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Quando il mondo cambia
Bologna, 23 maggio 2012
L’edizione del 2012 del libro annuale L’État du monde (Lo Stato del mondo),
che ho curato con Bertand Badie, ha come titolo: Nouveaux acteurs, nouvelle
donne (Nuovi attori, nuova distribuzione). Si tratta solo di una formula
accattivante, oppure di una caratterizzazione pertinente della fase attuale
dell’evoluzione del mondo? Fondamentalmente, questa è la questione posta
dalla prima conferenza del nostro seminario di geopolitica. Perché non si può
separare ciò che avviene nel Medio Oriente dalle trasformazioni in corso su
scala mondiale.
Perché, se la storia non si scrive a caldo, e conviene dunque essere prudenti
(come dice il proverbio, “non vendere la pelle dell’orso prima di averlo
ucciso”), si impone, però, una certezza: il quadro internazionale sta
cambiando profondamente.
Stiamo infatti assistendo a un riequilibrio maggiore dei rapporti di forza a
favore del Brasile, della Russia, dell’India e della Cina, i famosi “BRIC”,
divenuti “BRICS” con l’aggiunta del Sudafrica. In occasione del summit di
Londra, nell’aprile 2009, molti osservatori hanno insistito sul carattere
simbolico del passaggio da G8 a G20: avrebbero ugualmente dovuto
sottolineare l’importanza del passaggio da G8 ai… G2: uso il plurale, perché
questa definizione riguarda sia il G2 Washington-Pechino che il G2
Washington-Mosca.
Viviamo quindi il passaggio da un’architettura mondiale bipolare a
un’organizzazione multipolare, dopo aver attraversato una breve fase
unipolare.
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2
Nostalgia della guerra fredda?
Prima di riflettere insieme sulla struttura multipolare in costruzione,
torniamo su ciascuna delle tre fasi attraverso cui è passato il mondo dalla
seconda guerra mondiale.
Inventata dall’uomo d’affari e consigliere politico Bernard Baruch, la “guerra
fredda” comincia nel 1947. Le ambizioni rivali degli Stati Uniti e dell’Unione
Sovietica infrangono l’alleanza contro il nazismo stipulata durante la guerra.
Washington organizza la sua egemonia economica con il piano Marshall
(1947) e la sua egemonia strategica con la creazione dell’Organizzazione del
Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO, 1949). Quanto a Mosca, salda
politicamente il suo “campo” con la costituzione, nel 1947, dell’Ufficio di
informazione dei partiti comunisti (Cominform), poi economicamente con la
costituzione, nel 1949, del Consiglio per la mutua assistenza economica
(CAEM, o Comecon).
Due discorsi “ufficializzano” la guerra fredda. Al congresso degli Stati Uniti, il
12 marzo 1947, il presidente Harry Truman dichiara:
“Credo che gli Stati Uniti debbano sostenere i popoli liberi che resistono ai
tentativi di asservimento […]. Credo che dobbiamo aiutare i popoli liberi a
forgiare il loro destino […]. Credo che il nostro aiuto debba consistere
essenzialmente in un sostegno economico e finanziario (al fine di) mantenere
la libertà degli Stati del mondo e proteggerli dall’avanzata comunista1”.
Sei mesi più tardi, il 22 settembre, Andrej Ždanov, uno dei segretari del
Partito comunista dell’Unione Sovietica, risponde davanti alla riunione
fondatrice del Cominform:
“Più ci allontaniamo dalla fine della guerra e più nettamente appaiono le due
direzioni
1
fondamentali
della
politica
internazionale
del
dopoguerra,
http://en.wikisource.org/wiki/Truman_Doctrine
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corrispondenti alla disposizione in due campi principali delle forze politiche
che operano nell’arena mondiale: il campo imperialista e antidemocratico, il
campo anti-imperialista e democratico.”
E Ždanov precisa: “Gli Stati Uniti sono la principale forza dirigente del campo
imperialista. L’Inghilterra e la Francia sono legate agli Stati Uniti e marciano
come satelliti, per quanto riguarda le questioni principali, nel solco della
politica imperialista degli Stati Uniti. Il campo imperialista è sostenuto anche
dagli Stati possessori di colonie […], dai paesi aventi un regime reazionario
antidemocratico
[…],
dai
paesi
che
dipendono
politicamente
ed
economicamente dagli Stati Uniti […]. Le forze anti-imperialiste e antifasciste
formano l’altro campo. L’URSS e i paesi della nuova democrazia ne sono il
fondamento. […] Il campo anti-imperialista si appoggia, in tutti i paesi, sul
movimento operaio e democratico, sui partiti comunisti fratelli, sui
combattenti dei movimenti di liberazione nazionale nei paesi coloniali e
dipendenti, su tutte le forze progressiste e democratiche che esistono in ogni
paese2.”
