La ridefinizione delle età della vita Marcel Gauchet, Il figlio del

La ridefinizione delle età della vita
Marcel Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, Vita e
Pensiero, Milano 20120, pp.17-48
All'origine di queste riflessioni ci sono due interrogativi legati tra loro. Il primo si riferisce
alle condizioni dell'educazione oggi; il secondo riguarda la 'psicologia contemporanea'.
In cosa consistono le difficoltà inedite, e per certi versi crescenti, che l'impresa educativa
incontra nella società contemporanea? Difficoltà sorprendenti, tutto sommato, se
consideriamo che l’importanza della formazione non è mai stata così riconosciuta e che la
domanda globale di educazione non è mai stat così forte. Una volta terminata la rassegna
di tutti i possibili fattori esplicativi che possono essere presi in considerazione, e che
riguardano il funzionamento dell'istituzione educativa, non si può non accorgersi dei loro
limiti. Emerge allora l'idea che è necessario volare più alto, a monte dell’istituzione. A
cambiare sono gli esseri ai quali la scuola si rivolge. Per porre la questione in modo più
ampio: la scuola si confronta con bambini, adolescenti e giovani il cui statuto sociale è
profondamente mutato. Questa trasformazione, a sua volta, è coinvolta in una
trasformazione più vasta che riguarda le età della vita, una trasformazione all’interno della
quale la riconsiderazione del periodo iniziale dell’esistenza costituisce solo uno degli
elementi. E questa ricomposizione dell'infanzia e della giovinezza a scuotere il sistema
educativo, a generare esigenze alle quali non è preparato a rispondere, a modificare il
senso dell’insegnamento agli occhi di chi ne è il beneficiario cambiandone l'identità e le
prospettive esistenziali. A questa prima domanda viene così ad aggiungersene un'altra,
più specificamente centrata sui cambiamenti psicologici dell’individuo contemporaneo. Ho
del resto io stesso formulato un`ipotesi sulle trasformazioni della personalità nella
condizione che viene generalmente deifinita “postmoderna” e che merita piuttosto la
definizione di “ipermoderna”1. L'ipotesi che si fonda sull’osservazione e su un’analisi dei
cambiamenti nella socializzazione, non è, evidentemente, sufficiente. Nel momento in cui
si introduce la prospettiva di una “trasformazione antropologica”, si deve fornirne il
contenuto. Quale origine può avere questa trasformazione? Esistono, tra i dati
dell’esperienza collettiva e nei termini dell'esistenza individuale, fattori in grado di rendere
conto di un'evoluzione di questa ampiezza? Nel nostro caso, sì. Al di là del cambiamento
nell'essere-in-società già evocato, esiste almeno un altro fenomeno di vitale importanza
capace di chiarire l’emergere di una nuova umanità. Questo fenomeno consiste nella
rivoluzione ormai trentennale delle condizioni della procreazione.
I fatti sono noti. Demografi e sociologi li hanno fissati con tutta la precisione possibile.
Quello che resta da indagare sono le loro ripercussioni a livello psichico. I “figli del
desiderio”, perché questa è la definizione che va utilizzata, rappresentano una rottura
nella storia della specie umana di cui va ancora misurata l'esatta portata 2. Il fatto non è
solo che costituiscono l'oggetto di un investimento genitoriale di tenore e intensità inediti,
con le conseguenze che ne derivano sulle richieste in ambito educativo e, più in generale,
sull’articolazione tra sfera sociale e sfera famigliare; il fatto è che il “desiderio' - quale? che presiede alla loro venuta al mondo interviene nella formazione dell’identità degli esseri
a un livello che finora non si era ancora avuto modo di considerare. Se nel periodo recente
si è prodotto un cambiamento invisibile, ma decisivo, nella psiche umana, è sicuramente
qui che ne cogliamo le radici.
1
Marcel Gauchet, Essai de psycologie contemporaine, oggi in La dêmocratie contre elle-même, Gallimard,
Paris 2002 [tr. it. La democrazia contro se stessa, Città Aperta, Troina 2005]. Sulla nozione di
“iperomodernità”, si veda Gilles Lipovetsky, Les temps hypermodenes, Grasset, Paris 2004 e Nicole Aubert,
L’individu hypermodernes, Erès, Toulouse 2004.
2 Cfr. Henri Leridon, Les enfants du dèsir, Juillard, Paris1995 (nuova edizione Hachette, Paris 1998)
Sono queste due linee di analisi, educativa e psicologica, che mi propongo di coniugare,
analizzando queste due trasformazioni capitali, che riguardano l’una l'entrata nella vita e
l'altra la venuta al mondo. In un primo momento mi sforzerò quindi di circoscrivere la
ridefinizione dell'infanzia e della giovinezza all’interno della ridefinizione complessiva delle
età della vita. In un secondo momento, mi concentrerò sugli esordi di questa fase iniziale
dell'esperienza, sui nuovi nati, cercando di precisare cosa significhi nascere nel segno del
desiderio. In un caso e nell’altro, mi porrò l`obiettivo di tenere insieme, nel modo più stretto
possibile, la problematica educativa e quella psicologica, nella convinzione che l'una
chiarisca l’altra. Le due questioni sono intrecciate in un modo che merita di essere
esplicitato.
La definizione delle età
Una volta di più il procedere delle cose ci obbliga a rivedere il vocabolario di cui
disponiamo. Nell’ambito di ciò che non possiamo definire altrimenti che “età della vita', i
confini si spostano. Ma che cosa sono le età della vita? La nozione è al tempo stesso
banale, vaga e poco utilizzata. Le scienze sociali non la considerano come uno strumento
d'indagine pertinente - nessun teorico importante vi si è dilungato. Diversamente dalla
nozione di generazione, per esempio, solo raramente è stata oggetto di un'elaborazione
degna di questo nome3. È quindi in questo vuoto, di per sé significativo, che probabilmente
è necessario procedere.
Ripartiamo allora da alcuni dati elementari: a causa della nostra condizione animale, di
viventi-mortali, la nostra esistenza si suddivide in periodi o tappe, diversamente compresi
e organizzati a seconda delle diverse forme di civilizzazione e società. Questo ciclo della
crescita e della decrescita si divide almeno in quattro fasi o età relativamente oggettivabili:
l'infanzia, la giovinezza, la maturità, la vecchiaia. A seconda dei tempi e dei luoghi, questi
periodi della vita sono più o meno definiti sotto forma di status sociali.
Tutte le società o le culture posseggono una visione differenziale delle età della vita visione più o meno netta o sofisticata, ma comunque mai assente. È quindi difficile
ignorare che si tratti di una dimensione cruciale della condizione umana e sociale. Quello
che stupisce, allora, è la scarsa attenzione che vi hanno dedicato i nostri teorici.
A partire da questo, risulta indispensabile riconoscere un’essenziale differenza tra le
società che attribuiscono una posizione preponderante alla determinazione delle fasi del
ciclo vitale e quelle che invece, come la nostra, la relegano in secondo piano. ll
disinteresse teorico è un riflesso di questa relegazione, espressione di una differenza
cruciale tra le società cosiddette “primitive” o “tradizionali” e le società moderne. Nelle
società più antiche e, fino a pochissimo tempo fa nelle società agrarie, la definizione delle
età costituisce l'armatura dei legami sociali, in relazione stretta con la parentela. La
divisione tra le generazioni e le età s'intreccia con la divisione tra i sessi per definire
l’organizzazione stessa della società. Per dirla altrimenti, quando i legami di sangue sono
ritenuti ciò che tiene insieme la società, la differenziazione delle età è loro comunemente
associata. In un certo numero di società, in Africa particolarmente, esistono organizzazioni
dette “a classe d'età”, nelle quali il raggruppamento di persone secondo la loro
appartenenza temporale gioca un ruolo fondamentale per il funzionamento del sistema
sociale4. Queste società intessute e ordinate dai legami di parentela e degli status d`età
In lingua francese resta un’eccezione ‘ormai vecchio libro di Michel Philibert, L’echelle des age, Seuil, Paris
1968.
4 Si veda Bernardo Bernardi, Age Class System, Cambridge University Press, Cambridge 1985 [ed.it. or.: I
sistemi delle classi d’età: ordinamenti sociali e politici fondati sull’età, Loescher, Torino 1984.
3
possono essere comprese come società che si definiscono espressamente intorno alla
loro riproduzione biologica e sociale.
