Il pensiero politico

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Sveglia Galli: gli inglesi sono arrivati prima. E prima per davvero, di almeno un secolo.
Mentre a Parigi vi godevate Mazzarino, loro a Londra ammazzavano il Re. Correva l’anno 1649 e
per la prima volta nella storia un sovrano veniva condannato a morte, il 30 gennaio Carlo I Stuart
cadeva decapitato e, con lui, precipitava l’idea di uno stato patrimoniale. Quarant’anni dopo in
Inghilterra entravano trionfanti Guglielmo III d’Orange e Maria II: gli inglesi avevano fatto la
Rivoluzione.
Il cinquantennio di guerre civili che imperversarono nell’isola fra la fine degli anni ’30 del
Seicento ed il febbraio ‘89 fu un vero e proprio cantiere per lo sviluppo di nuove categorie del
pensare e dell’agire politico moderni. Per definirlo vengono in mente due parole, entrambe comuni
nel nostro vocabolario: dibattito ed esperimento.
Cominciamo da dibattito. Non è infatti possibile capire la guerra civile inglese senza fare un
passo indietro, almeno di qualche anno, fino al 1628, quando il Parlamento chiese ed ottenne dal
giovane re Carlo I Stuart la firma di un documento, la Petizione dei Diritti, che oggi tutti noi
ricordiamo per un combinato di disposizioni (art. III) formalmente definiti come Habeas Corpus.
La Petition of Rights, inoltre, sanciva il principio del cosiddetto “no taxation without
representation” (art. X). In altre parole, il sovrano non avrebbe più potuto legiferare – soprattutto in
materia di politica estera, dove i fondi (e quindi l’esazione) sono maggiormente necessari – senza
previa consultazione delle Camere. Questo, ovviamente, in una linea puramente teorica, come è
rivelato dal fatto che l’anno seguente Carlo I sciolse de facto le Camere, dando avvio ad un politica
assolutistica – nel senso originario di svincolata dalla leggi del Reame – sia in materia temporale
(l’imposizione dello ship moneyi ne è esempio), che spirituale (leggi come svolta cesaropapista
nella politica personale del sovrano e arminianesimoii come sistema teologico adottato per
supportare questo giro di vite). Il Parlamento non sarà richiamato fino al 1640, anno di
inaugurazione di quello che sarà noto come Long Parliament, per la sua durata di tredici anni,
periodo nel quale cadono le cosiddette Guerre civili inglesiiii. E’ sempre in questo periodo che la
parola Dibattito torna a presentarsi come “etichetta” del Seicento inglese: fondamentale rimane
infatti per la cultura politica europea quello che si tenne fra il 28 Ottobre ed il 9 Novembre 1647 in
una piccola cittadina a sud di Londra, a Putney, con l’obiettivo di redigere un Agreement of the
People, rotta da seguire per il futuro del Paese.
I dibattiti di Putney, documento di fondamentale importanza per ricostruire la genesi dei
principi della moderna cittadinanza, si tennero in seno alla New Model Army, o meglio in seno alle
diverse fazioni formatesi al suo interno. L’esercito del “Nuovo Modello”, insieme al suo principale
ispiratore e leader, Oliver Cromwell, si presentano a loro volta ai nostri occhi come esperimento.
Costituito nel 1645, nell’apice della battaglia contro l’esercito monarchico, questo esercito non fu
semplicemente una sperimentazione bellica, ma soprattutto sociale. Figlio della cultura che aveva
dato vita alla Petition, l’esercito dei roundheads ricalca l’idea di un esercito regolare con un alto
grado di devozione, di commitment. Questo elemento distintivo conseguì la forte connotazione
puritana delle sua fila, una devozione che è valsa ai soldati cromwelliani l’epiteto di “Santi”iv.
Esperimento è parimenti considerabile la forma di governo che il suo principale ispiratore e leader
(nonché futuro Lord protettore d’Inghilterra), Oliver Cromwell, promosse e diresse all’alba
dell’esecuzione di Carlo I nel 1649 – e come non considerare la monarcomachia (letteralmente
“lotta al sovrano”, il legittimo tirannicidio) una novità, un’invenzione del barocco inglese? – il
Commonwealth. Un esperimento, appunto, una parabola meglio, che sopravvisse in Gran Bretagna
tra il 1650 ed il 1660, anno che apre un trentennio di Restaurazione, di ritorno.
