Il Libro sacro. Letture e interpretazioni ebraiche, cristiane e musulmane [Testi e pretesti] Paravia Bruno Mondadori, Milano 2002, pp. XXIV-264, € 11,90 Il volume raccoglie, in formato elegante e tascabile (17 cm), le relazioni svoltesi a Milano tra il settembre 2000 e il gennaio 2001 durante una serie di nove incontri organizzati congiuntamente dalla Banca Popolare di Milano, la Biblioteca Ambrosiana e il Centro ambrosiano di documentazione per le religioni della Diocesi di Milano. Il direttore generale della Banca, Ernesto Paolillo, apre il volume con una sorta di Prefazione dal titolo «La prova dello straniero» (pp. VII-IX) nella quale richiama l’attualità del tema dello straniero nella società italiana in rapida via di trasformazione in senso multietnico e multiculturale. Segue, praticamente come Introduzione del volume, un intervento pronunciato dall’allora arcivescovo di Milano, il card. Carlo Maria Martini, alla giornata di studio biblico ebraico-cristiano promosso a Milano nel gennaio 1996 dal gruppo interconfessionale Teshuvà. L’intervento magistrale di Martini, dal titolo «Profonda consonanza di radici» (pp. XI-XXIII), sebbene risalente a quattro anni prima delle relazioni pubblicate nel volume, svolge un’opportuna funzione introduttiva al tema generale del libro e ne dà la chiave di lettura: nella doppia veste di illustre studioso del Nuovo Testamento e di prestigioso pastore della diocesi ambrosiana il cardinale legge Mc 12,28-34 ravvisando nell’incontro tra lo scriba e Gesù su Dt 6,4-5 un brano di consonanza profonda tra il giudaismo palestinese, rappresentato da Hillel e R. Jochannan ben Zakkay, e la posizione nuova di Gesù. Seguono le dodici relazioni che vertono tutte sopra “Il Libro sacro”: l’Antico Testamento per gli ebrei, la Bibbia per i cristiani, il Corano per i musulmani. Nella prima, «Bereshît…En archè. Genesi 1-3: il canto della creazione e della redenzione» (pp. 1-18), Gianfranco Ravasi rilegge i primi tre capitoli della Bibbia con suggestivi richiami alla ricca tradizione ebraica e con numerosi riferimenti a testi extra biblici antichi e moderni. Nella seconda relazione, «Un approccio antropologico: violenza, sacro e verità» (pp. 19-78), Mohammed Arkoun, direttore della rivista Arabica, offre un ponderoso e assai impegnativo esempio di lettura in chiave antropologica e comparativa dei complicati processi culturali coi quali le tre religioni del libro hanno nei secoli elaborato la propria identità in opposizione all’interlocutore di turno, visto come un nemico privo della verità. Nella terza relazione, «Il Dio e il popolo che scaturiscono dalle Scritture» (pp. 79-94), Haim H. Baharier, discepolo del filosofo ebreo Emmanuel Lévinas, affronta la questione del rapporto tra Parola di Dio scritta e Parola di Dio letta, insistendo soprattutto sul concetto di dinamicità della rivelazione di Dio che richiede, da parte dell’uomo, un “movimento perpetuo di entrata e di uscita da essa [= la Scrittura], di ritrosia e di emergenza…è questo movimento che conferisce alla parola scritta il senso dell’infinito, ed è questo movimento che invita all’esperienza” (p. 84). Nella quarta relazione, «Introduzione al Midrash» (pp. 95-120), René Samuel Sirat, gran rabbino di Francia, offre un’ottima e sintetica introduzione non solo al Midrash ma anche ad altri testi della tradizione giudaica (Talmud, Mishnah, Targum, Tosseftà), parla della gioia della Torah e afferma che “è indispensabile, quando leggiamo il testo biblico, attualizzarlo, essere pienamente coscienti che è la parola vivente del Dio vivente che si rivolge a noi, oggi” (p. 98). Nella quinta relazione, «Il tempo della fine, il presente e l’escaton nella teologia di Paolo» (pp. 121-135), Salvatore Natoli, docente universitario di filosofia teoretica, mostra l’evoluzione della teologia paolina dalla tensione al quando verrà la fine al come vivere oggi l’escaton spirituale (da notare un refuso di stampa a p. 129). Nella sesta relazione, «I Dieci Comandamenti