A questo riguardo le società moderne si distinguono fortemente a causa del declino dei
legami di parentela e del disgregarsi dell’organizzazione in base all’età come armatura
esplicita della società, che non costituiscono più elementi organizzatori centrali. Le società
moderne hanno inventato, o posto in primo piano, altre modalità di legame tra le persone
e i gruppi. Li tengono insieme grazie alla politica; li associano grazie al diritto, o sulla base
del contratto tra liberi individui; li uniscono grazie all’organizzazione economica, attraverso
i rapporti di produzione e di scambio. Tutto questo, evidentemente, non impedisce alla
parentela e all'età di continuare a esistere come fatti sociali anche rilevanti. La novità è
che esse non stanno più al cuore dell’ordine sociale, non rappresentano più i punti di
riferimento primari in funzione dei quali le società si definiscono. ln parte, questo spiega la
difficoltà di decifrare fenomeni divenuti impliciti, appartenenti a una dimensione che, non
essendo più ufficialmente strutturante, le nostre società riescono appena a prendere in
considerazione. La loro analisi compete a un'antropologia delle società contemporanee
che si interessa al loro volto nascosto o alla loro dimensione inconsapevole.
Una delle ipotesi che mi guideranno, e che formulo all'inizio in modo diretto, è che le
trasformazioni dell’ultimo periodo sono caratterizzate dalla scomparsa, se non addirittura
dalla liquidazione in tutto e per tutto, del ruolo che i legami di parentela (e l’ordine delle
classi d'età) conservavano in quanto legami sociali. Siamo testimoni dell'integrale
sostituzione in tale ruolo da parte dei legami politici, giuridici ed economici costruiti
espressamente dalla modernità.
A dire il vero questa erosione viene da ancor più lontano. Comincia con l’apparizione degli
Stati, quando la relazione di comando/ obbedienza e le gerarchie iniziano a strutturare le
comunità a spese della legge degli antenati, del clan o del lignaggio, e dei rapporti di
alleanza o di filiazione. Ma è con lo Stato moderno, sovrano, lo Stato che rivendica il
monopolio del legame politico legittimo, che si attiva per davvero quella rivoluzione del
legame sociale che vediamo compiersi sotto i nostri occhi. Bisogna dire che, per molto
tempo, questa rivoluzione procederà solo lentamente. Un conservatore come Le Play,
nella seconda metà del XIX secolo, può ancora sognare con una qualche apparente
plausibilità il ricostituirsi dell'ordine sociale tradizionale sulla base della famiglia
patriarcale5 - esemplare punto di riferimento per cogliere il cammino percorso in un secolo.
E’ con il XX secolo che si completa la sostituzione del legame politico ed economico alla
parentela come elemento in grado di tenere insieme la società. È questo uno degli aspetti
principali del processo di rottura con la tradizione di cui si intravedono i primi segni intorno
al 1880 e che trionfa negli anni Settanta del Novecento. Anche la deistituzionalizzazione
va collocata in questo quadro e si accompagna alla scomparsa delle ultime vestigia degli
status d`età. Dal punto di vista del funzionamento sociale non ci sono che individui simili,
le cui dilferenze generazionali contano di certo nella realtà, ma non intervengono in ciò
che li unisce e fa funzionare la collettività. Restano le generazioni nel senso storico del
termine, quelle che associano il destino individuale al divenire collettivo, ma per quello che
concerne le età dell'esistenza, esse non riguardano che gli interessati e i loro cari. Senza
dubbio la distinzione tra minore e maggiore età mantiene il bisogno di essere sancita
legalmente e, in questo senso, uno status pubblico delle persone è probabilmente
irriducibile. Ciò non toglie che essenzialmente, ossia per ciò che va attribuito alla loro
dinamica interna, le generazioni siano passate nella sfera privata.
Per considerare tutte le dimensioni del cambiamento in materia di definizione delle età, è
necessario evidenziare un'ulteriore differenza, correlata alla precedente, tra le società
primitive o selvagge e le società moderne. Le società arcaiche, oltre a essere società della
parentela, sono società religiose, nelle quali il tempo sociale legittimante è il passato.
Frèdèric Le Play, La rèforme sociale en France dèduite de l’observation comparèe des peuples europèens,
3 voll., Paris 1864-1867.
5
“Tradizione” significa, nel vero senso del termine, autorità sovrannaturale delle origini o
della fondazione, la cui insormontabile eredità le generazioni seguenti devono perpetuare
giudiziosamente. Il risultato, diversamente accentuato a seconda delle diverse culture, è
l'autorità degli antenati e degli anziani - ossia i meglio attrezzati in quanto a tradizioni e
usanze - incoronati, dalla loro età, come guardiani della trasmissione. In questi termini il
ciclo vitale può essere compreso come una crescita sociale, al di là del declino e della
morte, la quale completa il cammino assicurando il passaggio verso l’ancestralità.
Al contrario, nelle società moderne, impercettibilmente dal XVI secolo, apertamente dal
XIX, il tempo sociale legittimante diventa il futuro della storia aperta. Il risultato non può
che essere una trasformazione nella comprensione sociale del ciclo dell’esistenza, la cui
espressione principale sta nella scoperta moderna dell’infanzia. Non che prima si
ignorasse la differenza tra adulti e bambini, il fatto è che cambia l’interpretazione di questa
differenza, che acquista un significato nuovo nel momento in cui il bambino è identificato
come portatore di un avvenire che si sa diverso e si spera migliore. Nella stessa direzione
nasce una nuova idea di giovinezza, anzitutto agli occhi degli stessi giovani (i primi
movimenti che testimoniano di questa 'coscienza giovanile' appaiono alla fine del XVIII
secolo). E’ in questo contesto che si iscrive la moderna valorizzazione dell'educazione.
Due le sue grandi fonti: la valorizzazione dell’individualità e la valorizzazione della
preparazione sociale all'avvenire.
Più le società si volgono verso l’avvenire, più valorizzano il cambiamento; meno
attribuiscono autorità al passato, più valorizzano l’educazione. Da questa prospettiva è
legittimo derivare un'altra ipotesi di lettura del presente. A partire dagli anni Settanta,
siamo entrati in una nuova tappa di questa requisizione del futuro e, nello stesso tempo, di
promozione dell'individualità. E in questa direzione che va cercato ciò che cambia, da un
lato, il volto dell’infanzia e della giovinezza; dall’altro, gli ideali educativi.
L’impatto dell’allungamento della vita
ln quali termini assistiamo, oggi, a una ridefinizione delle età della vita? Cosa consente di
parlare di una trasformazione nella comprensione del ciclo dell'esistenza? In funzione di
cosa la comprensione collettiva del percorso che porta dalla nascita alla morte può essere
modificata o ridefinita?
Il fattore principale, che si presenta immediatamente all’evidenza, è l’allungamento della
durata della vita. Fattore determinante, in effetti. Benché i numeri siano noti, triti e ritriti, la
loro interpretazione non e affatto semplice, come sottolineano i demografi 6. Mi
accontenterò di un’annotazione sintetica che sorvola sulla variazione da un Paese all’altro
e sullo scarto trai sessi. In un secolo, dal 1900 al 2000, gli abitanti dell'Occidente
sviluppato hanno guadagnato qualcosa come una trentina d’anni di speranza di vita alla
nascita.
Cifra parzialmente ingannevole, visto che mischia la diminuzione della mortalità infantile
con l’incremento della longevità finale, ma che fornisce tuttavia un ordine di grandezza
eloquente, se si considera che, da un lato, nel 1900, la caduta della mortalità infantile era
già pronunciata rispetto alle ecatombi precedenti e, dall’altro, l’arretramento dell'età della
6
Leridon, nel già citato Les enfats du desìr, attira giustamente l'attenzione su questo punto. In Francia, nel
1900 la speranza di vita alla nascita era di 43,44 anni per gli uomini e di 47,03 anni per le donne. Nel 1997,
era di 74,61 anni per gli uomini e di 82,28 per le donne. Negli Stati Uniti, nel 1900 era di 48,3 anni per gli
uomini e di 46,3 anni perle donne; nel 2000 era di 74,2 anni per gli uomini e di 79,9 anni per le donne. Nel
complesso la speranza di vita è raddoppiata in centocinquant’anni. Si veda anche Françoise Forette, La
revolution de la longevité, Grasset, Paris 1999. Interessanti le osservazioni di Francis Fukuyama, La fin de
l’homme, La Table Ronde, Paris 2002 [ed. or Our Posthuman Future. Consequences of the biotechnology
revolution, Farrar, Straus and Giroux, New York 2002; tr. it. L’uomo oltre l’uomo. Le conseguenze della
rivoluzione biotecnologica, Mondadori, Milano 2003].