Economico e politico, il confronto tra le due potenze a capo del mondo
capitalista e del mondo comunista implica anche una dimensione militare. A
partire dall’estate del 1949, però, gli Stati Uniti non hanno più il monopolio
dell’arma nucleare: l’URSS ha proceduto al primo test della propria bomba.
Gli arsenali di cui entrambi si doteranno impediscono qualsiasi confronto
diretto. È quello che si chiama “equilibrio del terrore”.
Per quattro decenni, le due superpotenze si batteranno, ai quattro angoli del
mondo, attraverso alleati interposti, badando a non superare mai la “riga
gialla” al di là della quale avrebbero fatto precipitare il pianeta in
un’apocalisse
2
nucleare.
In
breve,
i
due
Grandi
inquadreranno
e
http://classiques.chez-alice.fr/staline/jdanov1.html
3
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controlleranno i loro satelliti in modo da farli combattere per migliorare le
rispettive posizioni, ma senza spingersi mai troppo lontano.
Alcuni sembrano provare una certa nostalgia per la guerra fredda. Certo, in
quarant’anni i due “Grandi” si sono spinti fino all’orlo del precipizio solo in
due occasioni: con la crisi di Berlino del 1948-1949 e con la crisi di Cuba del
1962. Ma come si può dimenticare la litania di guerre “calde”, spesso
altamente mortifere, che hanno caratterizzato questo periodo?
Non potendole analizzare nel dettaglio, permettetemi di stilare una lista di
quelle in cui sono intervenuti gli Stati Uniti, l’URSS o entrambi, direttamente
o indirettamente: la guerra civile greca (1946-1949); la guerra civile cinese
(1945-1949); la guerra in Indocina (1947-1954); la guerra di Corea (19501953); il colpo di Stato in Iran (1953); la guerra in Algeria (1954-1962); le
guerre arabo-israeliane (1956, 1967, 1973, 1982); la guerra di liberazione in
Angola, in Mozambico e in Guinea-Bissau (1961-1975); la guerra sino-indiana
(1962); la guerra in Vietnam (1963-1973); l’intervento americano nella
Repubblica domenicana (1965); le guerre indo-pakistane (1965 e 1971); il
conflitto per i confini sino-sovietico (1969); il colpo di Stato in Cile (1973); la
guerra civile libanese (1975-1990); la guerra tra Somalia e Etiopia (19771978); l’intervento vietnamita in Cambogia e la guerra sino-vietnamita (1979);
l’intervento sovietico in Afghanistan (1979-1989); l’invasione americana di
Granada (1983)…
Alle guerre del terzo mondo bisognerebbe aggiungere le rivolte che si sono
verificate nel mondo comunista: la rivolta operaia nella Germania orientale
(1953); gli scontri in Polonia e l’insurrezione in Ungheria (1956); la
rivoluzione culturale in Cina (1965-1976); la primavera di Praga (1968); le
manifestazioni di piazza Tienanmen (1989). Senza dimenticare i movimenti di
massa che hanno caratterizzato la fine del comunismo: movimenti pacifici
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nella Germania orientale (1989) e nella Repubblica Ceca (1991); movimenti
violentemente repressi in Romania (1989).
Dal “nuovo ordine internazionale” all’Impero
La guerra fredda si è conclusa in pochi mesi, con la vittoria dell’Occidente.
Quanto all’esperienza comunista, nata nel 1917, sarebbe terminata in due anni
– sopravvivendo solo in Corea del Nord e a Cuba, visto che la Cina ha
conservato, del comunismo, soltanto il nome.
Tra la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, lo
spazio di due anni, la cooperazione tra George Bush (padre) e Michail
Gorbaciov avrebbe fatto nascere il sogno di un “nuovo ordine internazionale”.
La formula viene utilizzata per la prima volta dal presidente americano in un
discorso al Congresso, l’11 settembre 1990. Questa speranza doveva
trasformarsi velocemente in un’illusione, ma ha avuto almeno il tempo di
sfociare in una delle rare guerre consensuali tra Est e Ovest: la guerra del
Golfo, risposta all’occupazione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam
Hussein.
Sette mesi più tardi, come per sfuggire all’accusa di utilizzare “due pesi, due
misure”, l’amministrazione Bush (padre) ha organizzato la conferenza di
Madrid per rilanciare il “processo di pace” israelo-palestinese. Se ne servirà,
poi, per presentare la propria strategia di espansione mondiale dell’economia
di mercato come espressione della ricerca di valori comuni.
