Fare gli Italiani

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Balocchi e bandiere
Nello Ajello
“Fare gli Italiani”. È il proposito che accompagnò, fin dai suoi albori risorgimentali, la stampa per
ragazzi. Ma come farli, quegli italiani: con quale spirito, quale speciale linguaggio, sulla scia di
quali precetti di vita? Il «Giornale dei fanciulli» (per citare un progenitore di questo tipo di
pubblicazioni) diretto dal letterato fiorentino Pietro Thouar a partire dal 1834, e soppresso due anni
più tardi dalla polizia del governo granducale, fu l’esemplare più tipico della letteratura popolare
rivolta alla formazione dell’infanzia: un patriottismo espresso con quei toni garbati che lo stesso
Thouar, uomo di sani principi pedagogici, adoperava nelle sue opere destinate agli adulti, fra le
quali va ricordato un saggio uscito nei suoi ultimi mesi di vita (1859), che di un simile approccio
offre una sorta di paradigma. A partire dal titolo: Discorso di un onest’uomo al popolo intorno alla
nazionalità dell’Italia.
“Onesti uomini” in erba. Ecco come verranno etichettati in blocco, nei lunghi decenni successivi, i
piccoli lettori d’Italia, ai quali ci si rivolgerà con un messaggio la cui originaria intenzione
patriottica verrà piegata, volta per volta, alle esigenze della cronaca nazionale. L’impronta
risorgimentale fu assai visibile agli esordi del «Giornalino della Domenica» – perché è di questa
testata che qui si parla – ideato e diretto, sempre a Firenze, da Vamba (pseudonimo di Luigi
Bertelli) fra il 1906 e il 1911 e che, nella fioritura di periodici infantili di quegli inizi di secolo, si
afferma come un organo di stampa quasi egemone. Accanto ai nomi già consacrati – da Pascoli a
Fucini, da De Amicis a Ferdinando Martini – figuravano nel settimanale firme ricche di avvenire,
come quelle di Giosué Borsi, Scipio Slataper, Piero Calamandrei (che vi pubblicava ariosi
poemetti). Il piglio battagliero del «Giornalino» sembrava accordarsi, allora, con la formazione
culturale del direttore, che era di genuino stampo mazziniano: ma il mito del Risorgimento finì
presto con il coesistere con altri apporti culturali d’impronta cattolica, mentre il motivo
universalistico e libertario, proprio alla narrativa del tardo Ottocento, cedeva impercettibilmente ai
toni d’un irredentismo pugnace. Finché nel messaggio del «Giornalino» risultò dominante un amor
di patria sempre più generico e indistinto.
Dal settimanale affiora sempre meno un intento ricreativo, soffuso di bonario umorismo: esso vuol
essere, piuttosto, una palestra di lotta, una fucina di passione. Il che equivale a dire che le tendenze
affermatesi nella letteratura per l’infanzia sulla scia di Collodi e delle sue felici fantasie appaiono,
all’opinione media dei redattori del «Giornalino», disadatte a funzionare come un lievito educativo
per gli italiani di domani.
Va letta, in proposito, una sorta di dichiarazione d’intenti, pubblicata nel numero del 30 gennaio
1910 a firma del redattore Giuseppe Enrico Nuccio. Vi si riassume, con polemica disapprovazione,
la ricetta occorrente per scrivere un libro per bambini che possa venir considerato à la page:
«Mescolare nel crogiuolo della melensaggine il 20 per cento di birichinismo pinocchiesco, il 50 per
cento di avventurismo strabiliante e il 30 per cento di retoricume moralistico». Tutte presenze da
respingere: pollice verso nei riguardi del melenso Collodi, nessuna condiscendenza verso trame
narrative immaginarie o avveniristiche. Ciò che si propone in cambio è un robusto richiamo al
nazionalismo. «Null’altro ha valore, se non l’esempio», si proclama: esso è sinonimo di
«insegnamento educativo, perché sospinge all’imitazione». Se si ricorda che le opere di Vamba – da
Ciondolino (1885) alla Storia di un naso (1906) fino a quel Giornalino di Giamburrasca (1912)
che, uscito a puntate sul settimanale nel 1907, segnò il suo maggior successo – si ispirano proprio al
deprecato birichinismo, appare chiaro che «Il giornalino della Domenica» somiglia sempre più
flebilmente al suo fondatore. O, almeno, ne riflette in misura decrescente l’iniziale intonazione
democratica e libertaria: poco Mazzini, ormai – si potrebbe dire, semplificando – e parecchio
D’Annunzio.
