K. Marx - F. Engels - Digilander

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Istituto di Studi Comunisti
K. Marx - F. Engels
Casella Postale 198, Posta centrale, P.zza Matteotti, 80100 Napoli
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1799 – 1999
Bicentenario della Repubblica Partenopea
Conferenza:
250 Anni dell’esperienza storica
rivoluzionaria del popolo meridionale:
1547-1799.
“ bollon rabbie assassine in proditorie calme”
[G. Lubrano, poeta napoletano del Seicento]
Teramo 26. ottobre, Sala del Mutilato
Napoli, 5. novembre, Aula lettere e Filosofia,
Dipartimento Discipline Storiche, Aula 312, 3 piano, scala A
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Istituto di Studi Comunisti
K. Marx - F. Engels
“ Bollon rabbie assassine
in proditorie calme”
( G. Lubrano, poeta napoletano del ‘600 )
1799-1999
Bicentenario della Repubblica Partenopea
Conferenza:
250 Anni dell’esperienza storica
rivoluzionaria del popolo meridionale:
1547-1799.
Venerdì 5. novembre. 1999, ore 16.00 Facoltà di Lettere e Filosofia, Università
“ Federico II”, Aula 312 del Dipartimento delle Discipline Storiche
Presiede:
Prof. Mario Geymonat
Docente della Ca’ Foscari di Venezia
Relazione;
Antonio Calabria
Presidente del Consiglio Scientifico dell’Istituto
Interverranno:
Prof. Vittorio Dini
Docente di Storia della Filosofia dell’Università di Salerno
On. Nerio Nesi
Presidente del Consiglio Scientifico del P.d. C. I.
Prof. Giulio de Martino
Incaricato di Filosofia presso l’Istituto Suor Orsola Benicasa,
membro PRC.
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Premessa di metodo.
Se assumiamo come punto da cui articolare un ragionamento quello di intelligere la scissione
operatasi tra il gruppo dei repubblicani partenopei e le masse contadine e delle città meridionali, in
modo specifico della capitale: Napoli, ci andiamo a cacciare in un ginepraio di contraddizioni.
Si affollano così questioni e problemi, la cui soluzione rimanda ad un ulteriore passo indietro e
finiamo così per dover sciogliere alcune questioni di fondo: le forme concrete della transizione alla
società borghese in Europa: continentale occidentale: Spagna, Francia, Olanda; centrale: Germania,
Prussia, Austria; Europa insulare: Inghilterra, Irlanda, Svezia; Europa orientale: Russia.
A partire dal XVII secolo lo sviluppo dell’Italia viene a dipendere strettamente dal movimento di
tutte queste nazioni; gli interessi specifici del loro sviluppo determinano le scelte che opereranno
nella spartizione dell’Italia ed il loro intervento diretto o mediato nelle scelte che verranno ad
articolarsi in Europa, entro cui l’Italia è pezzo di scambio. E qui dobbiamo distinguere:
la casa Savoia, i Medici ed il Granducato di Toscana, la Lombardia, la repubblica di Venezia e di
Genova, l’Italia centrale sotto il Papato, il Regno di Napoli e del Regno di Napoli la parte
continentale da una parte e la Sicilia dall’altra.
Lo sviluppo capitalistico dell’Europa è cioè già il risultato del movimento complessivo del
capitalismo, ove le varie regioni interagiscono tra di loro determinando il movimento generale quale
sintesi dialettica del più complessivo movimento del capitale.
Ci troviamo così nella necessità di partire dalla metà del XVI secolo: la guerra dei contadini in
Germania, passare per la Guerra dei Trent’anni, la decadenza spagnola e dentro questa il
movimento rivoluzionario nell’Italia meridionale: i moti in Sicilia e nel regno di Napoli del 164748, che si inquadrano dentro il processo rivoluzionario inglese, olandese e della Catalogna;
incapacità di sfruttare la decadenza spagnola e la lotta tra Francia, Austria, Inghilterra per la
successione al dominio spagnolo da parte della borghesia italiana e sua decisiva decadenza, dalla
quale non si rialzerà mai più, giacché tale assenza determinerà l’abbandono del controllo reale sul
Mediterraneo all’Inghilterra ed alla Francia e quindi loro insediamenti nei porti e sulle coste italiane
al fine di dominare il Mediterraneo e controbilanciarsi.
Veniamo così a leggere l’intera transizione alla società borghese da una particolare angolazione, che
per certi aspetti risulterà un’angolazione privilegiata, di tutto rispetto, che ci consentirà di leggere e
capire meglio il più complessivo movimento della transizione. Ci consentirà di intelligere
importanti passaggi, e zigzag, configurazioni specifiche della classe borghese, del suo reale
carattere di classe ed il carattere di classe del suo dominio e del rapporto che tende a costruire con
le classi subalterne ed il movimento di unità e lotta che la lega alle vecchie classi feudali e quindi i
limiti teorici, concettuali della sua natura di classe. Questi elementi ci erano in verità già noti, Marx
ed Engels li avevano ben tracciati, ci erano già noti dal Movimento dei Ciompi1, ma li leggevamo
come tratto secondario, non ci davamo il giusto risalto, che invece ci consente questa angolazione
privilegiata di lettura.
Per fissare le incapacità di sfruttare la decadenza spagnola, dobbiamo fermare l’attenzione sulla
composizione organica ( classi, movimenti di capitali e processo produttivo, sistema economico e
sistema politico ) della società meridionale nell’epoca spagnola, ossia nel Seicento.
Sul piano della metodologia: possiamo noi assumere il periodo 1545-1799 quale periodo storico
entro cui iscrivere la nostra analisi,? E’ corretto lo stabilimento di questo periodo?
Il problema si pone giacché lo studio della società meridionale ed in specifico dei fatti del ’99, ma
poi così anche quelli del 1647, Masaniello, del brigantaggio o dei Fasci Siciliani sono tutti letti
isolatamente e fuori da qualsiasi contesto sia nazionale che europeo. Questo comporta che i dati
storici che vengono portati sono scarsi e letti dal lato più superficiale ed è questo che consente poi la
più volgare manipolazione ed il loro essere piegati alle più immediate necessità politiche, ossia alle
piccinerie, fatte divenire “ grandi strategie”.
In generale noi possiamo fermare questa periodizzazione della storia moderna meridionale:
1545-1799; 1799-1895 Fasci Siciliani; 1895 – 1989; 1989 - .. .
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Noi assumiamo quindi il periodo 1545-1799 quale periodo storico ben definito entro cui iscrivere
tutta l’analisi storica, ossia in quanto periodo storico compiuto.
La storia del popolo e della società meridionali nel periodo preso in esame: 1540-1799 è
caratterizzato dalla lotta contro il dominio straniero, ossia nella condizione di uno Stato e di un
paese sottoposto allo sfruttamento ed all’oppressione di Stati stranieri e quindi in una condizione
coloniale e nella fase della nascita e formazione degli stati capitalistici.
Entro questi esatti e precisi ambiti si sviluppa la storia e la lotta del popolo meridionale, non
dissimile da quella del resto d’Italia.
E’ entro questo quadro di forte condizionamento e di più forze: Spagna, Francia, Inghilterra,
Austria, agenti sul terreno del meridione, che viene a snodarsi il periodo storico che abbiamo preso
in considerazione: 1540-1799.
Questione di metodo:
validità del periodo 1540-1799.
Dopo aver assistito al consolidamento della forza spagnola: dalla sua unificazione fino alla
costituzione del vasto impero, che caratterizza il periodo 1440-1540, il periodo in esame vede il
consolidamento di questa forza e l’inizio del suo declino, che caratterizza tutta la seconda metà del
XVI secolo. Il XVII secolo vede il suo declino e l’ascesa di nuove forze: la Francia, l’Inghilterra,
l’Olanda e l’affacciarsi dell’Austria che proromperà verso la fine del XVII secolo. Il XVII secolo
vede l’affermazione forte del dominio inglese sull’Olanda, in quanto protettorato, sul Portogallo e
l’ingerenza nel regno di Napoli ed il controllo sostanziale della Sicilia e quindi il dominio del
Mediterraneo, ove la politica piratesca vede l’Inghilterra tirarne le fila ai danni della debole marina
napolitana; accanto a questa ed in lotta la forza francese con il dominio francese sulla Spagna e sul
Mediterraneo attraverso il controllo della casa Savoia e l’isola della Sardegna, dove il controllo
britannico del Portogallo è in funzione del bloccare l’affacciarsi della Francia sulle sponde
britanniche e lo sviluppo dell’Austria in funzione del blocco francese verso l’Europa continentale e
dell’Olanda in funzione antifrancese ed antiaustriaca e della Francia in funzione antiolandese;
quello russo in funzione dello sviluppo austriaco sui Balcani; mentre il controllo della Turchia ha la
funzione di rafforzare la presenza, l’egemonia ed il controllo del Mediterraneo e arginare il ruolo in
questo bacino del regno di Napoli. Questo dal lato dell’Inghilterra, mutas mutandis gli altri Stati:
Olanda, Francia, Russia, Austria
Il XVII secolo vede così queste due forze contendersi il Mediterraneo e l’egemonia sull’Europa.
Il periodo in esame quindi vede nella prima parte: 1540-1600 l’ascesa e consolidamento della forza
spagnola; nella seconda parte 1600-1650 il declino di questa forza e l’ascesa di Francia, Inghilterra
ed Olanda; il terzo periodo 1650-1799 l’affermazione incontrastata di queste due nazioni e la
costruzione dell’equilibrio europeo più complessivo. La fase chiave da tenere saldamente in
pugno, da comprendere bene in tutti i suoi zigzag come ben si vede è proprio il periodo 16001650. In base a tali considerazioni ci sembra scientificamente corretto assumere questo periodo
storico entro quei confini temporali indicati, giacché può considerarsi un periodo compiuto in sé.2
Le condizioni generali entro cui si sviluppa il processo rivoluzionario borghese in
Italia sono similari più a quelle olandesi, che a quelle francesi ed inglesi. Sono cioè più
similari a quelle dell’indipendenza nazionale, ossia alle condizioni della lotta che si
identifica con l’indipendenza e l’unità nazionali. Le condizioni generali sono rapportabili
alle più generali condizioni di una colonia. La differenza sostanziale è nella presenza e
formazione di una borghesia compradora, legata cioè allo sfruttamento e l’oppressione del
proprio paese, che vive di quelle rendite e di quella espoliazione. Questa classe non è la
classe nobiliare-feudale, ma non è neppure la borghesia nazionale, ha interessi che la
legano alla borghesia nazionale ed in quanto tale è per una autonomia maggiore dallo
Stato colonizzatore, ma ha interessi anche con questo Stato, per cui è interessata ad un
rafforzamento ed estensione di questa situazione coloniale dalla quale trae guadagni,
potere e prestigio sociale ed economico.
Questo è il dato più generale.
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Nel tratto specifico: c’erano settori della classe borghese italiana, in modo particolare quella avente
origine dei “ Comuni”, ossia quella mercantile-finanziaria, e quindi di Firenze, Pisa, Genova,
Venezia, Siena, che dopo la grave crisi di sovrapproduzione della metà del XIV secolo, che
determina lo sviluppo del Comune nella Signoria e poi nel Principato, sposta sempre più parti
consistenti dei suoi capitali dalle operazioni mercantili e produttive a quelle speculativofinanziarie, sovvenzionando cioè la formazione degli Stati nazionali: Francia, Spagna, Inghilterra e
che diverrà l’asse strategico di azione a partire dalla Pace di Lodi del 1454. Questa agisce da forte
ostacolo a qualsiasi azione di unificazione nazionale o di unità tattica per far fronte al
comune pericolo, sosterrà invece ora questo ora quello Stato straniero a seconda di quale
casa regnante questo o quel “ Comune”, questa o quella famiglia, sovvenzionerà i progetti
ambiziosi di sviluppo ed egemonia.3
Infine.
Noi abbiamo posto il periodo 1545-1799 a base dell’intera periodizzazione della storia
moderna meridionale. Questo ci sembra corretto, giacché essendo il periodo di genesi e formazione
degli stati borghesi europei e dell’Europa capitalistica, ci consente di comprendere le più generali
linee di sviluppo successive della stessa Italia. Questo periodo evidenzia un dato:
la sconfitta ed il decadimento generale della società meridionale, da cui essa non si riavrà più – e
tale per l’intera fase storica della proprietà borghese dei mezzi di produzione – si coniuga
saldamente con il più generale decadimento prima e ruolo comunque e sempre subalterno della
stessa Italia nel quadro delle società capitalistiche, dell’Italia nella società borghese mondialmente
intesa.
