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Capitolo 2 – Africa addio? La natura in pericolo
2.1. I QUADRI AMBIENTALI
Una classificazione in base ai biomi (= cioè alle grandi unità ecosistematiche zonali sviluppatesi in funzione del clima e
che, pertanto, sono caratterizzabili quanto a struttura della vegetazione e composizione della fauna) può
sommariamente illustrare la gran varietà di quadri ambientali dell’Africa.
Un bioma può coincidere con determinate zone fitogeografiche o includerne diverse.
In Africa i biomi si distribuiscono approssimativamente in aree concentriche attorno al bacino del Congo ( fig. 5).
Ciò è dovuto essenzialmente alle relazioni tra il clima (e soprattutto la distribuzione delle precipitazioni) e la vegetazione
naturale, sebbene siano presenti variazioni locali legate al suolo, all’idrografia, all’altitudine e all’attività antropica.
Ci sono poche aree dove la vegetazione “naturale” non sia stata modificata dalle attività umane
 Agricoltura di sussistenza e di piantagione
 Pascolo e allevamento commerciale
 Deforestazione
 Caccia di sussistenza e bracconaggio
Il cui impatto è reso + drammatico dalla rapida crescita della popolazione.
La foresta pluviale
Dal punto di vista biologico l’area + favorita si sviluppa a cavallo dell’equatore ed è caratterizzata da temperature
costantemente elevate (con medie annue comprese tra 25 e 30°C) associate a piogge abbondanti durante tutto l’anno.
I)
Un primo aspetto del clima equatoriale è dunque la grande uniformità: mancano vere stagioni in quanto la
durata della luce giornaliera oscilla intorno alle 12 ore.
II)
È un clima da serra calda che risulta vantaggioso per la crescita dei vegetali, e di conseguenza, per la vita
animale. La vegetazione naturale è costituita da dense foreste con specie sempreverdi. Queste formazioni
vengono indicate come foreste pluviali equatoriali (rain forests).
III)
Sulla base del numero di specie endemiche, le foreste pluviali africane sono state incluse tra i “punti caldi”
della biodiversità mondiale: la fauna è molto varia e prospera ai vari livelli: scimmie, uccelli, rettili, anfibi e
insetti.
IV)
A fronte dell’estrema complessità della vegetazione, paradossalmente, le foreste pluviali presentano suoli
relativamente semplici. Per questo i terreni conquistati a scapito della foresta non sempre sono adatti
all’agricoltura e costituiscono una condizione d’impoverimento rispetto alle situazioni di partenza.
V)
L’ambiente delle foreste pluviali ha tradizionalmente fornito una quantità di risorse per la sussistenza dei
popoli della foresta:
 Frutti
 Germogli
 Radici
 Tuberi
 Ampie possibilità di caccia
Piccole comunità di individui, come i Pigmei del bacino del Congo, vivono tuttora di caccia e raccolta.
VI)
L’apparizione dell’agricoltura ha, da tempo, comportato la riduzione e la trasformazione della copertura
forestale. L’agricoltura tradizionale di foresta è di tipo itinerante (shifting cultivation). Durante il periodo di
riposo (dai 10 ai 20 anni di tempo) la vegetazione spontanea riconquista i vecchi spazi destinati
all’agricoltura, data anche l’esiguità delle superfici messe a coltura, dando però corpo a una formazione
meno densa e più semplificata: la foresta “secondaria”. Mentre la foresta primigenia è solo un pallido
ricordo per la maggior parte dell’Africa, la foresta secondaria corrisponde meglio alle esigenze
dell’agricoltura, perché i suoi alberi sono più facili da abbattere e da incendiare ed è più ricca di prodotti
commestibili e di selvaggina.
Oggi tuttavia questo ciclo si è spezzato sotto la pressione causata dal rapido incremento della popolazione
umana.
 L’intensificazione delle colture e
 La conseguente riduzione del periodo di riposo
Ha portato a forme + distruttive di agricoltura itinerante. In questo caso la foresta secondaria si
degrada sino a scomparire del tutto, trasformandosi in savana attraverso stadi successivi caratterizzati
da una presenza sempre meno accentuata dagli alberi.
VII)
Ben + intensa è la distruzione della foresta operata in molti paesi
 Per fare posto alle piantagioni di cacao, caffé, palma da olio e da cocco, ecc… o
 Per lo sfruttamento industriale di legname pregiato e da opera gestito dalle grandi compagnie
internazionali per soddisfare la domanda dei paesi industrializzati.
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Capitolo 2 – Africa addio? La natura in pericolo
Queste attività stanno distruggendo una vasta area delle foreste equatoriali dell’Africa.
Le savane e le steppe
Tra la regione delle lussureggianti foreste equatoriali e gli aridi deserti dei tropici, si estende una larga fascia climatica e
vegetazionale caratterizzata da ritmi stagionali molto marcati, con l’alternanza di
o Stagioni umide e
o Stagioni completamente secche.
Le temperature restano pressoché costanti per tutto l’anno, attorno ai 30°C e oltre.
La stagione piovosa coincide con i mesi relativamente più caldi, al passaggio del sole allo zenith, mentre, nei mesi
relativamente più freschi, sopraggiunge un lungo periodo asciutto.
La copertura vegetale è determinata prima di tutto dal gradiente delle piogge.
Man mano che ci si allontana dalle regioni equatoriali umide, la foresta lascia il posto a radure erbose sempre più vaste,
che finiscono con il prevalere nettamente sulle macchie boschive.