Negli ottant’anni compresi fra la Petizione dei Diritti ed il Bill of Rights molte le
elaborazioni, le vicende, i protagonisti (ci porterebbe troppo lontano affrontare qui il tema dei
Levellers e Diggers come possibili precursori degli odierni partiti) ma, soprattutto, un’idea che è qui
nella sua gestazione e prima concettualizzazione: la Rivoluzione.
Rivoluzione, sanguinosa o gloriosa essa sia, non furono nel Seicento e non possono essere
considerate oggi dallo storico di quell’epoca come categorie “fisse”, anzi, il significato di questo
termine oscilla di autore in autore. È probabilmente questa incertezza, però, a fare dell’uso di questo
termine durante le guerre civili inglesi un interessante terreno di ricerca per comprendere quale
senso si è dato alla corruttibilità e crisi dei governi, in un’era, quella moderna v, in cui questi ultimi
“cadevano dalle stelle” della rigida società medievale, per calarsi nell’abisso terreno delle cose che
cambiano, che si susseguono.
Ricercare questo senso significa in primo luogo rifiutarsi di forzare ciò che noi tutti (i figli
della Bastiglia!) intendiamo oggi per Rivoluzione, ed allo stesso tempo evitare le “trazioni
agiografiche e teleologichevi” (in altre parole di osannare i rivoluzionari inglesi e di vederli come
anzianotti progenitori delle rivoluzioni politiche contemporanee). Cercheremo qui di dare una
spiegazione a questo lessico “in crisi” concentrandoci su due aspetti indissolubili e fondanti: la
religione e la politica. Convinti che in fondo-in fondo verba volant, scripta manent, finiremo con
una breve introduzione ad una pubblicazione all’epoca molto nota, ma oggi forse fra le meno
conosciute ad opera del filosofo politico più famoso di questo tempo: il Behemoth di Thomas
Hobbes (1681).
Il pensiero politico
Malgrado una certa concezione comunevii, ribellioni, sovvertimenti e crisi dei governi non
erano affatto sconosciute ai filosofi politici pre-1688. Al contrario, i greci prima ed i romani poi –
c’è da dire, con una certa forma di snobbismo rispetto ai movimenti popolari – avevano lasciato in
eredità non poche teorie sulla successione nell’autorità politica e sui colpi di statoviii. Questo
testamento ideologico fu prontamente raccolto dall’Italia rinascimentale, patria del pensiero politico
moderno classico, che lo collegò con un termine, revolutione, connesso all’astrologia.
Con un occhio strizzato all’idea della circolarità della storia (anche qui, un’altra eredità
lasciata dall’anaciclosi di Polibio) e l’altro rivolto alle stelle, nel 1612 e nelle edizioni successive, il
Dizionario degli Accademici della Crusca, così descrisse, infatti, la Rivoluzione: «Rivolgimento.
Ed è più proprio degli stati, che d’altro»ix. Bando alle ciance scolastichex, quindi, e riscoperta dei
classici per la politica rinascimentale, che si credette in grado di predire la sorte dei governi
attraverso un attento studio della stasisxi.
Tra gli autori che influenzarono direttamente il pensiero politico inglese del Seicento è
necessario citare i nomi di Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini il quale, da interno della
politica, fu il primo a denunciare l’inconsistenza del diritto divino teorizzato dalla Scolasticaxii. Nei
Discorsi Machiavelli si propose quale celebratore del «tumulto», della contraddittorietà in seno alla
società civile e di un rinnovamento necessario nelle repubbliche: «ed è cosa più chiara della luce,
che non si rinnovando questi corpi non durano»xiii. La rivoluzione degli stati trovò una definizione
differente nel lavoro di Jean Bodin che, osservando la violenza delle guerre civili e di religione del
secondo Cinquecento francese, nei Six Livres de la Republique individuò come principio di base per
la definizione del momento rivoluzionario il passaggio da un potere sovrano all’altro, dove «chi è
padrone della forza è anche padrone del potere»xiv.
Abbandonando la struttura mentale del vecchio regime feudale – dove i sudditi disperati si
ribellavano spinti dai morsi della famexv – e sfondando il portone della politica moderna, il ribelle si
vide finalmente attribuite consapevolezza civile e capacità demiurgica degne del suo pronipote: il
citoyen di Francia. L’idea di irruzione più o meno violenta e volontaria distruzione dell’ordine
precostituito (politico, sociale ed economico) venne così sovrapponendosi alla tesi della rivoluzione
fisiologica fra i governi.