Svela i reali rapporti dell’intero processo di formazione degli stati nazionali, dell’intero
processo rivoluzionario borghese che trova nel Mezzogiorno un decisivo nodo di svincolo, un
decisivo crocevia.
Svela i rapporti che legano, che storicamente si sono venuti formando e quindi ne stabilisce
l’equilibrio ed il movimento complessivo, la Francia, l’Inghilterra, la Spagna, il Portogallo,
l’Olanda, l’Austria, la Germania.
Svela cioè essere il Meridione d’Italia, ancora qui ed ora, tutto dentro questo processo, e
questo equilibrio, dentro questo movimento complessivo, che determina il più complessivo
sviluppo dell’intera Europa in esame.
Svela, cioè, che lo status del Meridione d’Italia è funzionale, è condizione decisiva,
dell’equilibrio e quindi della stabilità dei singoli Stati e della complessiva Europa presa in esame.
Svela, ancora, il ruolo della Sicilia nel mantenimento di questo status meridionale.
Questo l’intreccio complessivo di nessi ed interdipendenze relazionali, questo il quadro
complessivo entro cui va ad inscriversi l’intero movimento causa-effetto della storia europea.
Punto chiave del periodo preso in esame è la Rivoluzione Napoletana del 1647-1648, nota
anche come “ rivolta di Masaniello” o, più correttamente “ rivoluzione antispagnola ma la cui esatta
definizione è “ Rivoluzione borghese nel Regno di Napoli “.
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Capitolo Primo,
Il dominio Spagnolo
Introduzione
Il periodo in esame è il periodo della lotta del popolo meridionale contro l’oppressione e lo
sfruttamento straniero, dominazione spagnola, e contro il regime feudale.
Sostanzialmente essa è una lotta per l’indipendenza nazionale e per la rivoluzione borghese. Si
caratterizza quindi per una lotta economica, politica, culturale, militare ed elabora risposte
economiche, politiche, culturali, militari.
Il meridione d’Italia, e l’Italia intera, è ridotta ad una colonia spagnola.
Le antiche città marinare sono solo un lontano ricordo. La Toscana come Genova, i ducati di
Modena e Parma, Urbino, ecc. sono appendici della politica e degli interessi della corona di Spagna.
Solo Venezia mantiene una sua autonomia ed una opposizione alla dominazione spagnola in Italia.
Singole famiglie affariste: Medici, Spinola, Doria riescono, all’inizio del Seicento, a mantenere
ancora una discreto decoro di autonomia, in quanto finanziatori della corona spagnola o francese,
ma esse stesse non sono che il pallido ricordo, i simulacri, degli antichi splendori.
La borghesia italiana di queste singole realtà, antichi Comuni di un tempo, non ha una sufficiente
base territoriale per attuare una riproduzione allargata e quanto all’accumulazione originaria ha
sperperato tutto in speculazione finanziari nel Quattrocento e Cinquecento per finanziare a
sovvenzionare, con manovre speculative, la nascita degli stati spagnolo, francese, portoghese,
inglese. Ma ora la ristretta base del suo mercato nazionale non le consente un’accumulazione
allargata tale da poter far fronte alle sempre più imponenti esigenze finanziarie che i nuovi stati
nazionali pongono. Finiscono così per occupare sempre più ruoli marginali. In questa nuova realtà
finiscono per divenire sempre più dipendenti, appendici, della corona di Spagna. Questa borghesia,
incapace per limiti territoriali di estendere i nuovi rapporti di produzione e per mettere al riparo la
massa monetaria in suo possesso: insufficiente per le nuove esigenze ma considerevole come
patrimonio personale, attuano un processo di aristocratizzazione, per cui acquistano titoli e rendite e
feudi, continuando così per questa via, ma ormai da una posizione subalterna, la finanziarizzazione
della corona di Spagna
Questo processo è stato presente in tutti i paesi e per l’intera fase di ascesa della borghesia, basti
pensare che un racconto di Voltaire si basa appunto nel narrare di due famiglie borghesi di cui una
si era infeudata. Il tratto decisivo della borghesia italiana è, invece, la sua natura compradora, in
queste esatte condizioni il processo di transizione di fasce ricche di borghesi che transitano nella
classe nobiliare costituisce la decapitazione dell’intera classe borghese, giacché l’arricchimento dei
primi avviene immiserendo e depauperando l’economia e l’intera classe borghese, non avendosi un
processo di riproduzione allargato in grado di produrre una massa sempre maggiore di ricchezza
nazionale, il processo di arricchimento avviene attraverso l’inaridimento delle fonti della ricchezza
ed attraverso una diversa ridistribuzione della ricchezza esistente.
Ora è proprio questo esatto, preciso, tratto di colonia della corona di Spagna e di borghesia
compradora che la storiografia borghese italiana ed europea ha rimosso: l’italiana si è messa i vestiti
della festa, dandosi ben altra genealogia e quella europea per non urtare suscettibilità altrui; in
verità già la romana, riscrisse la sua storia, rimuovendo la fase del dominio etrusco, come aveva
fatto l’ateniese: pratica consueta, insomma. Ma se è pratica consueta sul piano dell’ideologia, non lo
può essere sul piano della ricerca scientifica storica. Ed invece gli storiografi borghesi hanno finito
per leggere per dato scientifico proprio ed esattamente quell’operazione ideologica; certo è dura dire
al divenuto signore il suo essere stato servo. Dice il Manzoni nei suoi “ Promessi Sposi”,
allorquando parla del padre di fra’ Cristoforo, più di quanto crede.
Ma poi, ed in verità, quell’operazione ideologica ha trovato vesti con cui coprire le sue nudità:
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Croce è cioè proprio ed esattamente quella ‘ raffinata’ operazione ideologico-culturale, che già era
stata impostata dal De Sanctis, tramite la quale viene imbellettata la miseria, la povertà, morale,
prima che intellettuale, della borghesia meridionale ed italiana con le auliche parole di Spirito, Idea.
§ 1. La Spagna
La stessa Spagna basava le ragioni della sua esistenza sul mantenimento di un regime
semifeudale, aristocratico-nobiliare, soffocando la sua stessa borghesia e favorendo l’aristocrazia
nobiliare. Lo stato spagnolo era cioè il comitato d’affari dell’aristocrazia nobiliare.
Al contrario della maggior parte delle monarchie europee, affermatesi appoggiandosi sulle
forze borghesi della città per piegare o almeno ridurre il potere feudale, la monarchia spagnola
aveva rafforzato il suo assolutismo non con l’aiuto della borghesia, ma combattendo e
schiacciando questa, rappresentata dai “ comuneros”, sconfitti definitivamente e sanguinosamente
nella battaglia di Villabar, il 23. aprile. 1521.
I “ comuneros”, appoggiati dalle plebi, avevano sollevato intere città con a capo Toledo, unitesi in
una lega diretta da una “junta”, che era in effetti il governo rivoluzionario. Per mesi era durata la
sollevazione, che aveva visto borghesi e popolani uniti. I nobili castigliani ed i loro seguaci
sconfiggendo e sterminandoli a Villabar, sconfissero le città che rappresentavano il movimento
borghese spagnolo, sconfitto il quale fu sconfitta la Spagna, la sua parte più vitale.
Nonostante il 1559, che segnò l’apogeo della Spagna feudale, quel seme di sangue che era stato
Villabar, diede i suoi frutti amari, portando la Spagna alla decadenza, venendo meno la classe
borghese, l’unica in grado di dirigere i nuovi processi e condurre così la Spagna sulla strada del
progresso.
Ed è proprio Carlo V, tanto decantato dalla storiografia meridionale, il boia di Villabar. La
struttura feudale spagnola era stata fissata in maniera definitiva, incementando la società spagnola
e condannandola alla decadenza, da Carlo V con un decreto specifico fin dal 1520.4
In questo processo di stabilizzazione nobiliare si salda, e salda a sé, le proprietà e le rendite
della curia romana e quindi la stessa Curia, che si troverà schierata a tutto campo, da lì a poco,
contro la Riforma protestante. Trascina così nella decadenza le stesse classi dello stato romano,
inchiodate irreversibilmente ad un ruolo di retroguardia, di braccio armato ideologico e culturale
delle posizioni più arretrate della società. Sarà dalla corona di Spagna che gran parte della curia
romana e del suo governo, il sinodo, che trarrà le sue ricchezze: rendite e feudi e che troverà nelle
armi spagnole le ragioni della sua ricchezza. In sostanza la decadenza della curia romana si
manifesta da qui, quale controfigura spettrale delle ragioni della potenza mondialmente dominante.
Sarà cioè la controfigura spettrale delle ragioni della corona di Spagna, allora potenza mondiale, e
l’Inquisizione, e tutto il suoi apparato truce e folle, lo strumento per l’affermazione delle ragioni
della corona di Spagna
Merita qui di fermare questo elemento di subalternità della curia romana agli interessi della
potenza dominante che di volta in volta nel corso della storia si affermerà.
Stritolerà la Spagna, nella disperata lotta contro la decadenza, l’Italia tutta e quindi anche il
Mezzogiorno, trascinandoli con sé nella decadenza e ad un ruolo di subalternità, che caratterizzerà
tutto il corso borghese della storia questi paesi, giacché, in una realtà borghese, diversamente nelle
precedenti società, meridione ed Italia tutta sono intimamente saldati: la decadenza dell’uno
comporta, in modi e forme diversi, sempre la decadenza del tutto. Questo è determinato dalla
configurazione geografica di questo territorio e dal ruolo che storicamente è venuto a determinarsi
del commercio e della proprietà.
Il periodo preso in esame mostrerà bene, ed in maniera forte, questo legame inscindibile.
§ 2. La dominazione spagnola.
Con la “ scoperta” delle Americhe il Mediterraneo viene a perdere la sua centralità,
determinandosi uno spostamento dell’asse commerciale e viario dal Mediterraneo all’Atlantico.
Consequenzialmente ciò comporterà la centralità di quei territori che si affacciano sull’Atlantico:
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Portogallo, Spagna, Inghilterra, Francia, Olanda ed una decadenza per quelli più distanti, quali i
paesi rivieraschi afro-asiatici mediterranei, di qui poi la decadenza della stessa cultura araba.
La particolare configurazione geografica dell’Italia ne fa retrovia centrale, decisiva del più
complessivo schieramento avanzato dell’impero spagnolo.
Il controllo del Mediterraneo resta un momento centrale, la perdita di questa comporta un più
generale indebolimento e di questa retrovia è il mezzogiorno d’Italia il punto nevralgico assieme al
territorio di Milano, che viene a trovarsi sul fronte di guerra, di quella guerra che vide appunto le
forze borghesi in lotta tra loro per il controllo dell’Europa continentale, la Guerra dei Trent’anni (
1618-1648). Il territorio di Milano fu più retrovia militare del teatro di guerra e Genova porto di
appoggio, ma il meridione ne era la riserva forte e decisiva.
Quando si studia il meridione d’Italia lo si legge nella sua staticità e non dentro questo più
complesso rapporto di nessi ed interrelazioni, fuori cioè da più complessivi equilibri europei che nel
Mediterraneo trovano un loro equilibrio e consequenzialmente si riflettono sul territorio meridionale.
Vedremo nel corso di questo lavoro come si vengono strategicamente a definire tali equilibri e
come essi si riflettono su questo territorio e come movimenti e mutamenti di equilibri su questo
territorio si ripercuotono e ridisegnano altri equilibri, consentendoci così di intelligere i più
complessivi movimenti delle classi della società meridionale e quindi la sua sessa storia.
Occorre sempre tenere ben ferme le caratteristiche del sistema di produzione capitalistica,
che lo differenziano dai precedenti sistemi di produzione. La peculiarità, come si sa, è la
produzione di merci al fine dello scambio ed è questo che, nel suo sviluppo salda l’intero globo
terrestre in un unico grande mercato, in un unico grande movimento. Questo significa che mentre
nella società schiavista e feudale poteva aversi una lettura di singole aree, con il sistema di
produzione capitalistico questo non è più possibile. Occorre, cioè, intelligere il movimento
complessivo, che si esalterà nei punti nodali dello scambio e della produzione e stempererà in altri.
La storiografia borghese, anche nei sui punti alti, stenta ad abbracciare questa visione
d’insieme dei processi storici, attenendosi sostanzialmente ancora al lavoro monumentale di Pierre
Renouvin, Storia delle relazioni internazionali. Ma anche in questo campo, ed è quello più
inamovibile e statico, iniziano a svilupparsi nuovi correnti di pensiero storiche, che tendono a
leggere il movimento complessivo. Approdano così, per vie tortuose a quella visione dialettica della
storia che già Marx ed Engels avevano tracciato. E’ questa ancora una storiografia materialista che
si vergogna e che non sa trattenersi dal fare piedino alle categorie crociane della storia ed in
questo processo contraddittorio si fa strada. Da questo punto di vista un buon lavoro è il lavoro di
Bonanate ed altri, Le relazioni internazionali, ai quali occorrerebbe chiedere più audacia di
pensiero.
