DARE IL NOME A DIO
(conversazioni di viaggio in terra d’Africa)
(Marchesini Aldo) <../bio/marche.html>
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Non ricordo più bene come si arrivò a parlare del nome da dare a
Dio. L’argomento interessava e, per dirla coi discepoli di Emmaus,
il nostro cuore cominciò ad ardere nel petto durante il cammino. Il
mio compagno di viaggio, al volante, girò la testa:
" Dare il nome a qualcuno o a qualcosa…che impresa straordinaria!
Nel nome c’è tutto, esprime tutto, è la conoscenza ultima di quella
persona o di quella cosa. Come sarà possibile dare un nome a Dio,
lui che è l’assoluto, il trascendente?"
"Il vero nome di Dio – dissi io – quello che lo esprime nell’ultima
sua verità, solo lui lo conosce e solo lui ce lo può far conoscere.
Ma credo che il Signore chieda a noi di scegliergli il "nostro"
nome, quello con cui lo vogliamo chiamare noi. In fondo ciò non è
molto differente dalla domanda di Gesù agli Apostoli: «E voi, chi
dite che io sia?»"
Rimanemmo in silenzio. Un silenzio, mi parve, non d’assenza di
parole, ma d’incapacità a trovare le parole per esprimere ciò che
ardeva interiormente.
Ogni tanto qualche frase, come la pennellata di un pittore che è
all’inizio del quadro e che lo dipinge un po’ alla volta con fatica,
nello sforzo di non tradire la verità che gli sta dentro.
Presto detto: dare a Dio il nome scelto da me!...
Si capisce subito, però, che non è indifferente dare un nome
piuttosto che un altro. Dare quello vero, quello nel quale ci sono
tutto io e tutto lui.
Non so proprio da dove cominciare! Prima di sentire questo desiderio
non ci avevo mai pensato esplicitamente: lo chiamavo Dio, oppure
Padre e questo bastava per aver chiaro chi intendevo.
Ma ora che il nome che serve è quello da usare parlandogli
direttamente, parlando a lui e non di lui, capisco come sia difficile.
"Il punto supremo – dissi– consiste nel fatto che il nome con cui
voglio chiamare Dio non mi serve per essere usato al vocativo, come
interiezione, parlando con lui, dirigendogli altre parole.
Dev’essere un nome che, dopo averlo pronunciato, non abbia più
nient’altro da dire e da dirgli. È un nome fatto per essere vestito
soltanto di silenzio…"
"Hai già cominciato a cercarlo?"
"Da molto –risposi – ma per ora non l’ho ancora trovato. Nel
frattempo uso il nome con cui lo chiamava Gesù: "Abbà". Chiamarlo
Padre non mi soddisfa e neppure papà o babbo."
"Chiamarlo Abbà, come faceva Gesù – intervenne il mio compagno – mi
sembra un buon inizio. Quando diciamo come nostre le parole di Gesù,
sentiamo più facilmente anche come nostri i suoi sentimenti."
Stavamo uscendo da Namacurra e ci sorprese un tratto di strada così
pieno di buche, che zittimmo entrambi, per fare attenzione che le
ruote vi entrassero adagio adagio, senza sobbalzi e scossoni.
Quella sospensione mi fece bene. Mi fece capire che ciò che il nome
vuole esprimere è già in me, ce l´ho dentro nell’ultima verità del
mio cuore. Ciò che non mi riesce, è vestirlo di una parola, ma il
suo nome vero lo percepisco come il cielo in cui volo o il mare in
cui navigo. È, per ora, un nome di silenzio, ma non per questo è
meno nome!
"Gesù – dissi– poteva usare Abbà per dirigersi al Padre, perché per
lui - il Figlio unigenito, il Figlio molto amato, il Figlio
generato, non creato, della stessa sostanza del Padre, chiamandolo
Abbà, riusciva a mettere in quel nome tutta la pienezza della sua
consapevolezza di Figlio. Il nome Abbà, quindi, esprimeva in modo
compiuto ciò che il Padre era per lui. Io, però, non riesco a
trovare un nome che esprima tutto ciò che il Padre è per me, e tutto
quello che io sono, a partire dal suo crearmi e amarmi. Ma quanto
più lo prego e vivo con lui, tanto più lo chiamo per nome, anche se
non so pronunciarlo."
"Ci sono cose che non si riescono a dire, ma che si sentono e vivono
profondamente – disse il mio compagno – Io penso che il nome che non
sai dire, può essere ben sostituito dall’amore che provi per lui e
gli vuoi manifestare."