Sotto questo trucco appariva, tuttavia, il volto di un nuovo Impero. La sola
superpotenza sopravvissuta alla guerra fredda, gli Stati Uniti, si trasforma in
“iperpotenza” – per riprendere il termine inventato dal nostro ex ministro
degli Esteri, Hubert Védrine. Arrivati al potere con George W. Bush, i
neoconservatori rivendicano il diritto per l’America, garante della libertà, di
dirigere il mondo.
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Strateghi e filosofi si incaricano di teorizzare questa nuova architettura
mondiale. In La grande scacchiera, pubblicato nel 1989, Zbigniew Brzezinski
pronostica il fallimento della perestroika e della glasnost di Gorbaciov. In La
fine della storia e l’ultimo uomo pubblicato nel 1992, Francis Fukuyama
inventa la “fine della Storia”, con la convinzione, falsa o reale, che la fine della
guerra significasse la vittoria della democrazia liberale su tutti gli altri regimi.
Per Samuel Huntington, essa segna il passaggio dalle fratture ideologiche alle
fratture culturali, tra cui la principale oppone il giudaismo-cristianesimo
all’Islam: è lo “scontro di civiltà”, cui dedica un’opera eponima comparsa nel
1997.
La descrizione del nuovo Impero corrisponde evidentemente a una realtà.
L’errore non consiste nel mettere in luce la sua ascesa, ma nel presentarla
come irreversibile e, a maggior ragione, nel farne un dato di lunghissima
durata. Ora, è questa l’interpretazione che prevarrà, a torto, per tutti gli anni
Novanta.
Anch’io ho sviluppato questa idea, qui a Bologna, dodici anni fa, in occasione
di una “settimana di Le Monde diplomatique”. Mi perdonerete l’autocitazione, perché è a fini di autocritica. Io stesso ho detto “A turno, nel corso
della storia, la Spagna, la Francia e l’Inghilterra si sono contese il dominio del
globo. Ma dal 1991 la situazione è cambiata”.
E citavo il giornalista Paul-Marie de La Gorce3: “Al di là dei deliri delle vittorie
e dei conformismi trionfanti, non si vedeva ciò che la storia aveva prodotto: la
comparsa di un’unica superpotenza, grande quanto la Terra”.
Alla fine concludevo: “Nel corso del mezzo secolo che separa il loro ingresso
sul ring, dopo Pearl Harbour (1941), dalla loro vittoria per abbandono
sull’Unione Sovietica (1991), gli Stati Uniti hanno progressivamente
concentrato nelle loro mani «i tre attributi della superpotenza: quello
3
Paul-Marie de La Gorce, Le Dernier empire, Grasset, Paris, 1996
6
7
economico,
quello
politico-militare
e
quello
ideologico-culturale»4.
Dimenticato il relativo declino successivo al trauma del Vietnam: l’America, al
limitare del XXI secolo, sembrava più forte che mai. Ma la natura di questa
egemonia è cambiata. È prevalente, ormai, ciò che la britannica Susan
Strange descrive come il «potere strutturale dell’America»: quello di
«plasmare e determinare le strutture dell’economia politica globale», quindi
di «scegliere e modellare le strutture in cui dovranno operare gli altri paesi, le
loro istituzioni politiche, le loro imprese e i loro esperti»5”.
Questa analisi, con il suo carattere unilaterale, si è rivelata erronea. Di crisi in
crisi, la globalizzazione ha progressivamente mostrato i suoi limiti: la libertà
quasi totale concessa ai mercati ha condotto a una serie di scosse, dalla crisi
asiatica (1998) alla crisi dei subprimes (2008). E, dopo l’11 settembre,
l’Impero si è impantanato in Iraq e in Afghanistan. Non soltanto il
dispiegamento di forze non gli ha permesso di uscire dall’impasse, ma ha
anche profondamente intaccato l’immagine dell’America nel mondo.
Come un nuovo 1968?
Sentiamo che siamo entrati in una nuova fase storica, che le griglie di lettura
del passato non permettono di comprendere. Riassumendo a grandi linee,
sono tre i fattori maggiori che si coniugano per rovesciare l’egemonia
occidentale:
-innanzitutto, la crisi del sistema, non più solo finanziaria, ma anche
economica e sociale; non più solo congiunturale, ma sistemica. Essa
indebolisce evidentemente gli Stati Uniti e gli altri grandi paesi occidentali,
ma anche l’ideologia neoliberale dominante da venti anni: chiunque può
4
Joseph Nye, Bound to Lead : The Changing Nature of American Power, Basic Books, New York,
1990
5
Susan Strange, Capitalismo d'azzardo, Laterza, Roma, 1988
7
8
misurare a cosa porti l’onnipotenza dei mercati quando gli Stati lasciano loro
il campo libero...