morte prosegue con precisione da orologio (un trimestre ogni anno) 7. Trent'anni, ossia il
tempo comunemente stimato di una generazione: ecco, grossomodo, quello che abbiamo
guadagnato nelle nostre esistenze individuali rispetto agli antenati del XIX secolo. Nella
prospettiva che ci interessa, quella della comprensione d’insieme dell’esistenza, il
fenomeno va considerato, nella sua ultima fase, insieme alla sensibile diminuzione del
tasso di fecondità verificatosi a partire dal 1965. A questo proposito non è senza
importanza portare alla luce il rovesciamento di tendenza all’interno di un processo fin lì
uniforme. In un certo senso parliamo della stessa transizione demografica nel suo duplice
aspetto, diminuzione della mortalità e diminuzione della fecondità 8, con la fondamentale
aggiunta, però, che nel XIX secolo lo scarto tra la caduta dei tassi di mortalità e la caduta
dei tassi di fecondità si traduce, in Europa, nell’esplosione della popolazione. In Europa
aumenta più del doppio tra il 1800 e il 1900 (passa da 187 a 401 milioni), cui bisogna
aggiungere la corrente migratoria che popolerà l'America e l'AustraliaOceania. Dal canto suo, il XX secolo, sulla base degli stessi fattori, sarà un secolo di
relativa stabilizzazione, con il suo ultimo trentennio caratterizzato da una decrescita - i
tassi di fecondità passano al di sotto della soglia del rinnovamento generazionale, con una
tendenza che fa ormai dell'Europa una terra d'immigrazione compensatrice.
Non si può non cogliere la correlazione. Nel corso dell'ultimo trentennio del XX secolo, non
abbiamo visto solo dissolversi le ultime vestigia delle società organizzate secondo la
parentela e la riproduzione; abbiamo visto anche le società europee smettere di
assicurare in modo automatico la loro riproduzione biologica. Il problema della relazione
tra questi due fenomeni va lasciato aperto - l'esplosione demografica ha fatto emergere la
contraddizione; ciò che conta è che all'interno di questo ripiegamento collettivo si è nel
frattempo imposta un’esplosione dei tempi di vita individuali.
La dilatazione del corso di vita è lungi dall’essere un semplice fatto biologico appeso alla
sola efficacia della medicina: è il frutto di un nuovo orientamento nell'attività collettiva. È
legata a una nuova espressione dell'economia: se il XIX secolo industriale si era
organizzato intorno alla produzione degli oggetti, il XX secolo, in particolare dopo il 1945,
è stato essenzialmente quello della produzione dell'uomo. Da allora, le fonti di spesa che
sono maggiormente aumentate e i settori che alimentano la crescita sono quelli della
sanità, dell'educazione, del tempo libero9. In altre parole, l'allungamento della durata della
vita è un fatto sociale e culturale che, pur esprimendo una valorizzazione misurabile in
termini economici, appartiene a un altro ordine. È il frutto di una cultura dell'uomo raro,
che, tra le altre cose, è un uomo curato e formato. E’ con questo metro che va misurata la
consacrazione dell’individualità nella contemporaneità.
Questo allungarsi delle vite fa immediatamente emergere una nuova fase dell’esistenza,
frutto di una suddivisione interna a quella che conoscevamo con il nome di vecchiaia.
Grazie allo Stato sociale, ai sistemi pensionistici, al miglioramento della salute delle
popolazioni, è venuta a crearsi una terza età, distinta dalla quarta, caratterizzata dalla
doppia emancipazione, dai vincoli lavorativi e da quelli famigliari.
Considerando che questa libertà, nella maggioranza dei casi, si accompagna a un reddito
garantito e a una buona forma fisica, non è eccessivo affermare che i nostri
7
Si veda la raccolta ragionata di dati fornita da Paul Yonnet, Les consèquences psychologiques et sociales
du recul de la mort, «Monstres et merveille de la modernité, Cahier Laser», 4, 2003.
8 Testo di riferimento per l`analisi del processo nel suo insieme,_Jean-Claude Chesnais, La transition
démographique. Etapes, former, implications èconomiques, PUF, Paris 1986.
9 Cfr. Daniel Cohen, Nos temps modernes, Flammarion, Paris 2001 [tr. it. I nostri tempi moderni: dal capitale
finanziario al capitale umano, Einaudi, Torino 2001], che fornisce una stima impressionante di questo
cambiamento. Mentre la produzione di oggetti è rimasta stabile durante il secolo (40%), cosi come quella
relativa all’intermediazione (20%) , i servizi sociali hanno rimpiazzato l’agricoltura come terzo settore; la
«produzione dell'uomo(educazione, sanità)›› ha preso il posto della «produzione dell’uomo grazie alla terra
(agricoltura)›› (pp. 27-28).
contemporanei hanno guadagnato tra i 60 e gli 80 anni una fase di maturità
supplementare, una seconda maturità. Nel sentire comune è evidente come questa fase
rappresenti diffusamente il punto culminante dell’esistenza: è l'età dell’individuo realizzato,
prima che sopraggiungano la senescenza e la morte; è il momento della piena
indipendenza, sottratta a qualsiasi responsabilità sociale, se non quella liberamente
assunta.
Ecco la novità. Fin qui l'esistenza era compresa nel segno della crescita sociale - si
guadagnava in status avanzando con l’età. Era stata proprio la rivoluzione dell'avvenire a
creare il problema della vecchiaia, spezzando la parabola di questa crescita e privando
questa maggiore età dell'autorità simbolica che le attribuivano invece le società di
tradizione - di qui il rafforzarsi dell'immagine di una maturità attiva e l’urgenza
compassionevole di una politica di assistenza nei confronti di questi condannati dall'età a
essere espulsi da una storia nella quale non hanno più un ruolo da giocare. Grazie al
successo dello Stato sociale, l’ideale dell’individuo ha preso il posto della tradizione nel
creare, all’interno dell’ex vecchiaia, la figura di un'altra maturità, più realizzata di quella
che la precede. Una maturità concepita nei termini di una crescita finalmente solo
individuale e il cui coronamento è fornito dalla soddisfazione privata e da un'esistenza i cui
obiettivi sono solo quelli dati autonomamente: la scelta, come spesso avviene, può essere
quella di consacrarsi ai problemi della propria comunità, l’importante è che sia frutto di una
decisione assolutamente personale. È sin d’ora evidente che gli squilibri demografici e
finanziari dei sistemi pensionistici intaccheranno questa bella costruzione, obbligando a
ritardare l’età della liberazione dal lavoro. Questo, tuttavia, non cancellerà l’immagine di
realizzazione esistenziale che si è andata delineando e destinata a rimanere un polo
dell'immaginario sociale, un luogo a partire dal quale definire la parabola della vita. Un
ruolo che tenderà tanto più a mantenere visto che il peso del gruppo di età al quale si
riferisce sembra destinato a crescere, in conseguenza non solo delle sue risorse, ma
soprattutto del suo ruolo civico e politico. Questa seconda maturità diviene sempre di più
l'età per eccellenza della partecipazione, della dedizione militante, ma anche delle attività
culturali. L’investimento nella dimensione collettiva s’impone ancora come uno dei migliori
impieghi della libertà individuale. La scena pubblica del futuro sta per essere modellata
dalla depoliticizzazione della gioventù e dalla politicizzazione della vecchiaia (quantomeno
per la sua parte “giovane”)10.
Ma l’effetto di questo allungamento della vita non si ferma qui, estendendosi alla
definizione di tutte le altre tappe. La prima a venire alterata è la rappresentazione di ciò
che può e deve essere la preparazione all'esistenza, ma lo stesso vale per le
rappresentazioni di quella completezza esistenziale che si suppone costituisca l'età adulta.
Insomma, l’allungamento della vita sconvolge sia l’idea dell'accesso alla vita sia
l’immagine dell’intero suo corso. Agisce come una specie di pressione geologica diffusa,
che sotterraneamente modifica le pratiche e le rappresentazioni. Non accontentiamoci
però della metafora e chiamiamo le cose con il loro nome: è di “riflessività sociale” che si
deve parlare. Siamo qui di fronte a un affascinante esempio del modo in cui funziona il
processo inconscio o semiconscio con il quale una società pensa le condizioni dentro le
quali si muove e il quadro che definisce l’esistenza dei suoi membri. Il problema è quello di
entrare nello spirito di una riflessione collettiva, che non sa di essere tale, sui fondamenti
della condizione umana.