Stritolerà la Spagna l’Italia tutta, si diceva, vediamo come.
La dominazione spagnola in Italia aveva nell’Italia Meridionale il suo punto di forza, costituiva
la sua riserva. Tutta la strategia tendente a far ruotare attorno agli Asburgo i principi e ducati
italiani aveva a base, perno e riserva proprio ed esattamente il regno di Napoli. Assieme alla Sicilia
costituiva la grande piazzaforte nel Mediterraneo e retrovia salda della marina spagnola oltre
Atlantico.
L’esigenza spagnola era quella di stabilire un ferreo controllo sul Regno e dall’altra non
impegnare troppe forze, avendole dislocate in varie parti del mondo ( Sul mio regno non tramonta
mai il sole” ).
La storia del regno di Napoli del Tre-Quattrocento dimostrava abbondantemente come del
popolo meridionale ci si poteva fidare ben poco ed ancora meno dei baroni, sempre pronti a dar di
piglio tra di loro e contro tutti, infidi, “ infedelissimi”. Ma era tramite loro che la corona spagnola
poteva controllare e dominare la massa del popolo meridionale. Se la Chiesa era un baluardo della
dominazione, assai poco ci si poteva fidare del basso clero, sempre pronto a brigare con popolani,
contadini e briganti. Il dominio spagnolo nel Cinquecento si caratterizzava per la lotta contro la
Riforma e la Controriforma consequenziale, che non sarà indolore nel regno, che già a partire dal
1545 si opporrà all’introduzione dell’Inquisizione e successivamente sosterrà i dominicani di san
Domenico Maggiore, san Pietro Martire ed altri conventi nella loro resistenza alle direttive di
Trento, trovano nella borghesia cittadina e delle campagne e nel popolo meridionale valido
sostegno politico e militare.
Il problema della stabilizzazione della realtà meridionale è l’asse centrale della politica asburgica:
stabilizzare il regno di Napoli per rendere più salda, forte la retrovia ed essere così in grado di
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estendere e rafforzare l’egemonia ed il controllo su tutta la penisola posta ben al centro del
Mediterraneo, rafforzando così la più complessiva retrovia dell’impero asburgico.
Si trattava di coniugare due elementi:
a. saldare l’aristocrazia nobiliare meridionale agli interessi strategici spagnoli;
b. saldare alla corona asburgica le varie case e principati e ducati italiani:
Per fare questo la corona spagnola sviluppa la politica della concezione delle onorificenze, titoli
nobiliari legati a concessioni di feudi, pensioni, che gravavano tutti sul Regno di Napoli.
Questo consente nel contempo di spezzare quell’unità eversiva del baronaggio meridionale, e così
parte di questi, spodestati, ridimensionati sono spinti in quel magma di opposizione e lotta, tra
quegli “ eretici” di cui parla Villari.
In queste condizioni la realtà economica, civile, sociale meridionale è proprio ed esattamente “
riserva”.
Il dominio spagnolo in Italia si attua in due stati: il regno di Napoli ed il ducato di Milano, tra i
due vi sono: lo stato della Chiesa, il ducato di Urbino, il granducato di Toscana. il ducato di
Modena e Reggio, il ducato di Parma, il ducato di Mantova, le Marche di Monferrato, la repubblica
di Genova, la repubblica di Venezia, il ducato di Savoia ed infine gli stati di Monaco, Finale,
Sabbioneta ( posto tra Parma e Mantova), Correggio, Piombino, Portolongone.
In questo quadro assumono un ruolo decisivo per la posizione militare: Sabbioneta, oltre Piombino
e Portolongone sul Tirreno e il ducato di Monaco dei principi Grimaldi.
La politica della corona spagnola è quella di legare a sé questi principati e ducati, in modo da
estendere la sua presenza su tutta la penisola. E’ evidente la necessità di coprire il punto più
avanzato: Milano congiungendolo con il meridione, rafforzando così la posizione di Milano quale
punto di collegamento con l’Europa continentale e tramite Milano avere un punto di collegamento
con il dominio nelle Fiandre, ossia sullo sbocco sull’Atlantico ed il controllo della Lega Anseatica.
La politica spagnola consiste, per mantenere la fitta rete di alleanze, amicizia, presenza
militare: guarnigioni, presidi, ecc. nell’elargizione di feudi, pensioni, collari ed onorificenze
cavalleresche. Tutte queste hanno però alla base la concessione di un feudo, di una pensione, di un
titolo poi da mettere in vendita che afferisce sempre al Regno di Napoli.
Il Regno di Napoli costituisce cioè la grande retrovia finanziaria e feudale della politica di alleanze
ed elargizioni reali della Corona Spagnola.
La politica spagnola mira inoltre ad una intelligente e sagace azione di assorbimento degli strati più
ricchi borghesi proprio attraverso questa politica di concessione/vendita di titoli e feudi,
consentendo così di accostare ai mercanti ed ai banchieri acquirenti di feudi nei domini meridionali
anche i signori ed i principi d’Italia ed ottenere infine di legare alle proprie sorti proprio quelle forze
finanziarie in grado di soccorrere le fallimentari casse spagnole.
Duchi, marchesi, principi e baroni meridionali, ma anche genovesi, fiorentini, veneziani, del
principato di Monaco, famiglia Grimaldi, dei Savoia, dei Gonzaga, ecc. in un intreccio con le casate
baronali meridionali: tutti hanno interessi precisi, esatti, materiali, nel regno di Napoli e quindi
interessati al mantenimento dello status quo, ossia al dominio spagnolo nel Regno di Napoli.
Si assiste così a forme di integrazione dei principi e dei signori italiani all’interno del complesso
dinastico, la circolarità delle carriere di magistrati e di uomini di governo, le strategie di
acquisizione degli onori da parte delle famiglie aristocratiche, il movimento di uomini e capitali ,
oltre che di idee e progetti politici, attraverso uno spazio unitario che comprendeva Madrid, Roma,
Napoli, Palermo, Milano, Genova, Firenze, e le capitali dei piccoli ducati padani: Monaco,
Finale, Sabbioneta, Correggio, Piombino, Portolongone ed inoltre: Marche di Monferrato,
Ducato di Parma, Ducato di Mantova, Ducato di Urbino, Ducato di Savoia. L’integrazione
dinastica vede innumerevoli famiglie italiane avvicinarsi nel XVII secolo ai re Cattolici per
conseguire titoli, croci cavalleresche pensioni feudi, insomma tutti quegli onori di cui dispone
il sistema imperiale asburgico. Gran parte di questa disponibilità viene ad essere ritagliata
all’interno di quella che è la riserva umana, finanziaria e feudale della monarchia: il Regno di
Napoli.
I magnifici signori di Lucca, gli Este duchi di Modena ed i Farnese di Parma, i Gonzaga di
Mantova, i Cybo di Massa e Carrara, i duchi di Correggio, della Mirandola ed i Malaspina, i
Valditaro, precari signori dei feudi imperiali sparsi tra l’appennino ligure e quello parmense, si
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inchinano tutti alla suprema autorità del re, ricevendone in cambio onorificenze, mercedi e pensioni
oltre che numerosi feudi e doviziose rendite nel Regno di Napoli.
Se i Medici acquistano Firenze e Siena, se Genova riprende il controllo della Corsica, se i
Savoia si sono insignoriti di Asti ciò è avvenuto essenzialmente per merito della Spagna, che
non solo ha favorito l’espansione territoriale degli stati suoi alleati, ma è spesso intervenuta in
aiuto dei loro reggitori.
Questa politica trae profitto dalle difficoltà finanziarie che travagliano i principi ed attua una
politica di sostegno nei loro confronti, che dirotta, soprattutto verso le corti padane, aiuti economici
sotto forma di sussidi e pensioni oltre che risorse di altro segno quali onori dignità ed uffici. In
questo modo si legano vieppiù i principi ai destini ed alle strategie della corona attraverso risorse
quali onori, dignità ed uffici, titoli, feudi, pensioni; attuando così un elevato grado di integrazione
dei signori italiani:
Francesco Maria II della Rovere, duca di Urbino, è fedele cliente specie da
quando aveva ricevuto una pensione di 3000 scudi..
Ranucci I Farnese, duca di Parma, si dimostra vassallo ideale..
Vincenzo I Gonzaga, duca di Mantova..
Cesare d’Este, duca di Modena
Duca della Mirandola, si era messo al servizio del re permettendo arruolamenti,
transiti e raccolti di viveri nei suoi feudi ricevendone pensione di 6000 ducati.
La politica matrimoniale asburgica è un altro elemento per legare alle proprie sorti
principi e duchi: Cosimo de’ Medici, Francesco Gonzaga, Alfonso III d’Este, Francesco de’
Medici, Carlo Emanuele di Savoia. Il duca di Savoia Carlo Emanuele contrae con Caterina,
figlia di Federico II, un matrimonio, benedetto da “ molti annui redditi assignati.. nel Regno di
Napoli, oltre grosse pensioni che prima del matrimonio gli si pagava nello stato di Milano, per
tetenerlo maggiormente nella conservazione di quegli stati interessato”.
La piccola repubblica di Lucca è filospagnola per i cospicui traffici con Napoli, che interessano
soprattutto le sue famiglie patrizie oltre che per i benefici ecclesiastici che il re Cattolico, grazie
all’autorità di cui gode in Roma, riesce ad ottenere per quelle; il duca di Massa è nella clientela del
re e percepisce una pensione di 3000 scudi; a 12.000 scudi ascende la pensione corrisposta al duca
di Modena ed a 16.000 a quello di Parma. Questi principi e nobili sono pervasi da una mentalità
di redditieri più che di principi.
La repubblica di Genova i cui nobili possiedono innumerevoli beni, feudi e titoli nel regno di
Napoli sono legati alla monarchia da questi possedimenti e da ben precisi rapporti di ordine
finanziario, che avremo modo di vedere meglio nel corso di questa disamina.
Emblematico per comprendere bene il legame che salda questi principi alla corona di Spagna,
tramite esattamente l’utilizzo di quella che era la riserva materiale, ossia il regno di Napoli, è il caso
di Sabbioneta.
Traiano Boccalini ricordava come la monarchia cattolica, dopo aver allungato la catena con la
quale teneva avvinta l’Italia con cinque anelli ( Piombino, Finale, Correggio, Porto Longone,
Monaco) si apprestava a forgiare un sesto anello impadronendosi di Sabbioneta.
Per il matrimonio di Anna de Medici con Medina, fortemente voluto anche dalla madre e dal
fratello, il cardinale Ippolito, si muove tutta la famiglia Aldobrandini a superare l’opposizione di
Isabella di Gonzaga.
Alla morte di Anna, Sabbioneta passa alla discendenza ispano napoletana dei Gonzaga, che viene
foraggiata economicamente con pensioni imposte su alcune fonti di entrata collocate nel Regno
di Napoli
Oltre all’avere Isabella Gonzaga 30.000 ducati di entrata nel Regno di Napoli in tanti stati suoi
patrimoniali; il figlio Antonio, principe di Mondragone, sposa Elena Aldobrandini, nipote di
Clemente VIII; la nipote Anna – per la morte dei genitori e del fratello Giuseppe – si trova erede
della casa Carafa, ricchi di stati e di titoli.
Mentre Filippo IV spinge perché Anna Carafa vada in sposa a Giovan Carlo de’ Medici, fratello del
granduca di Toscana.
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Quello che qui va fermato è il rapporto:
SabbionetaGonzagaAldobrandiniClemente VIIICarafaDe Medici carica di viceré a
Napoli. Va cioè fermato l’intreccio tra alcune grandi casate feudali attorno a Sabbioneta: nodo
militare nevralgico. Il dato elementare in sé getta un fascio di luce decisivo sul più complessivo
rapporto che univa le varie casate e che agivano sul territorio del regno di Napoli, e che agirà sulla
vita più complessiva del regno e quindi delle classi, del movimento delle classi e quindi della storia
meridionale ed italiana
Ossia: guarnigioni, matrimoni, titoli, onori e pensioni, costituiscono, in un intreccio inestricabile il
complesso e solido fondamento dell’egemonia della grande monarchia sulla penisola. Di
eccezionale rilievo sono i legami di dipendenza di tipo feudale e finanziario con il Regno di
Napoli, essi costituiscono il tramite attraverso il quale numerosi principi, a cominciare da
Isabella e Anna, “ doveranno dipendere sempre dalla volontà de’ spagnoli per ogni ragione.”5
Il patronato regio viene così a configurarsi come lo strumento più idoneo a realizzare un
collegamento tra gli apparati del governo centrale ed i ceti dirigenti territoriali, che se lascia loro le
tradizionali forme di controllo sui quadri e sulle forme locali del potere, anzi ne potenzia l’àmbito, li
inserisce in un circuito imperiale, che prevede per i servitori della corona una serie di ricompense
e di gratificazioni, che hanno una valenza extra locale, extra italiana addirittura, circuito imperiale,
appunto!. La duplice funzione di quel patronato emerge così chiaramente: causa ed effetto
dell’indebitamento nobiliare e della debolezza statuale.