-in seguito, ci ritornerò più dettagliatamente, la spinta dei paesi emergenti, a
cominciare dai “BRICS”. Secondo PricewaterhouseCoopers (PwC), la somma
del prodotto interno lordo dell’E7 (le sette maggiori economie emergenti)
supererà dal 2020 quella del G7 (i sette paesi oggi più ricchi del mondo)6.
Inoltre, nel 2030, le principali economie mondiali sarebbero, in ordine
decrescente, la Cina, gli Stati Uniti, l’India, il Giappone, il Brasile, la Russia, la
Germania, il Messico, la Francia e il Regno Unito…
-il terzo fattore, almeno altrettanto importante, è l’irruzione della società di
fronte a Stati sempre più impotenti. I movimenti in corso da un anno e mezzo
nel mondo arabo, la rivolta sociale dell’estate scorsa in Israele, gli “Indignati”
in Europa e fino a New York, le manifestazioni in Russia, la rivolta delle
periferie britanniche, lo sciopero degli studenti in Cile…
Come non pensare al 1968? Non evoco solamente il Maggio francese, ma
anche la “Primavera di Praga” e, in minor misura, quello di Varsavia, il
movimento studentesco tedesco e ovviamente anche il Messico – dalla piazza
delle Tre Culture insanguinata ai pugni chiusi e guanti neri dei velocisti
americani in occasione dei Giochi Olimpici… La stessa rivolta simultanea, lo
stesso rifiuto del vecchio mondo, la stessa assenza di forza politica per reggere
quell’onda e di programmi per canalizzarla. Confronto non significa che le
due stagioni politiche siano identiche: il mondo, nel frattempo, è ovviamente
cambiato, e i movimenti di oggi sono molto differenti da quelli di allora. Ma,
la scossa non è minore.
Come a quel tempo, essa ha reso antiquata una architettura internazionale
obsoleta. E a ragione: le sue strutture riflettono un pianeta ancora dominato
senza condivisione dall’Occidente, nel momento in cui l’egemonia di
6
Le Monde, 25 gennaio 2010. E7 = 4 BRIC, più Messico, Indonesia e Turchia
8
9
quest’ultimo è così profondamente scossa. Allo stesso tempo, si ha
l’impressione di una rinuncia generalizzata delle istanze che si presume che
dovrebbe “gestire” il nostro mondo: G20, Unione europea, ONU, FMI e Banca
mondiale, Corte internazionale di giustizia e Corte penale internazionale.
Tutte sembrano non avere responsabilità nei confronti della crisi e dei
conflitti così come nei confronti delle sfide ambientali che tuttavia
interrogano il futuro stesso della vita su questa Terra…
Di nuovo, una sfumatura in forma di “bemolle”: ho appena evocato
l’“egemonia profondamente scossa” dell’Occidente. Non voglio ovviamente
dire con questo che essa finirà domani o dopodomani. Gli Stati Uniti,
l’Unione europea e il Giappone restano delle enormi potenze: economiche,
politiche e – soprattutto nel caso dell’America – militare. Non confondete il
breve periodo e il lungo periodo: si parla di “declino dell’America” dalla… loro
disfatta in Vietnam nel 1975!
Sostituendo Barack Obama a George W. Bush, il popolo americano ha senza
dubbio voluto voltare una pagina della propria storia e cercare, sulla base
della considerazione di realtà nuove, di risalire la china.
Dall’hard power al soft power
Questa elezione ha prodotto molti controsensi. D’altronde, anche coloro che,
nei media, salutavano con Obama una sorta di nuovo Messia si abbandonano
senza limiti, tre anni dopo, alle gioie dell’Obama bashing: le loro critiche di
oggi sono eccessive quanto le loro lodi di ieri. Le une e le altre ricorrono a
termini morali per giudicare il presidente americano. Mentre, si tratta di
politica.
Dove si colloca, ad esempio, la rottura tra lui e il suo predecessore? A questa
domanda Obama ha risposto chiaramente già nel suo discorso d’investitura, il
20 gennaio 2009: “L’America è di nuovo pronta a dirigere”. La differenza
9
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rispetto a George W. Bush non riguarda, quindi, tanto la riaffermazione della
leadership americana quanto, piuttosto, il modo di assicurarla. Per il nuovo
presidente, l’America deve imporsi non più con l’hard power, ma con il soft
power: il negoziato al posto della guerra, l’empatia verso i popoli al posto
dell’ostilità, il dialogo tra le civiltà al posto dello scontro.