A questo paradigma le diverse correnti di pensiero affibbiarono una vasta gamma di connotati.
Primo fra tutti il grado di violenza da intendersi alla Rivoluzione: mentre oggi è data per scontata
l’intima connessione della rivoluzione con i riots, moti turbolenti, basti pensare che nel 1688 la
Rivoluzione venne salutata come “gloriosa” perché scevra da spargimenti di sangue. E poi,
soprattutto, l’idea del futuro – e di conseguenza del Presente e del Passato – insita nelle diverse
congetture della crisi e rivoluzione negli Stati. Sebbene l’idea di progresso – figlia stavolta sì, cari,
dei cugini oltremanica (anche se pure in questo campo molto ci sarebbe da dire) – non avesse
ancora fatto irruzione nella mente politica moderna, c’era già chi leggeva nella rivoluzione un
orizzonte altro e migliore, ma soprattutto, c’era chi vi leggeva la riscoperta di mitiche età dell’oro.
Un fantascientifico ritorno dal futuro? Ebbene sì, dal momento che questi Passati erano sovente
inventati di sana pianta oppure consistevano in riferimenti ai modelli lontani e vicini di rivoluzione
e governo, quali la rivolta dei Paesi Bassi contro il dominio spagnolo, e la tradizione della
Respublica hebreaorumxvi.
Una religiosità radicale
Permetteteci una piccola incursione nelle Scritture: In principio era il Verbo, ed il verbo era
presso Dio. Come possiamo cercare di capire il vocabolario politico moderno se non teniamo conto
dello sviluppo di quello religioso? Ciò a maggior ragione nel caso della corona inglese, le cui sfere
temporale e spirituale vennero indissolubilmente legate dalla politica del buon Enrico VIII, così
come esemplificato dall’Act of Supremacy (1534)xvii. Lasciando da parte il nocciolo duro di queste
diatribexviii, però, è qui utile ricordare come la religione influenzò la retorica del discorso politico, i
cui protagonisti presero ad identificarsi «by their religious character»xix. All’epoca dei fatti che qui
analizziamo, in altre parole, gli inglesi arrivavano come un caso isolato di confessionalismo, le cui
vicende interne, lotte, fazioni e settarismi non hanno molto a che vedere con quanto
contemporaneamente avveniva con il luteranesimo ed il calvinismoxx, oppure ancora con le guerre
di religione francesixxi.
Perché gli inglesi sono così diversi? Sarà perché non sono una lingua neolatina … eppure non
hanno niente a che vedere nemmeno con i tedeschi ed il Sacro Romano Impero! Il fatto è che il
dibattito teologico qui è intrinsecamente legato con le questioni dinastiche e delle autonomie
territoriali, in fattispecie quella scozzese e quella irlandesexxii. Questa quaestio si riflesse nello
scontro fra le fedi, principalmente quelle anglicana, presbiteriana e cattolica. In particolare gli
ultimi, gli odiati papisti, furono sempre accesi animatori del dibattito sulla legittimità del
sovranoxxiii.
Il matrimonio fra politica e religione previde una comunione dei beni, dei temi e della
retorica. Così che, ad esempio, la polemica antipapista contro Carlo I implicava, o celava, questioni
congiunturali di carattere squisitamente politico ed economico; ed alla stessa maniera l’idea di
resistenza al potere temporale del sovrano era dedotta sulla base del passo biblico Deuteronomio 17,
12xxiv. Più generalmente, fu il libero esame, grazie al quale qualsiasi persona alfabetizzata era resa
in grado di leggere prima manu le Sacre Scritturexxv, a far piazza pulita delle categorie
dell’obbedienza, che erano state il perno della società medioevalexxvi. L’appoggio trovato nei testi
sacri (come il passaggio del Deuteronomioxxvii), permise alle chiese britanniche di dotarsi di
filosofie della morale con dirette implicazioni nell’idee gemelle di obbedienza e resistenza. Il
puritanesimo inglese, fulcro delle proteste politiche, per esempio, era di orientamento
fondamentalmente casuistico: invitava ogni individuo ad agire politicamente secondo il proprio
giudizio, rinnegando l’idea di obbedienze naturalmente (o divinamente) dovutexxviii.