Prende allora il sopravvento il paesaggio tipico della savana: una sterminata distesa di alte erbe dove emergono, isolati
o a gruppi, radi alberi e arbusti in varie associazioni.
Gli alberi della savana non sono mai caratterizzati da fusti molto alti e presentano caratteristiche fisiologiche atte a
resistere alla siccità:
a) Foglie piccole, coriacee (=dure,legnose) e spesso decidue (che cadono), o metamorfosate in spine, come
avviene nelle tipiche acacie ad ombrello.
b) Oppure hanno fusti ingrossati che fungono da riserva di acqua come i grandi baobab.
Man mano che ci si allontana dall’equatore,
1. alla savana alberata
2. segue la savana arbustiva e
3. poi la savana erbosa, dove l’albero lascia definitivamente il campo
4. alla steppa, una distesa color ocra di erbe seccate dalla lunga stagione asciutta.
Quest’ultima formazione è tipica del Sahel (=”sponda/riva”). La regione saheliana occupa una grande fascia al
confine meridionale con il Sahara che dal Senegal giunge fino al Sudan e poi alla Somalia; e con le sue steppe
erbose inframezzate ad arbusti spinosi e larghe macchie di terreno nudo, rappresenta una forma di transizione tra la
savana e il deserto. (fig.7)
L’ecosistema delal savana fornisce nutrimento ad una fauna quanto mai ricca e specializzata.
Tra gli erbivori:
 antilopi
 gazzelle
 zebre
 giraffe
 gnu
 elefanti
 rinoceronti
 bufali
 struzzi
Tra i predatori:
 leoni
 leopardi
 ghepardi
 iene
un tempo i grandi branchi di animali selvatici compivano migrazioni su lunga distanza, seguendo le piogge sporadiche,
inseguiti dai proprio predatori (e dall’uomo).
Durante la stagione secca, le savane sono facile preda di incendi, spesso appiccati volontariamente dalle popolazioni
locali per facilitare il rinnovo della copertura erbacea e favorire il pascolo. La gran parte degli alberi della savana è
resistente al fuoco e ciò fa pensare che la pratica colturale sia molto antica. È altresì probabile che questi interventi,
protratti per millenni, abbiamo contribuito ad una abnorme espansione di questi paesaggi a scpito delle originarie
formazioni boschive.
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Capitolo 2 – Africa addio? La natura in pericolo
Tra i tipi di terreno prevalgono quelli lateritici, sotto molti aspetti simili a quelli delle foreste pluviali. La scarsa
compattezza superficiale li rende facile preda dell’erosione, sia idrica che eolica, al punto che spesso la dura corazza di
laterite affiora in superficie, segnando la morte del terreno agrario.
Le aree della savana sono tendenzialmente sovrappopolate, sia di uomini che di animali domestici, entrambi
responsabili di un forte impatto sull’ambiente.
Lo sfruttamento della savana è indissolubilmente legato al pascolo di animali domestici: bovini, ovini, caprini, asini, ecc…
In tutte le savane africane è diffusa la pastorizia nomade, anche se oggi appare sempre più ridotta a forme prossime al
seminomadismo e alla transumanza. (fig.8).
 il successo della lotta contro la mosca tse tse e
 l’apertura di nuovi pozzi
ha determinato un forte incremento del pascolo intensivo con conseguente accresciuta erosione e degrado del
suolo.
Popoli di pastori si trovano in tutta l’africa ( Peul, Masai, Zulu, ecc…). Per i popoli pastori il bestiame è, al tempo stesso
 mezzo di sussistenza
 segno di prestigio sociale e
 ragione di esistenza.
Anche nelle savane si pratica l’agricoltura itinerante, basata sul sistema del taglia e brucia (=debbio), simile a quello
delle foreste pluviali. La durate del maggese (=campo a riposo) è assai varia; quando la popolazione aveva a
disposizione vaste estensioni di terreno per assicurarsi una rotazione a ritmo soddisfacente, poteva durare anche una
ventina di anni.
In aggiunta, l’ambiente della savana fornisce spazi per
 la caccia di sussistenza
 la raccolta di piante medicinali e di prodotti vari.
Sebbene lo sfruttamento delle risorse da parte della popolazione sia stato sostenibile nel passato, gli attuali modelli
suggeriscono che il patrimonio naturale di questa vasta area stia affrontando un progressivo degrado.
I deserti
Più lontano dall’equatore, in corrispondenza delle alte pressioni tropicali, la steppa sfuma gradualmente nel deserto.
Qui le temperature medie del mese più caldo sono superiori ai 30°C e le precipitazioni annue sono molto scarse.
L’aridità è resa più acuta dalla rapida evaporazione dell’umidità del terreno causata appunto dalle alte temperature.
Nella maggior parte dei deserti africani le piogge sono inferiori ai 70 mm l’anno. Sono valori poco significativi, perché le
precipitazioni desertiche sono molto incostanti. Può accadere infatti che non piova per decine di anni. Di contro, talvolta,
sopraggiungono piogge torrenziali concentrate in un unico acquazzone. In questi casi vengono inondate ampie zone
pianeggianti con la formazione di grandi laghi temporanei di acque basse e salate a causa del dilavamento di tutti i Sali
accumulatisi durante i lunghi periodi siccitosi.
In Africa si estende il più grande deserto della Terra, il Sahara, che con i suoi 9 milioni di km² occupa 1/3 del continente.
Il concetto di deserto è molto vario.