Ma questa indiscutibile svolta si fonda, innanzitutto, su una considerazione
più realistica dei nuovi rapporti di forza mondiali. Lo si vede bene nelle
priorità che il capo della Casa Bianca si è prefissato nel campo della politica
estera. Ma, quali sono i dati principali cui il presidente americano si sforza di
adattarsi per riaffermare meglio la leadership degli Stati Uniti?
Il primo è il declino, evidentemente relativo, della potenza dell’America.
Prima economia manifatturiera del mondo dalla fine del XIX secolo e primo
centro finanziario mondiale nel 1918, gli Stati Uniti si sono trovati, nel 1945,
in una posizione economica dominante, godendo di vantaggi comparati
decisivi tanto nel settore dell’alta tecnologia quanto in quello dei beni di
consumo o dell’agricoltura. Queste date non sono affatto casuali: l’irresistibile
ascesa dell’America è stata accentuata dalle due guerre mondiali, che hanno
stimolato la sua economia senza infliggerle alcuna distruzione (ma con
perdite umane non trascurabili: 126.000 vittime durante la prima guerra e
420.000 durante la seconda).
Nel momento in cui vince la guerra fredda, l’America dispone di una potenza
considerevole. Produce quasi il 20% delle ricchezze del pianeta, si colloca al
primo posto tra gli importatori e al secondo posto tra gli esportatori mondiali,
effettua quasi la metà delle spese militari mondiali. Ma la medaglia, lo si
capirà presto, ha il suo rovescio, come è stato simbolicamente mostrato dalla
perdita della tripla A durante l’estate 2011.
Negli anni 2000, il Prodotto Interno Lordo (PIL) americano è cresciuto del
42%, ma la crescita del PIL mondiale ha raggiunto… l’80%. Oltretutto, gli
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Stati Uniti battono tutti i record in materia di debito pubblico: quest’ultimo si
è triplicato in quindici anni, superando i 15.000 miliardi di dollari, ovvero
oltre il 100% del loro PIL e oltre il 38% del totale mondiale. Comparato alle
principali valute, e non solamente all’Euro, il dollaro ha perso, in qualche
anno, più di un terzo del suo valore.
Conseguenza della crisi dei subprimes, in due anni il 10% delle imprese sono
scomparse e la disoccupazione è passata dal 5% a circa il 10% - per non
parlare dell’esplosione della precarietà… Al punto che un americano su sei si
nutre con buoni alimentari e che un bambino su cinque vive saltuariamente
per strada. Anche le classi medie si impoveriscono: l’acquisto di beni di
consumo durevole sono i più bassi dal 1997…
Questo è il contesto in cui si iscrivono le disfatte subite da Washington sulla
scena internazionale. Se l’esercito americano ha rovesciato senza fatica
Saddam Hussein, non è riuscito a “tenere” l’Iraq – e, ora, deve ritirarsi senza
avere alcuna certezza sull’avvenire del paese. L’intervento in Afghanistan ha
conosciuto la stessa evoluzione: i Talebani, inizialmente storditi, sono passati
con successo all’offensiva. Eliminando il regime basista iracheno e
indebolendo, per un po’ di tempo, i Talebani afgani, l’America ha
significativamente rafforzato, allo stesso tempo, l’Iran dei mullah, che difende
con sempre maggior forza il proprio diritto all’energia nucleare. Ma ha anche
distrutto la coesione occidentale, perché la NATO si è divisa sull’avventura a
Bagdad e i suoi membri si sbrigano a ritirare i corpi di spedizione da Kabul.
Come per un fenomeno di vasi comunicanti, alla perdita di potenza degli Stati
Uniti ha corrisposto un aumento di potenza dei loro principali rivali: i
cosiddetti “BRIC”. Qualche cifra tratta dalle ultime statistiche disponibili,
quelle del 2010, lo testimoniano7.
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Le cifre che seguono sono tratte dal Manuel de statistiques della Cnuced:
http://www.unctad.org/en/docs/tdstat36_en.pdf
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Chi sono e cosa vogliono i BRIC?
In termini di PIL, la Cina (5.872 miliardi di dollari) ha superato la Germania
(3.311 miliardi) e persino il Giappone (5.499 miliardi) fino a diventare la
seconda potenza mondiale, dopo gli Stati Uniti (14.762 miliardi). Inoltre,
rappresenta il 9,3% del PIL del pianeta e la metà della sua crescita! Nella sua
economia, l’agricoltura rappresenta appena l’11%, contro il 49% dell’industria
e il 40% dei servizi. L’anno scorso ha realizzato il 10,4% delle esportazioni
mondiali contro lo 0,9% di trent’anni fa.
