Caotico, colorato, abbastanza elegante, abbastanza pretenzioso. Un matrimonio come tutti, che si sa, tutti vogliono il matrimonio migliore. Facendo finta di averlo buttato lì, chetantosiamogiovani, e invece ci spendono soldi su soldi, sputando sangue e bile su ogni inutile dettaglio. Dettagli che tra l'altro ricorderanno solo loro, gli sposi, mentre invece gli invitati si concentreranno su due cose: gli alcolici e i superalcolici. Lei comunque non era interessata a niente. Né agli addobbi, né agli invitati, né al cibo, né all'alcol. Quindi, passeggiava solitaria per il giardino della villa. Teneva in mano un bicchiere lungo e stretto, al suo interno, un vino bianco e ghiacciato, adatto all' afosa serata estiva. Si era allontanata dal gruppo degli amici, aveva sentito un odore, aveva sentito degli odori, e li aveva seguiti. Via dalle canzoni sciocche, via dai giochi puerili, via dalla cacofonia di suoni. Voleva quell'odore di gelsomino, quel profumo speciale che le ricordava la sua infanzia, il giardino di sua madre. Nessuno l'aveva fermata, erano tutti troppo occupati, o forse semplicemente avevano deciso che fosse meglio lasciarla sola. Diede le spalle alla band, al matrimonio, agli amici. Si inoltrò nel giardino fitto di cespugli e alberi e piante odorosi fino a quando un piccolo sentiero non la buttò davanti ad un lago. Un piccolo lago, ovviamente, ma un lago. Niente papere, per fortuna. Le avrebbe odiate. Avrebbe odiato il padrone della villa e probabilmente anche la sposa. Indossava un paio di sandali alla schiava allacciati fin sotto al ginocchio. Appoggiò il bicchiere sull'erba morbida e cominciò a slacciarli, lentamente, per poi finire seduta sul prato fresco, gambe distese davanti a sé. Inspirò gli odori, buttò indietro la testa e lo sentì. Sentì la presenza. C'era qualcuno. Prima ancora che potesse spaventarsi, dal sentiero comparve un ragazzo più o meno della sua età. Lo sguardo vagamente divertito, mani dentro le tasche del costoso completo nero. Lei non cambiò posizione. Non perchè non volesse. Ma non riusciva. Continuava a fissarlo, lo sguardo passava dagli occhi, alla curva della mascella, al collo, al passo lentissimo. Arrivò vicino a lei, le si accovacciò vicino, molto vicino. Mise il naso dentro i suoi capelli. <Hai ragione, c'è un odore meraviglioso qui> Lei non proferì parola. Lui continuava a starle troppo vicino. Ma lei si accorse di essere stranamente calma, come drogata. Guardò il bicchiere, non aveva bevuto poi così tanto...eppure...scrollò la testa e gli chiese il nome <D> <D non è un nome, è una lettera> <Ti assicuro che è anche un nome, esattamente come il tuo, Misia> <Sai il mio nome..> <Si, so il tuo nome> Lei non gli chiese perchè, lui non glielo disse. Stettero lì per moltissimo tempo. A volte parlavano, a volte no. Quando cominciò a salire l'umido della campagna dalla terra e dal laghetto, lui si alzò con un movimento fluido, che sapeva di muscoli agili e allenati. Le porse una mano, disse andiamo, disse ti accompagno. Non salutarono nessuno, ma di questo lei non si preoccupò. La macchina era una berlina tedesca nera. Lucida e ordinata e profumata di pelle. Cominciò a guidare velocemente per la campagna, l'ampia mano destra appoggiata alla gamba di lei. Se doveva cambiare marcia, allora staccava la mano sinistra dal volante bloccandolo col ginocchio senza mollare la presa dalla coscia della ragazza, che in altre circostanze non avrebbe permesso tutto questo ma...ma con lui...con D..era diverso. Fermò la macchina davanti alla casa di Misia, una villa a schiera in periferia. Le disse solo ciao, le disse stai attenta, non le spiegò a cosa. Gli disse ciao, e