Il Sahara è considerato il deserto per eccellenza e la sua icona paesistica è data dalle grandi dune di sabbia.
In realtà solo il 20% della superficie del Sahara è coperto di sabbia.
Il Sahara non ha un aspetto uniforme e vi si identificano infatti diversi tipi di paesaggio:
1. l’hamada, deserto di roccia nuda, liscia, incisa e modellata dai venti,
2. il serir, formato da uno strato di ciottoli e ghiaia
3. l’erg, nel Sahara centrale, formato dalle caratteristiche dune di sabbia.
L’aspetto esteriore più evidente delle regioni desertiche è la quasi completa assenza del manto vegetale. Tra i pochi
vegetali spontanei di questo ambiente, che possono offrire qualche risorsa per l’uomo, primeggia la palma da dattero,
tipica delle oasi sahariane, situate negli avvallamenti del suolo, dove affiora la falda freatica sotterranea.
La fauna del Sahara è molto povera, ma in compenso, presenta adattamenti assai interessanti e singolari. È costituita
soprattutto da rettili, pochi carnivori, piccoli roditori e naturalmente, i domestici dromedari.
L’estrema specializzazione degli adattamenti, tanto nei vegetali come negli animali, qualifica il deserto come un
ecosistema con biomasse (=grandezza usata per valutare quantitativamente la fauna)molto limitate, ma ad elevata
strutturazione e integrazione dei vari componenti.
Il deserto è luogo di vita anche per le comunità umane: non c’è deserto che non presenti un suo popolo:
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o
o
o
o
i Tuareg o “uomini blu” del Sahara
i San o Boscimani del Kalahari
i Nama o Ottentotti del Namaqualand
i Dancali della Dancalia
La vegetazione mediterranea
Oltre i deserto, sia a nord che a sud dei tropici, si estendono biomi di tipo mediterraneo che si sviluppano
 in condizioni di clima temperato-caldo (media annua tra i 14° e 20°C),
 con piovosità variabile e
 spiccata aridità estiva.
L’originalità climatica di questa regione si riflette sul manto vegetale del bordo mediterraneo del Nordafrica,
caratterizzato dalla “macchia”, un’associazione costituita da alberi e arbusti sempreverdi tra cui predominano le piante
xerofile (leccio, quercia da sughero, corbezzolo, carrubo, lentisco, palma nana,ecc).
Oltre alla fascia mediterranea del Nordafrica, queste condizioni climatiche si riscontrano anche nell’estrema regione
australe, in Sudafrica.
Gli ambienti di montagna
Un habitat assai peculiare si trova nelle regioni montuose che
1. fiancheggiano la parte meridionale della grande Rift Valley e
2. la regione dei Grandi Laghi ( Etiopia, Eritrea, Uganda, Kenya, Tanzania settentrionale e Malawi)
3. nella catena dei Monti dei Draghi in Sudafrica e
4. nella catena dell’Atlante in Marocco e Algeria.
In queste regioni montuose la progressiva diminuzione delle temperature determina una stratificazione della vegetazione
in fasce altitudinali, che partendo dalla foresta umida o dalla savana, a seconda della latitudine, giungono fino a
paesaggi di praterie temperate e di tundra, fino al limite delle nevi permanenti nei coni vulcanici più elevati (oltre i 5000
m nel Kilimangiaro, Kenya e Ruwenzori).
Tutti gli habitat di montagna della regione presentano alti tassi di specie endemiche.
2.2. LA CRISI ECOLOGICA AFRICANA
Numerosi sintomi fanno temere che l’Africa sia sull’orlo di un collasso ecologico.
Il debole sviluppo africano seguito all’indipendenza è stato accompagnato da un impoverimento del patrimonio naturale
molto difficile da quantificare, ma che sembra procedere ad un ritmo mai conosciuto prima.
Secondo alcuni dati, a tutt’oggi è andato distrutto
 il 54% delle foreste
 il 32% delle savane e delle steppe
 significative porzioni di aree umide e paludi e
 oltre il 60% delle mangrovie.
(tab.3) In quasi tutti i paesi africani ben oltre la metà del patrimonio biologico naturale è andato perduto.
Le perdite più gravi sono avvenute in Africa occidentale dove la percentuale supera l’80%, mentre le percentuali più
basse riguardano l’Africa australe.
La natura selvaggia è progressivamente minacciata dalla competizione con altre forme di uso del suolo.
1. Le ultime aree naturali del continente sono in serio conflitto con la pressione sulle terre causata
a. dall’esplosione demografica
b. dalla crescente urbanizzazione
c. dalla espansione delle colture di piantagione e dell’allevamento commerciale
d. dal diboscamento forsennato.
2. La povertà endemica di molte aree rurali ha portato
 All’aggravamento del bracconaggio
 All’occupazione abusiva delle terre
 Alla raccolta dei prodotti nelle stesse aree protette
Come unici mezzi per assicurare la sussistenza delle popolazioni più povere.
3. Le autorità locali e nazionali, responsabili della conservazione, hanno poche possibilità di controllo per le
limitate risorse finanziare e la mancanza di personale qualificato. La scarsa moralità e la dilagante corruzione
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inducono in molti casi gli ufficiali governativi e i funzionari dei parchi a partecipare ad un lucroso sfruttamento
illegale delle risorse protette.
4. Infine, le ricorrenti guerre civili e gli scontri politici e militari fra tribù e gruppi etnici in competizione per il
possesso delle risorse, hanno saturato l’Africa di armi da guerra. Con esse i bracconieri, spesso organizzati in
bande criminali, hanno cacciato gli elefanti per l’avorio e i rinoceronti per il corno e portato molte specie sull’orlo
dell’estinzione.
