Dante Alighieri
Epistole
Epistola a un amico fiorentino
Nelle vostre lettere ricevute con l'affettuoso rispetto dovuto ho appreso con mente grata e attenta
considerazione quanto il mio ritorno in patria vi sia a cura e a cuore; e perciò tanto più strettamente mi
avete obbligato quanto più di rado capita che gli esuli trovino amici. Ma la risposta al contenuto di quelle,
anche se non sarà quale forse la pusillanimità di alcuni vorrebbe, io chiedo cordialmente che, prima di ogni
giudizio, sia vagliata sotto l'esame della vostra saggezza.
Ecco dunque ciò che dalle lettere vostre e di mio nipote1 nonché di parecchi altri amici mi è stato
comunicato, per l'ordinamento testé fatto a Firenze sull'assoluzione degli sbanditi2: che se volessi pagare
una certa quantità di denaro e volessi sopportare la vergogna dell'offerta3, e potrei essere assolto e
ritornare subito. Nella quale assoluzione invero due cose sono risibili e mal suggerite, o padre: dico mal
suggerite da coloro che tali cose hanno scritte, giacché la vostra lettera formulata con diverso
discernimento e saggezza niente di ciò conteneva.
È questa la grazia del richiamo con cui Dante Alighieri è richiamato in patria dopo aver patito quasi per tre
lustri l'esilio? Questo ha meritato una innocenza evidente a chiunque? Questo i sudori e le fatiche
continuate nello studio? Lungi da un uomo familiare della filosofia una bassezza d'animo a tal punto fuor di
ragione da accettare egli, quasi in ceppi, di essere offerto, a guisa di un Ciolo4 e di altri disgraziati. Lungi
da un uomo banditore della giustizia5 il pagare, dopo aver patito ingiustizie, il suo denaro agli iniqui come
a benefattori.
Non è questa la via del ritorno in patria, o padre mio; ma se una via diversa da voi prima o poi da altri si
troverà che non deroghi alla fama e all'onore di Dante, quella non a lenti passi accetterò; che se non si
entra a Firenze per una qualche siffatta via, a Firenze non entrerò mai. E che dunque? Forse che non vedrò
dovunque la luce del sole e degli astri? Forse che non potrò meditare le dolcissime verità dovunque sotto il
cielo, se prima non mi restituisca alla città, senza gloria e anzi ignominioso per il popolo fiorentino? Né
certo il pane mancherà.
Note:
Epistole XII.
1. mio nipote: si tratta forse di Niccolò Donati, figlio di un fratello della moglie di Dante, il quale curò gli
interessi dell'Alighieri mentre questi era in esilio.
2. l'ordinamento... sbanditi: il provvedimento risale al 19 maggio 1315 ed era di carattere generale, cioè
ne potevano beneficiare tutti gli esuli.
3. la vergogna dell'offerta: la vergogna dell'oblatio, cioè della cerimonia pubblica nella quale Dante
avrebbe dovuto riconoscere la propria colpevolezza. Per i delinquenti comuni era previsto che sfilassero
dalla prigione al battistero di S. Giovanni, vestiti di sacco e con un cappello a cono in capo dove era scritto
di quale reato si erano macchiati; pagata una multa, erano liberi. Per i prigionieri «politici» e gli esuli era
invece previsto che si recassero semplicemente a S. Giovanni per pagare la multa, dopo aver varcato
simbolicamente la soglia della prigione: ciò era quanto il comune richiedeva a Dante.
4. Ciolo: non è sicura l'identificazione di questo personaggio, ma evidentemente Dante afferma di non
volersi mettere al livello di un criminale qualsiasi; ma il nome deve essere di qualcuno che era allora
universalmente noto in Firenze.
5. un uomo... giustizia: è questa la definizione che Dante dà di se stesso, sottolineando come la sua opera
scientifica e poetica abbia comunque un'alta funzione morale.
Guida alla lettura:
L'amore e la nostalgia per Firenze restano forti nella mente e nella sensibilità di Dante, perché tanti erano,
evidentemente, i legami che ancora nel 1315 egli sentiva per la città e per l'ambiente dai quali era stato
allontanato dal 1302. Il lettore dell'epistola non può non scorgervi il senso di distacco pacato col quale
l'autore considera l'eventualità del suo ritorno in patria: come se questo fosse ormai subordinato in modo
vincolante al rispetto che egli sente di dovere alla missione che negli anni dell'esilio è andato assumendo. Il
Dante coinvolto accesamente nelle dispute municipali, uomo di parte, protagonista di una lotta politica ed
ideologica che aveva una dimensione cittadina, sembra ormai scomparso. Al suo posto c'è l'intellettuale che
si colloca al di sopra delle parti, che, possessore di una verità assoluta ed indiscutibile, si considera un
«patrimonio» di ideali e di cultura che non può appartenere né all'una né all'altra delle fazioni, ma solo
all'intera umanità, senza limiti municipali.
Dante rifiuta la vergognosa cerimonia dell'oblatio non tanto per sottrarsi ad una ingiusta vendetta dei
nemici di un tempo, quanto per evitare un'offesa alla cultura e alla moralità che egli ritiene di incarnare.
La posizione storica di Dante è quindi cambiata dal tempo del Convivio: allora egli si proponeva di
compiere un'opera di grande rilievo culturale per ottenere l'ammirazione, la riconoscenza dei concittadini
e, quindi, la reintegrazione nella comunità fiorentina. Ora, invece, se restano inalterati i legami affettivi,
con la città, quelli culturali e politici si sono allentati. Dante ha trasformato, infatti, la sua condizione di
esule nell'isolamento necessario a chi vive al di sopra delle comuni e normali passioni umane, in una
dimensione al di fuori delle contingenze storiche e dominata da pensieri rivolti all'umanità nel suo
complesso e all'eternità. In questa dimensione l'hanno collocato i «sudori e le fatiche continuate nello
studio» e la «famigliarità» con la filosofia: è indubbiamente il poeta della Commedia che parla in questa
epistola.