Ancora una volta il Regno di Napoli, con i suoi feudi e con i titoli nobiliari su quelli
appuntati, si presenta ai nostri occhi come la principale destinazione di coloro che,
provenienti dall’intera area italiana, aspiravano ad inserirsi nel sistema degli onori asburgici
e per questa via, miravano a sancire un’ascesa sociale o a consolidare la propria posizione
all’interno delle élites aristocratiche.
La Spagna ha bisogno del sostegno di questi principi “ indipendenti” e lo acquista facendo piovere
su di essi onori e pensioni; i principi, a loro volta, si servono della monarchia per creare e sostenere
proprie clientele oltre che per rafforzare una legittimità dinastica sottoposta, a volte, a contestazioni
della più varia natura. Il flusso di denaro che la Spagna indirizza verso i forzieri dei principi e delle
famiglie italiane più ragguardevoli - ossia pensioni, rendite, ecc. che ha elargito ad esse - è tale da
impegnare quasi totalmente i 400. mila scudi che annualmente ricava dai domini in Italia; alle
pensioni che vengono corrisposte ai principi indipendenti al fine di trattenerli nella clientela ed
incoraggiarli alla fedeltà, se ne aggiungono numerose altre destinate a potenti famiglie
aristocratiche, .. quelle romane degli Orsini, Caetani, Colonna, tutte suddite spagnole per i
numerosi feudi posseduti nel Regno di Napoli.
La notevole disponibilità di risorse in denaro ed onori, in gran parte concentrate nel Mezzogiorno
di “ rifeudalizzazione”, facilita enormemente il compito di coloro che da Madrid dirigono la politica
italiana della grande monarchia visto che molti nobili e cortigiani nutrono il desiderio di diventare
vassalli di Sm ( come titolari di un feudo nel Regno o di godere di pensioni e rendite napoletane.
Le risorse materiali che si accompagnano agli onori, provengono non dal cuore della monarchia,
bensì dalla sua grande riserva feudale, il Regno di Napoli.
Milano, Napoli, e la Sicilia diventano il vivaio di cavalieri italiani: famiglie di origine ispaniche,
ma profondamente italianizzate, come quelle dei signori siciliani, si accompagnano
nell’acquisizione del Tosone, ad esponenti del patriziato milanese ed prestigiosi feudatari
meridionali. Numerosi baroni romani, per il possesso di cariche e di rendite nel Regno sono
perfettamente inseriti nella realtà economica e sociale napoletana e si potevano considerare tra i
vassalli più fedeli della monarchia: i Colonna di Palliano, Caetani di Sermoneta, baroni romani, ma
con forti e radicati interessi nel Regno di Napoli, un ceto nobiliare, questo, che ha distribuito i
propri interessi tra Milano, Roma, Napoli e Palermo. E dove un’accorta politica matrimoniale salda
grandi casate: le relazioni politiche e familiari del Land si estendono anche in direzione delle riviere
liguri. Federico, fratello di Maria, che ha sposato Ercole Grimaldi di Monaco, era marito di Placida
Spinola; sua figlia, Polissena Maria, era moglie di Giovanni Andrea Doria, “ barone” genovese ,
principe di Melfi, protonotario del Regno di Napoli.
Quello che qui conta fermare è il rapporto che viene a costituirsi tra varie grandi casate, che qui
coinvolge i principi di Monaco, GrimaldiDoriaSpinola ed i Grimaldi per i feudi che
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possedevano nell’Italia meridionale., data l’inconsistenza territoriale del principato dei
Grimaldi
Un altro punto da fermare è la trasversalità che unisce il regno di Napoli con il governatore di
Milano. Lo si è visto per i Gonzaga, vi ritorna con … Carlo d’Aragona, duca di Terranova, (
barone siciliano, governatore di Milano nel 1588 .. e con Filippo Caetani, principe di Caserta,
governatore di Milano tra il 1660 ed il 1662.
Anche qui una casata romana, il regno di Napoli e!! il governatorato di Milano.
Dietro la presunta spontaneità del gesto del sovrano si nascondono esborsi di denaro, ma anche
qui va operata un’attenta distinzione di periodi, altrimenti si finisce per non cogliere il movimento
della decadenza spagnola ed il lato servile, ottuso, dell’aristocrazia nobiliare e della borghesia
compradora italiane.
Vanno quindi distinti tre periodi del Seicento:
1585-1620, è quello della concessione di.. al fine di quella strategia di legare le famiglie italiane;
1620-1650 il secondo periodo è quello che vede il rafforzamento di quella strategia nella fase
dell’inizio della decadenza spagnola e dei movimenti rivoluzionari in Catalogna, Fiandre,
Inghilterra, Francia, Portogallo e l’inizio della Guerra dei Trent’Anni: qui i due momenti strategia
politica ed esborsi si intrecciano;
1650-1700 è la fase della crisi finanziaria e politica ed istituzionale, dell’arroccamento, della
difesa chiusa da una parte e dell’arraffare quanto più è possibile dall’altra;. In questa fase diviene
prevalente la vendita dei Collari, delle pensioni, dei titoli, delle pensioni per far fronte alle
necessità dell’impero oramai in disfacimento.
§ 2.1. Le forme
Le forme attraverso le quali queste casata italiane e meridionali venivano coinvolte erano
quelle delle onorificenze, o ordini cavallereschi ed a questi erano poi legati feudi e possessi feudali.
Ma la corona di Spagna ne seppe fare un uso intelligente ed oculato. Occorre distinguere infatti il
toson d’oro, i vari ordini cavallereschi ed il grandato per le onorificenze; e poi distinguere le
pensioni gli ayudas de costa. La corona di Spagna seppe cioè ben giocare con gli aspetti più deleteri
del formalismo seicentesco, quello che poi tanto colpirà gli storiografi ufficiali borghesi, sapendo
ben distinguere, dosare, bilanciare incarichi ed onori creando così una schermatura fitta di divisioni
da una parte e di unione dall’altra: sentendosi così tutti dentro il grande onore di titolati di Spagna,
oltreché interessati assai materialmente a questa dominazione, giacché da questi dipendevano feudi,
terre, rendite, pensioni, ecc.
Il grandato di Spagna costituiva la dignità di Grande di Spagna; serviva a definire una gerarchia in
cui ciò che contava non era la funzione di governo svolta o l’esercizio di poteri, ma il possesso di un
onore e di una dignità. Il grandato si accompagnava a non sottovalutabili vantaggi di ordine
materiale. Ne rimasero esclusi quei principi sovrani di area padana e della zona tosco-emiliana,
mentre largo posto nei suoi ranghi venne riservato alla nobiltà dei due regni meridionali ( di Napoli
e di Sicilia ) ed alle potenti casate romane, che confermavano, così, la loro natura di gruppo di
confine a cavallo tra due lealtà e due forme di giurisdizione diverse.. E questo ben segna il ruolo
subalterno di questi principi “ indipendenti”. attorno a quel prestigioso titolo si costruivano strategie
familiari, si allacciavano rapporti matrimoniali.
Ora le funzioni di potere e l’esercizio del potere non è immediatamente collegabile con il potere. In
generale questi sono quadri organici della classe dominante o alti quadri, che esprimono gli
interessi organici della classe dominante. Il grandato stava ad indicare proprio ed esattamente
l’appartenere non solo e non tanto alla classe nobiliare, quanto di costituirne l’avanguardia di
quella classe, che in quanto tale si rapportava e centralizzava attorno alla massima espressione del
sistema nobiliare-feudale, ossia il re. In quanto tale era quella che esprimeva gli indirizzi generale
e determinava le scelte, che poiché svolgeva funzione di governo od esercizio di poteri provvedeva
ad applicare, elaborare, ecc.
I viceré, infatti, con le loro “ relazioni” potevano agevolare o ritardare la concessione del
grandato. La “ relazione” metteva in evidenza il ruolo che ciascun nobile o alcuni nobili avevano
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svolto nella direzione del viceregno e quindi il contributo che essi sono in grado di dare, la
sperimentazione della loro capacità di saper leggere oltre i propri interessi “ particulari” e di
porsi come dirigenti più complessivi e quindi di avere una visione generale, organica, di classe ed
in base a questi contribuire alla direzione del viceregno, in questo caso. Ma questo conferma la
natura di Stato maggiore della classe nobiliare-feudale del grandato.
Tutta una storiografia ha teso a presentare i baroni meridionali vassalli a differenza invece
dei principi indipendenti italiani, ma questa lettura non trova substanzialità alcuna. I principi
indipendenti, come già da qui si va profilando, non erano meno vassalli dei baroni e nella misura
in cui traevano le loro rendite e feudi nel Regno di Napoli li rendeva doppiamente vassalli: avevano
quei titoli e rendite nel Regno proprio affinché si legassero come vassalli alla Corona di Spagna ed
in quanto meno ricchi erano meno in grado di opporsi o costituire opposizione, erano cioè pezzenti,
che non avevano interesse alcuno se non di continuare a vivere di quelle rendite e pensioni ed in
questa logica rentiers costituivano la peggiore massa di manovra, la peggiore massa reazionaria,
proprio della Corona di Spagna.
§ 3. Centralità del Regno di Napoli.
Viene qui profilandosi, in concreto, allora la centralità del regno di Napoli nella più
complessiva strategia politica, economica e militare dell’Impero spagnolo; un ruolo, cioè, non
marginale o settoriale ma centrale della più generale strategia dell’Impero spagnolo.
Su tutti gli stati italiani emergeva il regno di Napoli, il cui contributo alle sorti della dinastia
di casa d’Austria era stato sin dai primi anni del Cinquecento, e tuttora continuava ad esserlo, di
eccezionale rilievo, come è testimoniato dalla lettera di confidenza scritta dal re Cattolico, Filippo
IV, al viceré di Napoli, conte di Onate, intorno al buon governo di quel regno, maggio-giugno 1648:
“ Quel gran paese era infatti -– sempre quella viva miniera che ci provvide così d’Esercito, per far
le guerre, come dei Tesori per mantenerle. Privi di questo Regno , siamo più che sicuri di non poter
né difendere, né sostenere; l’armi nostre non riportano giammai vittoria, che il ferro Napolitano
non mietesse le palme; la stima che fanno della Nostra Corona tutti i Potentati d’Europa e la
riverenza che ci portano i Principi Italiani dal solo regno di Napoli lo riconosciamo.”
Il possesso del Napoletano, “ la più nobil parte d’Italia”, è tassello di fondamentale
importanza ai fini del controllo di tutta la penisola da parte della Spagna.
Il regno di Napoli con le sue dodici province, ciascuna delle quali superava in
estensione ed in ricchezza molti principati indipendenti italiani, era così diventato per gli
Asburgo il grande serbatoio feudale dell’intera penisola. Le vicende dei primi decenni del
Cinquecento, i processi di mercantilizzazione del feudo, la rifeudalizzazione e
l’unificazione degli stati della penisola all’interno del sistema imperiale asburgico avevano
consentito a Carlo V ed ai suoi successori di svolgere una politica che mirava non solo a
garantire la coesione e la fedeltà delle aristocrazie meridionali, ma ad incasellare entro una
gerarchia riconoscibile di onori – ancora la lettura del lato formale! – quelle famiglie di
signori italiani che l’angustia dei loro possessi territoriali, la “oscurità” o l’origine cittadina
dei loro titoli nobiliari rendevano difficilmente identificabili.
I Farnese, i Medici, i Cybo, i Ludovisi, i Colonna, gli Orsini, i Gonzaga, i Doria, gli Spinola, i
Savelli , per citare solo alcune tra le famiglie più eminenti, occupavano innumerevoli principati e
baronie nel regno di Napoli, partecipavano al grande banchetto delle clientele che ruotavano
attorno alla monarchia iberica ed alle sue inesauribili risorse.
Queste famiglie si intrecciavano ed interagivano con la nobiltà meridionale costituendo diversi e
sovrapposti circuiti, tessendo così in tutto il regno di Napoli una fitta rete di clientele, interesse di
famiglie nobiliari di tutta Italia.