Istruzione, educazione, formazione
È la base dell’anticipazione rivelatrice proposta da Jean-Christophe Rufin in Globalia (Gallimard, Paris
2004): i «giovani vecchi» si impossessano del potere acquistando nello stesso tempo la giovinezza. A
Globalia si diventa giovani invecchiando, si passa all'invidiabile status di «persone dal grande futuro».
10
Riferendoci alla ridefinizione dell’infanzia e dell'adolescenza, considerate insieme come
fase preparatoria dell’esistenza, il primo tratto che salta agli occhi è il loro allungamento
sotto il segno dell'educazione. Troviamo qui l’elemento che sta dietro alla tendenziale
estensione della durata della scolarizzazione, alla crescita e alla generalizzazione della
richiesta di educazione, alla pronunciata avversione nei confronti del lavoro dei minori e,
sempre di più, di quello degli adolescenti. La prima giovinezza, intesa in senso ampio, è
percepita come un'altra cosa, qualcosa che deve svolgersi all'infuori dall'attività degli adulti
e, in modo particolare, lontano dagli obblighi imposti dal lavoro (che non significa all’infuori
dagli obblighi sociali: l’obbligo della giovinezza è quello scolastico). Si definisce in questo
modo un'età della vita intesa come fase propedeutica separata - e dato per scontato che
prima dei 25 anni la normalità per un giovane consista nel vivere una vita che prepara
all'esistenza11.
Il punto interessante è la relativa unificazione tra infanzia, adolescenza e giovinezza. Le
tre fasi si saldano come conseguenza di una nuova, tacita, ripartizione delle età della vita.
L’allungamento dei termini attribuisce un significato ben determinato alla fase iniziale
dell’esistenza, così come impedisce di attribuirle un contenuto troppo determinato: deve
essere interamente dedicata all’accumulazione delle risorse e dei mezzi in vista di una vita
molto lunga, quindi indefinibile quanto a quello che sarà il suo contenuto. Non è, e non
può essere, la stessa cosa accedere alla vita quando, compiuti i 18 anni, ossia la
maggiore età legale, si hanno più di 60 anni davanti a sé (o più di 80, per le bambine nate
ai nostri giorni), rispetto a quando, come fino a non molto tempo fa, al raggiungimento
della maggiore età, allora 21 anni, se ne avevano di fronte a sé altri 25 o 30. E questo, in
modo particolare, in un mondo caratterizzato da un movimento permanente tale per cui
l’avvenire diviene storicamente e socialmente imperscrutabile - e il futuro con cui
confrontarsi appare dunque tanto lontano quanto sconosciuto. Di qui l’indefinitezza degli
strumenti da mobilitare in vista di un compito simile; di qui l’allungarsi, se non il rallentarsi,
di questo tempo preparatorio, la cui estensione e il cui ritmo si aggiustano a seconda di ciò
che si tratta di preparare; di qui il relativo omogeneizzarsi di questa fase iniziale, sempre
più distinta da quella successiva in quanto fase che condizionerà il seguito omogeneizzarsi che però non impedisce di suddividere, sullo sfondo di questo obiettivo
comune ma con accenti diversi, un'infanzia, un'adolescenza e una giovinezza.
Come si può immediatamente constatare, molti dei problemi che agitano il nostro sistema
educativo, dalla scuola elementare all'università, provengono da questi cambiamenti. Li si
affronterebbe con più calma se si riuscisse a ricondurli alla loro vera origine e se si
prendessero meglio in considerazione le tendenze profonde dalle quali derivano - se si
comprendesse meglio, per esempio, quanto ci sia di ineluttabile nella massificazione
dell’insegnamento secondario e universitario. Perché battersi per un obiettivo come quello
del diploma di maturità per tutti se non si capisce che è divenuto una specie di odierna
licenza media - e ormai è piuttosto il diploma di laurea a corrispondere pressappoco al
diploma di maturità di quarant’anni fa? Perché invocare la selezione se non si comprende
che l’accesso all’università è ormai la chiave per esercitare il diritto a un'età della vita?
Quello che bisogna fare è cominciare a garantire (democratizzandolo) questo diritto, per
rendere accettabili tutti i cambiamenti voluti dalla richiesta di eccellenza e dalla
competizione sul mercato globale della conoscenza. In termini più generali, e solo
prendendo in considerazione la realtà di questa ricomposizione dell'accesso alla vita che
si potrà efficacemente rispondere a tutte le difficoltà che essa solleva, mantenendo un
atteggiamento distaccato rispetto a tutte le mitologie che essa produce.
11
Sembrerebbe, secondo i recenti studi fondati sulla mappatura cerebrale, che la maturazione del cervello
prosegua effettivamente fino verso i 25 anni d’età. Vera scoperta o razionalizzazione pseudoscientifica di
una percezione sociale? Il futuro ce lo dirà. Comunque, qualsiasi cosa succederà, la ricerca di una tale
conferma è significativa in sè. Mostra la forza di una rappresentazione alla ricerca di un fondamento. Cfr.
Adolescents: les secrets de leur cerveau, “Courrier International”, 717, juillet 2004.
Contraccolpo di questa unificazione-specificazione della giovinezza come preparazione
all’esistenza è l'emergere di una nuova idea di “formazione” all’altezza di una simile
anticipazione. Ho cominciato parlando di 'educazione' perché è il termine d'uso, ma è
evidente che ce n’è bisogno di un altro per esprimere quello che confusamente si
nasconde dietro questa ridefinizione del presente. Come candidato possibile vedo solo il
termine “formazione”, a condizione però di liberarlo dall'accezione ristretta e professionale
che ha recentemente assunto (la “formazione permanente”), e restituirgli un significato
ampio, basilare, inglobante come quello della Bildung tedesca, ossia quegli “anni della
formazione” decisivi nella direzione presa dalla vita. Così come l'educazione aveva
rappresentato un’estensione indispensabile rispetto all’istruzione, s'impone oggi una
nuova estensione rispetto all'educazione per far emergere cosa ci si aspetta dalla
formazione dell’individualità12. Educazione è un termine legato all’epoca dello Stato
sociale, quando, dopo il periodo dell'individuo astratto e dell’elementare bagaglio di
conoscenza da assicurare a tutti, ci si comincia a preoccupare del ruolo che la scuola può
e deve svolgere nel destino sociale delle persone13. Ma l’educazione, pur prendendo in
conto la dimensione personale aldilà della pura libertà razionale che l’istruzione si
proponeva di attrezzare, si concentra essenzialmente sull’inserzione sociale delle
persone; il suo obiettivo ideale è il potere della mobilità, l'ascesa meritocratica. ln
definitiva, resta caratterizzata dalla trasmissione dell'acquisizione culturale collettiva e
dalla preparazione adattata alla società; non più ciò che è, ma ciò che diventerà grazie al
suo dinamismo proiettato verso il meglio, ai posti che occuperà e alle funzioni che
eserciterà14. Noi abbiamo compiuto un ulteriore passo in avanti, e questo esige l’utilizzo di
un nuovo termine. Nella definizione di cui ho cercato di mostrare l'originalità, la
formazione, senza rinunciare a nulla di ciò che significava in precedenza, richiede di più: si
interessa all'individualità concreta, oltre che all'attore sociale. Nel periodo iniziale
dell’esistenza, e nell’ottica di un'individualizzazione della costruzione di sé, pone l’accento
sullo sviluppo delle capacità della persona. Si preoccupa dei mezzi per divenire se stessi,
nell'idea che i poteri dell’attore sociale provengano da questa maturazione soggettiva.
Nella prospettiva di una lunga vita, ecco che s’insinua e s’impone una individualizzazione
radicale della prospettiva esistenziale. Avanza una comprensione inedita dell'esistenza
come storia personale, svincolata dagli orizzonti lontani di un avvenire collettivo per
definizione sconosciuto, benché essa stessa mobilitata dal futuro; una storia del carattere
personale che comincia presto, dalla nascita in effetti, e che, proprio perché personale,
esige una formazione molto lunga, che può non arrestarsi e si proietta in tutto il tempo
della vita. La prospettiva di una lunga vita implica il focalizzarsi sulla scelta di sé contro
qualunque attribuzione estrinseca o qualunque destino subito passivamente. Non la scelta
di uno status, di una carriera o di uno stile di vita, ma il potere di scegliersi, da mantenere
e coltivare come tale, al di là delle determinazioni che alienano e degli obblighi che
limitano. Non si tratta di prepararsi a qualcosa di definitivo fuori da sé, visto che non si sa
Ricordiamo che in Francia la sostituzione del Ministère de l’lnstruction publique con il Ministère de
l’Educatione nationale risale al 1932.
