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INCONTRO DI FORMAZIONE PERMANENTE
CON GLI INSEGNANTI DI RELIGIONE CATTOLICA
Sala “S. Francesco di Sales” - TLS, 10 settembre 2001
Meditazione di Mons. Vescovo
1) Saluto i docenti di religione cattolica (d’ora in poi: RC) presenti e ringrazio l’Ufficio di
Pastorale scolastica della Diocesi per questo incontro, ormai tradizionale, d’inizio anno
scolastico.
2) Entro subito - come si dice - in medias res, ponendo la domanda fondamentale: cosa ci si
attende dall’insegnante di RC?
2.1 Innanzitutto, che corrisponda alla figura umana e professionale richiesta dal ministero.
2.2 Due possibili semplificazioni: l’immagine solo intellettuale dell’insegnante di RC
oppure, e credo sia più usuale, l’insegnante di RC che s’identifica con la chitarra (con tutte
le possibili varianti) o che si limita al commento dell’ultimo fatto di cronaca o che dà più
spazio alle attività collaterali che al suo compito primario di docente.
2.3 Inoltre l’insegnante di RC deve avere un supplemento di umanità rispetto agli altri
docenti.
2.4 Deve essere una persona di profonda fede.
2.5 Deve essere capace di esprimere la sua fede anche sul piano culturale.
2.6 Deve essere in grado di legittimare la sua docenza - giorno dopo giorno - tanto di
fronte agli alunni quanto, innanzitutto, ai colleghi delle altre discipline.
3) Ciò su cui voglio insistere è che l’insegnante di RC, prima di tutto, deve essere in grado
di assolvere il suo compito specifico, ossia quello di docente che ha un insegnamento da
proporre.
3.1 Se vado da un medico, desidero che mi curi con le competenze necessarie e non che mi
commenti l’ultimo fatto di cronaca; se vado da un avvocato, non voglio che mi dia un po’
di solidarietà, ma che affronti quel problema di diritto amministrativo, civile, penale che
devo affrontare. Non dico che la solidarietà e lo scambio di opinioni non siano auspicabili
ma, innanzitutto, mi rivolgo al medico e all’avvocato perché mi aiutino in quanto medico e
in quanto avvocato.
3.2 Però, nello stesso tempo, aggiungo che l’insegnante di RC è chiamato anche a saper
commentare - oserei dire meglio degli altri - i fatti di cronaca, non tirandosi indietro; ed è
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pure chiamato, meglio degli altri, proprio perché insegnante di RC, a dar conforto,
solidarietà, amicizia, vicinanza ai singoli come all’intera scolaresca.
3.3 E’ bene, anche, che l’insegnante di RC si renda presente e sia in grado di mediare là
dove altri insegnanti si chiamano fuori, pensando di non dover intervenire.
4) Ritengo che per l’insegnante di RC sia vitale riuscire a legittimare di fronte ai colleghi e
agli studenti la propria docenza; quindi alla luce di quanto richiede l’allegato n. 2 della
Circolare n. 2191/2010/IRC, desidero riflettere con voi sulla dignità scientifica della
cattedra di RC dinanzi alle altre cattedre. Non si tratta di qualcosa da dare per scontato
una volta per sempre. Inoltre l’insegnante di RC deve sapersi muovere bene tra lo
specifico delle conoscenze, delle abilità e delle competenze con le loro specificità.
5) Alcuni atteggiamenti di superiorità da parte di colleghi di altre discipline non
dipendono dalle incapacità personali dell’insegnante di RC, ma dal fatto che essi non
riconoscono la dignità scientifica dell’insegnamento della RC.
6) A tale proposito rimando all’apologo, posto come premessa al notissimo testo di
teologia fondamentale Introduzione al cristianesimo; l’autore era l’allora professore Josef
Ratzinger; rimando anche al discorso tenuto a Regensburg da Benedetto XVI, agli uomini
di scienza, il 12 settembre 2006 (cfr. Introduzione al cristianesimo, cap. I, pp. 11,12, cfr. anche
Discorso di Benedetto XVI, Incontro con i rappresentanti della scienza, Regensburg, 12
settembre 2006).