Questa matrice “mondana” delle chiese riformate, si fece radicale nella dottrina calvinista,
particolarmente diffusa nei regni della corona inglese, che si caratterizzava per un
«highly collective emotion and it imposed upon the saints a new and impersonal
discipline»
in maniera che
«the religious energies of the believer were publically disciplined, directed into and
through the forms of the … social religion»xxix.
una caratteristica particolarmente evidente nel caso della chiesa scozzese, quella presbiteriana
di John Knoxxxx.
Nelle parole del teorizzatore della «Rivoluzione dei Santi», Micheal Walzer, fu proprio la
dottrina calvinista – la confessione adottata dalla chiesa anglicana – a spostare l’enfasi dal sovrano
al santo, in maniera da basare su quest’ultimo l’indipendenza dell’azione politica. In altre parole
uno shift dalla rigidità dell’ordine, alla mobilità del singolo. Il calvinista era dunque incentivato – se
non addirittura obbligato – a partecipare attivamente alla vita pubblica, cosa che il cattolico e
l’uomo medioevale in genere non era mai stato abilitato a fare. Questa «enthusiastic and purposive
activityxxxi» del fedele calvinista, veicolata dall’azione sociale di sette e ministri di fede,
contribuirono ad irrobustire la mobilitazione delle masse; in maniera che l’affiliazione religiosa
divenne requisito logico della radicalizzazione dei movimenti politicixxxii.
Gli annunci chiliastici (leggi Arrivo dell’Apocalissexxxiii), promossi da alcune di queste sette,
produssero uno spostamento dalla visione ciclica della storia rinascimentale ad una concezione
lineare della storia, il cui fulcro stava nella venuta dell’Anticristo e la Terza Era dell’Uomo, l’Età
dello Spirito di memoria gioachimitaxxxiv. Parimenti, si produsse una immagine teleologica,
finalistica di rivoluzione continua in attesa di un nuovo Edenxxxv.
Il concorso del disegno divino nel dispiegarsi degli eventi divenne un elemento ricorrente
nella retorica rivoluzionaria, tanto laica quanto ecclesiastica, come testimoniano le sferzanti formule
di chi definisce le “rivoluzioni dei Reami” quali «rods with which God scourages miscarrying
Princes»xxxvi.
In conclusione, citando Thomas Hobbes, è possibile proporre un rapporto fra la cosa pubblica
e quella ecclesiologica, si può sostenere cioè
«che l’eresia sta al potere spirituale, come la ribellione sta a quello temporale, ed è
suscettibile d’esser perseguitata da chi voglia mantenere il potere spirituale ed il dominio
sulle coscienze degli uomini»xxxvii.
i
Tassa imposta da Carlo I nel 1635 per finanziare gli impegni militari nel continente e pietra dello scandalo
alla base di molte controversie.
ii
Sebbene entrare qui nel merito del dibattito teologico primo-seicentesco ci porterebbe davvero troppo lontano, è utile
spendere un paio di parole sugli arminiani. Questa fede, figlia del calvinismo, deve il suo nome all’olandese Jacobus
Arminius (1560-1609) e viene spesso definita con veloci formule quali “semi-pelagianesimo” e “semi-agostinismo”.
Ma cosa vuol dire? Si può affermare che il sistema teologico arminiano, sebbene basato al pari della Chiesa
Riformata, sulla sola autorità delle Scritture, abbia un’apertura nei confronti della perfettibilità del genere umano
sconosciuta al dramma teologico di Calvino (cfr. W.J. Bouswma, John Calvin: a sixteenth Century Portrait, Oxford,
1989. Il biografo di Calvino descrive la teologia calvinista come «ansia» e tensione). L’arminianesimo conobbe
famosi seguaci, primo fra tutti il giurista Ugo Grozio (1583-1645), ma soprattutto, per quello che ci interessa,
l’Arcivescovo di Canterbury, William Laud (1573-1645), braccio destro di Carlo I. Sotto il nome di “movimento
laudiano” l’arminianesimo venne letto nel contesto politico e religioso inglese (in particolar modo dai parlamentari
puritani) come un facile scivolo teologico che avrebbe ben presto permesso a Carlo I di riportare il regno nelle
braccia della Chiesa Cattolica, di cui la regina, Enrichetta Maria di Francia, era nota fedele.