lui era già sparito dietro la curva. Sentiva ancora il calore della sua mano sulla coscia. Sorrise. E poi il sorriso si gelò sul bel volto. Non gli aveva mai detto dove abitava. Telefonò a tutti. Tutti quelli che conosceva. Nessuno aveva notato il ragazzo vestito di nero. Rinunciò. Forse gli aveva detto dove abitava ma non lo ricordava. Doveva essere andata così. Passarono i giorni e le settimane. Arrivò l'autunno e poi l'inverno. Un inverno così gelato, così freddo, così bianco, che le metteva addosso una tristezza cupa. L'inverno la vedeva spegnersi. L'inverno era la sua kriptonite. Camminava per le vie del centro storico, sacramentando tra sé e sé per il freddo e la paura di scivolare. Col bavero alzato e una mano a trattenere i ciuffi di capelli ribelli che, andando davanti agli occhi, rischiavano di farla cadere. Riusciva, per fortuna, già a vedere la sua auto, tirò un sospiro di sollievo. Accellerò il passo. Da dietro un palazzo due ragazzi venivano verso di lei. Le tagliarono la strada, la spintonarono, la tennero, le misero una mano in mezzo alle gambe, sghignazzarono, palparono, puzzavano di alcol scadente e di sigarette. Non osò urlare. Un ringhio basso e profondo immobilizzò la scena. Come col tasto PAUSA. In mezzo al ghiaccio ed in mezzo alla strada, un cane dalle dimensioni enormi. Nero come la notte. I denti scoperti. Le orecchie basse. La testa china. Il ringhio, un brontolio sommesso, continuava. <Ehi bello....vieni qui...vieni a divertirti con noi!> Il ringhio del cane si fece più deciso. Fece svariati passi avanti. Più si avvicinava, più le sue dimensioni diventavano mostruose. <......andiamo, dai> Fece uno dei due. <Quel cane pulcioso aspetterà il suo turno, perdio!> <Non ha l'aria di voler aspettare, andiamo, dai, ti prego> <Dannazione!! Va bene, andiamo. Ragazzina, non sei di nostro gradimento, vai a casa, stronza> Se ne andarono spingendola e facendola cadere sul ghiaccio. Si allontanarono a passo svelto. Il cane, intanto, pareva seguirli con lo sguardo. Lei era terrorizzata, ma lui aveva smesso di produrre quel suono terribile. Intanto, lentamente, si avvicinava. Lei non muoveva un muscolo. Ancora per terra, sull'asfalto gelato, pregava che non la mordesse, o peggio, dilaniasse. Pensava alle malattie trasmissibili, pensava a come sarebbe stato morire così. Non era un cane, era qualcosa di diverso, qualcosa di più simile ad un lupo, o forse, proprio un lupo. Ma del lupo non aveva gli occhi. Questa...questa cosa aveva occhi neri e intelligenti. Ora, a pochi centimetri da lei, strofinò il muso dentro i suoi capelli, e uggiolò. Spostò il muso e lo mise sotto l'ascella di lei, facendo forza per alzarla. Quando fu poi in piedi, la guardò a lungo, e produsse un lungo, altissimo ululato. Poi corse via, nelle strade del centro storico, lupo in mezzo agli umani, nero in mezzo al bianco dell'inverno. Un giorno, lo rivide. Per la verità le sembrava di averlo visto anche altre volte. No, non il lupo, D. In mezzo alla gente, o in fila al cinema, e spesso quando era in difficoltà o triste. Ovviamente era suggestione, perchè quando girava la testa di scatto per accertarsi della sua presenza, lui non c'era più. Ma quel giorno, invece, lo vide. Lo vide perchè era seduto davanti a casa sua. <Ciao, Misia> <Entra> Lo fece entrare in casa, e la casa le sembrò piccolissima. La sera del matrimonio un po' il vino un po' la stanchezza non le avevano fatto considerare fino in fondo D. Adesso poteva guardarlo bene, mentre beveva il suo caffè. Doveva essere più alto di lei di almeno venti centimetri, aveva tratti forti, scolpiti come nella roccia. Occhi brillanti che non perdevano un che di