Le riserve di cambio di Pechino raggiungono la cifra record di 2.868 miliardi
di dollari, di cui la maggior parte in buoni del Tesoro americano. La presenza
cinese è molto forte anche nei paesi in via di sviluppo, dove costruisce
infrastrutture, ma investe soprattutto nello sfruttamento delle risorse
naturali. Principale economista della banca HSBC, Stephen King sostiene: “Il
mondo in cui viviamo non è più diretto dagli Stati Uniti, ma dai mercati in
espansione, il cui motore, va da sé, è la Cina”.
Nel 1700, l’India, con il 22% del reddito planetario, era al pari della Cina.
Oggi, evidentemente, non è più così, ma conosce un’ascesa tale che l’elefante
potrebbe presto raggiungere la tigre. Con 1.624 miliardi di dollari di PIL,
rappresenta la decima potenza economica mondiale. E la sua crescita, dopo
essere scesa al 7% nel 2009, è salita all’8,5% nel 2010. Quarta potenza
agricola mondiale e terzo produttore di carbone, l’India vede il proprio PIL
ripartito in: 18% all’agricoltura, 29,5% all’industria e 52,5% ai servizi. È il 26°
esportatore e il 16° importatore del pianeta.
Dopo aver toccato il fondo sotto Boris Eltsin, la Russia ha compiuto un
grande ritorno sulla scena internazionale. Con un PIL di 1.474 miliardi di
dollari, occupa la nona posizione mondiale. Contrariamente alla Cina e
all’India, ha conosciuto un rallentamento dopo la crisi: -7,9% nel 2009. Ma,
ha ripreso la sua crescita nel 2010 con un + 4%. È d’altronde vero che
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l’economia russa dipende fortemente dal corso del gas e del petrolio, che
rappresentano il 60% delle sue esportazioni. Beneficia di un sottosuolo
eccezionalmente ricco: primo produttore mondiale di gas, secondo di petrolio,
sesto di carbone, etc. Eredita, inoltre, dall’URSS un’industria pesante forte,
ma spesso obsoleta.
Ai “grandi” si aggiungono i “futuri grandi”. È principalmente il caso del
Brasile che, con un PIL di 2.061 miliardi di dollari, si colloca al sesto posto
nella graduatoria mondiale. La più grande economia dell’America latina, dopo
un netto calo nel 2009 (-0,2%) ha ritrovato una crescita del 7,5% nel 2010.
Brasilia ha anche aumentato le proprie riserve di valuta del 24%: esse
superano i 287 miliardi di dollari. Questo ambiente stabile attira gli
investimenti, stimolati dalla Coppa mondiale di calcio (2014) e dai Giochi
olimpici (2016). Il Brasile è il primo produttore mondiale di aerei a media
percorrenza, la terza potenza aeronautica, il sesto costruttore di automobili
mondiale, il settimo produttore di carta, l’ottavo produttore di plastica, il
nono per la siderurgia, il quinto produttore di caucciù, la nona industria
chimica mondiale. Possiede l’8% delle superfici coltivabili e il 12% delle
risorse idriche…
Anche il Sudafrica è entrato nella corte dei “futuri grandi”, con un PIL di
2.061 miliardi – da cui l’aggiunta di una “S” all’acronimo “BRIC”. Ma essa
raggiunge solo il 29 posto nella classifica mondiale, e la sua crescita sembra
nettamente meno rapida delle altre potenze emergenti: 3,7% nel 2008, -1,8%
nel 2009 e 2,8% nel 2010. Tuttavia, il suo sviluppo può contare solidamente
sulle ricchezze del sottosuolo: è il primo paese estrattore di oro e platino al
mondo e uno dei primi per l’argento e i diamanti; racchiude inoltre una
grande quantità di cromo (65% delle riserve mondiali), di manganese, di
vanadio, di ferro, di uranio, di rame, di zinco, di antimonio, di carbone e di
tungsteno. Un altro punto forte: le aziende agricole moderne restano
largamente nelle mani dei loro proprietari bianchi – solo il 5% delle terre è
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stato redistribuito ai Neri dopo la fine dell’apartheid… E si potrebbe
proseguire questa lista, analizzando la forza delle economie del Messico,
dell’Indonesia, della Turchia, del Sudafrica, ecc.