"Hai ragione. Mi fai venire in mente un argomento parallelo: la
preghiera di silenzio. Ci sono tante forme di preghiera: quella
vocale, delle formule, quella liturgica, della messa, dei
sacramenti, del breviario, la meditazione e la lectio divina della
Parola, l’adorazione eucaristica, le giaculatorie, l’offerta delle
azioni della giornata e così via. La più profonda, però, a mio
parere, è l’orazione di silenzio, quella di stare davanti a Dio
presenti e basta.
Prima la chiamavo appena preghiera di silenzio, ma poi scoprii che
il silenzio non era la sua definizione. La cominciai a chiamare
preghiera di presenza. Il cambiamento mi fece subito bene. Potevo
trattenermi a lungo, quanto desideravo, che non perdeva d’intensità.
Il silenzio da solo non ha questo potere, ma la presenza, questa, sì!
È un po’ come pronunciare il nome sconosciuto di Dio e lasciarsene
compenetrare. È comunione, unione, compresenza reciproca."
"In questo ti capisco bene. Vivo qualcosa di simile in relazione al
mistero della morte e della vita dopo la morte. Le persone che
abbiamo amato e che sono morte, rimangono in comunione con noi,
quasi ancora di più che da vive. Ciò ha una conseguenza
straordinaria che apre orizzonti senza limiti. La persona amata
continua a restare, in parte, in me di qua, ma molto di più,
infinitamente di più, io mi sento portato di là.
Lo spartiacque della morte perde consistenza e la barriera del tempo
si rompe. Ho fatto in proposito delle scoperte che non so se saranno
ortodosse, ma che a te posso confidare.
Di là non c’è tempo, per cui chi muore adesso, muore in
contemporaneità con la morte di Gesù. Tutti moriamo insieme a Gesù e
lui muore insieme a tutti noi. Se siamo contemporanei nella morte,
lo dobbiamo essere a maggior ragione nella resurrezione, perché
risuscitiamo dal seno dell’eternità, dov’è eterno presente, senza
prima e senza poi. Se la mia morte, vista guardando dall’aldilà è
contemporanea a quella di Cristo e a quella di tutti coloro che sono
morti insieme con lui, è facile, sentirmi già in qualche modo
cittadino dell’aldilà e quindi frequentatore e compagno di coloro
che sono già morti e, perciò, anche già risuscitati. Puoi capire
quindi che in certo modo la comunione con chi ci ha lasciati può
addirittura essere potenziata dopo la morte. Dico di più: essa è
l’occasione di farmi assaporare la gioia dell’aldilà e della
risurrezione, ancora prima di morire!"
"Sai che questo è tema di grande attualità nella teologia? Sei
proprio all’avanguardia! –dissi al mio compagno di viaggio - È un
dibattito, però, che rimane un po’ nell’ombra, perché nel vangelo ed
in tutta la Scrittura queste realtà sono presentate come viste cogli
occhi dell’al di qua, con gli occhi di chi vive ancora nel prima e
nel poi degli avvenimenti e della storia. Nella Scrittura c’è il
tempo della morte, della sepoltura, del giudizio e poi, alla fine di
tutto, quello della risurrezione, coronata dal ritorno glorioso del
Signore Gesù.
Capisci che la grandissima maggioranza dei fedeli non potrebbe
comprendere riflessioni di questo tipo. Il parlarne nella catechesi
e nella predicazione al popolo genererebbe perplessità ed
incomprensione. Perciò questo filone di riflessione resta per ora
nascosto e riservato nell’ambito degli studiosi."
"Capisco tutto – mi disse – ma questo tuo chiarimento mi dà pace e
mi stimola ad approfondire quest’esperienza. Anzi mi stimola a
leggere ciò che si dibatte tra i teologi."
Rimanemmo a lungo in silenzio. Era un silenzio necessario, per dare
spazio a quell’interiorizzazione e soprattutto alla comunione. In
fondo facevamo esperienza di come solo nel silenzio si poteva
pronunciare il nome di Dio, inesprimibile in parole, solo nel
silenzio poteva prendere corpo l’orazione di presenza, solo nel
silenzio potevamo immergerci nella comunione con chi già era morto e
risuscitato insieme a Cristo.
La strada fece una curva e poi una breve salita: eravamo alla cava
di pietre appena fuori Mocuba. In fondo alla discesa cominciava la
città. Eravamo arrivati. La prima tappa del nostro viaggio era
finita. Il viaggio interiore, però, era appena cominciato…
Quelimane, aprile 2002
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