Ci sono pochi dubbi sulla serietà dei problemi ambientali dell’Africa contemporanea:
 La deforestazione
 L’impoverimento dei terreni agricoli
 L’avanzata del deserto
 La perdita di biodiversità
Sono i principali aspetti del degrado ambientale.
Deforestazione
Numerose grida di allarme sono state lanciate dagli ambientalisti nel corso degli ultimi decenni per denunciare il rapido
diboscamento dell’Africa equatoriale e tropicale.
Malgrado la crescente attenzione del mondo verso la perdita delle foreste tropicali, non sembra che il tasso di
distruzione stia rallentando. Le stime sono rese difficili dalla carenza dei dati e dalla diversità delle fonti. È poi molto
difficile avere dati precisi nel lungo periodo perché non esistono inventari forestali redatti prima degli anni settanta.
Nonostante le difficoltà, che impediscono stime accurate ed unanimi, vi è un generale consenso sul fatto che la velocità
con cui sono abbattute le foreste pluviali africane è decisamente allarmante.
Le vaste foreste del passato sono state sostituite da piantagioni commerciali ma, in non pochi casi, il terreno si è ridotto
a croste lateritiche assolutamente sterili.
Particolarmente minacciate sono le foreste di montagna, soprattutto in paesi molto popolati come Ruanda, Burundi e
Uganda.
Secondo le informazioni disponibili,tutte le aree dell’Uganda sono teatro di caccia e di raccolta di legname illegali. Una
valutazione quantitativa dello status delle riserve forestali ha mostrato che solo la metà di esse gode di situazioni
indisturbate e che tutte le riserve sono soggette al bracconaggio.
Anche in Africa australe la situazione non è delle migliori: è andato distrutto più del 50% della copertura forestale
originaria. (tab.4).
La situazione + drammatica è forse quella delle foreste del Madagascar. La maggior parte delle foreste tropicali dell’isola
è scomparsa durante gli ultimi decenni e oggi rimane solo 1/6 dell’area originale lungo i versanti più inaccessibili. Solo il
2% dell’isola è tutelato, ma gran parte delle aree protette soffre dell’espansione umana, della pressione della caccia e
della raccolta di legname.
Lo sfruttamento dei legni tropicali non sempre implica la deforestazione.
La foresta pluviale è ricca di numerose essenze di cui solo un piccolo numero possiede un effettivo valore commerciale.
Le compagnie straniere di norma di limitano a prelevare queste essenze, ma per farlo aprono delle piste nella foresta.
Nei paesi a rapida crescita di popolazione, come la Costa d’Avorio e il Camerun, i contadini alla ricerca di terre da
coltivare approfittano di queste aperture, dissodando i terreni che si trovano attorno alle piste recentemente aperte e
così la foresta cede progressivamente il posto alle coltivazioni.
Non tutti i paesi equatoriali, comunque, soffrono di questi problemi. In Gabon, ad esempio – uno Stato che conta appena
1 milione di abitanti – lo sfruttamento della foresta non provoca gravi danni e la foresta si richiude spontaneamente dopo
il passaggio dei diboscatori.
Degrado dei terreni e desertificazione
Un’altra forma di preoccupante impoverimento del patrimonio naturale, meno evidente ma più subdola per le già povere
popolazioni rurali, è la degradazione dei terreni agricoli e dei pascoli.
In numerose regioni africane i sistemi agricoli tradizionali assicuravano la ricostituzione della fertilità dei suoli in modo
naturale, attraverso i lunghi periodi di maggese.
Oggi questi sistemi non funzionano più come una volta:
 la popolazione è cresciuta e
 i periodi di maggese sono stati accorciati.
In questo modo la fertilità dei terreni non si ricostituisce e i concimi chimici di sintesi sono troppo costosi per essere
utilizzati dalla maggior parte degli Africani. (fig.9).
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Un fenomeno simile affligge i pascoli che si trovano in prossimità delle aree desertiche o predesertiche, regno dei pastori
nomadi.
1. i periodi di siccità
2. il supersfruttamento dei pascoli dovuto
a. all’aumentata pressione demografica e
b. ai prelievi fatti dalle popolazioni locali per approvigiornarsi di legna ( che rimane la principale fonte di
energia domestica per tutti i paesi del Sahel, anche in ambiente urbano)
hanno avuto effetti devastanti sulla già rada vegetazione arborea.
3. i malaccorti interventi dei governi e
4. talora persino gli aiuti esterni (ad esempio l’escavazione di pozzi per l’acqua che hanno favorito la crescita degli
animali domestici più di quanto i pascoli non potessero sopportare)
hanno ulteriormente aggravato la situazione.
Col tempo questi processi possono portare alla “desertificazione”, un fenomeno che si riferisce non tanto alla
espansione dei deserti, quanto
 all’indebolimento del potenziale fisico, biologico ed economico del terreno
e che rappresenta un serio problema per la produttività e, quindi, per la sopravvivenza umana.
La desertificazione non è l’esito di fluttuazioni climatiche, come la siccità, ma di attività antropiche ad alto impatto.
Il processo è stato particolarmente severo
- nella regione sudanese-saheliana
- ma anche in Etiopia
- e in Africa orientale
- e australe
(fig.10).
Durante gli anni 70 e 80 il fenomeno ha assunto proporzioni drammatiche determinando
1. l’aumento della povertà e
2. l’accelerazione del degrado ambientale
tanto che parlare di deserto che avanza è diventato un luogo comune.