Ora è proprio ed esattamente questo complesso intreccio che bisogna sempre considerare quando si
esaminano le vicende del meridione d’Italia. Questo elemento va coniugato con un altro, di cui poi
nessuno parla, perché non visto e questo anche da autori intelligenti: la centralità
mediterranea entro cui iscrivere tutto il movimento contraddittorio che
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vede opposte Italia, Francia, Inghilterra e di riflesso queste tre e la
Germania e queste quattro ed i Balcani e la costa adriatica dei Balcani e le
colonie afro-asiatiche rivierasche del Mediterraneo. Se noi leggiamo il
meridione d’Italia come parte mediterranea d’Europa i processi e la storia
più complessiva del processo borghese europeo ed italiano appare molto più
semplice e di chiara intellezione.
Ma fra tutte per quantità e qualità della loro presenza emergevano le famiglie genovesi alle
quali erano intestati innumerevoli feudi nel regno.
I baroni genovesi avevano una non trascurabile dimestichezza con il sistema feudale dal momento
che possedevano feudi nell’Oltregiogo ed in quella zone che vedeva quasi incrociarsi i confini del
Milanese, della Toscana granducale e della loro stessa repubblica
i Doria, a cominciare dal grande ammiraglio, erano conosciuti nelle corti e nella corrispondenza
come Principi di Melfi; i Grimaldi furono prima marchesi di Campagna e poi principi di
Monaco. Tutti i genovesi possessori di titoli e feudi nel regno entravano in un circuito nobiliare
ben più autorevole di quello che faceva riferimento alla loro qualità di “ magnifici” della repubblica
di san Giorgio. Un titolo feudale meridionale consentiva di “ avere seggia in palazzo” …
Costituiva, cioè, il desiderio di realizzare un più redditizio investimento dei propri capitali a
muovere i patrizi genovesi, i baroni romani e gli stessi principi indipendenti italiani ad intessere
strategie politiche, matrimoniale, finanziarie, che avessero come destinazione ultima l’acquisizione
di feudi nel regno meridionale. Senza trascurare gli aspetti più squisitamente economici della
questione: si pensi alle numerose concessioni di tratte di esportazione di cereali, soprattutto dai porti
e dai caricatori siciliani e pugliesi; il possesso di titoli e baronie serviva anche a rafforzare posizioni
di potere nell’ambito dello stato-metropoli, a coagulare risorse umane ed economiche che potevano
essere utilizzate in patria od a strutturare clientele alle quali si prospettavano carriere negli apparati
burocratico-amministrativi attraverso i quali si esercitava il governo dei feudi nel regno. Si veniva
così a chiudere il cerchio del controllo e della speculazione sulle ricchezze del regno.
Si può qui annotare che nel 1643 il granduca Ferdinando II chiede al viceré il permesso di
promuovere nel suo feudo abruzzese di Capestrano una leva di 500 uomini da trasferire in Toscana,
e che lo stesso granduca era signore feudale di Policastro, località distante quindici miglia dal porto
di Crotone, ove solevano fare scale le galere medicee
Parimenti.. i Serenissimi duchi di Parma e Piacenza nel 1565 prelevavano dai numerosi e
popolosi feudi che possedevano nel regno il 3,2% delle loro entrate e nel 1593 il 18,25% destinando
a quei luoghi appena l’1,8%. In concreto prelevavano da Parma e Piacenza nel 1565101 mila scudi
e nel Regno di Napoli appena 5.040 scudi e nel 1593, trent’anni dopo, 141 mila scudi da Parma e
Piacenza e 61.256 scudi dal regno di Napoli, [ Vedi tabella 1 allegata]
Essi in questo modo, si facevano promotori di una politica che mediante una “ travaso di ricchezza
dai feudi al ducato, dalla periferia al centro, dal sud al nord della penisola tendeva a mantenere
inalterata la pressione fiscale sui contribuenti di Parma e Piacenza. Serenissimi duchi che a loro
volta si legavano a famiglie baronali meridionali, come i baroni Paolo di Sangro, principe di
Sansevero, Cicco Loffredo marchese di Trevico, Mario del Tufo marchese di Lavello venivano
definiti nell’elenco dei feudatari meridionali servitori del “ serenissimo gran duca” di Parma e
Piacenza
Ed era questa possibilità di travaso e di rapina – che la corona consentiva al fine di legare queste
famiglie e città al carro della sua politica - che spingeva molti nobili forniti di considerevoli
ricchezze erano disposti ad acquistare titoli dal re di Spagna, fra costoro si distinguevano i
genovesi, ai quali la corona aveva venduto innumerevoli feudi nel Mezzogiorno.
Pure i nipoti dei pontefici erano molto interessati ai feudi meridionali: i Colonna e gli Orsini erano
da tempo fedeli casate, servitrici e parziales del re, i Barberini, i Pamphili, i Ludovisi, gli
Aldobrandini, famiglie pervenute tutte a grandi ricchezze, avevano acquistato innumerevoli beni
immobili, feudi e rendite nel regno di Napoli.
Signori genovesi e baroni romani, il principe di Monaco, il duca di Parma ed il granduca di
Toscana, il signore del minuscolo ducato di Massa – i Cybo- ed il principe di Piombino si
muovevano tutti sugli immensi spazi feudali del Mezzogiorno,. essi legavano in questo modo,
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consapevolmente o inconsapevolmente, le sorti dei propri paesi di origine a quelli della monarchia
iberica
I vantaggi per gli Asburgo erano molteplici: ricavavano molto denaro vendendo a quelli
titoli e feudi; in secondo luogo giungevano a disporre di “ multos homines opulentos”, che
oramai, ridotti a sudditi, potevano mungere a loro piacimento; i terzo luogo i possessi nel regno
obbligavano questi a seguire le direttive generali della politica degli Asburgo, a rispondere
sempre positivamente alle richieste di nuove contribuzioni finanziarie avanzate dal re. La
contropartita dell’essere diventati “ sovranetti” era quindi data da una più soffocante tutela della
Spagna.
Le catene d’oro che tenevano avvinta Genova, gli interessi e benefici che spingevano principi e
signori italiani verso il regno di Napoli, non disgiunti dalla minaccia di sequestro spesso
spregiudicatamente in atto, dei beni feudali posseduti dai baroni forestieri al minimo segno di
divergenza della politica dei loro stati d’origine da quella di Spagna, definivano un complesso
pericoloso di relazioni che partivano da n centro che dispensava onori, riconosceva gerarchie, - e
queste appoggiate da rendite, feudi, pensioni, ecc. !! -.. Queste da parte loro coinvolgevano con i
titolari di feudi extraregnicoli, le realtà statuali dalle quali essi provenivano. Il possesso di feudi nel
regno non poteva che rendere devoti alla monarchia i nobili genovesi e romani, anzi la presenza a
Napoli di numerosi baroni “ nuovi” fece sì che i titoli meridionali “ non cospirare possint,
numquam enim inter anqtiquos et novos.
Ma, e questo è l’altro aspetto del problema, ed è, poi, quello più grave, è che questi singoli baroni,
principi indipendenti, queste singole casate che rastrellavano onorificenza e titoli e castella e “
seggia a palazzo”, tramite i quali si legavano alla corona spagnola, a quelle condizioni capestro che
si è visto, lo facevano pagando e quindi sostenendo e finanziando proprio ed esattamente quella
corna in caduta libera e pagando la aiutavano a mantenersi e nel mantenersi e per mantenersi
saldava quelle catene di cui si è detto. In altre parole questi imbelli pagavano per essere tenuti alla
catena e per avere essi privilegi, per mettere essi al riparo i loro averi si stringevano e saldavano da
se stessi le catene con le quali stringevano le loro stesse casate ed i loro stessi paesi d’origine.
L’intero sistema degli onori edificato dalla Spagna attingendo dalla riserva feudale meridionale
rispondeva anche ad esigenze di controllo sul regno.
La strada praticata dalla Spagna per porre sotto tutela le casate aristocratiche meridionali: dalla
disgregazione dei grandi stati feudali, all’ampliamento dei gradi di trasmissione del feudo, alla
stessa mercantilizzazione, tutto fu messo in atto per ridimensionare la funzione politica del
baronaggio. Come affermava Doria: la formazione di una “ colonia di Baroni forestieri” composta
da romani, genovesi, spagnoli e principi d’Italia aveva anche lo scopo di “ creare un ordine opposto
a quello Napolitano” per “ opporlo alla potenza dei Baroni del Regno et impedire le Unioni.”
L’ambasciatore veneto sosteneva che con l’introduzione di forestieri si manteneva “ sempre più
viva la disunione nel regno fra questi e quelli del paese.”
Le forme economiche attraverso le quali la corona di Spagna si comprava i principi
indipendenti e la borghesia compradora italiana erano le pensioni e le ayudas de costa, acquisizioni
di feudi e città.. Entrambi pesavano sostanzialmente sul regno di Napoli.
Militari spagnoli chiudevano la loro carriera con pensioni napoletane e duchi, principi chiedevano
pensioni napoletane come il re di Polonia e l’Elettorato palatino, eredi di Bona Sforza, riscuotevano
vitalizi sulle rendite della Dogana di Foggia.
Anche qui quello che conta fermare è ancora la presenza del re di Polonia insistente sul
regno di Napoli ed il nesso: re di PoloniaSforza, Elettorato palatinoSforza
In sostanza si ha un proliferare indiscriminato che portò il carico delle pensioni su Napoli da
70.000 ducati del 1609 agli oltre 157.000 del 1626.
§ 3.1 Acquisizione di feudi e di città.
Ma il punto che questa elargizione di titoli pone è da dove veniva ritagliati questi titoli e feudi.
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In Villari viene data la notizia che questo viene reso possibile dalla contrazione delle terre
demaniale ed estensione di quelle baronali con l’investimento anche di città con casali come Napoli,
ecc.
Villari scrive:
“ alla fine del Cinquecento su 1875 comuni soltanto 76 erano ancora demaniali, ossia
appartenevano alla corona.
In realtà in questi 76 comuni si concentrava almeno un quarto della popolazione complessiva. Ad
essi erano aggregati casali ( Napoli ne aveva 43, Capua 33, Cosenza 85) che con il tempo
diventarono comuni indipendenti. I centri più importanti e popolosi del regno ed i casali delle città
furono la cospicua riserva di vendita di feudi alla quale attinse il sovrano durante il Seicento.”6
Sono ancora gli onnipresenti genovesi a rastrellare assieme alla curia romana: il cardinale
Aldobrandini che nel 1607 comunicò al re che avrebbe voluto impiegare 600. mila ducati nel regno
per integrare totalmente al suo servizio e per fare della propria case e dei propri parenti perpetui
vassalli della corona; cardinale Ottavio Bandini che desiderava “ vasallar su casa y familia en el
Reyno de Naples”.
Nel 1638 Andrea Gonzaga, che si era fatto “ vassallo volontario di SM possedendo alcuni luoghi
nel Regno di Napoli “, ora pieno di acciacchi, di figli e di debiti chiedeva in feudo la popolosa città
di Bitonto, il titolo di principe, la carica perpetua di capitano a guerra di quella città ed una
commenda per un figlio.
I titoli feudali napoletani costituivano una sorta di assicurazione nei confronti di eventi
che potevano spezzare la continuità della famiglia e delle fortune.. rappresentavano quel
prezioso legame con la monarchia che consentiva un servizio più autorevole ed apriva la
strada a richieste per ulteriori gratificazioni.
Si ha così quella gravitazione verso il regno meridionale di tante famiglie nobili italiane.
Era tutto un sistema in movimento, politico, dinastico, diplomatico ed economico che
individuava qui, nei feudi e nei titoli che esso poteva offrire il suo principale punto di
riferimento.
Alla vedova da Iacopo V fu proposto lo scambio di Piombino con un feudo napoletano, ai Carafa
nel 1556 fu offerto il principato di Salerno; Andrea Sforza del Carretto, precario signore del Finale,
devolse il suo stato in cambio di 24 mila ducati annui di rendita nel regno di Napoli e del possesso
della città calabrese di Rossano.
Al regno di Napoli si guardava anche per ricompensare o per attrarre nell’orbita asburgica principi
non italiani come Enrico di Montmorency con promesse di proprietà e giurisdizioni nel regno di
Napoli al fine del suo distacco dal Enrico III di Valois.
A questo occorre aggiungere le relazioni matrimoniali che venivano ad intessersi tra le famiglie dei
principi “ assoluti” italiani e quelle dei grandi baroni del tempo.
Venendosi così a costituire quei “ circuiti” dinastici e baronali di cui si è detto.
Ancora.
Tra i più attivi acquirenti di feudi, per sé e per i propri parenti e clienti, vi erano i cardinali di santa
Romana Chiesa. In questo modo, attraverso questi, la corona spagnola legava a sé la curia romana,
trasformandola in una sua appendice, di cui seppe ben servirsi, poi, nella disperata lotta di
ostacolare l’ascesa della classe borghese in quegli stati nazionali in formazione, che avrebbero
ostacolato, contrastato l’egemonia spagnola: Inghilterra, Francia, Olanda, Catalogna, Portogallo.