sardonico. Un collo possente e forte. Mani grandi e delicate al tempo stesso. Un petto ampio e un ventre piatto. Le gambe le parvero muscolose e sicure. Lei, che era così fissata con gli odori, non sentì niente. Niente di stucchevole, niente profumi di marca, niente effluvi costosi. Solo aria e buono e uomo. Sentì un fremito lungo la spina dorsale. “Calmati, che ti prende?” - pensò. Lui si alzò dal divano con la stessa fluidità di sempre. Andò davanti a lei, il petto contro il suo seno. La mano destra ad alzarle il mento. La bocca a ghermire la sua. Lei provò a fare un vago gesto di dissenso, provò a spingere la mano contro il suo petto, come ad allontanarlo. Lui le prese i polsi con una mano sola, glieli bloccò dietro la schiena e con la mano libera le strappò la camicia che indossava. Le strappò il reggiseno, e la guardò. Non fece niente, se non guardarla. Le sfuggì un gemito. Quegli occhi...quegli occhi. Scosse la testa “Devo tornare in me” ma non riusciva, le sue erano solo vuote parole dentro la mente. La bocca di lui, così perfetta e carnosa e morbida, lambì i suoi capezzoli, prima uno, poi l'altro. Studiatamente, con lentezza. La mano, che ora accarezzava il seno che non era occupato dalla bocca. La mano che scendeva verso i jeans, che li sbottonava, che li faceva scendere. Il viso verso il suo, lo sguardo come a chiedere ma anche a pretendere. <Posso lasciarti?> Fece solo sì con la testa, chiudendo gli occhi. Le lasciò i polsi, che ora erano vagamente doloranti. Le abbassò ancora i jeans, le baciò le ginocchia, l'interno coscia, e lei, senza volerlo, muoveva il bacino verso di lui. Le baciò il ventre attraverso gli slip neri. Lei sentì il tessuto bagnarsi, improvvisamente. Era troppo, ogni muscolo fremeva, ogni organo impazziva, ogni senso era all'erta. Sentiva il suo odore, così maschio e così potente. Sentiva le sue mani addosso, sentiva i suoi pensieri, sentiva il suo desiderio e la sua eccitazione come fosse la propria. D. si alzò, si tolse la camicia nera, i pantaloni neri e la biancheria. Rimase nudo e perfetto davanti a lei, un'erezione potente a sfidare il silenzio della casa rotto solo dal respiro sommesso di Misia. Tornò ad abbassarsi davanti alle sue gambe, passò un dito dentro e poi attorno, il pollice a stuzzicare la carne tenera. Lei gli arpionò le spalle, graffiò e mugolò e si inarcò. In piedi, ancora una volta, lui prese i capelli di lei e li arrotolò attorno alle dita. Strappò e le fece gettare la testa all'indietro. Il respiro adesso ferocemente animale, i movimenti immensamente meno fluidi, i gesti meno carezzevoli. Le respirava addosso, le premeva il membro contro la pancia, le mordeva il seno e le spalle e il collo fino a quando lei credette di morire. Si tolse le mutandine con un unico gesto, si aggrappò ancora lui, che la impalò al muro una, due, tre volte. Gridò e disse basta disse ancora disse chi sei disse cosa vuoi ripetè quell'unica lettera che formava il suo nome e ancora lui si muoveva feroce dentro di lei strappandole urla di piacere ma anche di dolore e di sgomento e, alla fine, di un orgasmo così profondo, così antico, così animale, che ne ebbe paura. E nello stesso momento sentì il liquido di lui al suo interno, lo sentì perdere le forze, lo sentì trascinarla al suolo insieme a lui, lo sentì sussurrare MisiaMisiaMisiamisiamisiamisia dentro al suo orecchio e poi restare dentro di lei, fino all'ultimo e oltre e senza volerlo, senza poterlo controllare, lei ebbe un secondo potente orgasmo e un terzo. Venne squassata e scossa alle fondamenta del suo essere. Venne lasciata ansimante e tremante e sudata al fianco di lui. Cominciarono a vedersi, a