Secondo gli esperti la vegetazione del Sahel era destinata a sparire completamente entro il 2000.
Fortunatamente il fenomeno è stato + lento di quanto ipotizzato. Dal 1985, nel Sahel, si sono susseguiti anni più umidi e
si è assistito ad un ritorno della copertura vegetale, e dei pascoli, seppur più limitato rispetto a quanto è andato perduto.
La perdita di biodiversità
Le maggiori perdite del patrimonio naturale si registrano a scapito della biodiversità.
Non sembra azzardato affermare che i decenni susseguiti alla decolonizzazione sono stati i più disastrosi, per la natura
africana, di tutti i secoli predenti.
Nell’ultimo quarto di secolo, l’Africa ha perso una quantità del suo patrimonio faunistico e vegetazionale superiore a
quella distrutta durante tutte le altre fasi della sua travagliata storia ambientale.
All’Africa di una volta, quella delle foreste vergini, delle savane sconfinate popolate da innumerevoli animali, è
subentrato un continente di 850 milioni di persone (2003).
I contadini e i pastori africani hanno cercato nelle foreste, nelle savane e nelle steppe le nuove terre da coltivare.
Forse non poteva essere altrimenti; la stessa cosa era avvenuta in Europa qualche secolo fa.
Ma la cosa più triste è che – a differenza di quanto è avvenuto nel vecchio continente – questo impoverimento non è
stato bilanciato da un’adeguata crescita della ricchezza e del benessere materiale.
La lista delle specie minacciate o in pericolo cresce ogni anno.
Essa comprende diverse specie di
- mammiferi
- 180 specie di uccelli
- Diverse altre specie di vertebrati (soprattutto pesci)
- Alcuni invertebrati
- E numerose piante.
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La situazione delle cosiddette specie “carismatiche” (flagships), come elefanti e rinoceronti, ha catturato l’interesse
dell’opinione pubblica e delle associazioni ambientaliste.
Gli elefanti in particolare hanno dominato il paesaggio africano per tutta la storia evolutiva dell’umanità e la loro
distribuzione è considerata un indicatore dei rapporti tra le popolazioni africane e il loro ambiente naturale in tempi
storici. (fig. 11). Solo dopo gli anni 50 l’ago della bilancia del rapporto uomo-elefanti si è decisamente spostato in
favore delle comunità umane.
Lo IUCN ha recentemente pubblicato un ponderoso data base sullo stato della popolazione dell’elefante africano. In
base a tale rilevazione la popolazione degli elefanti è valutata tra 400 mila e 650 mila individui. Come si può vedere dalla
fig.12 la maggior parte degli elefanti sopravvive nelle regioni poco popolate dell’Africa centrale e orientale, e, in
massima parte, al di fuori delle stesse aree protette.
In Africa vivono 2 specie di rinoceronte:
- il rinoceronte nero
- il rinoceronte bianco.
Il rinoceronte nero oggi si stima in 3100 esemplari, la maggior parte dei quali vive in Africa australe dove la specie gode
di una buona protezione. In Sudafrica la popolazione è aumentata da 300 nel 1960 ai 700 attuali.
Il rinoceronte bianco è quasi altrettanto raro: nell’Africa centrale si sta avviando all’estinzione; nell’Africa australe abita
una popolazione + numerosa (circa 11.000 esemplari) la maggior parte della quale vive, rigorosamente protetta, nei
parchi del Sudafrica. (fig.14).
2.3. LE CAUSE E GLI ATTORI
La caccia e il commercio illegali
Le cause dirette della diminuzione della biodiversità in Africa sono collegabili a 3 motivi fondamentali:
1) caccia e bracconaggio
2) perdita e frammentazione degli habitat
3) introduzione di specie esotiche.
1. La caccia illegale (bracconaggio) di singole specie selvatiche, e in particolare della grande fauna, è
un’importante causa di estinzione delle popolazioni selvatiche in Africa.
Mentre la caccia ha portato all’estinzione di molte specie endemiche nelle isole, ci sono pochi casi documentati
di specie terrestri cacciate fino all’estinzione; tuttavia ci sono innumerevoli esempi di specie
 eradicate da una significativa parte del loro areale o
 il cui habitat è stato drammaticamente ridotto o
 la cui abbondanza è crollata al punto di diventare “in pericolo” o
 che sopravvivono solo attraverso programmi di conservazione atttiva e drastici regimi di
protezione. L’attuale sopravvivenza del rinoceronte nero, ad esempio, si deve
esclusivamente agli energici sforzi fatti per conservarlo.
Il traffico di piante e animali protetti, o di loro parti, è una delle più lucrative attività illegali mondiali, il secondo
mercato clandestino al mondo per giro di affari e numero di persone coinvolte, dopo il commercio della droga e
prima di quello delle armi. Gestito dalla criminalità organizzata, ogni anno muove somme di denaro valutato in 5
miliardi di dollari ed è in continua crescita. Per molti aspetti è simile al traffico della droga: i profitti sono
smisurati e la maggior parte di essi va agli intermediari. Solo una piccola parte di denaro finisce nelle mani dei
cacciatori o dei raccoglitori che appartengono alle popolazioni più povere dei paesi sottosviluppati, spesso alla
ricerca disperata di fonti di reddito.