L’Inquisizione in realtà fu proprio ed esattamente la lotta disperata dell’impero spagnolo di
contrastare quelle forze e la formazione e nascita di quegli stati, borghesi, che potevano contrastare
il suo dominio ed in questo trovò valido appoggio e sostegno proprio in quei cardinali che nella
curia romana, in stragrande maggioranza, si erano legati alle sorti spagnole e che vedevano quindi
nel predominio di forze avverse alla spagnola la perdita dei loro possessi e rendite. Essi quindi
furono i tranquilli esecutori di una difesa più complessiva di un sistema che trovava nella corona
spagnola il centro ed il baluardo ed a nome e per conto di questa scesero in campo, scatenando una
battaglia di una ferocia senza pari ed imponendo il più bieco ed ottuso oscurantismo: ma a nome e
per conto di terzi, ossia della corona spagnola.7 Questo consentiva così alla corte spagnola di
esercitare un controllo sulla curia e disporre di ben precisi ed esatti canali fidati, onde poter
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manovrare e consentire che questa forza si disponesse secondo i desideri, gli intenti, i disegni i
voleri spagnoli.
Era tale politica espressione di un indirizzo che individuava nel collegio cardinalizio possibili fedeli
sostenitori della politica italiana della monarchia e nel regno di Napoli la base territoriale e
finanziaria sulla quale gran parte di tale politica poggiava.
La politica spagnola saldava così in un unico fronte: l’avanguardia della classe aristocratica,
organizzata nel “ grandato di Spagna”, baroni e signori e principi indipendenti vari, ricchi borghesi:
mercanti e banchieri e curia romana, il cui cemento era proprio quella politica di concessione di
feudi, pensioni, e ayudas de costa.
I cardinali, da parte loro, rivolgevano alle terre napoletane ed ai titoli che su quelle si
appuntavano le proprie aspirazioni e la corona spagnola ben sapendo, sapeva ben soddisfare le
istanze dei suoi aspiranti servitori.
E’ bene il caso di dire qui con Sallustio: “ avaro del suo e prodigo dell’altrui”.
§ 3.2 Le ayudas de costa
Erano queste particolari concessioni della corona spagnola: il re concedeva titoli affinché il
ricevente potesse venderli e da questi ricavarne rendite. Quello che il re concedeva erano titoli e
legati a questi possessi feudali di terre, città, ecc.
Attorno a questo autentico mercato fiorirono grosse speculazioni e si arricchirono grossi
speculatori, e prima fra tutti i banchieri genovesi, fiorentini e castigliani. Costituiva una forma della
corona per fare incetta di denaro per sovvenzionare le ormai disperate campagne militari, che
inchiodavano la Spagna alla sua emarginazione ed alla sua inarrestabile decadenza: l’ombra di
Villabar incombeva oramai gigante e potente sullo scheletro e le proiezioni mitiche di uno
splendore e di una ricchezza castigliana. E quella sconfitta del movimento rivoluzionario borghese
si presentava oramai a riscuotere il suo contributo ad una classe nobiliare inetta, che nel suo tracollo
trascinava anche la più inetta e accattona aristocrazia e borghesia compradora italiane. Queste nella
loro assoluta cecità non seppero trovare rimedio che abbarbicarsi al possesso feudale e quindi a
sovraccaricarsi di titoli e terre e castella e “ seggia a palazzo”, tutte protese a salvaguardare
l’immediato, senza alcuna visione neppure di breve periodo, che non sia l’immediato. Non seppero
neppure tentare, o immaginarsi di tentare, un investimento arrischiato, preferendo il bottegaio certo
quotidiano. E sarà questa, “ il certo bottegaio quotidiano” l’essenza della concezione, della cultura,
e della mentalità di una borghesia, quella italiana, che la caratterizzerà per accattona. Sempre pronta
a fuggire allorquando si profilano i più timidi problemi, abbandonando tutto e tutti e provvedendo a
mettere i salvo i pochi spiccioli che questa o quella potenza ora, in questo esatto e preciso istante,
promette o fa balenare. Già dagli anni Trenta non aveva più alcun senso legarsi alla corona di
Spagna, essa era già irrimediabilmente perduta, puntare su questa e peggio farle da scudo era la cosa
più suicida ed antieconomica che poteva pensarsi e la si poteva pensare solo con l’ottica del “
bottegaio certo quotidiano”.
In una fase di crollo generale e totale, in una fase in cui le altre grandi potenze affilavano i ferri per
spartirsi il dominio spagnolo e quindi in una fase in cui liberarsi della presenza spagnola non
richiedeva poi granché di sacrificio anche personale e nella prospettiva di partecipare al bottino
della spartizione dell’immenso Impero Spagnolo, che invece si divisero Inghilterra, Francia ed in
subordine l’Olanda, ebbene in questa fase solo l’ottica del “ bottegaio certo quotidiano” poteva far
scegliere di fare da scudo alla corona spagnola.
Per tornare adesso alle ayudas de costa – non troviamo un termine italiano che riesca a renderlo:
per far fronte alle sempre maggiori esigenze finanziarie la corona di Spagna non seppe trovare di
meglio che aumentare a dismisura il numero di principi, duchi, marchesi e ad attuare una
spregiudicata, quanta assurda, politica di vendita di città, anche di importanti città costiere e di
confine.
“ alla fine del Cinquecento su 1875 comuni soltanto 76 erano ancora demaniali, ossia
appartenevano alla corona.
In realtà in questi 76 comuni si concentrava almeno un quarto della popolazione complessiva. Ad
essi erano aggregati casali ( Napoli ne aveva 43, Capua 33, Cosenza 85) che con il tempo
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diventarono comuni indipendenti. I centri più importanti e popolosi del regno ed i casali delle città
furono la cospicua riserva di vendita di feudi alla quale attinse il sovrano durante il Seicento.”
I titoli posseduti, avevano anche un prezzo e prendevano il posto delle pensioni.
Enorme era il numero di richieste provenienti da enti pii spagnoli che chiedevano titoli in Italia, e
meglio nel regno di Napoli.
Il monastero di cappuccini di Madrid nel 1614, il convento di Nuestras Senora di Guadalupe
affidavano ai titoli appuntati sulle terre del Regno di Napoli…
Tutto questo determinava un drenaggio di ricchezze napoletane in direzione di enti e personaggi che
con la realtà meridionale avevano poco a che fare.
Accanto agli istituti religiosi si muoveva una folla di clienti del re, vedove, ambasciatori e residenti
di sovrani stranieri, di gente non pagata o mal pagata per i propri servigi resi alla corona, di soldati
carichi di ferite ma privi di denaro, che avevano speso la loro vita in guerra, figli ed eredi che
avevano scoperto ampi buchi nell’eredità paterna. Per tutti sussisteva un’unica strada: ottenere la
disponibilità di titoli baronali nel regno di Napoli per venderli su un mercato ove si agitavano
molteplici possibili acquirenti; tutti desiderosi di rafforzare la loro presa su feudi recentemente
acquistati.
Questo richiede l’esistenza di una intermediazione in grado di allocare il titolo, intermediazione che
avrà la sua percentuale nell’operazione di allocazione del titolo e di una transazione finanziaria.
Luigi d’Avalos .. chiese mercé di un titolo di principe o di duca nel regno di Napoli al posto degli
800 ducati di rendita che non gli erano stati pagati dal viceré.
Il conte di Monterey, per accudire alle spese di corte e per trattarsi conforme al suo rango,
domandò ed ottenne un titolo di principe ed uno di duca nel regno.
Il viceré Medina de Las Torres aveva una decina di titoli su località del regno di Napoli.
Il titolo di principe concesso ai Grimaldi nel 1619 su una città del regno di Napoli fu pagato con
16.000 ducati che andarono al segretario George de Tovar per coprire cose segrete attinenti il
servizio del re.
Conta qui fermare questo passaggio ove il principe di Monaco, vassallo della corona spagnola e
del re in modo personale, si presta a questi passaggi di mano di denaro; oggi diremmo “ fondi di
protezione”, o “ fondi neri”, dove la sponda è l’eccellentissimo principe di Monaco.
In questo gioco che riversava sul regno di Napoli gli oneri finanziari della politica di patronato
della monarchia, numerose erogazioni effettuate tramite i segretari del re rivelano aspetti inquietanti
di una politica parallela svolta nella e dalla corte, che mette a nudo una politica di corruzione e di
non controllo e quindi alla fine un’inflazione di titoli e di corsi paralleli, che danno adito a imbrogli,
speculazioni, truffe, ecc.
Ma il punto che questa elargizione di titoli pone è da dove veniva ritagliati questi titoli e feudi.
In Villari viene data la notizia che questo viene reso possibile dalla contrazione delle terre
demaniale ed estensione di quelle baronali con l’investimento anche di città con casali come Napoli,
ecc.
Alla fine del Cinquecento su 1875 comuni soltanto 76 erano ancora demaniali, ossia
appartenevano alla corona.
In realtà in questi 76 comuni si concentrava almeno un quarto della popolazione complessiva. Ad
essi erano aggregati casali ( Napoli ne aveva 43, Capua 33, Cosenza 85) che con il tempo
diventarono comuni indipendenti. I centri più importanti e popolosi del regno ed i casali delle città
furono la cospicua riserva di vendita di feudi alla quale attinse il sovrano durante il Seicento.
§ 3.3 Transazioni e speculazioni finanziarie
nell’allocazione e vendita “ ayudas de costa”.
Nelle trame che portavano dal gabinetto del re alle università meridionali si stagliavano altri
personaggi diversi dai segretari, ed erano gli esponenti di quei ceti finanziari genovesi così
prepotentemente radicati nel mercato dei feudi e dei capitali all’interno del dei regni di Napoli e di
Sicilia.
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Pedro de Contrera ricevette da Paolo ed Agostino Giustiniani i 7.000 mila ducati che Fabio
Ricco aveva sborsato per potersi fregiare del titolo di duca.
Nel 1626 ai medesimi banchieri, Paolo ed Agostino Giustiniani - Cristofaro Apollinari aveva
affidato 100.000 reales, pario al costo di due titoli di marchese: questa somma sarebbe stata poi
girata a tal don Juan de Palafos
Nel 1611 fu Ottavio Centurione ad essere indicato dal re quale destinatario di 30.000 ducati
castigliani ricavati dalla vendita d alcuni titoli d’Italia ( ovvero di Napoli ); nel 1614 lo stesso
Centurione ricevette la somma di 10.000 ducati pagati da don Troiano Spinelli duca di Acquarico
per l’acquisto di titolo di principe assegnato per mercede ai cappuccini di Madrid.
A questi banchieri furono affidate anche le vendite di terre e villaggi castigliani che la
monarchia effettuò massicciamente tra gli anni venti e trenta del XVII secolo.
L’intervento di banchieri doveva essere certamente orientato anche sul versante locale della
transazione: è probabile, infatti, che i compratori si rivolgessero ad essi per raccogliere le somme di
denaro necessarie ad acquistare il titolo.
Occorre qui aggiungere i tassi di interesse per tale anticipazioni!
Lucravano così tre volte: una volta perché ad essi venivano affidati i titoli da porre in
vendita, una seconda volta per l’intermediazione ed una terza volta per l’anticipazione di
parte o tutta a somma. Se poi il titolo non trovava momentanei compratori ed il venditore
aveva necessità di denaro essi vi lucravano una quarta volta acquistando il titolo ad un
prezzo inferiore e lucrandoci sulla differenza; oppure anticipando parte della somma in
attesa dell’allocazione e lucrandoci sugli interessi della somma prestata come anticipo
sulla futura vendita.
Chi veniva ad acquistare il titolo cercava quantomeno di rientrare nelle spese, sottoponendo così ad
uno sfruttamento intensivo sia la terra che la popolazione che su quel feudo vi insisteva; non
apportandovi migliorie tecniche, c che nel frattempo nel XVII secolo si andavano introducendo in
agricoltura, meno che mai poteva favorire una produzione manifatturiera ed il processo di
separazione agricoltura-industria, agendo così da freno, ostacolo a tale processo.