7) E’ importante che l’insegnante di RC, nell’attuale contesto - relativista, multietnico e
multiculturale, multireligioso -, sappia dare risposte a chi, culturalmente, pone domande
sulla religione, su Dio, sul valore e i limiti del sapere scientifico.
7.1 Proprio in questo senso ho accennato alla “riduzione” che può subire la figura
dell’insegnante di RC. Le doti umane sono, ovviamente, necessarie ma non ancora
sufficienti se mancano le proposte culturali. L’insegnante di RC deve farsi apprezzare per
competenza, vivacità, originalità e, anche, per la capacità di “cantare” fuori dal coro,
quando è necessario e con educazione, misura e rispetto di tutto e di tutti, (ad esempio, su
temi come: ecologia naturalistica, biocentrismo ed ecologia umana). Cantare fuori dal coro
- fare il solista - è sempre rischioso e, per non fare brutta figura, si deve saper cantare bene.
8) L’insegnante di RC fa parte del corpo docente di una scuola, quindi, è un professore
tra gli altri che ha un suo specifico ambito scientifico d’insegnamento; bisogna che non
perda di vista questo punto di partenza al quale, poi, deve aggiungersi quel supplemento
di umanità che lo deve caratterizzare come insegnante di RC.
8.1 Ovviamente, essere insegnante di RC vuol dire trattare, in modo pertinente e preciso,
questioni riguardanti la religione cattolica, innanzitutto, Dio (trinità e cristologia) - sfera
teologica -, si dà poi la questione di Dio e il male nel mondo - si può ancora parlare di Dio
dopo Auschwitz? -; segue la trattazione sull’uomo - questione antropologica - e, ancora,
fede e ragione, storia del cristianesimo e dottrina sociale della Chiesa; infine questioni che
si situano all’interno di questi grandi “temi” appena indicati.
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8.2 Religione, filosofia, scienza: l’insegnante di RC deve innanzitutto ragionare con
competenza e autorevolezza su tali questioni; da qui il dovere di presentare il
cristianesimo non in maniera fideistica o risposta consolatoria, neppure come pura
solidarietà umana per cui - alla fine - ci si domanda, con ragione, che senso abbia il
riferimento a Dio o a Gesù Cristo.
9) Prendiamo ora in esame il rapporto religione-filosofia.
9.1 Religione e filosofia trattano degli stessi argomenti ma partendo da prospettive
diverse.
9.2 E’ quindi facile che fra religione e filosofia si diano sovrapposizioni, talvolta conflitti e,
anche, veri e propri contrasti.
9.3.1 Così, per un verso, la filosofia può dissolvere la religione; concretamente
l’insegnante di RC può trovarsi di fronte un docente di filosofia che ha sposato la
posizione kantiana per cui la religione sarebbe semplicemente una “forma imperfetta di
moralità” o, come sostiene Hegel, una “filosofia inadeguata” oppure, ancora, con
Schopenhauer una “metafisica per il popolo”.
9.3.2 Le posizioni appena richiamate sono, alla fine, differenti forme d’“intellettualismo”
(gnosi), per cui il culmine dell’attività della persona non è la religione, ma la filosofia; così
la religione va bene per chi non è in grado d’innalzarsi fino alle vette del vero sapere,
quello filosofico.
9.3.3 L’espressione massima di tale intellettualismo (gnosi) è rappresentata dalla filosofia
hegeliana. Infatti, Hegel, nella sua Filosofia della religione così si esprime: «La religione è
per tutti gli uomini; non è come la filosofia che non è per tutti gli uomini. La religione è il
modo mediante il quale tutti gli uomini divengono coscienti della verità e vi si giunge
soprattutto col sentimento, la rappresentazione e il pensiero intellettuale».