Switching Wealth
Qui si impone ancora una sfumatura – di taglia. Se si valuta non più rispetto
al PIL, bensì in termini di PIL pro capite, la ricchezza dei principali Stati
emergenti sembra nettamente più relativa. Un Indiano “pesa” 1.326 dollari,
un Cinese 4.454 dollari, un Sudafricano 7.206, un Russo 10.574. Si potranno
comparare queste cifre con quelle del Regno Unito (36.008), della Germania
(40.228), del Giappone (43.461) e degli Stati Uniti (46.977)…
Tuttavia l’evoluzione generale dimostra la pertinenza del titolo – Switching
Wealth (“Lo spostamento della ricchezza”) – che il Centro di sviluppo
dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) ha
scelto nel 2010 per il suo rapporto sulle prospettive di sviluppo economico
mondiale…
Ecco, schematicamente riassunta, la “grande svolta” della nostra epoca! E la si
può misurare chiaramente: siamo entrati in una fase storica nuova, che, come
lo dicevo all’inizio di questa conferenza, le griglie di lettura del passato non
permettono di comprendere.
Il multipolarismo non è, in sé, piacevole
Questa irresistibile tendenza al multipolarismo non è, in sé, piacevole. Certo,
essa infligge duri colpi al dominio imperialista che si credeva rafforzato dalla
fine della guerra fredda. Ma, se l’egemonia di un’iperpotenza è naturalmente
sinonimo di ingiustizia, non è sicuro che lo scontro tra ambizioni rivali
potrebbe invece garantire, altrettanto naturalmente, la giustizia.
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Da questo punto di vista, il confronto con il periodo della guerra fredda non è
giustificato. Anzi, è persino fuorviante. All’epoca, l’Unione Sovietica e il
campo socialista volevano essere – almeno, affermavano di voler essere –
un’alternativa al campo occidentale. Ogni sconfitta subita dal secondo poteva
essere considerata una vittoria del primo. Anche supponendo che questo
ragionamento manicheo riflettesse una parte di verità, le cose non stanno più
così. Ciascuna delle potenze emergenti che abbiamo nominato si batte per i
propri interessi nazionali. Il nazionalismo, in senso pieno, con i suoi aspetti
positivi e negativi, ha sostituito i grandi disegni ideologici.
E a quelli che, tra di voi, hanno nostalgia dell’era in cui gli intellettuali
potevano schierarsi, voglio dire con la massima chiarezza: se l’emancipazione
dei popoli colonizzati costituisce un progresso storico indiscutibile, anche la
loro aspirazione a un ordine internazionale più giusto deve essere sostenuta, e
sarebbe assurdo pretendere di schierarsi in favore di un nazionalismo e
contro un altro. A meno che non si sia pagati per farlo!
Negli scontri tra Mosca e Kiev, che parte prendere? Nel momento in cui la
Cina si impadronisce sistematicamente delle ricchezze naturali del terzo
mondo, possiamo intravedervi una forma di internazionalismo proletario?
Quando il Venezuela e il Brasile si scontrano, bisogna scegliere il
rivoluzionario Chavez piuttosto del riformista Lula?
Il mondo è cambiato, e la nostra visione deve anch’essa cambiare, superando
l’istinto di “difendere” tutto quello che fanno le potenze emergenti. Per non
parlare delle violazioni dei diritti umani e delle libertà di cui si rendono
colpevoli, dalla lunga guerra in Cecenia all’oppressione dei Tibetani e degli
Uiguri, dalle guerre interreligiose in India alla sorte della foresta
amazzonica…
Alcuni, se non hanno addirittura giustificato la repressione sanguinosa del
regime di Bachar Al-Assad in Siria, hanno quantomeno tardato a condannarla
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per la ragione che costui sarebbe un “anti-imperialista”. Un’affermazione che
d’altronde rimane da dimostrare: né Bachar né suo padre hanno mai sparato
il minimo colpo di fuoco dal 1973 contro Israele, che tuttavia aveva occupato e
poi annesso l’altura del Golan. E se Damasco ha inviato delle truppe nel 1976
in Libano, è stato su richiesta della parte falangista: la loro prima impresa
militare fu il massacro del campo palestinese di Tal Al-Zaatar. Esse restano
nel paese del Cedro fino al 2005, per difendervi gli interessi del potere
basista. Ammettiamo anche che quest’ultimo sia stato “anti-imperialista”:
questa è una ragione per tollerare che assassini 10.000 Siriani e ne imprigioni
150.000, dopo averli sistematicamente torturati?
Nulla prova, allo stesso modo, che l’Europa possa occupare in questa nuova
architettura un posto degno di lei. La singolare propensione degli Europei a
sacrificare la loro sovranità sull’altare dell’allineamento – rispetto agli Stati
Uniti oggi, ma rispetto ad altri Stati domani? – rischia, secondo la formula di
Hubert Védrine, di trasformare il Vecchio continente in uno “scemo del
villaggio globale”8.
