di interloquire con i genitori, oltre a quella di operare come gruppo all’interno della scuola. Una grande quantità di ricerche mostra l’esistenza generalizzata del cosiddetto “effetto scuola cattolica”2, che consiste in un migliore apprendimento (sistematico anche se a volte molto ridotto) nelle scuole cattoliche, misurato tenendo sotto controllo le caratteristiche socio economiche dei ragazzi: questo effetto viene attribuito all’esistenza di un capitale sociale di tipo relazionale, in quanto tutti i soggetti presenti nella scuola condividono la medesima impostazione culturale3 e sono disponibili a lavorare insieme per il raggiungimento di fini comuni. 5. Questo non significa che il contenuto di ciò che viene trasmesso (conoscenze e competenze) sia irrilevante: possiamo forse precisare che ne viene sottolineata la caratteristica strumentale e particolare, in quanto nella scuola cattolica forse più che in quella “laica” sembra importante sottolineare il legame fra le singole informazioni trasmesse e l’unità di fondo dei saperi. E’ evidente che non si può insegnare quel che non si conosce, né si può essere chiari se manca un’adeguata preparazione che possiamo genericamente definire “didattica”: per questo sia la preparazione disciplinare degli insegnanti che quella metodologica (con un’accentuazione, a mio parere, sulla capacità di individualizzare l’insegnamento in relazione alle caratteristiche ambientali, della classe e in qualche misura anche dei singoli, e sulla capacità di sintesi) costituisce un obiettivo di fondo del percorso formativo. Se queste considerazioni sono corrette, ne conseguono a mio parere due conseguenze, l’una sulle caratteristiche del processo di formazione degli insegnanti, e l’altra sulle modalità di reclutamento. Nella formazione iniziale e in servizio, è opportuno affidare la responsabilità primaria alle università, ma è necessario lasciare più spazio alla scuola: il sistema deve riconoscere alle scuole la capacità di creare cultura su se stesse, configurandosi come una comunità di apprendimento, come il solo luogo in cui l’insegnante apprende ad agire come “professionista riflessivo”, secondo la nota definizione di Schön4, applicando alle singole situazioni problematiche non solo le categorie teoriche che ha appreso durante la formazione, ma quel che egli o altri hanno ricavato dall’esperienza. L’attenzione è alla formazione di 2 Il termine è stato utilizzato da Coleman nei suoi lavori sulla scula pubblica e private (citiamo il primo, COLEMAN J.S., T.HOFFER, Public and Private high schools: the impact of communities, Basic, New York 1987) e da Bryk nelle sue prime ricerche (BRYK A. DRISCOLL M., The High School as a Community: Contextual Influences and Consequences for Students and Teachers, National Center for Effective Secondary Schools, Madison ( Wis. ), 1988. 3 Per una più ampia trattazione, si può vedere L. RIBOLZI Famiglia, scuola e capitale sociale in DONATI P. (a cura di), Famiglia e capitale sociale nella società italiana, Ottavo Rapporto CISF sulla Famiglia in Italia, San Paolo, Milano 2003 4 SCHÖN D., Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, Dedalo, Bari, 1993, competenze disciplinari solide e aggiornate, ma anche all’agilità nel coglierne le relazioni; alla capacità di utilizzare e selezionare metodi e strumenti; alla capacità di leggere le necessità dell’ambiente e dei ragazzi; a progettare, valutare e modificare il suo insegnamento (capacità che vengono definite trasversali). Ma ad un certo punto tutte queste competenze devono essere spese in situazione, non solo nel tirocinio, ma nella pratica della classe. Per questo, oltre a determinate le caratteristiche dell’insegnante e a formarlo, è centrale la definizione delle capacità dei tutor e dei mentor, cioè di quei docenti in possesso di esperienza che svolgono il ruolo delicatissimo dell’addestramento dei giovani docenti, durante il corso di studi e nel periodo di pratica, a cui dovrebbe essere a mio parere affidato anche il compito di valutare l’effettiva capacità dei giovani a lavorare come insegnanti5. Nelle procedure di reclutamento, se tutto si gioca sull’autonomia e sul progetto formativo, il punto di arrivo deve essere la possibilità per le scuole (sia paritarie che autonome statali) di assumere direttamente gli insegnanti, sia pure all’intero di un preciso sistema di regole fissato centralmente, a tutela della libertà di insegnamento. Questo significa allora che nella scuola cattolica (ma il discorso vale per tutte le scuole che vengono definite “di tendenza”) possono insegnare solo i docenti cattolici? Nella misura in cui l’elemento qualificante di una scuola, che determina la sua diversità riconoscibile, è il POF, la risposta dovrebbe essere sì, e dovrebbe essere estesa anche alle scuole non confessionali: diciamo però che un docente deve quantomeno condividere con spirito amichevole il progetto formativo della scuola in cui insegna, impegnandosi a rispettarlo. Se questo è possibile anche per un docente non cattolico, non sono in grado di affermarlo con certezza. Uno dei comportamenti più negativi nell’approccio usuale al tema degli insegnanti è che essi tendono ad essere considerati molto più come problema che come risorsa, trascurando il fatto che nessuna riforma, nemmeno la migliore sulla carta, può essere attuata senza il coinvolgimento degli insegnanti. Se li si considera come puri e semplici trasmettitori di un sapere elaborato altrove (ma ritenevo che questa teoria fosse morta insieme alle “vestali della classe media”!) diventa facile rifiutare il principio di reciprocità nei rapporti fra la scuola e i suoi docenti, e – prima – fra l’università e gli studenti-insegnanti. Se non è chiaro che cosa deve essere / fare l’insegnante (e mi pare che non lo sia, almeno non in misura sufficiente), non è chiaro nemmeno che cosa debba fare l’università per formarli, e non sono definibili neppure le caratteristiche di chi forma gli insegnanti, ruolo che appare sempre più determinante. Nel caso della scuola cattolica, poiché gli insegnanti che operano in essa devono comunque essere formati dall’università, possiamo pensare di dar loro qualcosa di più o di diverso, ma dobbiamo in ogni caso puntare su di una formazione di qualità per tutti, con la costruzione di un’alleanza fra le università e il sistema delle scuole cattoliche, cui potrebbe spettare un ruolo cruciale sia nel momento del praticantato, sia nella formazione in servizio. Per questo motivo, insisto nel considerare sbagliato l’inserimento in ruolo al termine del percorso universitario, senza collegarlo con decisione al superamento con esiti positivo del periodo di praticantato. 5