e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» (pp. 136-164), André Chouraqui, scrittore e uomo politico franco-israeliano nato in Algeria, si sofferma sul tradimento drammatico, e per certi versi inspiegabile, dei Dieci Comandamenti da parte dei credenti delle tre religioni del libro e, istituendo un collegamento con la Dichiarazione del 1948, asserisce che “le Dieci Parole…esprimono la legge suprema dell’umanità intera, non solo di ebrei, cristiani o musulmani” (p. 142). Nella settima relazione, «Venite, tutto è pronto» (pp. 165-184), Gina Lagorio, nota saggista, prendendo lo spunto dalle parabole evangeliche del convito (Mt 22 e Lc 24) mette in luce elementi religiosi e culturali che possono andare nella direzione di una vita umana armonicamente inserita nell’ambiente, rispettosa della identità dell’altro, libera dall’idolatria madre dell’indifferenza, conviviale. Nell’ottava relazione, «Il Corano, l’Islam e la donna» (pp.185-206), Raoudha Guemara, docente di storia medievale all’università di Tunisi, offre un’appassionata e discutibile panoramica circa la posizione della donna nei diversi Islam e nelle diverse società ad esso in qualche modo connesse. A parte un paio di perdonabili errori di italiano alle pp. 190 e 192, l’Autrice approfitta del suo intervento per lanciare strali all’indirizzo del Vaticano (cf. p. 198) e per affermare con sicumera: “Le donne del tempo del Profeta [= Maometto] godevano di diritti che le loro compagne ebree e cristiane non si sognavano neppure” (pp. 204-205); del resto R. Guemara aveva già asserito che “il Libro sacro [= Corano] è favorevole all’emancipazione della donna” e che “l’avvento dell’Islam vieta l’infanticidio, limita la poligamia a quattro mogli (tetragamia), istituisce il diritto di successione e organizza lo statuto giuridico della donna sposata” (p. 187). Ma, volendo rilevare il meglio del suo contributo, sono notevoli almeno cinque aspetti positivi: la libertà dell’Autrice nell’auspicare quello che potremmo chiamare, per intenderci, una specie di libero esame del testo coranico che i credenti musulmani dovrebbero consultare in prima persona “senza rimettersi ciecamente all’esegesi ufficiale e ufficiosa” (p. 200); l’esortazione rivolta alle donne musulmane a studiare la teologia “allo scopo sia di liberarsi dei falsi teologi che la dominano sia di dimostrare che la religione è anche un fatto femminile” (p. 200); la denuncia del “volto perverso” dato all’Islam dalla “ricca Arabia Saudita” (p. 202); l’affermazione che il velo portato dalle donne “non è un obbligo imposto dalla religione” (p. 202); ed infine, soprattutto, l’accorata battaglia contro la pratica barbara e brutale dell’infibulazione che segna comunque per sempre “la vita di circa un quarto della popolazione femminile che vive nell’Islam” (p. 199). La nona relazione, «Abramo e la fede prima dei libri» (pp. 207-213), di Roberta De Monticelli, docente universitaria di filosofia moderna e contemporanea, pone rapidamente, e forse un po’ sommariamente, il problema del rapporto tra le tre tradizioni religiose del libro e la filosofia: mentre questa ha realizzato con la tradizione cristiana un’innegabile e costante compenetrazione, con quella ebraica e quella musulmana i contatti “appaiono meno chiari” (p. 211) salvo celebri eccezioni, per la verità non trascurabili, come Avicenna e Averroè da parte araba e Maimonide da parte ebraica (cf. p. 211). Nella decima relazione, «Il mistero della Parola scritta» (pp. 214-218), il cardinale Jorge Mejía, segretario della Commissione Vaticana per i rapporti religiosi con l’ebraismo, afferma subito che “la religione cristiana…può essere definita una religione del Libro” (p. 214) e dice che per la fede cristiana e cattolica la Sacra Scrittura “non soltanto contiene la Parola ma è veramente la Parola del Dio in cui crediamo, Padre, Figlio e Spirito Santo” (p. 215). Nel seguito del suo contributo il card. Mejía precisa tuttavia che “quella cristiana non è soltanto una Religione del Libro. Anzi il