13 Ferdinard Buisson ha ammirevolmente colto e descritto questa estensione a partire dal 1910: «La nozione
stessa di scuola primaria si è notevolmente evoluta [...] non è più ciò che pensavamo in precedenza. Ci
sembrava che fosse riferita all’umile apprendimento del "leggere, scrivere, contare”. Diviene la casa
nazionale dell’educazione, il laboratorio nel quale tutto un popolo forgia il proprio avvenire [...]. Di qui,
ovunque, un allargamento indefinito - e talvolta spaventoso, del ruolo della scuola [...l. La scuola ha acquisito
una Funzione sociale, dovrà formare, non più solo una nazione senza analfabeti. ma una nazione nella
quale non esistano più dei non valori. Si pretende che dalla scuola così definita fino alla fine
dell’adolescenza tutti gli individui escano come esseri normali, attrezzati per la vita, spirito sano in corpo
sano, che vogliono e sono in grado di bastare a loro stessi, consapevoli dei diritti e dei doveri dell’uomo, del
cittadino, del soldato, del lavoratore, del produttore» (La trasformation de l’ècole primaire, ripreso in La foi
laique, Paris 1911).
14 ll riferimento teorico dell’educazione compresa in questi termini è John Dewey. Si veda in particolare
Democracy and Education (1900) [tr. it. Democrazia e educazione, Sansoni, Milano 2004].
12
come sarà fatto l'avvenire, ma di prepararsi ad autodeterminarsi. Esiste una libertà
primordiale, la «libertà di costruirsi», per usare un'espressione in voga tra i pedagoghi
contemporanei. L’allungamento della sua durata ha sulla vita l'effetto di soggettivarla e
responsabilizzarla, in modo particolare nella sua fase inaugurale, che finisce per caricarsi
di un significato sproporzionato. E proprio a questa richiesta che la formazione cerca di
rispondere. Rappresenta l'introduzione a un'esistenza che come orizzonte non ha
nient’altro che la realizzazione personale; nella quale tutto, idealmente, deve potersi
svolgere tra sé e sé e nella quale il dovere della società consiste nel creare le condizioni di
una tale potenzialità soggettiva. Emerge qui la differenza con l’educazione che nel XX
secolo si era affermata nello stretto legame con una visione dell’avvenire collettivo posto
nel segno della giustizia sociale.
Da quanto detto fin qui, comprendiamo meglio lo sviluppo paradossale, a partire dagli anni
Settanta, di una richiesta educativa che rifiuta tutte le forme educative ereditate,
considerate passatiste, autoritarie, grette o inadatte. Questa richiesta non si riduce solo al
nostro fattore tempo, ma s’iscrive più in generale nel rilancio e nell’amplificazione del
processo di individualizzazione al quale assistiamo, processo che senza dubbio possiede
altre implicazioni oltre a quelle demografiche. Il fatto è che gli individui in questione hanno
beneficiato di un'estensione della loro esistenza che ha potentemente influenzato sia il
loro individualismo, sia la richiesta di educazione attraverso la quale, nella circostanza, si
esprimeva quell’individualismo. È, in effetti, una delle sue manifestazioni più significative.
Se ci si sforza di caratterizzare questa tappa del processo di individualizzazione rispetto
alle precedenti, uno dei criteri distintivi più pertinenti probabilmente è quello
dell’integrazione dell’educazione (al di là, in questo caso, del senso attribuito al termine)
nella definizione stessa di individuo, nel considerarla come un suo necessario supporto.
L’individuo è qualcuno che è stato formato a diventare individuo; l’educazione è ciò che gli
fornisce i mezzi per essere individuo - così come la proprietà aveva fatto nella tappa
precedente, o il lavoro, in una a noi più vicina (l’avvento di una società della conoscenza,
in tal senso, costituisce senza dubbio lo sfondo di questo cambiamento). Ripeto: lo
sviluppo del processo di individualizzazione poteva aver luogo indipendentemente
dall’allungamento della durata della vita; il verificarsi di questo allungamento, però, ha
fortemente orientato la comprensione dell’individuo e dei suoi bisogni. Ha piegato il
richiamo all’educazione che vi era associato nel senso della “formazione”, nei modi di cui
abbiamo cercato di definire i contorni.
Deriva da qui, del resto, la difficoltà di attribuire alla formazione un contenuto
soddisfacente: essa non si accorda con nessuna definizione sociale. Rispetto
all’imperativo di costruirsi, qualunque iniziazione, introduzione, preparazione o
adattamento a ciò che esiste appare da subito inadeguato. Esso richiede l’accumulo di un
potenziale la cui vocazione al generale si scontra con qualsiasi direzione specifica. In
questo contesto si comprende come «imparare a imparare››, la vecchia massima
programmatica che riassumeva simbolicamente il potere del soggetto della conoscenza,
finisca per diventare una formula magica. Mantenere i metodi sbarazzandosi dei contenuti:
è esattamente questo ciò di cui si pensa abbia bisogno l’individuo all’inizio del suo divenire
se stesso. Un’aspirazione che ha un inconveniente, quello di appartenere al regno della
pura astrazione e non alla dimensione del praticabile. Non per questo, tuttavia, la sua
pressione è meno forte: la sua costruzione è di una logica imperiosa. Definire ciò che può
assecondare una siffatta richiesta di fondazione, al tempo stesso pressante e per principio
insoddisfatta, è divenuto un problema strutturale.
Questo, per altro, non è nemmeno l’aspetto più problematico di un tale lavoro di
ridefinizione. L'idea di una formazione che sarebbe per ognuno il mezzo per
impossessarsi della propria vita, in efletti, è una congettura della coscienza collettiva,
segretamente dettata dagli elementi inediti della condizione umana. E’ astratta e, tanto per
cominciare, propria degli adulti che la proiettano sui nuovi arrivati. Il problema è sapere se
l’attore che essa postula alla base del processo di autocostruzione esista realmente. l
nuovi arrivati hanno a disposizione i mezzi dell'autonomia che noi gli attribuiamo? Forse
presumiamo una forza che non hanno, finendo per schiacciarli sotto il peso di
un’ambizione che loro non comprendono nemmeno.
Entrare nella lunga vita
Una volta circoscritta la riconfigurazione generale della prima età della vita, è possibile
esaminare più da vicino il modo in cui la rappresentazione delle età, per così dire,
“classiche” - infanzia, adolescenza e giovinezza - ne viene influenzata. Si tratterà, in modo
particolare, di specificare la tensione fondamentale inerente all’idea di formazione nei
diversi livelli e momenti nei quali si manifesta.
Infanzia protetta, infanzia ignorata
La concezione dell'infanzia è sempre più dominata dall’idea che l'esistenza futura si
determini proprio lì, sempre più presto. «Si gioca tutto prima dei sei anni››, proclamava un
famoso titolo all’inizio del movimento che ci interessa15. Gli esperti e i lavoratori del settore
possono anche aver protestato, ma inutilmente: la logica inconscia delle rappresentazioni
collettive che fondano questa credenza è impermeabile e si fa beffe della smentita dei
fatti. La vita è un tutt'uno di cui ciascuno è sin da subito l'attore, è questa l’immagine che
prevale. Viene negata, quindi, l’idea di una fase di crescita tranquilla e naturale, nella
quale alla fine non si tratterebbe che di offrire al bambino le condizioni migliori affinché
cresca, idea che era propria della visione evoluzionista. L'infanzia appare piuttosto come
un momento critico per il quale devono essere mobilitati in permanenza l’attenzione e
l’intervento degli adulti affinché l'autocostituzione dell’individualità possa svolgersi senza
ostacoli. In una tale prospettiva non si è mai sufficientemente attenti alle precoci influenze
formatrici, così come, nello stesso tempo, non si mostra mai un adeguato rispetto per
qualsiasi espressione di una libertà in germe.
In altri termini, l’infanzia è attraversata da una preoccupazione educativa che si esprime
con vigore e precocità crescenti. Il fenomeno ha radici lontane che risalgono all’inizio del
XIX secolo16, si attiva in parallelo all’orientamento storico dei moderni e prende
progressivamente piede grazie alla temporalità futurista delle nostre società. Nella tappa
che ci si è appena lasciati alle spalle, la novità è che si è del tutto compiuta la metamorfosi
dell’educazione in formazione nel senso che abbiamo definito. Non si tratta più di
sviluppare attitudini funzionali, nei modi incoraggiati dalla psicologia genetica, ma di fare
emergere un se stesso singolo, all’altezza del compito di autocostruzione richiesto dal tipo
di esistenza che va determinandosi.