Nel cielo d’Italia si profilavano avvenimenti ai quali non era facile resistere sottraendosi a un certo
tipo di retorica: l’impresa di Libia, e in successione la Grande Guerra, l’avventura di Fiume, i
prodromi e l’affermazione del fascismo. E occorre ricordare che lo stesso Vamba, soprattutto nel
periodo che va dallo scoppio del primo conflitto mondiale alla morte (novembre 1920), ebbe il
tempo di annacquare i propri umori liberali con le enfatiche suggestioni in voga. Fino ad approdare
a una critica delle istituzioni parlamentari che può farlo apparire come un ideale antenato di
Guglielmo Giannini e dell’«Uomo qualunque» – giornale e movimento – nato nel secondo
dopoguerra sulla scia di un’antipolitica destinata a fare scuola. Risale infatti proprio a Vamba, un
quarto di secolo prima, l’invenzione di un personaggio, quell’Onorevole Qualunque Qualunqui, di
cui in un saggio omonimo egli raccontò sarcasticamente le gesta.
Una più concreta funzione di precursore il «Giornalino» l’aveva già assunta nel settore della milizia
infantile. Parlo dello Stato balocco, un singolare sodalizio che, fondato nel 1908 tra i piccoli lettori,
andò sempre più allargando la cerchia degli adepti. L’invito all’attivismo (“il fare supera
l’apprendere” fu uno dei suoi motti più insistiti) si legava al culto eroico della forza e allo
sciovinismo. Vamba – l’antico umorista e ironista del «Capitan Fracassa», del «Don Chisciotte»,
del «Falchetto» – va visto, in questo senso, come un seminatore di idee che altri, dopo l’abbandono
da parte sua della direzione del periodico, applicarono con maggiore pervicacia.
Ciò appare evidente nella terza serie del «Giornalino», che vide la luce nel 1918 e durò fine al 1927.
Soprattutto ad essa si riferisce una postuma rievocazione dovuta a Giuseppe Fanciulli, che di
Vamba è stato il successore nel settimanale e nelle sue istituzioni a latere. «Nel tempo di molte viltà
borghesi», egli scrive nel ’38, «il «Il Giornalino» non ammainò mai il tricolore, fu antiwilsoniano,
antibolscevico, fiumano. Alla fede della Patria unì la fede della Croce, precorrendo il movimento
spirituale della Conciliazione». La parola d’ordine divulgata fra i tesserati era: «L’Italia
innanzitutto», mentre una delle campagne più vivaci – e precorritrici – che il sodalizio combatté fra
i suoi aderenti riguardò l’abolizione del lei.
Dal 1921, lo Stato balocco si dotò di una propria milizia. A comandarla fu chiamata la undicenne
Edda Mussolini, primogenita del capo fascista. Nel 1922, diventò obbligatoria, per gli aderenti, una
divisa: camicia verde con un grillo nero ricamato sul petto, gonna o calzoncini neri, fez nero,
fazzoletto verde. Si trattava di una falange di Balilla avant-la lettre? La domanda viene naturale.
Nel 1922, infatti, lo Stato balocco aderì al Regime. Nel 1924, con tre anni di anticipo sulla
scomparsa del settimanale da cui era nato, «ripose le sue bandiere che animosamente si erano
opposte agli stracci rossi»; e forse, allora, il suo compito singolarissimo era finito» (cito sempre dai
ricordi di Giuseppe Fanciulli). Dove inizia la citazione???
A proposito degli stracci rossi, può essere oggetto di meraviglia l’estrema energia verbale con cui
«Il Giornalino» spalleggiò lungo tutti gli anni Venti le spedizioni littorie contro gli «accaniti
leninisti», «ostili a tutto ciò che parli di italianità». Le gesta scanzonate di Giamburrasca, simpatico
monello fiorentino, sembravano davvero appartenere a un altro secolo.
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