iii
Indicativamente compresa fra il 1642 ed il 1660, la cosiddetta Prima Rivoluzione è a sua volta suddivisibile
in tre fasi: a) una prima, che vede i primi sette anni di scontri fra i parlamentari del Lungo Parlamento ed il “partito” del
Re, formato da quest’ultimo, membri dell’alta aristocrazia (Il Privy Council primo fra tutti) e gli alti prelati della Chiesa
Anglicana. Questa prima fase ha come terreno di scontro la politica fiscale di Carlo (v. supra), e come protagonisti i due
opposti eserciti reale e parlamentare (nel quale figura di spicco è Oliver Cromwell, v. infra). b) Una seconda fase, che
segue l’esecuzione del Re nel 1649 ed abbraccia i primi anni di vita del Commonwealth ai quali seguono c) i cinque
anni di governo personale (1653 – 1658) di Oliver Cromwell, ai quali seguirono due fallimentari anni di presieduti dal
figlio di quest’ultimo, Richard (1658 – 1659). Il 1660 segna, con la conclusione della parabola repubblicana, il ritorno
della casa Stuart a Londra con l’erede Carlo II Stuart. Il regno di Carlo II (1660 – 1685) e del suo successore Giacomo
II Stuart (1685 – 1688) sono usualmente definiti come “Restaurazione” e precedono il biennio 1688 – ’89, ovvero la
Gloriosa Rivoluzione (v. infra).
iv
Il dibattito attorno alla Rivoluzione inglese prese naturalmente le sue mosse sin dai primissimi anni
successivi alla Guerra civile corroborando il conflitto tra le antitetiche fazioni allora in campo, i.e. R.C.
RICHARDSON, The Debate on the English Revolution, Manchester 1998, p. 11. A questa stagione “calda” seguì una
rielaborazione ed appropriazione dell’eredità lasciata dai Padri della patria nell’ottica della scrittura di una Tradizione
inventata. Per «tradizione inventata» si intende qui quel «set of practices, normally governed by overtly or tacitly
accepted rules ad of a ritual or symbolic nature, which seek to inculcate certain values and norms of behaviour by
repetition, which automatically implies continuity with the past.» formulato da Eric J. Hobsbawm nell’Introduzione al
volume miscellaneo E. HOBSBAWM; T. RANGER (edd), The Invention of Tradition, Cambridge 1983, pp. 1-14. L’uso
della parola “Santi” non vuole richiamare all’alone di mitico di certe ricostruzioni della Rivoluzione inglese, bensì al
contesto puritano così come definito da Micheal Walzer in M. WALZER The Revolution of the Saints: a study in the
origins of radical politics, Cambridge 1982.
v
«… another of those startling innovations of sixteenth century political history: the appearance of revolution
and radical ideology. Revolution as a political phenomenon and ideology as a kind of mental and moral discipline are
both, of course, closely related to the rise of the modern state» M. WALZER The revolution of the saints, cit., p. 1; la
posizione di storici come Lynn Hunt, che guardano al fenomeno politico dagli occhi del linguistic turn è quello di
leggere il linguaggio sociale non solo come un riflesso dei cambiamenti profondi della politica, ma come parte stessa
della loro modifica; vd. F. BENIGNO, Revisionismi a confronto, cit., p. 47.
vi
La storiografia delle rivoluzioni moderne ha vissuto stagioni seguendo le svolte e cambiamenti politici della
storia mondiale. Così, un’ondata di revisionismo storico ha imperversato sull’analisi delle rivoluzioni del passato in
seguito alla trasformazione politica e sociale europea del post-1989 (vd. F. BENIGNO, Revisionismi a confronto, cit.).
L’incongruenza fra il peso del vocabolario politico di allora e l’odierno rende «infatti impossibile stabilire un legame
positivo con le grandi trasformazioni rivoluzionarie del passato», M. RICCIARDI, Rivoluzione, cit., p. 7.
vii
«Conventional has it that the word “revolution” acquired its modern political meaning only after 1688.