La caccia all’elefante è stata praticata da millenni per alimentare il commercio dell’avorio, ma ha avuto un forte
incremento in epoca coloniale. L’uccisione di elefanti e il commercio di avorio sono saliti alle stelle negli anni 70
e 80 quando il prezzo dell’avorio è quadruplicato e gli investitori si sono rivolti ad esso come bene di rifugio
contro l’inflazione mondiale. L’incentivo per cacciatori e bracconieri divenne enorme, favorito dalla diffusione
delle armi automatiche (i famigerati kalashnikov) e,di conseguenza, crebbe enormemente la caccia di frodo.
Molti governi africani si trovarono in difficoltà a proteggere gli elefanti, non disponendo delle risorse adeguate
per combattere le potenti organizzazioni dei bracconieri. Nel 1973 l’Uganda ha perduto metà dei suoi elefanti. In
Sudan, Repubblica Centrafricana e Ciad i cacciatori di frodo, organizzati in bande paramilitari, se sorpresi sul
fatto, non hanno avuto riguardo ad assassinare gli stessi guardacaccia.
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L’avorio contrabbandato, solitamente smerciato attraverso paesi intermediari (Emirati Arabi, Macao, Singapore,
Belgio), giungeva a Hong Kong e in Giappone, i maggiori mercati di avorio nel mondo.
Solo nel 1985
a. le proteste internazionali e
b. l’applicazione del bando previsto dalla Convenzione di Washington o CITES
hanno drasticamente ridotto il commercio internazionale di avorio. (fig.15).
I rinoceronti sono forse gli animali che hanno subito i maggiori danni in Africa a causa del commercio illegale e dal
conseguente bracconaggio. Come è noto il rinoceronte viene ucciso per il suo corno. Le culture tradizionali orientali
apprezzano il corno per vari scopi. Malgrado i divieti, la caccia illegale continua. In alcuni paesi (Namibia, Zimbabwe) si
è arrivati a privare volutamente i rinoceronti del corno (un’operazione indolore per l’animale) per diminuire l’incentivo dei
bracconieri. Tuttavia l’operazione, molto complessa e costosa, non ha dato i frutti desiderati.
Il commercio delle pellicce è stato il fattore principale del declino per animali come il ghepardo e il leopardo, unitamente
alla distruzione dell’habitat e alla persecuzione come animali nocivi.
Gli appassionati di caccia grossa cercano i leopardi per sport e per il trofeo della lussuosa pelliccia. Fortunatamente il
leopardo sembra avere maggiore capacità di sopravvivenza e di adattamento del suo parente stretto, il ghepardo. Una
certa quota di commercio di leopardi e dei loro prodotti è legale. Ogni paese stabilisce la propria quota sotto il controllo
internazionale; ogni pelle deve essere contrassegnata e numerata. Il sistema delle quote è un buon compromesso tra
- coloro che considerano il leopardo una risorsa fruibile o un nemico del bestiame e
- coloro che vorrebbero una protezione assoluta.
Anche le scimmie antropomorfe, lo scimpanzè e il gorilla, sono oggetto di commercio
o sia come animali d’affezione,
o sia come animali da laboratorio per la loro somiglianza con la specie umana.
Numerose specie di rettili sono cacciate per la pelle, come il coccodrillo del Nilo. In alcuni paesi (Sudafrica, Namibia) il
coccodrillo ha iniziato ad essere allevato in cattività in apposite crocodyle farms gestite da imprese private per la vendita
legale delle pelli. Il successo di questo metodo ha notevolmente ridotto la pressione illegale dei bracconieri sulla specie
in natura.
La principale misura adottata per combattere la caccia e il prelievo illegale di piante e animali è stata
1) quella di restringere il commercio delle specie selvatiche e dei loro prodotti attraverso l’adozione di bandi e
accordi internazionali.
Sebbene le convenzioni internazionali abbiano aiutato a ridurre il prelievo delle specie minacciate,
 i profitti generati dal commercio illegale sono enormi e
 le pene comminate sono deboli
per cui il deterrente è modesto per le organizzazioni criminali internazionali.
Molti governi fanno poco per regolare il commercio locale delle specie in pericolo e, in assenza di legislazione protettiva
più severa, ci si può aspettare che la caccia e la raccolta illegali continueranno ad essere la maggiore causa di
rarefazione e di estinzione della grande fauna africana.
La caccia e la raccolta di sussistenza hanno motivazioni diverse e impatti molto più modesti.
a. la caccia tradizionale serve per soddisfare la richiesta locale di carne (bushmeat) o di altre sostanze (ad
esempio medicinali). Circa il 70% della popolazione dell’Africa subsahariana è rurale e dipende dalle risorse
naturali viventi per una parte sostanziale dei propri bisogni.
b. Tutte le richieste di energia domestica rurale e un’alta proporzione di quella urbana sono soddisfatte dalla
raccolta del legname, la quale minaccia
i. sia le specie vegetali
ii. sia gli habitat in cui esse vivono.
Le altre cause
La distruzione e la frammentazione degli habitat, dovuta all’espansione
I.
dell’agricoltura,
II.
dello sfruttamento forestale,
III.
delle attività minerarie
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Capitolo 2 – Africa addio? La natura in pericolo
è considerata un’altra importante causa di estinzione in Africa subsahariana.
La frammentazione degli habitat avviene contemporaneamente alla loro distruzione: essa riduce gli ecosistemi a “isole”,
spesso troppo piccole per sostenere e alimentare le popolazioni naturali. Una volta che i frammenti sono rimasti isolati,
la perdita di specie continua, spesso rapidamente, attraverso il processo noto come estinzione secondaria, cioè la
perdita di animali o piante causata direttamente o indirettamente da una anormale abbondanza o assenza di altre
specie. L’estinzione secondaria è una causa molto subdola perché le aree frammentate possono apparire intatte e in
salute ad un osservatore non esperto.