Dato questo obiettivo, dire in cosa deve consistere questa formazione è davvero difficile.
Ciò che si può fare è solo incoraggiare la nascita e l’affermazione di una pura potenzialità
di essere e di agire, di una potenzialità indeterminata, concepita com’è sotto le insegne di
un avvenire che, costantemente allontanato, risulta inimmaginabile. Non si può sapere
quale sarà la vita di un soggetto che fa i suoi primi passi; tutto quello che si sa è che
quella vita ha già cominciato a farsi e che, di conseguenza, è di fondamentale importanza
che il soggetto disponga degli strumenti per farla propria, pur nella consapevolezza della
lunga scadenza. In definitiva, visto che non sappiamo bene a cosa dobbiamo preparare il
bambino, prepariamolo a se stesso. L’infanzia prende così progressivamente la
dimensione di un tempo mitico di pura realizzazione di sé, un tempo che si svolge
idealmente lontano dal mondo presente; visto che questa soggettività andrà costruita per il
15
Fitzhugh Dodson, Tout se joue avant six ans, tr. fr. Laffont, Paris 1972.
Cfr. Jean-Noel Luc, L’invention du jeune enfants au XIX siècle. De la salle d’asile à l’ècole maternelle,
Belin, Paris 1997.
16
mondo inconcepibile che sarà, in definitiva non può che costruire se stessa. Di qui il
moltiplicarsi della protezione da tutto ciò che potrebbe turbare o ostacolare il cammino
verso questa scoperta di sé; di qui il riattivarsi, per motivi nuovi, della figura dell’innocenza
infantile, che si trova a esprimere una cosa diversa rispetto a quello che simbolizzava in
precedenza: ha il compito di attribuire un nome a quella potenzialità pura la cui
germinazione è propria all’infanzia.
Il risultato è che, a fronte di un interesse senza paragoni per il bambino, emerge un
misconoscimento strutturale dell’esperienza infantile. Il culto dei piccoli re, o dei piccoli dèi,
non impedisce l'ignoranza o il disinteresse nei confronti di ciò che effettivamente è dato
loro vivere. Nascere significa trovarsi gettati in un mondo che non ti ha aspettato per
essere quello che è e che, senza problemi, può continuare a fare a meno di te - quando lo
affronti, al di là del cerchio ristretto delle persone necessarie, tutto ti dice della tua inutilità
o indifferenza. Il nuovo arrivato vive l'angoscia di sapere se mai riuscirà a entrare in quel
mondo, se riuscirà a non perdersi. Un’angoscia che cresce man mano che egli prende la
misura delle sue dimensioni al di là del piccolo mondo che aveva preso per il mondo
intero. Un'angoscia raddoppiata per coloro che, a diverso titolo (handicap, immigrazione),
hanno ragioni per non sentirsi come gli altri - ossessione confessata o segreta di tutti i
bambini. Ci si preoccupa del potere futuro di questo nuovo arrivato presupponendo che la
sua felicità attuale accrescerà le sue risorse future, quando invece la sua principale
preoccupazione è trovare un posto nel presente. Si vuole promuovere l’autonomia che gli
consentirà di prendere possesso della propria vita, mentre il suo problema è sentirsi simile
a quelli che lo circondano e lo precedono. Si finisce per creare un vuoto tra la verità
dell’esperienza infantile e le aspettative che il loro mondo suggerisce agli adulti. La
sollecitudine in sé non basta, deve anche essere chiarita.
La decostruzione dell’adolescenza
Ho conservato per comodità le categorie di adolescenza e giovinezza. Nell’ultimo periodo
sono state così esplicitamente bistrattate che ormai nessuno può ignorare l’esigenza di
riesaminarle. Ancora una volta, è l’estensione temporale il primo fattore di confusione. Le
cronologie usuali sono saltate e allora si è dovuto ricostruirle, un po' approssimativamente.
Nella letteratura scientifica, per esempio, si distinguono generalmente la pubertà (11-18
anni), l’adolescenza (18-24) e la giovinezza (24-30). Alcuni però preferiscono parlare di
“post-adolescenza”17 per definire quest’ultima tappa. Tony Anatrella ha proposto il
neologismo di 'adulescenza' per evidenziare l’ombra che questa adolescenza prolungata
allunga sull'età adulta18. In presenza di questo cantiere, una buona direzione da prendere
mi sembra quella di riconsiderare le cose dalla base, reinvestendo sul termine 'giovinezza'
che, a dispetto della sua vaghezza, resta il più universale - l'adolescenza ne è una
specificazione recente. In tutte le società ci sono dei giovani. Noi, a partire dalla seconda
metà del XX secolo, abbiamo aggiunto l’adolescenza. L’approssimazione del termine
giovinezza deriva dal suo status di categoria intermedia: si applica a quei soggetti che
escono dall'infanzia e stanno per entrare nell’universo adulto. Di qui l'incertezza, da un
lato, su ciò che in questa fase viene mantenuto dell'infanzia; dall'altro, sulla particolare
modalità con la quale i giovani assumono l'indipendenza sociale tipica dello stato adulto.
Si vedano i due articoli di André Béjin, De l’adolescence à la post-adolescence: les annèes indècis e di
Hervè Le Bras, L’interminable adolescence ou les ruses de la famille, “Le dèbat”, 25, 1983. Si veda anche la
recente discussione critica di Olivier Galland, Adolescence, post-adolescence, jeunesse: retour sur ques
interpretations, “Revue franciase de sociologie”, 42-4, 2001.
18 Tony Anatrella, Interminables adolescences. La psycolocie des 12\30 ans, Cerf-Cujas, Paris, 1998.
17
È forse possibile, tuttavia, fornire una definizione relativamente rigorosa di questa
transizione ricorrendo alla teoria della mediazione, la quale mette fortemente in luce ciò
che caratterizza il bambino e, di conseguenza, il problema dell’uscita dall’infanzia 19.
Entrare nella giovinezza non significa solo guadagnare l’accesso alla maturità sessuale,
ma anche, simultaneamente, l’accesso a quella dimensione umana che è la persona,
ossia l'astrazione di sé come fondamento operativo delle relazioni sociali. Ora, questa
potenzialità della persona, questa capacità cognitiva che permette di porsi come un attore
indipendente nei rapporti con gli altri, presuppone un apprendimento. Una cosa è
recepirne il principio, un'altra acquisirne il controllo. La giovinezza consiste proprio
nell’apprendimento dell'uso sociale di sé, del potere di relazione, con quello che comporta
in termini di conoscenza degli altri, del mondo dentro al quale si cresce e dei suoi codici.
Comprendiamo così, sia detto di passaggio, come l’avvento di un mondo di individui abbia
significato una moltiplicazione delle esigenze rispetto a questa fase di apprendimento: a
tutti quelli che operano all’interno dei rapporti sociali è richiesto infinitamente di più. A
questa conquista della persona bisogna poi aggiungere, sul piano psicologico, la
costituzione parallela della personalità, la quale àncora l’astrazione della persona a un
sistema di disposizioni relativamente stabili e a un’identità assunta come singolare. Una
conquista, quindi, che si gioca nell’incrocio tra l’assunzione del corpo sessuato (ossia del
corpo per l’altro), l'incorporazione delle norme relative al funzionamento collettivo e la
definizione differenziale o limitativa di sé rispetto alla dimensione dei possibili sociali (sono
quello che non sono).
All’interno di questo quadro generale della giovinezza, l'adolescenza è quella fase molto
particolare che garantisce un ponte tra l’infanzia in senso stretto e la giovinezza
propriamente detta. Una fase che viene istituita e riconosciuta, come si sa, alla fine del
XIX secolo20. La categoria corrisponde a una precisa definizione educativa ed emerge
quando alla coscienza collettiva risulta chiaro che la preparazione ai rapporti e ai ruoli
sociali, l'entrata nella società degli adulti, richiede un’educazione sistematica - traduzione
sociologica dell'attivarsi dell'insegnamento secondario, la cui espansione nel corso del XX
secolo costituisce il vettore della diffusione dell’adolescenza. Eppure, ciò che finisce per
caratterizzare maggiormente l’adolescenza nella sua effettiva consistenza storica è la
violenta contraddizione inerente alla sua stessa definizione: per il tramite delle
conoscenze scolastiche, essa è una preparazione alla responsabilità posta però sotto il
segno dell’irresponsabilità, della segregazione generazionale e, per dirla in una parola, di
una frustrazione sociale - alla quale bisogna poi aggiungere la frustrazione sessuale. Di
qui la forbice tra il possibile che si coltiva e l’esercizio effettivo, che si traduce in rivolta
intellettuale e morale, ma anche in comportamenti delinquenziali. Il generalizzarsi
dell’adolescenza si accompagna al diffondersi di movimenti giovanili di controcultura.