Previously it had been an astronomical and astrological term limited to the revolution of the heavens, or to any
completed circular motion … I wish to suggest that the transition to the modern sense occurred considerably before
1688» C. HILL, The Word ‘Revolution’, cit., pp. 82-83.
viii
G. PASQUINO, Rivoluzione in N. BOBBIO, N. MATTEUCCI, G. PASQUINO (edd) Dizionario della
Politica, Torino 2004, pp. 845-854.
ix
Nei lemmi del Dizionario, fra gli esempi a supporto delle definizioni troviamo precisamente due occasioni
politiche: alla voce rivoluzione, « Veggendo il reame di Francia in tanta rivoluzione» nel campo della revoluzione, prima
degli esempi legati ai fenomeni naturali, « G. V. 9. 219. 2. Scampò la città di gran pericolo, e rivoluzione »; al lemma
rivoltura « G. V. 11. 82. 2. E con molti danari di que' del Re d' Inghilterra, spesi in Fiandra, fece far tutta quella
rivoltura, con l' aiuto de' Cavalieri di Pisa ». Cfr. M. RICCIARDI, Rivoluzione, cit., pp. 8 e sgg.; G. PASQUINO,
Rivoluzione, cit.; I. RACHUM, The meaning of Revolution in the English Revolution, cit., p. 208.
x
La scolastica, qui intesa come agostinismo politico, si era fatta interprete di una teoria di legittimazione
divina dell’ordine politico. Questa posizione è quella esposta dal filosofo di Ippona nel de Civitate Dei dove l’ordine
della città terrena è in costante tensione verso la perfezione della città celeste. In questo schema, l’ordine divino
demanda un’obbedienza «dovuta» (nel senso di naturale e necessaria) alle autorità secolare ed ecclesiastica. i.e. in M.
RICCIARDI, Rivoluzione, cit., pp. 15-17, 20.
xi
La stasis, intesa come scontro fra diverse fazioni all’interno della città stato, viene presenta dall’opera di
Tucidide come necessaria e determinata, nella sua maggiore o minore virulenza, dalle cogenze e dalle singole
manifestazione della malvagità umana. La perfezione del governo misto e la «pretesa di individuare un criterio di
prognosi politica e di neutralizzazione del tempo politico» furono invece i capisaldi del pensiero di Polibio che ebbero
maggiore trascendenza sul pensiero politico moderno, (si pensi alla dottrina politica del Machiavelli dei Discorsi) cfr.
M. RICCIARDI, Rivoluzione, cit., p. 14.
xii
Ricordate all’inizio della quarta liceo la Scolastica? L’esercito di teologi e filosofi che durante il Medio Evo elaborò,
e rielaborò l’ossatura della cultura (alta e bassa) dell’Europa cristiana? Fra le idee propugnate, c’era quella,
fondamentale, della natura divina dell’ordine politico, caratteristica che faceva della società per ceti un sistema fisso
ed immutabile. Probabilmente, però, è più facile ricordare le critiche che alla scolastica vennero mosse dal XVI
secolo in poi, fra le quali l’ormai famosa ironia sui dibattiti tomisti circa il sesso degli angeli. Queste sferzanti
condanne, spesso colpevoli di oscurare anche i contributi più originali del periodo, fondarono i contributi “moderni”
dei filosofi del pensiero politico, fra i quali i classici italiani ne sono i più illustri esempi.
xiii
La citazione da NICCOLO’ MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, è tratta da M.
RICCIARDI, Rivoluzione, cit., pp. 30-31, vd. pagine seguenti.
xiv
In M. RICCIARDI, Rivoluzione, cit., p. 36.
xv
M. WALZER, The Revolution of the Saints, cit., p. 8.
xvi
De respublica hebraeorum venne dato alle stampe da Petrus Cuneus nel 1617 e da lì fino alla fine del secolo
subì molte riedizioni, nonché traduzioni all’estero.
xvii
Con l’Atto di Supremazia emanato nel Novembre 1534, Enrico VIII sanciva «the king's Majesty justly and
rightfully is and ought to be the supreme head of the Church of England, and so is recognized by the clergy of this realm
in their convocations, yet nevertheless, for corroboration and confirmation thereof, and for increase of virtue in Christ's
religion within this realm of England, and to repress and extirpate all errors, heresies, and other enormities and abuses
heretofore used in the same».
xviii
Thomas Hobbes, ad esempio, dedica un ampio passo del Behemoth all’excursus delle vicende spirituali del
trono d’Inghilterra dalla vicenda scismatica fino al regno di Carlo I Stuart. Il filosofo le ritiene, infatti, condizioni
necessarie dei successivi sviluppi della storia inglese. Vd. THOMAS HOBBES, Behemoth [1681], trad. it., Bari 1997
pp. 14-25.