9.4.1 In senso inverso sarebbe la fede a essere superiore e, quindi, inconciliabile con la
ragione; si tratta della posizione fideista.
9.4.2 Per cui le verità che San Tommaso chiama “soprarazionali” e che il beato cardinal
John Henry Newman chiama “non-razionali” ma ragionevoli, secondo la soluzione
fideistica diventano irrazionali, assurde.
9.5.1. Sia la posizione degli intellettualisti, sia quella dei fideisti, si elidono a vicenda; la
prima nega ogni legittimazione alla religione; la seconda rifiuta il valore e la realtà del
sapere filosofico.
9.5.2 Per non fermarsi al muro contro muro, che non porta da nessuna parte, è necessario
riconoscere la distinzione e la complementarietà che esiste tra religione e filosofia. La
questione, alla fine, dipende dalla risposta che è data alla domanda: quale rapporto esiste
tra ragione e fede? Facendo notare che ogni sapere filosofico, alla fine, muove da
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presupposti, come anche ogni teoria scientifica parte da differenti postulati; oltre alla
geometria euclidea, che ha i suoi postulati, esistono anche le geometrie non-euclidee.
Ricordo qui il nome di Saccheri (inizio settecento) e le geometrie non euclidee di Nicolaj
Ivanovic Lobacevskij (1792-1856) o di Georg Friedrich Bernhard Riemann (1826-1866).
9.5.3 Certamente la filosofia procede per concetti, e per questo è molto vicino al sapere
scientifico, mentre la religione si serve anche del linguaggio allegorico e si esprime
attraverso simboli, seppure i simboli e le allegorie sono espressioni della razionalità
umana. Basta ricordare come all’inizio il mito non fosse sinonimo d’irrazionalità, ma un
modo diverso d’esprimere la razionalità umana (Odissea, Telemaco).
9.5.4 Il punto è che la differenza tra filosofia e religione non è sinonimo d’incompatibilità
ma, al contrario, come già detto, di complementarietà. In tal modo la filosofia impedisce
alla religione di cadere nel fideismo mentre la religione aiuta la ragione a rimanere se
stessa, ossia espressione di un pensiero che non si pone come realtà assoluta e, in se stesso,
criterio di verità (razionalismo).
9.5.5 Pascal sintetizza il tema “ragione e fede” o “ragione e religione” nel pensiero
diventato celebre: «L’ultimo passo della ragione è riconoscere che esiste un’infinità di cose
che la oltrepassano» (Blaise Pascal, Pensieri, n. 267). Così Pascal, che oltre ad essere filosofo
era anche scienziato, ci ricorda che il Dio dei filosofi rimanda al Dio della religione.
9.6.1 Pascal, inoltre, sottolinea con forza che il vero incontro con Dio avviene nella
religione, non nella filosofia o nella scienza; in proposito basta ricordare l’esperienza
mistica da lui avuta il 23 novembre 1654, al termine della quale esclama: «Dio d’Abramo,
Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe: non il Dio dei filosofi e degli scienziati». Tale affermazione
va intesa, però, nella sua forma iperbolica che vuol mettere in guardia da un uso a volte
eccessivo e unilaterale della ragione.
9.6.2 Non bisogna infatti dimenticare che tutta la tradizione cattolica - dall’Antico
Testamento sino all’enciclica di Giovanni Paolo II Fides et ratio - a proposito di Dio non ha
mai considerato alternativi fra loro il pensiero religioso e quello filosofico; il Dio della
religione e il Dio dei filosofi non si sono mai esclusi a vicenda.
9.6.2 Il testo scritturistico principale con cui si deve confrontare ogni affermazione sul
rapporto ragione e fede, lo troviamo nel libro dell’Esodo in cui Dio si rivolge a Mosè: «“Io
sono colui che sono!”. E aggiunse: “Così dirai agli Israeliti:... il Signore, Dio dei vostri
padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi. Questo è il
mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in
generazione”» (Es 3, 14-15).