Dal punto di vista dei beneficiari/venditori la concessione di uno o più titoli non risolveva
automaticamente le difficoltà economiche in cui spesso essi versavano e che avevano giustificato il
provvedimento regio. Bisognava vendere il titolo, trovare acquirenti che godessero nello stesso
tempo della fiducia degli organi di governo della monarchia ai quali spettava, in ultima istanza,.
l’approvazione della transizione e che disponessero di capitali ( o fossero in grado di farseli
anticipare dai banchieri genovesi ) con i quali pagare adeguatamente il titolo. .. un ruolo di primo
piano in tali questioni se lo fossero ritagliato personaggi come i Centurione ed i Giustiniani in
grado di mettere in contatto il venditore e l’acquirente ( .. Troiano Spinelli era un barone di origine
genovese). Le difficoltà nella vendita potevano risultare insormontabili fino a vanificare la portata
stessa della grazia regia, soprattutto se i beneficiari erano donne o personaggi che non avevano
collegamenti diretti con la realtà sociale e territoriale sulla quale si dovevano appuntare i titoli.
L’allocazione del titolo richiedeva inoltre una valida struttura organizzativa in grado di individuare
sia il soggetto disposto all’acquisto e sia i canali finanziari e quindi la necessita di intermediari
locali in grado di selezionare gli acquirenti. Si viene così ad intessere una fitta rete organizzativa
speculativo-parassiataria, che agisce da ulteriore drenaggio di risorse e ricchezze dal regno di
Napoli, che agiva da impoverimento non solo del popolo classicamente inteso, ma soprattutto, in
questa fase, di quelle fasce borghesi che potevano essere invece momento attivo della
trasformazione della società. Una simile politica agiva cioè da autentico massacro delle forze
borghesi nascenti, annientandole, proprio ed esattamente attraverso questo drenaggio di risorse.
Cocente era poi la delusione quando la concessione di titoli ( che spesso sostituivano vere e
proprie pensioni ) si accompagnava quasi immediatamente al divieto di alienarli prima che fossero
stati venduti quelli conferiti in precedenza. Quei titoli non si rapportavano più ad alcun ufficio,
erano in vendita a prezzi che, per la deplorevole frequenza con la quale venivano concessi,
risultavano ridicolmente bassi: nessuno li richiedeva più se non a prezzi minimi.
E’ il caso del giugno 1620 del conte Orso Delchi di Firenze, assegnatario di una pensione di 200
ducati da ricavarsi dalla vendita di due titoli nel regno di Napoli.
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E per poter alimentare questa forma di finanziamento, dato alla fine l’esaurimento di titoli da porre
in vendita, la corona spagnola decide di istituire altri titoli nobiliari. E’ del 1627 la decisione regia
di introdurre in Italia altri sette titoli di principi ( diventati poi dieci, nove di duca, sei di
marchese ed uno di conte.)
abbiamo così una vera alluvione di titoli come la tabella illustra:
1606 1629
1640
principi
27
57
67
duchi
48
83
107
marchesi
76
121
148
conti
62
73
67
Vera alluvione di titoli si ebbe tra il 1621 ed il 1629 nella sola Sicilia in tale periodo furono venduti
ben nove titoli di principe
… ma il prezzo ridotto dei titoli napoletani invogliava baroni e magistrati a ricorrere al re per
acquisirne uno, che poteva anche non essere il primo.
Capitolo Secondo,
Storia Meridionale 1545-1647
Premessa
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Il periodo storico preso in esame dalla storiografia ufficiale italiana è descritto come il
periodo della decadenza, del Seicento, del barocco, del manierismo; un periodo storico:
1547-1700 sostanzialmente piatto.
La realtà storica è invece proprio ed esattamente l’opposto di quella che la tradizione
desanctiana e crociana tende ad accreditare. E’ invece il più fecondo periodo storico, il
periodo del più profondo e sconvolgente processo rivoluzionario, delle più profonde e
radicali rotture con le più radicate convinzioni in tutti i campi. E’ il periodo in cui ci si
libera della medicina ippocratica e si gettano le basi della medicina moderna; è il periodo
della ricerca scientifica di Galilei, di Cartesio, di Torricelli, di..; è il periodo in cui si fa
piazza pulita e definitivamente delle teorie cristianee e della tradizione aristoteliana, quale
era stata tramandata dal feudalesimo e dal filtraggio cristianeo. E’ il periodo in cui giunge
a conclusione quel lungo processo di rinnovamento e di profonda trasformazione, avviato
dalla cultura araba. E’ il periodo delle grandi rivoluzioni borghesi: della rivoluzione
inglese, della rivoluzione olandese, della rivoluzione in Catalogna, in Portogallo, in
Boemia. E’ il periodo che segna la transizione borghese della Francia con il cardinale
Mazzarino. E’ il periodo del grande pensiero rivoluzionario borghese di Spinoza, Hobbes,
Accetto, Boccalini. E’ lo splendido periodo della letteratura e dell’arte, del teatro e della
prosa e della poesia: Shakespeare, Goldoni. E’ cioè il grande periodo rivoluzionario di
formazione degli stati borghesi, il periodo dei titani, che sapevano combattere di spada e
di penna, che gettarono le basi del pensiero rivoluzionario borghese in tutti i campi. Il
periodo in cui non c’è settore, campo che non è messo sottosopra, tutto viene indagato; il
periodo ove sboccia il seme del sapere critico gettato dalla cultura araba e dal suo massimo
esponente Averroé.
E’ esattamente dentro questo eccezionale periodo rivoluzionario, il più alto fino ad
allora raggiunto dall’Uomo, che va iscritta la grande rivoluzione borghese meridionale del
1647-48.
La rappresentazione che invece viene data se bene illustra l’asservimento della borghesia
alle camarille aristocratico-nobiliari, il suo servilismo alla corona di Spagna, la cui politica
è ben sintetizzata nell’espressione: ” Spagna, Franza, Alemanna basta che se magna”; ben
serve la proiezione ideologica che la borghesia vuole dare di questo periodo: tranquillo,
senza scosse, assai male rappresenta il periodo storico, che, come si è schizzato, è
attraversato da un profondo ed inarrestabile processo rivoluzionario, che tutto attraversa.
Saranno i semi gettati qui che poi saranno a fondamento della stessa cultura e tradizione
americana.
Il palese ed inoppugnabile stridere tra il processo reale e la rappresentazione borghese
italiana fissa in maniera inappellabile tutta la povertà morale dei suoi intellettuali, che
giungono alle più plateali mistificazioni, ad obliare, a sublimare, processi storici profondi
pur di far coincidere il servilismo e l’acquiescenza borghese alla realtà, aprendo nel
contempo una tra le più laceranti contraddizioni con il tessuto e la tradizione della stessa
cultura italiana, spaccando e lacerando un tessuto pur vivido e fecondo di pensiero ed
azione.
Rosario Villari cerca in qualche modo di salvare tale proiezione mitica, allorquando scrive:
“ L’immagine, così largamente diffusa a proposito del XVII secolo, di un mondo intellettuale e
politico privo di eroismo e di slanci ideali è dovuta, almeno in parte, all’insufficiente
comprensione delle vie tortuose e difficili attraverso le quali i tentativi di resistenza e di critica
erano obbligati a passare.”8
Ma il tentativo di attenuare questo stridente contrasto finisce per dire più di quello che Villari stesso
crede, finendo così per trasformarsi in un tremendo affondo proprio ed esattamente alla classe
borghese ed ai suoi intellettuali.
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E’ un tentativo giacché il periodo in esame, come si è detto e visto, è un momento alto del
processo rivoluzionario, un momento alto della tempesta rivoluzionaria che si abbatteva sul sistema
feudale, spazzandolo via.
Ma sia pure come Villari dice.
La comprensione delle vie tortuose attraverso cui si fa un processo rivoluzionario non si
apprende su nessun libro e su nessun banco di scuola. L’unico banco e l’unica scuola è soltanto la
storia. Solo se una classe dominante è passata per quelle vie, se una classe dominante ha diretto un
processo rivoluzionario sa bene gli zigzag, la tortuosità e immani difficoltà che ha dovuto
attraversare e quindi sa leggerli bene quando questi si presentano. E’ la sua cultura, la sua tradizione
di pensiero che ne resta irrimediabilmente segnata e segna irrimediabilmente i suoi stessi
intellettuali. E proprio perché duro, pesante, difficile è stato quel periodo tanto più quella classe lo
difenderà da mistificazioni e minimizzazioni, perché c’è tutta se stessa in quel periodo.
E’, cioè, il prodotto esatto e preciso di quel zigzagare, di quelle tortuosità.
Ora il fatto che la storiografia ufficiale borghese italiana non comprende la dice tutta sulla natura, il
carattere, il ruolo e quindi la formazione, la statura e lo spessore della classe borghese italiana.
Quel modo di leggere la storia, quella proiezione mitica, finisce per dire tutta l’assenza
rivoluzionaria di questa classe, la sua natura ed il suo spessore, che stanno tutti proprio ed
esattamente in quel “ insufficiente comprensione delle vie tortuose e difficili attraverso le quali i
tentativi di resistenza e di critica erano obbligati a passare”.
Il periodo in esame si apre con l’opposizione forte alla Controriforma, che fa seguito a tutto il
possente movimento riformatore in Germania, Inghilterra, Francia e nella stessa Italia.
Nel regno di Napoli il movimento rivoluzionario vive un punto di svolta caratterizzato proprio
dall’opposizione all’introduzione dell’Inquisizione ed alle regole e dettami del Concilio di Trento.
Esso chiude un periodo storico e ne apre un altro, che culminerà nella grande rivoluzione
borghese del 1647-48.
In questa fase si vide una unità fra forze borghesi, nobiltà e popolo che consentì al movimento di
raggiungere alcuni risultati, quali quello della non introduzione dell’Inquisizione in Napoli. In
proposito celebre è l’affermazione di Carlo V, che costretto dall’insurrezione popolare che lo cacciò
dalla città, si vide costretto a revocare l’editto circa l’Inquisizione: “ Meglio avere un regno senza
Inquisizione, che Inquisizione senza regno”. Tale unità fu dovuta al coincidere di interessi delle tre
classi, ma le motivazioni diverse, i programmi delle rispettive classi erano diversi e questo
determinò la rottura del fronte di lotta. Gli interessi nobiliari e borghesi compradori erano legati
unicamente alla non ingerenza della Chiesa a salvaguardia delle proprie prerogative e privilegi. Gli
interessi borghesi e popolari erano invece di ben più ampio respiro e rispondevano ai più generali
e strategici interessi del Paese. ostacolare l’Inquisizione ed il progetto reazionario della corona
spagnola. Questo determinò che il movimento proseguì la sua strada contro regole e dettami che il
Concilio di Trento voleva imporre, ma senza, e contro, l’aristocrazia nobiliare ed i borghesi
compradori.
Si opererà qui, esattamente qui, quella scissione tra nobiltà, élite borghese e popolo, quella
scissione che sarà consumata fino in fondo nel corso della rivoluzione borghese del 1647-48 e di
cui la Repubblica del ’99 ne sarà una tranquilla conseguenza.
Scissione questa, badate bene, tra elite borghese e popolo che attraverserà tutta la storia
meridionale e che sarà ricucita soltanto negli anni 1945-60, ma lo sarà ad opera di un’altra classe:
il proletariato, ad opera della sua avanguardia: i comunisti italiani. Affronteremo nelle conclusioni
questo importante momento di ricomposizione del tessuto sociale, civile, culturale.
Borghesi e popolani intraprendono una battaglia contro spagnoli, chiesa, nobili e ricchi
borghesi per la difesa dei punti più alti della ricerca e del dibattito culturale e scientifico e per la
tolleranza.
Possiamo assumere come preciso punto di riferimento, per distinguere due fasi della storia del
viceregno e dei rapporti tra Napoli e la monarchia, la rivolta del 1585. Questo episodio aprì un
periodo di agitazione che ebbe il suo epilogo nel fallimento del tentativo campanelliano, ma diede
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l’avvio ad un movimento riformatore che mise in discussione l’ordinamento del regno e la sua
tradizione politico-culturale.
§ 1. 1510 - 1547
I tumulti del 1510 e del 1547, causati dai tentativi di introdurre a Napoli l’Inquisizione
spagnola, furono in realtà scosse di assestamento dell’equilibrio politico generale, su cui
appoggiava il dominio spagnolo nel regno. Le forze popolari appoggiarono, in posizione
subalterna, rivendicazioni maturate in seno allo schieramento politico aristocratico, il quale,
difendendo la tradizionale influenza romana sul regno ( che sarebbe stata ridimensionata
dall’impianto di un organismo inquisitoriale direttamente soggetto alla Corona ) mirava a contenere
e limitare la pressione della monarchia.
Nel 1547, del resto era stato tutt’altro che lineare l’atteggiamento dei nobili “ di giorno
fraternizzavano coi popolari e di notte devota al Viceré”. Allora vi fu una prima iniziativa
autonoma popolare, subito soffocata, con il moto contro l’Eletto Alberto Terracina.
La risposta fu immediata e caratterizza bene la situazione di impatto immediato di qualsiasi
movimento riformatore di modifica.