xix
Fra i primi a sottolineare questa vocazione spirituale degli attori politici della Rivoluzione inglese, è stato lo
storico Roland Bainton che sostenne l’idea secondo la quale i rivoluzionari inglesi difesero la propria posizione come
essa fosse una guerra santa, «crusade». i.e. G. BURGESS, Religious war and Constitutional Defence: Justification of
Resistance in English Puritan Thought, 1590-1643, in R.VON FRIEDEBURG (ed), Widerstandsrecht in der frühen
Neuzeit. Erträge und Perspektiven der Forschung im deutsch-britischen Vergleich, Berlin 2001, pp. 185, 198.
xx
Vd. A. AUBERT, P. SIMONCELLI, Profilo di Storia Moderna, Dalla formazione degli Stati nazionali alle
egemonie internazionali, Bari 2004, pp. 99-102. Il carattere politico del dibattito religioso inglese è già stato messo in
rilievo dalla storiografia della seconda metà del XX secolo. Fra i vari contributi è qui il caso di ricordare C. HILL, The
English Bible and the Seventeenth-century Revolution: Uses of the Bible in 17th-century England , London 1993 e cfr.
l’opera dello storico inglese e la letteratura a questi contemporanea in F. BENIGNO, Revisionismi a confronto, cit., pp.
15-16.
xxi
Vi è stato chi, invece, ha voluto riportare anche la guerra civile inglese nell’alveo delle guerre di religione
europee. Cfr. C. RUSSELL, The causes of the English War, London 1990, citato da Franco Benigno in F. BENIGNO,
Revisionismi a confronto, cit., p. 39; ed anche la versione di John Morrill della rivoluzione puritana come «England’s
last war of religion», menzionata in G. BURGESS, Religious war and Constitutional Defence, cit., pp. 185-206.
xxii
Il problema della comunità e del localismo è stato dibattuto nella storiografia sulla rivoluzione inglese. Vd. F.
BENIGNO, Revisionismi a confronto, cit., pp. 34, 40-42.
xxiii
Quando il dibattito si era già fatto sostenuto all’approssimarsi del giro di boa degli anni ’40 del Seicento,
anche la polemica da parte dei puritani si basò in molti punti su critiche religiose più che temporali. i.e. G. BURGESS,
Religious war and Constitutional Defence, cit., p. 188.
xxiv
Il passo cui si fa riferimento è quello nella traduzione inglese utilizzata da Hobbes nello studio degli umori
popolari cause della guerra civile: «E se qualcuno per orgoglio, rifiuterà d’obbedire al comando del prete che, in quel
tempo, amministrerà il culto dinanzi al Signore Dio tuo, quell’uomo verrà, per sentenza del giudice, messo a morte» i.e.
in THOMAS HOBBES, Behemoth, cit., p. 9.
xxv
Per l’uso delle Sacre Scritture nel dibattito pubblico inglese del Seicento vd. il fondamentale contributo di C.
HILL, The English Bible and the seventeenth century revolution, cit.
xxvi
C. HILL, The English Bible and the seventeenth century revolution, cit. p. 27.
xxvii
Un altro passo utile è Ezechiele 21:27, in cui il «Principe d’Israele» è costretto a deporre la propria corona
per l’ira del Signore che gli intima «Devastazione, Devastazione, io la compirò. Ed essa non sarà più restaurata, finché
non verrà colui a cui appartiene il giudizio e al quale io la darò.» Vd. C. HILL, The English Bible and the Seventeenth
century revolution, cit., p. 245.
xxviii
La casuistica, da casus, è un ragionamento basato sulle contingenze. Applicato alla morale, prevede un’etica
basata sul singolo caso; la casuistry (io la metterei in corsivo ma solo se è un termine tecnico) visse molti impieghi nella
Storia della filosofia morale, dai classici (Aristotele) fino alla storia più recente. Per quanto concerne la sua applicazione
alla dottrina puritana e le conseguenti implicazioni nelle vicende del discorso politico inglese cfr. G. BURGESS,
Religious war & constitutional Defence,, cit., pp. 186-189.
xxix
i.e. M. WALZER, The Revolutions of the Saints, cit., pp. 12, 25; è interessante notare come le diverse frange
religiose compartirono la medesima idea di essere un popolo eletto, «chosen nation and chosen people», i prescelti per
compiere il volere divino, dal quale si sentivano legittimati. Vd. C. HILL, The English Bible and the seventeenth
century revolution, cit.