Questa nuova fase della vita s’impone lanciando una sfida al mondo degli adulti. In effetti,
la sua costruzione in nome dell’avvenire collettivo produce poi, negli adolescenti stessi,
una dipendenza, una marginalizzazione di status, una “moratoria psicosociale” tanto più
frustrante in quanto ritenuta al servizio di un mondo futuro più autonomo 21. Produce
inoltre, immancabilmente, delle “formazioni compensatrici”, sospese tra il rifiuto di entrare
nel mondo adulto così com’è e il sogno di impossessarsene per trasformarlo.
Credo sia necessario chiedersi se il termine adolescenza sia ancora utile e se le costanti
ridefinizioni cui è sottoposto non tradiscano una crescente inadeguatezza. A me sembra
che si possa parlare di una scomparsa dell'adolescenza in quanto categoria sociale, della
sua progressiva integrazione nel termine di giovinezza. La nozione può conservare una
Si veda l’articolo di Jean-Claude Quentel, Penser la difference de l’enfant, “Le debat”, 132,2004, e il suo
fondamentale libro, L’enfant.Problemes de genèse et d’histoire, De Boeck, Bruxelles 1997.
20 Per la Francia, si veda da ultimo, Agnès Thiercè, Histoire de l’adolescence, 1850-1914, Belin, Paris 1999.
21 Utilizzo qui l’eccellente tesi di Jacques Goguen, Pour une sociologie politique des mouvements sociaux,
Paris-I.
19
sua pertinenza psicologica, concentrando il suo senso sulla ricaduta psichica della
crescita fisica e dell’accesso alla funzione sessuale. Ma l’adolescenza come fatto sociale,
nella dimensione che ha trovato la sua massima espressione intorno agli anni Sessanta, si
sta ormai progressivamente esaurendo. Si è lentamente dissolta grazie proprio alla sua
continua estensione.
Osservandola con più attenzione, l’adolescenza è stata attaccata sui due fronti.
Da una parte viene erosa dall’estensione dell'infanzia. Si trattava, con l’adolescenza, di
rapportarsi a distanza con il mondo degli adulti acquisendo prima di tutto il controllo degli
strumenti e la conoscenza dei meccanismi che reggono quel mondo. Il ritirarsi
dell’avvenire squalifica questa presa di distanza, obbliga, nella prospettiva di un futuro
senza volto, a guardare più in alto e più lontano. All'interno di un prolungamento
dell'infanzia, diventa urgente fornire alla soggettività un’occasione di formarsi e di
affermarsi. Non è forse questo il momento, quello in cui si manifesta l’indipendenza
sociale, di consentire a ciascuno di trovare dentro di sé la propria via e acquisire gli
strumenti della propria libertà? Quello che conta davvero è il potenziale personale coltivato
fuori da un contesto inevitabilmente limitato, contingente e destinato a essere superato.
Lontano dalla logica adattativa che lo governava in precedenza, il programma dell'ex
adolescenza deve essere quindi, come mai prima d'ora, quello di imparare a imparare,
così da potersi svincolare dai contenuti appresi e autocostruirsi mantenendo la propria
libertà rispetto ai ruoli assunti e alla funzioni esercitate. La feconda indeterminatezza
dell’infanzia, condizione per la conquista dell’autonomia, invade così la preparazione a
tutta l’esistenza.
Sull’altro versante, l’adolescenza è attaccata dalla scomparsa del modello sul quale si era
definita. A questo proposito non è eccessivo parlare di una liquidazione dell'eta adulta.
Siamo al cospetto di una disgregazione di ciò che significava maturità22. Le considerazioni
proposte in apertura sulla scomparsa della parentela come ordinatore sociale trovano qui
una conferma. In definitiva la maturità era, per dirla brutalmente, la vita nel segno della
morte, quindi, l’età della vita socialmente determinata dalla prospettiva del rinnovo
generazionale e della riproduzione, con l’autosufficienza economica a rappresentare la
condizione operativa a questo contributo. E all'interno di questo quadro che la genitorialità
acquisiva tutto il suo senso; rappresentava al meglio la forma della responsabilità nei
confronti della società globale e del suo destino; era ciò che conferiva simbolicamente agli
adulti lo statuto di membri in pieno esercizio della loro comunità. Tutte dimensioni che si
sono svuotare di senso, sottraendo alla figura dell’adulto la gravità e l’autorità che
risultavano dalla funzione decisiva che incarnava. Quella dell’adulto non è ormai che
un’età, senza un particolare rilievo o privilegio sociale. Nessuno deve più essere maturo,
nel senso che non sussiste più l’obbligo pubblico della riproduzione collettiva. La vita
famigliare e la procreazione sono divenute questioni puramente private. Non esistono più
modelli di esistenza adulta definiti dal discrimine della creazione di un nucleo famigliare modello di riferimento per i più o spauracchio per alcuni, poco importa; per tutti,
comunque, fondamentale elemento identificante. Il matrimonio stesso, oggi, apre a una
vita ormai priva di esempi validi per tutti.
D’altro canto, è venuto meno ciò che rendeva lo stato adulto identificabile e desiderabile:
restare giovani diviene l’ideale esistenziale se si scopre di avere molto tempo di fronte a
sé e si ha tutta l’intenzione di sfruttarlo, ossia di conservare per il futuro le cose da fare.
Una vita lunga è una vita che può essere vissuta di nuovo, su tutti i piani. La dimensione
drammatica dello stato adulto sta tutta nel suo essere limitante. È segnato da vincoli
sentimentali duraturi e dagli obblighi di una specializzazione professionale. E
caratterizzato dalla rinuncia a legami sentimentali che avrebbero potuto rendere più felici e
ad ambiti professionali per i quali ci si sentiva più adatti. ln precedenza queste limitazioni
Si veda, in una prospettiva diversa dalla nostra, Jean-Pierre Boutinet, L’immaturitè de la vie adulte, PUF,
Paris 1998, e Psychologie de la vie adulte, PUF, Paris 2002.
22
erano compensate dalla crescita sociale: ciò che si perdeva in quanto a possibilità lo si
riconquistava grazie alla famiglia, all’attività lavorativa, allo status acquisito. Certo, un
simile orizzonte resta valido per quella minoranza che fa carriera - e, grazie al peso
esercitato dalle élites, conserva ancora la dimensione di modello collettivo. Eppure non si
può non constatare come il suo valore prescrittivo vada indebolendosi agli occhi dei più,
che non percepiscono affatto tutti questi vantaggi legati all’avanzare dell’età e che, al
contrario, subiscono il ridimensionamento inesorabile che risulta dall’accumularsi di queste
determinazioni esterne. Ecco allora che l’ideale di massa diviene essere il meno adulti
possibile, nel senso peggiorativo acquisito dal termine, sfruttarne i vantaggi aggirandone
gli inconvenienti, mantenere una distanza rispetto agli impegni e ai ruoli imposti,
conservare il più possibile delle riserve per altre possibili direzioni. La giovinezza assume
valore di modello per l'intera esistenza.
Ecco allora che l’adolescenza, in mancanza di uno sbocco, in mancanza di una soglia da
superare che ne rappresentava indiscutibilmente il termine, perde il suo carattere di
transizione. E’ sottoposta a una doppia decostruzione, da una parte il venir meno di ciò
che l’opponeva all’infanzia, ossia il confronto con la vita adulta, dall’altra il diluirsi di ciò che
conferiva a quest’ultima la sua identità di dimensione compiuta. Allungandosi,
l’adolescenza tende a fondersi in una giovinezza essa stessa penetrata d’infanzia. Le
tappe restano - del resto si fondano su una certa oggettività naturale - ma, dal punto di
vista della comprensione sociale, risultano relativizzate dall’unificazione di una prima
grande età dell’esistenza che comincia a informare di sé, se non addirittura a dominare, il
resto dell’esistenza. L’antica e venerabile frontiera di entrata nella vita, che non poteva
che mettere i brividi, si sgretola insieme ai suoi imperiali prestigi. Entrare nella vita: non
sarà forse questa la nuova definizione della vita?