frequentarsi. Cinema, caffè, ristoranti. Non si fermò mai a dormire da lei, né le propose mai di fermarsi a casa sua. La salutava spesso frettolosamente, come fremendo, già con la testa altrove. Non sapeva molto di lui, se non che non aveva famiglia e pochissimi, fidati amici. Non voleva forzarlo, ma un poco le dispiaceva questo riserbo, avrebbe voluto sapere tutto, ogni cosa. Da chi aveva preso quei profondi occhi neri, quel sorriso storto, quel modo di camminare silenzioso. Ogni volta la magia si rinnovava, tra le sue braccia. Non smetteva di stupirsi della sua forza che diventava dolcezza improvvisamente. O, al contrario, come riusciva a trasformarsi in abile predatore, quasi davvero spaventoso, dopo averla annusata dietro l’orecchio. Una notte rischiò di essere investita, andava di fretta, non attraversò sulle strisce pedonali e una macchina non riuscì a frenare in tempo. Pensò di stare per morire. Pensò a D. Poi una forza d’urto incredibile la buttò per terra e la fece rotolare lontana dalla strada e lontana dalla macchina, che continuò la sua corsa suonando il clacson come impazzita. Le costole le facevano un male del diavolo, il respiro, con l’urto, le si era mozzato in gola. Tenendosi una mano sotto il seno per tentare di arginare il dolore, si mise in ginocchio. Ed eccolo lì, a pochi passi da lei, il grosso lupo nero. Con i suoi occhi scuri, il suo passo leggero, il pelo morbido e folto. Lei, seppur spaventata, allungò una mano verso di lui, palmo in alto. La bestia si avvicinò, scartò la mano, avvicinò il muso contro il suo viso e spinse. La spinta non era propriamente amichevole, come non lo era il ringhio sordo che salì dalla sua gola. Sembrava una specie di…rimprovero. <Va bene, va bene, non avrei dovuto attraversare così, alla cieca. Ma non dovrei nemmeno parlare con te, a dire la verità. Grazie..grazie del soccorso, ti devo molto, ma adesso và…và via..non credo che la città sia il tuo posto, che ci fai ancora qui?> Lui indietreggiò, la guardò ancora negli occhi e le voltò le spalle, trotterellando da dove era venuto, il pelo nero luccicante, la coda ampia, le zampe enormi e sicure. Lei scrollò il capo. <Un lupo mi segue> <Un lupo ti segue?> <Si, è quello che ho detto!> <Misia, siamo in città, i lupi non ci sono> Sono abbracciati e ancora nudi, leggermente sudati, vagamente ansimanti entrambi. Misia ha deciso di parlargliene, ha bisogno di parlarne con qualcuno, o diventerà pazza. <D…per favore> <Va bene, racconta> E Misia gli racconta del tentativo di violenza e del quasi-incidente. Lui intanto le carezza i capelli e le tempie. Sposta la punta delle dita sulla gola, e poi sul profilo del seno. <D..per favore, resta concentrato> <Sono. Concentratissimo.Credimi. Parlavi del lupo, ma forse è solo un cane molto ben addestrato, dai, non farti paranoie che non esistono, rilassati e la prossima volta che lo vedi offrigli una scatoletta> <Non sei divertente, sto per incazzarmi, ascoltami santo cielo!> <Ti ascolto Misia, ma è senza senso. Senza-alcun-senso. Siamo in città e non ci sono lupi. Sarebbe una specie di fine del mondo, una cosa mai vista, pericolosissima. E anche tu saresti in pericolo> <Non è un lupo qualsiasi. E’ enorme e ha uno sguardo…adesso che lo dico ad alta voce mi rendo conto che suona ridicolo ma…ha uno sguardo umano, ok?> <Un lupo enorme dallo sguardo umano> Si riveste, la guarda dall’alto, lei ancora sul letto, le fa una carezza e le dice ci sentiamo domani. <Rimani> <Misia..> <Rimani D.