xxx
L’organizzazione della chiesa presbiteriana, figlia della riforma calvinista, è basata sui concetti di sinodo e
comunità. Nucleo della chiesa presbiteriana è infatti l’anziano, presidente della comunità territoriale che lo ha eletto in
assemblea. Questo organismo partecipa ad assemblee regionali, a loro volta raccolti in sinodi, ovvero assemblee di
portata generale. Le chiese presbiteriane si videro sin dalla loro origine in antitesi con quelle episcopaliste ( io qui
metterei direttamente “episcopali” in quanto comunque, anche se non cattoliche, le diverse chiese trutturate
gerarchicamente fanno direttamente uso del termine vescovo/episcopo come capo direttivo della vita civile e religiosa
delle comunità) di matrice principalmente cattolica, che all’idea presbiteriana di assemblea oppongono quella di un
clero organizzato. Questa diversa accezione di chiesa avrà un ruolo di primo piano nei conflitti contro Carlo I ed il suo
entourage al quale i presbiteriani, in particolar modo gli scozzesi, criticarono proprio le derive nel senso di una
gerarchia “papista”.
xxxi
M. WALZER, The Revolution of the Saints, cit., p. 12.
xxxii
Il confronto ecclesiologico fra le principali chiese moderne, cattolica, luterana e calvinista, meriterebbe un
discorso a parte. Brevemente, come si è evidenziato già nel testo, la chiesa cattolica, contrariamente alle due riformate,
propugnava il disprezzo per le cose del mondo. Il pensiero politico calvinista – che si risolverà in esperimenti teocratici
– è al contrario basato sull’azione mondana della comunità e prevede un connubio fra cosa pubblica e parola divina
fuori dall’etichetta della morale. Vd. M. WALZER, The Revolution of the Saints, cit. In una frase, ecco l’importanza del
calvinismo per le vicende politiche inglesi: «Whereas the secular order could only repress nature, religion could
transform it» in Ibidem p. 47.
xxxiii
Queste tensioni saranno poi condannate da Hobbes nella persona delle sette millenariste. L’Inghilterra del
primo Seicento vide infatti una forte diffusione di queste frange religiose, che divennero capillari sul territorio e si
fecero megafono non solo di eresie ecclesiologiche ma anche di idee politiche eterodosse. Nominalmente, questo è
l’elenco dei «nemici che insorsero contro Sua Maestà, partendo dall’interpretazione privata della Scritture», fornito da
Hobbes nel primo dialogo del Behemoth: a) Presbiteriani, «ministri di Cristo» e pastori nelle proprie parrocchie; b)
Papisti, fautori del potere temporale del trono di Pietro; c) Indipendenti, sostenitori di un radicale pluralismo
confessionale; d) Anabattisti, che rinnegavano il battesimo degli infanti; e) Quintomonarchisti, setta di vera ispirazione
chiliastica che viveva in attesa della venuta del regno di Cristo; f) Altre sette di minori dimensioni come quaccheri ed
adamiti. i.e. THOMAS HOBBES, Behemoth, cit., p. 7.
xxxiv
THOMAS HOBBES, Behemoth, cit., p. 83.
xxxv
Fra gli esempi di questa tendenza è certamente da prendere in considerazione l’annuncio del millenarista
John Canne, che nel 1655, predisse «great changes and revolutions, in respect both of persons and things» nel momento
in cui il Signore sarebbe finalmente apparso «shaking the earth and overthrowing the thrones of kingdoms everywhere
in Europe», citato in C. HILL, The Word ‘Revolution’, cit., p. 91.
xxxvi
La citazione è dal futuro arcivescovo di Canterbury; WILLIAM SANCROFT, Modern policies taken from
Machiavel, Borgia and other choice authors, London 1653, citato in I. RACHUM, The meaning of Revolution in the
English Revolution, cit., p. 204, ma altri esempi possono essere tratti, come per citarne uno che va in senso opposto
(auspicando una svolta laica degli eventi politici), l’augurio dello scienziato Boyle di una «revolution, whereby Divinity
will be a loser and real Philosophy flourish», citato da Christopher Hill in C. HILL, The Word ‘Revolution’, cit., p. 89.
xxxvii
THOMAS HOBBES, Behemoth, cit., p. 13.
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