L’aumentato movimento internazionale di merci e persone ha portato alla introduzione, sia intenzionale che involontaria,
di specie esotiche in tutti i continenti e nelle isole, come pure nei mari e negli oceani. Per quanto riguarda l’Africa
subsahariana, gli ecosistemi insulari hanno il più alto numero di invasivi in proporzione al totale della diversità di specie.
La maggiore evidenza dell’impatto delle specie aliene proviene dal sistema delle acque dolci. Almeno 50 specie di pesci
sono state introdotte nei laghi dell’Africa subsahariana per aumentare le risorse della pesca. Ciò ha provocato un
enorme impatto sulla biodiversità degli ecosistemi nei quali le specie esotiche sono state immesse.
Le cause descritte non operano indipendentemente le une dalle altre, ma esiste un sinergismo tra le varie concause,
che può essere più forte della somma degli effetti indipendenti.
1. la caccia abitualmente precede o accompagna la perdita di habitat, perché le popolazioni rurali
invadono le aree naturali alla ricerca di selvaggina o prodotti animali con valore di mercato.
2. più tardi, come la frontiera dell’agricoltura si espande a scapito delle aree naturali, i siti più adatti sono
sfruttati per primi. Inizia così la frammentazione del paesaggio naturale.
3. come arrivano nuovi insediamenti, la foresta o la savana cedono il passo e solo piccoli frammenti
restano nelle aree più impervie.
4. i frammenti, infine, sono interessati da estinzioni secondarie, spesso aggravate dalla invasione di
specie esotiche.
Gli attori coinvolti
Nel determinare il degrado delle aree naturali, si possono distinguere diverse fonti di pressione e diversi attori coinvolti
ossia soggetti, individuali o collettivi, portatori di interessi (stakeholders) che mettono in campo diverse strategie per
realizzarli.
I soggetti coinvolti possono essere ricondotti a 3 grandi categorie:
1. attori basici, appartenenti alla sfera negro-africana tradizionale, incentrata sul villaggio;
2. attori statuali, appartenenti alla sfera moderna dell’amministrazione, incentrata sull’impianto urbano;
3. attori esterni, appartenenti a società straniere (multinazionali) o a enti internazionali (istituzioni
internazionali, organizzazioni non governative).
4. una 4° categoria, trasversale alle prime 3, è quella degli attori illegali.
Le regioni tropicali sono abitate spesso da popolazioni indigene (Pigmei, Boscimani, ecc…) che traggono risorse per la
loro sussistenza
o da forme di agricoltura primitiva e
o dalla raccolta di prodotti naturali.
Queste popolazioni
a. mancano di potere politico ed economico
b. vivono in bassa densità
c. usano semplici tecnologie
d. e il loro impatto, seppure capillare, non è quasi mai distruttivo.
Tuttavia queste popolazioni sono in forte declino.
Le nuove generazioni vengono a contatto
I.
con la modernità
II.
con i beni di consumo
III.
con l’economia di mercato.
Questi gruppi etnici vanno distinti
 dagli immigrati recenti, che non sono interessati allo stato di salute dell’ambiente in cui si trovano
a vivere e non conoscono a fondo la flora e la fauna della zona.
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
A ciò si aggiunge spesso l’impatto prodotto dai profughi, costretti a lasciare le loro terre a causa
di condizioni ambientali avverse, lotte politiche o crisi economiche.
I governi nazionali, spesso sostenuti da agenzie internazionali o da programmi di aiuto bilaterale, varano grandi progetti
(miniere, bacini idroelettrici, deforestazione, piantagioni) allo scopo di
- migliorare le infrastrutture del paese o
- sviluppare l’economia di intere regioni.
Ma
1) l’indifferenza ufficiale verso il patrimonio naturale e la biodiversità
2) la mancanza di coordinamento o
3) i conflitti tra i ministeri incaricati di promuovere lo sviluppo e quelli responsabili dell’ambiente
possono compromettere seriamente la tutela ambientale.
Dove i governi falliscono nell’applicare le leggi di conservazione, si creano opportunità per poteri esterni – società
straniere, lobby politicamente protette, ecc. – per lo sfruttamento illegale del patrimonio naturale.
L’incapacità di applicare le leggi è una diretta conseguenza
 della instabilità politica
 delle ricorrenti guerre civili, o
 più comunemente della corruzione diffusa.
In mancanza di istituzioni democratiche, le potenti élites militari e civili sono spesso in collusione per sfruttare le risorse
nelle aree protette. Com’è facile immaginare, quando scoppia un conflitto, i gruppi armati non rispettano i confini delle
aree protette o le convenzioni legali.
Nei paesi afflitti da guerre civili, una o entrambe le parti armate fanno spesso ricorso alle risorse naturali per finanziare le
proprie attività.
Le cause profonde
Nella diagnosi della crisi ecologica africana, 2 scuole di pensiero dominano il dibattito sulle forze responsabili del
degrado ambientale in Africa.
1. l’una, di stampo neomalthusiano, enfatizza la crescita della popolazione e il suo impatto sull’ambiente;
2. l’altra, di scuola strutturalista, suggerisce che non è la crescita della popolazione di per sé, ma piuttosto la
situazione sociale causata
a. da politiche economiche inique,
b. dall’economia globale e
c. dall’eredità del colonialismo
d. dall’autoritarismo
e. dai regimi dittatoriali
f. dai governi corrotti e
g. dalla mancanza di democrazia.