9.6.3 E’ da notare come in questo passo biblico sia presente la definizione filosofica di Dio
“io sono colui che sono” unita, nello stesso tempo, alla predicazione religiosa in cui si
annuncia Dio che salva il suo popolo: «Così dirai agli Israeliti».
9.6.4 Questo passo biblico - assunto dalla tradizione patristica e scolastica come
fondamento della filosofia dell’essere - mostra, con chiarezza, che la rivelazione cristiana
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presuppone una metafisica; quindi afferma che ragione e fede sono fra loro strettamente
uniti, cioè non si escludono, non si annullano l’una nell’altra, ma piuttosto si completano
reciprocamente.
10) Rimando, qui, alla lettura, meglio, allo studio dell’enciclica Fides et ratio, che parla di
fede e ragione come di due ali attraverso le quali è possibile innalzarsi fino a Dio, perché il
Dio della ragione è anche il Dio della salvezza e il Dio della fede sostiene e compie il
cammino della ragione. Platone nel Fedone, di fronte alle difficoltà che la ragione trova nel
rispondere alle grandi domande dell’uomo, propone l’aiuto di una rivelazione divina;
certamente Platone non può essere sospettato d’indebita ingerenza della fede nei confronti
della ragione.
11) A questo punto bisognerebbe trattare di quello che oggi viene denominato pensiero
debole in rapporto alla religione in genere e al tema di Dio in specie; ci limitiamo, però,
per questioni di tempo, a indicare solo la strada che si apre innanzi a noi.
12) Prendiamo ora in esame il rapporto religione-scienza.
12.1 Il sapere scientifico si è affermato nell’epoca moderna come conoscenza rigorosa dei
fenomeni naturali considerati nei loro rapporti costanti e misurabili; tale conoscenza si
fonda sulla ragione e sull’esperienza e tende a fornire una spiegazione che ha la pretesa
d’essere universale e ha come modello la geometria.
12.2 La modernità rimane fedele a questa concezione “assolutistica” della scienza.
12.3 Non da oggi, però, tale concezione assolutistica della scienza è stata superata e
proprio in ambito scientifico. Attualmente alle leggi scientifiche non si attribuisce più un
valore assoluto, ma un valore ipotetico, parziale, pratico, probabile, provvisorio.
12.4 Il sapere scientifico, inoltre, si caratterizza per una doppia parzialità.
12.5 Innanzitutto per la “parzialità quantitativa”: a un modello scientifico, infatti, ne
succede un altro; al sistema tolemaico (geocentrico) succede quello copernicano
(eliocentrico). Il sistema tolemaico non era una verità scientifica di tipo assoluto, infatti gli
è subentrato il modello copernicano che, a sua volta, non può vantare validità assoluta, ma
solamente un grado superiore di probabilità.
12.6 Poi si dà anche la “parzialità qualitativa” che non riguarda ciò che la scienza non ha
ancora detto, ma che un giorno potrà dire attraverso un nuovo modello, tramite il quale
sarà possibile giungere un grado superiore di probabilità. La “parzialità qualitativa”,
infatti, è più rilevante perché esprime un limite strutturale del sapere scientifico, ossia un
limite invalicabile; la scienza - questo è il punto - non si occupa della realtà profonda ma di
quella superficiale, vale a dire dei fenomeni.
12.7 La “parzialità qualitativa” comporta che scienza e tecnica - la tecnica è figlia della
scienza - possono cambiare il mondo, ma mai potranno rispondere alla domanda sul bene
e sul male, su che cosa sia il bene e il male oppure sul fine delle cose.
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12.8 Karl Jaspers, nel libro: La bomba atomica e il destino dell’uomo, sottolinea come la
scienza sia incapace a decidere sui fini.