Questa tendenza suicida contraddice l’appello lanciato, dal 1975, dal primo
ministro belga Léo Tindemans:
“I nostri popoli si aspettano dall’Unione Europea che esprima, dove serve e
dove lo si desideri, la voce dell’Europa. Che la nostra azione comune difenda
in modo efficace i nostri legittimi interessi, che assicuri le basi di una vera
sicurezza in un mondo più equo”. Per fare ciò, “l’Europa deve sfuggire allo
stesso tempo all’isolamento, al ripiegamento su se stessa, che la metterebbe ai
margini della storia, ma anche alla soggezione, alla stretta dipendenza, che le
impedirebbe di esprimere la propria voce. Deve ritrovare un certo controllo
sul proprio destino”9.
8
Intervento di Hubert Védrine davanti alla Commissione sul Libro bianco sulla difesa della
sicurezza nazionale, 4 ottobre 2007.
9
Rapporto sull’Unione europea, il «Rapporto Tindemans», Bruxelles, 29 dicembre 1975.
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E l’analista di politica della sicurezza Hajnajka Vincze10 commenta:
“Su questo punto, il primo ministro belga si rivela completamente in sintonia
con il sentimento profondo, e notevolmente costante, dei cittadini. Non è un
caso che, negli Eurobarometri successivi, la Politica estera e di sicurezza
comune (PESC) e la Difesa europea continuino a beneficiare del sostegno
massiccio (più del 70%) dell’opinione pubblica – con una maggioranza
schiacciante (più dell’80%) quando si tratta di precisare che questa politica
europea “deve essere indipendente dagli Stati Uniti”.
Quanto all’ex ministro degli Esteri francese Hubert Vedrine, nel suo rapporto
a Nicolas Sarkozy sulla globalizzazione, scrive:
“Gli occidentali, certo, sono ancora dominanti, ma rappresentano appena un
miliardo circa di esseri umani, sui sei miliardi e mezzo di abitanti del pianeta,
proporzione
destinata
ad
abbassarsi
ulteriormente
con
lo
“shock
demografico” in corso. Proprio nel momento in cui si prediceva la sua fine, la
storia – degli altri! – si è rimessa in marcia. I paesi emergenti sono emersi
davvero. Non cercano soltanto di entrare a pieno titolo nell’economia di
mercato globale, ma cercano anche di ritrovare il posto geopolitico che
compete loro. […] Dietro ai grandi emergenti, una decina di altre potenze
stanno già comparendo, creando un mondo multipolare instabile e
concorrenziale. Il rapporto di forza all’interno dell’OMC11– non può esserci
imposto nulla, ma nemmeno noi possiamo più imporre nulla – ne è una
prefigurazione”.
E profetizza: “La competizione crescerà ferocemente attorno alle fonti di
energia fossile (a meno che non intervenga qualche importante scoperta
scientifica) e alle vie di trasporto (si pensi alla strategia petrolifera e
10
http://www.armees.com/L-Europe-face-a-unmonde.html?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+armees+%2
8Armees.Com%29
11
L'Organizzazione Mondiale del Commercio
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marittima cinese) e tra capitalismi concorrenti. Il degrado del nostro
ambiente, vale a dire, in pratica, delle condizioni di sopravvivenza della specie
umana, ha già cominciato a suscitare tensioni internazionali”12.
Questo mondo multipolare in via di costituzione bisognerà, ora, organizzarlo
e, dunque, trasformare profondamente l’architettura internazionale nata dalla
vittoria sul nazismo. Perché tutto lo dimostra: questo periodo è obsoleto. Le
norme che reggono l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) e le sue
“filiali”, come la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) o la Corte Penale
Internazionale (CPI), ma anche il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la
Banca Mondiale (BM) o l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC),
servono, a gradi diversi, il dominio occidentale.
La questione della loro fondazione è dunque posta e, sotto molti aspetti, sarà
di un’importanza storica comparabile a quella del 1945. Vi rinvio, su questo
punto, alla conferenza che ho tenuto in questa stessa sala due anni fa, dal
titolo: “ Quali riforme per l’architettura internazionale?” Non si tratta solo di
dividere meglio la “torta” internazionale, ma anche e soprattutto il diritto di
decidere della “torta”…
Nel frattempo, il cammino sarà lungo, anzi molto lungo. Ma Jean Jaurès
aveva l’abitudine di citare questa frase di Marx: “Noi siamo ancora nella
preistoria dell’Umanità”…
12
http://medias.lemonde.fr/mmpub/edt/doc/20070905/951341_rapport_d-hubert_vedrine.pdf
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