Libro stesso è considerato il frutto di una Parola vivente” (p. 215) e sviluppa il tema della Sacra Tradizione nella quale recepire la Sacra Scrittura. Nell’undicesima relazione, «Abramo nel cuore della Scrittura» (pp. 219-224), Jean Halpérin, presidente del Comitato preparatorio dei Convegni degli intellettuali ebrei di lingua francese, contesta la R. De Monticelli e riprendendo l’intervento del card. Mejía afferma che la Rivelazione, al pari della Creazione, “non può essere semplicemente «un fatto compiuto»”; tale concezione dinamica e aperta della Torah con il ricentramento della figura di Abramo sposta l’interesse di ebrei, cristiani e musulmani su una domanda capitale: “che cosa noi tutti dobbiamo fare per diventare degni di essere suoi figli [scil.: di Abramo] senza usarlo come un alibi?» (p. 221). Infine, nella dodicesima relazione dal titolo «Rivelazione e intelligenza umana» (pp. 225-243), Tariq Ramadan, docente universitario di Islamologia, precisa la nozione islamica di Rivelazione e afferma la continuità di tale rivelazione il cui inizio non va individuato in Abramo bensì in Adamo (cf. p. 226). Come si può dedurre da quanto osservato, il volume è senz’altro molto bello e interessante, anche se, come capita facilmente in opere a più voci, non sempre gli autori sono rimasti al livello alto ed esigente richiesto dallo spirito aperto e dialogante degli organizzatori degli incontri. Il quadro che emerge è complessivamente positivo, sicchè l’iniziativa ambrosiana va colta con benevolenza ed è senz’altro premiata. È possibile a questo punto individuare alcune convinzioni comuni che, pur con sfumature diverse, i rappresentanti ebrei, cristiani e musulmani hanno espresso con maggiore forza e chiarezza. Anzitutto esiste un consenso assolutamente unanime sulla definizione di «religioni del libro»: sono tre e hanno tra di loro un rapporto genetico intangibile simbolizzato dall’unica paternità di Abramo. Di conseguenza in generale appaiono alcune caratteristiche positive che dovrebbero portare ebrei, cristiani e musulmani ad un miglioramento del loro rapporto reciproco: superamento di vecchie contrapposizioni, inutili, violente e dannose; salvaguardia dell’identità di ognuno dei tre interlocutori; necessità di coltivare un dialogo e un confronto costruttivo e sincero; importanza del riferimento alla figura di Abramo, comune alle tre religioni del libro; rilievo dato alla dimensione della fede, per la quale la vita personale e comunitaria del credente ebreo, cristiano e musulmano è continuamente illuminata e guidata dall’alto, da Dio, esattamente come è stato guidato il padre dei credenti e la sua numerosa famiglia; il bisogno, anch’esso ampiamente condiviso, che ognuna delle tre religioni approfondisca al suo interno il rapporto dinamico tra Libro e Tradizione. È a questo livello che si può particolarmente apprezzare il confronto tra posizioni e punti di vista diversi, in quanto per tutti esiste e comunque almeno ad un certo punto ha il sopravvento il desiderio sincero di adeguare la propria vita morale ai dati della rivelazione attualizzati dalla tradizione. D’altra parte è proprio da questo particolare punto di osservazione che possono nascere divergenze consistenti tra i rappresentanti delle tre religioni. Emergono infatti dalla raccolta delle relazioni qui pubblicate quasi due fronti: da un lato quello giudaico-cristiano con la preoccupazione di mantenere viva fino ad oggi la Parola del Dio vivente con tutte le esigenze di dinamicità e propositività garantite dalle rispettive tradizioni, dall’altro il fronte islamico con una certa rigidità interpretativa legata alle gloriose, ma ormai datate, scuole giuridiche coraniche. Dobbiamo auspicare, con la prof. Raoudha Guemara, un ritorno assoluto e liberante all’integrità del testo coranico da parte delle credenti musulmane per attendere la rivitalizzazione e la definitiva apertura delle tradizioni coraniche e avviare così un dialogo costruttivo con ebrei e cristiani? GIUSEPPE SCIMÈ