> <Misia..non posso, non stasera> <Non stasera ma nemmeno in questi 3 mesi D..perchè? Perché non puoi dormire con me? Perché non vuoi rimanere? Hai una moglie a casa? Dimmelo, non me la prenderò, reagirò bene, te lo giuro, nessuna scenata> <Hai visto casa mia, ci abito solo io, dunque non dire sciocchezze per l’amor del cielo. Non posso rimanere, stop. Ci sentiamo domani, d’accordo?> Lei non gli risponde, gli volta anzi le spalle. Sente la porta di casa chiudersi, le sfugge un singhiozzo. Ha esagerato forse, ma è davvero molto frustrata e stanca. Le sembra di giocare ad un gioco da tavolo da sola. Giocare da soli non è molto divertente. O si perde sempre, o si vince sempre. Si sente decisamente perdente. Alza di scatto la testa dal cuscino, si butta giù dal letto, sotto la doccia, si mette abiti comodi, pantaloni cargo, anfibi militari, una giacca a vento. Si mette in macchina e guida ad una velocità folle, attraversa la città, arriva a casa di D., vede le luci accese, attende un poco e le vede spegnersi. Mette in moto l’auto, la nasconde dietro una seconda macchina, lo vede scendere, aprire il portone, chiuderselo alle spalle. Si guarda intorno, sale in auto, parte nel buio della notte e lei deve accellerare al massimo, a tavoletta, per stare dietro alla grossa berlina nera. Si lasciano alle spalle il centro storico, le luci, i palazzi antichi e curati e ristrutturati, imboccano la tangenziale e viaggiano per circa 30-40 minuti. Lei sbadiglia, cerca di tenere la concentrazione alta, alza la musica al massimo, canta urlando per tenersi sveglia. “Dove sta andando, da chi?” Ha visto troppe puntate di CSI e pensa a loschi traffici, pensa alla droga, pensa anche ad una doppia identità, una specie di agente segreto. All’improvviso D. scarta a destra e imbocca una ripida salita che, allontanandosi da strade e città, si perde dentro ad un bosco fittissimo. <Ma dove va? Dove??> Misia ha paura, i peli sulle braccia si rizzano, odia il buio, odia i boschi, odia non sapere cosa le accadrà. E’ vero che non sa niente di D. e adesso si sente una pazza, ad averlo seguito. <Mi ha vista e adesso mi taglia a pezzi> Appena lo dice ad alta voce, se ne vergogna. Il suo D, col suo respiro caldo, le sue mani forti e gentili, quelle mani che la fanno godere e ansimare e gemere. Quelle mani che non l’hanno mai delusa una volta e quegli occhi buoni e misteriosi. No, D non le farebbe mai del male. Tira un profondo sospiro, stringe gli occhi e serra entrambe le mani sul volante. Deve tenere molta distanza, adesso. La berlina nera decelera. Si ferma. Lei fa lo stesso, a circa un km da lui. Lascia la sua auto sotto agli alberi e velocemente cerca di raggiungerlo. Lo vede camminare pugni stretti e sguardo fisso. Guardare in alto. E, lentamente, spogliarsi. Trattiene il fiato. Pensa a qualche rito magico. Una setta. Una setta! Dio…dov’è capitata??? Vuole scappare, ma non riesce. La luce della luna illumina il corpo dell’uomo che ama. Cade la camicia, cadono i pantaloni. Rimane solo lui, nudo e perfetto e statuario. Lei si sente invadere dal caldo, una lenta, lunga onda calda che parte dalla base della spina dorsale, arriva alla gola, ridiscende fino al pube. Stringe le gambe, si impone la calma, si accuccia e attende. Deve mettere a fuoco la scena, perché lo sguardo è velato dalle lacrime. Il suo uomo, l’unico uomo che lei abbia veramente amato, sta perdendo, lentamente, i suoi connotati umani. Il bel viso si allunga, la barba cresce. Gli arti si contorcono e diventano zampe dalle lunghe e terribili unghie. La schiena si inarca, le orecchie si fanno aguzze. Non sa dire quanto tempo sia passato, se minuti o ore. Il grosso lupo si volta indietro. Senza indugi, una zampa dietro l’altra, va verso di lei. I grandi occhi che paiono tristi. Ed ora, ormai vicino, affonda il muso dentro i capelli di lei, uggiolando.