12.9 Lo scienziato, infatti, elabora un sapere che mira al raggiungimento della verità, ma il
tipo di verità proprio della scienza (o delle scienze) è tanto più rigoroso, quanto risulta più
parziale e definito l’ambito della sua ricerca; al contrario, il sapere filosofico, per
definizione, si pone come sapere assoluto e non mira a una parte della realtà ma a tutta la
realtà, ossia all’essere.
12.10 Il grande matematico e filoso francese Henry Bergson scrive: «abbiamo soltanto
domandato alla scienza di restare scientifica, di non avvolgersi in una metafisica
incosciente che si presenta agli ignoranti o ai semidotti, sotto la maschera della scienza»(La
pensée e le mouvant, Paris 1934, p. 83).
12.11 Sulla stessa linea si trova l’epistemologo Karl Popper che, dopo aver ricordato come
sia tramontata l’illusione di un pensiero scientifico assoluto, certo e dimostrabile, oggi si
ritenga, comunemente, a partire dagli stessi scienziati, che: «l’esigenza dell’obiettività
rende inevitabile che ogni asserzione scientifica rimanga per sempre come un tentativo»
(Karl Popper, La logica della scoperta scientifica, Londra 1959, p. 280).
13.1 Ciò che ha portato le scienze moderne (medicina, biologia, genetica) a conseguire
successi sorprendenti è proprio il loro metodo, vale a dire una radicale riduzione
nell’osservazione del reale; ciò che le scienze naturali considerano del reale riguarda solo i
dati misurabili e dimostrabili; tutto il resto è fuori della portata del sapere scientifico.
13.2 Quindi la forza delle scienze è legata al fatto che esse concentrano la loro attenzione
su aspetti particolari e a quanto, di essi, è verificabile e misurabile.
13.3 Un errore fatto per il passato - e che ancora può ripetersi -, consiste nel non limitarsi
ad affermazioni scientifiche che riguardano solo ciò che è possibile misurare e verificare
della realtà ma, piuttosto, pretendere di affermare che solo ciò che è misurabile e
verificabile è reale ed esistente.
13.4 Così, in alcuni casi, si è passati da una corretta autolimitazione metodologica a una
teoria generale sulla realtà in cui si arriva a dire: esiste solo ciò che si misura e che è
verificabile attraverso la sperimentazione; tutto il resto è illusione, favola, mito,
creduloneria. Così da una legittima riduzione, legata a un metodo e a un tipo di verità da
conseguire all’interno di un sapere ipotetico, parziale, pratico, probabile, provvisorio, si è
arrivati a formulare una teoria complessiva della realtà.
14.1 Che cosa dire, allora, quando, dopo aver presentato scienziati che si sono
mediaticamente costruiti, viene posta loro la domanda se siano credenti o meno, oppure se
siano favorevoli o meno a leggi concernenti temi eticamente sensibili e, in genere,
riguardanti la vita umana; qui, lo si comprende, sono in gioco altre valutazioni che, in
nessun modo, dipendono dal sapere scientifico. Infatti, la scienza, proprio per il suo tipo
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specifico di sapere (ipotetico, parziale, pratico, probabile, provvisorio) non è
strutturalmente in grado di rispondere alla domanda sul bene, sul male, sui fini.
14.2
Chi non ha assistito, almeno qualche volta, a tali operazioni mediatiche? Si
promuove un volto televisivo, presentandolo come la frontiera più avanzata del sapere in
un campo rilevante per la salute o le conoscenze umane; poi, dopo che sono stati mostrati
dati, protocolli di sperimentazione, statistiche, si chiede - in modo estemporaneo -: lei
crede in Dio? Se la risposta è no, il messaggio è chiaro: chi rappresenta il livello più
avanzato di conoscenze utili all’umanità e può rivendicare obiettivi successi in ambito
medico, genetico, biologico, non è credente, anzi, non è possibile che sia un credente. La
realtà, invece, è un’altra: infatti si può essere luminari in campo scientifico, ma questo è
irrilevante di fronte ad affermazioni che riguardano la filosofia, l’etica, il diritto e,
aggiungiamo, argomenti religiosi o teologici.
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