Crescenti evidenze suggeriscono che la pressione della popolazione umana sia uno dei principali fattori che
contribuiscono alla perdita degli habitat e alla trasformazione delle terre.
Fino alla metà del 900 l’Africa era considerata un continente spopolato, con una densità media di 7 ab./km².
Da allora ha avuto inizio la transizione demografica, che è stata caratterizzata da
- un repentino abbassamento della mortalità soprattutto infantile ( grazie soprattutto alla diffusione delle vaccinazioni
di massa e al rallentamento delle storiche epidemie)
- ma non da un altrettanto significativo abbassamento della natalità.
Come conseguenza la crescita naturale ha avuto un’improvvisa impennata che ha portato la popolazione africana a oltre
850 milioni (stima al 2003) con una densità prossima ai 30 ab./km² (fig.16).
La crescita della popolazione africana è più alta che in ogni altro continente.
In questi casi la popolazione cresce molto più rapidamente
 della produzione alimentare e
 dei servizi (come sanità e istruzione) e
così lo standard di vita peggiora.
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La dinamica demografica è influenzata anche dai movimenti migratori; flussi che si spostano da un paese all’altro
a. attratti da fattori economici o
b. espulsi da situazioni locali insostenibili:
i. un’epidemia
ii. una carestia
iii. ma soprattutto una guerra
Questi flussi possono localmente aggravare situazioni ambientali già compromesse.
Numerosi autori sono concordi nel ritenere che non è possibile ottenere uno sviluppo sostenibile in Africa senza limitare
la crescita demografica.
L’elevata crescita demografica nelle campagne comporta
- un aumento della pressione sulle risorse naturali e
- costringe molti contadini che praticano l’agricoltura di sussistenza a spostarsi su terre marginali.
L’aumentata pressione sulle terre comporta
- l’accorciamento dei tempi di maggese,
- l’erosione del suolo,
- il sovrasfruttamento delle risorse naturali.
Ma la forte correlazione positiva tra il tasso di incremento della popolazione e il degrado delle risorse non implica
necessariamente una relazione causale diretta.
L’elevata crescita demografica è spesso la conseguenza della povertà diffusa.
Mentre la fecondità media è scesa nell’Africa subsahariana negli anni novanta, essa è rimasta elevata proprio in quei
paesi dove l’impoverimento rurale è stato più marcato, come Repubblica Centrafricana, Congo, Uganda, Zambia e
Tanzania.
La povertà rurale è quindi una delle principali cause dirette del degrado ambientale e della perdita di biodiversità.
Un degrado che in Africa non è stato accompagnato da un significativo aumento degli standard di vita.
Gli economisti ambientali hanno posto particolare attenzione alla correlazione empirica che sembra esistere tra
o reddito pro capite e
o certi indicatori della qualità dell’ambiente.
Come aumenta il reddito pro capite, i vari indicatori di qualità ambientale prima peggiorano e poi migliorano. (fig.17).
La stessa relazione è stata individuata tra
 il tasso di deforestazione (una delle principali cause di perdita di biodiversità)
 e il reddito pro capite in alcuni paesi in via di sviluppo.
Altri studiosi, soprattutto storici, hanno visto il problema ambientale come una conseguenza del colonialismo, che ha
comportato
1. l’appropriazione delle risorse naturali, delle foreste, dei minerali e della terra da parte delle compagnie
concessionarie e dei coloni e
2. costretto gli indigeni ad espandere le coltivazioni nelle terre marginali.
Gli interventi coloniali collegati alle priorità
a. dello sviluppo agricolo,
b. del controllo sociale,
c. della segregazione razziale
hanno avuto un pesante effetto sui modelli africani di uso della terra, sia agricoli che
pastorali.
Il regime fondiario e soprattutto la proprietà comune sono state spesso citate come cause profonde del
sovrasfruttamento delle risorse. Secondo la citata metafora della tragedy of the commons (Hardin, 1968) i sistemi
comunitari, cioè ad accesso aperto, sarebbero la causa principale dei danni ambientali. La tutela delle sue risorse
sarebbe invece meglio raggiunta dalla proprietà privata dei diritti sulla terra.
La posizione rappresenta, secondo i critici, uno dei miti che ha continuato
- a favorire un approccio tecnocratico alla gestione delle risorse e
- a fornire un potente mezzo di controllo delle classi dominanti (coloniali e postcoloniali) sul regime fondiario.
Vari studi hanno confutato questa convinzione, evidenziando forti livelli di crisi e di degrado anche in situazioni di
proprietà privata.
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Un’altra causa spesso richiamata, in aggiunta al ruolo delle istituzioni, è legata alle politiche agricole
1. accusate di avere impedito il funzionamento efficiente dei mercati e
2. additate come responsabili del degrado dei sistemi agroecologici.
Le riforme degli ultimi decenni hanno cominciato a migliorare la situazione, ma i programmi di aggiustamento strutturale
(ESAP) varati negli anni 80, in accordo con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, hanno
 eliminato o ridotto alcuni sussidi agricoli
 e ristretto il credito per le piccole e medie aziende agricole dei paesi
subsahariani.
Ciò ha peggiorato le condizioni socioeconomiche delle popolazioni rurali, e indirettamente, aumentato la pressione sui
suoli, sulla vegetazione e sulle acque.
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