Dalla giovinezza senza ribellione al mondo senza adulti
A proposito dell’adolescenza abbiamo assistito a qualcosa in grado di modificare il nostro
modello di civiltà: la scomparsa della ribellione adolescenziale - che, a partire dal XIX
secolo, era sempre stata una delle fonti creative della nostra cultura. I suoi ultimi fuochi
sono stati lanciati negli anni Sessanta. Il maggio del 1968 ne ha fornito l'immagine
culminante e ultima, elevando teatralmente la rivolta giovanile all'altezza delle rivoluzioni
del passato. Essa è stata poi riassorbita dalle trasformazioni sociali, in particolare a causa
dei cambiamenti subiti dalla famiglia.
Si legava alla drammatizzazione dell’entrata nella vita prodotta dalla scolarizzazione. Gli
adolescenti erano impazienti di prendere in carico questo mondo di adulti al quale li si
stava preparando isolandoli. Li si metteva in condizione di potervisi proiettare con il
pensiero, si fornivano loro tutti i mezzi permettersi più intelligenza di quanta ne fosse
richiesta, privandoli allo stesso tempo di una qualsiasi voce in capitolo. Più grande era la
loro impotenza, più vivo si faceva il senso di responsabilità e più vasta l’ambizione di
cambiare quel mondo che ai loro occhi si presentava chiuso e oppressivo - e che con il
loro avvento, questo era certo, non sarebbe più stato quello conosciuto fin lì. L’impazienza
di mettersi alla prova era tanto più intensa se consideriamo che alla posizione di
minoranza in società si aggiungeva la privazione sessuale. Non c’è niente che traduca
meglio il vigore dell’aspirazione a raggiungere la vita adulta del progressivo abbassamento
dell’età matrimoniale prodottosi tra il 1945 e il 196523 - e quindi, come si vede, in un’epoca
a noi ancora molto vicina.
Da quel momento il quadro si è ribaltato.
Da una parte, gli adolescenti beneficiano ormai di uno statuto di adulti semi-indipendenti:
l'età fissata per diventare maggiorenni è stata abbassata, e con essa il diritto di voto (che
A ragione Paul Yonnet attira l’attenzione sulla portata del fenomeno in Fèconditè, nuptalitè, maritalitè, “Le
dèbat”, 50, maggio-agosto 1988.
23
presto potrebbe abbassarsi ancora), il livello della ricchezza sociale consente alle famiglie
di fornire a una gran parte di loro un sostegno economico non indifferente, godono molto
presto di una larga libertà sessuale. Insomma, sono scomparsi i motivi di frustrazione
associati alla dipendenza e alla posizione d’inferiorità.
Ma, dall’altra parte, questi adolescenti liberati non esprimono più alcuna voglia di
prendersi in carico il mondo, vuoi per assecondarne l’andamento, vuoi per cambiarlo. Non
mostrano più nemmeno il desiderio, del resto, di rendersi autonomi nella loro dimensione
personale. Se continuano a contestare la società che li circonda, lo fanno proprio per la
scarsa voglia di aderivi che questa suscita. E infatti tendono a procrastinare il loro
inserimento24, quando addirittura non sfuggono alla presa dell’età adulta, uno stato vissuto
come castrante rispetto alla ricchezza delle virtualità che restano aperte finché dura la
giovinezza. Gli strumenti supplementari che si acquisiscono si pagano con l’amputazione
drastica del possibile. Grande inganno! E perché dovrebbero pensare diversamente i
nostri post o nuovi adolescenti, quando i loro padri unanimemente non fanno che invidiare
questo potenziale di scelta di sé di cui dispongono e che si sforzano di aumentare? La
giovinezza senza ribellione conduce a un mondo senza adulti - senza adulti consenzienti,
in ogni caso, o con adulti per metà rassegnati e per metà frustrati.
Ancora una volta, questo è l`effetto della definitiva dissoluzione del vincolo
istituzionalizzato alla riproduzione, la cui assunzione era esattamente ciò che definiva la
maturità. La sua rimozione lascia un mondo di individui svincolati dall'ultimo obbligo che li
legava alla società, che imponeva loro di occuparvi un posto particolare, visto che per
essere integralmente degli individui era necessario prendersi carico di perpetuare la vita.
Per questi individui slegati dal dovere della maturità, l’orizzonte esistenziale legittimo è
costituito dalla crescita personale, con la perpetua giovinezza che suppone e con i salti, le
biforcazioni e le rifondazioni che chiede di considerare. Nessuna realizzazione sociale,
nessuna identificazione con l’esercizio di un ruolo riconosciuto sono in grado di soddisfare
una tale esigenza. Motivo per cui, del resto, il tema della realizzazione personale è
ridiventato un problema pressante.
***
Le conseguenze in ambito educativo di questa ricomposizione delle età sono
caratterizzate da una notevole ambiguità.
L’educazione non è mai stata così legittima. La richiesta di formazione non è mai stata
così grande, e mai così forte è stata la preoccupazione di garantirla a tutti (ai bambini
handicappatj, per esempio). Una fede che si spinge fino a proiettarsi nell'idea di una
“formazione che duri tutta la vita”. ldealmente, non si smette mai di accrescerne il
potenziale.
Eppure, mai come ora si è stati così incapaci di conoscere quale contenuto dare e per
quali vie far passare questa formazione. Tutto passa per la scuola, su questo sono tutti
d'accordo; il fatto è che nessuno sa bene che cosa debba passare. La preparazione a un
avvenire forzatamente personale mette in crisi i dispositivi tradizionali, compresi quelli più
avanzati, senza fornire un programma alternativo. Anche quando riprende a suo modo il
famoso «imparare a imparare», lo fa operando, come abbiamo visto, una torsione che non
contribuisce a renderlo più praticabile. Come pensare una formazione 'da sé' in vista di un
“per sé” futuro? L’istruzione, che mirava a fornire alle persone i rudimenti di una razionalità
valida per tutti e gli strumenti di una comunicazione tra tutti, sembra ben poca cosa
rispetto alla dimensione del sé che si tratta di mobilitare. Nemmeno lo sviluppo delle
facoltà di adattamento all’esercizio di una funzione nella società sembra costituire una
24
Su questo punto si imporrebbe un esame approfondito del problema complesso della disoccupazione tra i
giovani, un approfondimento che probabilmente renderebbe meno perentoria l’affermazione senza, tuttavia,
modificarla nel profondo.
risposta - misconosce quella libertà soggettiva che deve costituire il vero punto di
appoggio. Lo stesso tema della piena realizzazione personale vantato dalla pedagogia
dell’individuo non coglie il problema, limitandosi al solo presente e non prestando
sufficiente attenzione alla proiezione in avanti del potenziale che coltiva. Per il momento il
nuovo imperativo funziona come un’utopia destabilizzante e insaziabile. Alimenta un
senso di cronica inadeguatezza dell’istituzione nei confronti di quello che dovrebbe essere
il suo compito.
Ma non siamo che all’inizio. Quello che mi sono sforzato di mettere in luce, calcandone
volontariamente i tratti, è la logica imperiosa delle rappresentazioni che accompagnano
questa grande trasformazione nel tempo della vita. In questo stadio iniziale, è all’origine di
una mitologia che riguarda sia il corso delle nostre esistenze, sia i poteri dell’educazione o
le condizioni della vita sociale. Una mitologia il cui scontro con la realtà promette di essere
assai rude - stiamo già assistendo ai primi effetti. Non siamo condannati a essere schiavi
delle proiezioni ideologiche ispirate da questa ridefinizione delle età. Messe alla prova,
una volta superata la loro iniziale naiveté, queste rappresentazioni collettive sono
destinate a correggersi. Il problema è renderle chiare, e questo presuppone di cogliere ciò
di cui sono espressione, per far emergere gli effetti impossibili da gestire, o i vicoli ciechi ai
quali le estrapolazioni da cui derivano possono condurci. Del resto, queste
rappresentazioni non fanno altro che suscitare visioni oniriche su ciò che significa
apprendere o vivere e, come cominciamo a constatare, lasciano spazio a visioni più
realistiche di quelle prevalenti nel passato riguardo a come dev’essere, per esempio, un
insegnamento elementare. È inutile tuttavia piangere sugli effetti senza risalire alle cause.
Di qui l’importanza di dipanare questo intrico di supposizioni e di aspirazioni. Dobbiamo
imparare a vivere con una nuova temporalità della vita.