Nel 1548 il viceré Toledo apportò modifiche negli Eletti del Popolo.
Alla fine del Cinquecento la rappresentanza popolare a Napoli era ormai saldamente nelle mani di
gruppi di borghesia privilegiata, affittuari di rendite, e mercanti di grano.
Questi ritocchi ridussero ulteriormente la funzione dell’Eletto e la sua possibilità di influire e
favorirono la contrastata tendenza della borghesia compradora ad assimilarsi all’aristocrazia.
Tutti gli istituti autonomi popolari subirono per contraccolpo una crisi profonda dalla quale non si
sarebbero più risollevati.
La struttura degli Eletti del Popolo era espressione di ben determinati rapporti tra le classi nella
società feudale, che non poteva non entrare in crisi nel momento che la borghesia si presenta sulla
scena con ambizioni di direzione ed egemonia. O si evolveva nella direzione della rappresentanza
borghese o veniva di fatto sciolta.
§ 2. 1585
La rivolta del 1585 rivelò invece la disposizione di alcuni gruppi della borghesia cittadina ad
inserirsi nella crisi con proprie autonome rivendicazioni.
La causa immediata della rivolta del 1585 fu la decisione degli Eletti di aumentare il prezzo
del pane nella capitale. Poco tempo prima l’amministrazione aveva autorizzato l’esportazione di
oltre 400.000 tomoli di grano di Spagna.
Alla fine del Cinquecento la rappresentanza popolare a Napoli era ormai saldamente nelle
mani di gruppi di borghesia privilegiata, affittuari di rendite, e mercanti di grano.
L’episodio centrale della rivolta del 1585, il 9 maggio, è il linciaggio dell’Eletto del Popolo Gio.
Vincenzo Starace, nel corso di un’assemblea imposta dalla moltitudine tumultuante. Per alcuni
giorni tutta la città stette in armi, “ dubitandosi il peggio, perché li altri popoli dimostravano di
voler imitare l’esempio di Napoli”.
Figlio di un ricco mercante di seta che era stato membro della corporazione, lo Starace,
accumulate notevoli ricchezze, aveva abbandonato la professione paterna per “ vivere
nobilmente”. Esponente tipico della borghesia compradora che aveva il monopolio della
rappresentanza popolare nel comune, egli aveva tenuto più volte la carica di Eletto. Era accusato
di aver favorito la manovra speculativa d’accordo con i mercanti di grano, che avevano contratti di
approvvigionamento con la città.
Si diede la caccia anche all’arrendatore del vino Leonardo Andrea de Lione, ai mercanti di grano
Pietro Aniello, Cimmino Solaro ed altri. Il primo era ritenuto responsabile di “ aver messa la
carestia del vino per tutto il Regno, introducendo, e massimamente in Napoli, il venderlo a minuto
ne’ magazzini; uso ancorché comodo a molti, dannosissimo nondimeno all’universale e di gran
detrimento alla povertà “. Il Cimmino aveva fatto un “ partito” per l’importazione di 40.000 tomoli
di grano nella città.
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Si corse alle armi, si saccheggiarono le botteghe di armaioli. Fu ucciso lo Starace con
strascinamento e mutilazione ed evirazione del cadavere, saccheggio della casa: i beni asportati
furono distribuiti ai conventi
Nell’uccisione dell’Eletto vi era il segnale preciso della ribellione, della perdita di rispetto e di”
riverenza al padrone”, motivo di angoscia e di paura per tutti i ricchi.
“ A tutte le persone agiate e ricche dispiacque oltremodo non tanto la sciagura dell’Eletto Starace,
quanto il sollevamento del popolo e d quella plebe irragionevole e disperata, la cui rabbia
dubitavano essi, che non si avesse tosto a volgere contro di loro e dei loro beni.” Capaccio, Il
Forestiero
Riapparve minacciosa la richiesta di parificazione dei voti tra rappresentanti nobili e popolari della
città nei termini in cui era stata presentata la prima volta dal Seggio popolare a Ferdinando il
Cattolico nel 1507, ed emerse il motivo dell’indipendenza, con diretti richiami alla rivoluzione delle
Fiandre.
Apparvero anche cartelli che invitavano esplicitamente alla sollevazione contro gli spagnoli.
Il moto promosso ed organizzato dalla piccola e media borghesia cittadina e, specificatamente
dai capitani di quartiere era la manifestazione non casuale di una volontà di inversione dell’ordine
sociale: la rivolta assumeva sia pure a livello elementare un principio di organizzazione.
Ciononostante rivelava ancora il suo carattere subalterno, la dipendenza degli strati popolari ( sul
piano psicologico e mentale, prima che politico ) dalla cultura ufficiale.
Anche quila risposta feroce non si fece attendere a conferma di quella situazione di impatto
immediato tra le classi in lotta che caratterizza la lotta delle classi in questo periodo, a conferma di
un equiloibrio decisamente instabile e fragile, che teme ogni pur minima modifica. Una situazione
come questa non può che portare un simile regime a bunkerizzarsi e quindi a perdere elasticità nella
direzione e nella costruzione e mantenimento del consenso.
Due mesi dopo la fine del tumulto, nel luglio 1585, giunsero a Napoli quaranta galee e molte
compagnie di soldati al comando di Don Pietro di Toledo,. Il viceré, duca di Ossuna, diede l’avvio
ad un’azione repressiva di vaste proporzioni. .. era emerso comunque un fatto nuovo..
Ancora insufficientemente motivato, privo di una adeguata elaborazione politica, l’indipendenza
popolare poteva tuttavia diventare il tessuto connettivo di critiche e proteste che si indirizzavano
prevalentemente contro la borghesia privilegiata.
… Carlo Spinelli, della famiglia genovese degli Spinelli, fu nominato reggente della Vicaria con il
compito di assicurare l’ordine nella città, organizzare l’arresto degli indiziati e l’esecuzione delle
pene. Nella seconda metà di luglio furono presi 498 uomini in p quattro notti.. Et in tre mesi e
mezzo furono spediti non solo i 498 ma anco 320 contumaci ed istruiti 820 processi. Risultato: 31
condanne a morte, 71 condanne alle galere, 3000 bandi dal regno.
Tra i condannati a morte vi furono due maestri artigiani, ed un mercante di stoffe, due scrivani della
Sommaria, uno scrivano dell’Arcivescovado, un cittadino di Bruxelles, Giorgio Olivier, numerosi
artigiani e bottegai.
Il punto da fermare qui è il coinvolgimento di forze legate agli ambienti accademici.
Si disse che l’ “ officina” del Pisano era il luogo in cui si erano tenute riunioni di molti
cittadini…riparo poi a Venezia.. . nel febbraio 1586 per ordine del viceré la sua casa fu rasa al
suolo e sul luogo fu eretto un monumento nel quale, in altrettante nicchie, furono poste le teste e le
mani dei suppliziati. Un’iscrizione indicava il Pisano come promotore del moto del 9 maggio 1585.
Stroncata nella realtà, la rivolta popolare si prolungava ora nel mito, attraverso la creazione della
leggenda che racchiudevano nelle loro apocalittiche immagini la speranza di giustizia e la
coscienza dolorosa dell’insuccesso.
Il prezzo del pane continuò ad aumentare già nell’agosto del 1586. Nel 1591 vi fu “ qualche
principio si sollevazione nella Piazza della Selleria” e nel 1592 .. ricomparvero per le strade
cartelli che incitavano il popolo alla rivolta.
Nel più generale clima di lotta ed opposizione, che la rivolta del 1585 aveva aperto nel paese,
si iscrive lo sviluppo delle confraternite delle varie categorie artigianali, in quanto centri di
resistenza ed organizzazione.
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Mentre la persecuzione infieriva contro disoccupati e vagabondi, “ le confraternite “ che
raggruppavano per scopi religiosi ed assistenziali i membri delle varie categorie artigiane si
trasformavano in centri di organizzazione della difesa salariale. Questi organismi associativi si
erano moltiplicati dopo il Concilio di Trento e continuavano a moltiplicarsi, assumendo caratteri di
“ classe”. Lo “ spirito di classe” delle confraternite artigiane si esprimeva prevalentemente, in tempi
normali, oltre che nella solidarietà interna, nella forma della loro partecipazione ai riti religiosi, alle
feste, alle manifestazioni pubbliche civili, sul piano della formazione e della difesa di un patrimonio
di cultura popolare, più che su quello dell’antagonismo sociale contro i ceti superiori. In questa sede
al di fuori del normale apparato corporativo controllato dalla borghesia, si svolsero i tentativi degli
artigiani di fissare minimi salariali impegnando i singoli “ confratelli” a non prestare la propria
opera per un salario inferiore a quello stabilito collettivamente. Le autorità religiose denunciarono il
pericolo, rinnovando la proibizione che nelle “ confraternite” si trattassero questioni non attinenti
alle pratiche religiose e minacciando la scomunica contro coloro che le creavano senza
autorizzazione. L’intervento del potere politico fu pesante: lo scioglimento delle “ congregazioni”
artigiane ritenute centri di sedizione e che facevano crescere “ da un giorno all’altro
inaspettatamente le manifatture et le merci a prezzo eccessivo”. Il movimento era abbastanza esteso
e, per il suo carattere semiclandestino non era facilmente perseguibile. Agivano da limite all’azione
delle “ confraternite” le condizioni oggettive: la pressione demografica sul mercato del lavoro era
così forte da travolgere facilmente i tentativi di difesa organizzata dei salariati. L’alternativa era
ancora tra rivolta e rassegnazione.
E si iscrive anche l’opposizione culturale al degrado ed alla corruzione.
E’ del 1586 un memoriale di un dottore, Franceschiglio, contro la vendita degli uffici. L’autore fu
condannato a morte; uguale sorte subì, per lo stesso motivo, Martino Siciliano, mentre il dottor
Lerna fu imprigionato e morì in carcere sei anni dopo.
Il “gran disordine” dell’ottantacinque aveva rivelato, al di là del moto plebeo, una nuova
spinta indipendentista, con l’emergere di posizioni politiche che si erano accompagnate alla protesta
sociale, determinando una situazione assolutamente nuova nel regno, quella disposizione di alcuni
gruppi della borghesia cittadina ad inserirsi nella crisi con proprie autonome rivendicazioni.
Qualche anno più tardi il Costo osservò che da allora “ non hebbe più bene il Regno” ,
riconoscendo che il movimento non si era esaurito in una fiammata di protesta.
Non “ hebbe più bene” e bene dirà il Cosso, giacché il 1585 agì nella direzione di provocare una
irreversibile divaricazione, un baratro mai più colmabile e sempre più approfondentesi tra la classe
dominante e le altre classi, che non troverà pace neppure all’indomani della cosiddetta unità
nazionale, o formazione del mercato unico nazionale italiano, 1860, giacché quelle classi che nel
Cinque-Seicento erano la classe dominante saranno queste che mutueranno nella classe borghese,
riperpetuando quella scissione, approfondendola e fornendo a questa nuovi ed assai più validi
motivi. La rivoluzione borghese, che poi in Italia non c’è mai stata, non ha lenito o superato tali
contraddizioni, ma le ha esasperate ed inacerbite. Non si insisterà mai abbastanza su questo tratto di
continuità da una parte e di assenza dall’altro.
Represso il movimento nella sua prima forma, esso trovò nuove forme di espressione
articolandosi nelle campagne nella forma classica del banditismo, che costituisce una forma della
guerra dei contadini, e nella forma dell’opposizione al pagamento del censo, delle rendite e degli
obblighi feudali. La prima forma era espressione e guidata dai contadini poveri e diseredati, il
secondo dai contadini ricchi, massari. Nelle città il movimento si concretizza nella forma della lotta
all’introduzione dei metodi e dei dettami del Concilio di Trento, nella forma della difesa dei punti
alti della ricerca e del dibattito scientifico e della tolleranza.
In questa fase questi movimenti non trovano un punto di sintesi e di direzione, per cui ciascuno
segue il suo corso, ma innestandosi dentro il più generale processo rivoluzionario borghese,
determina un avanzamento di questo processo e si rinvigorisce e trova alimento in questo e da
questo. Questo complesso movimento di lotta, pur non trovando il suo momento di sintesi, fa ben
intendere il più generale corso, le linee di sviluppo tendenziali, ci fa intravedere che sta approdando
ad un “ quid”, ci fa sentire che sta montando la marea rivoluzionaria, che è soltanto un
accumulazione quantitativa: annuncia la tempesta rivoluzionaria. L’annuncia giacché in questa fase
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accumula esperienza, smussa angoli, compatta forze, idee, anima passioni ed aguzza l’ingegno,
mette a dura prova idee, teorie, visioni, concezioni, spinge a rivedere, a ripensare criticamente, a
raschiare il fondo del barile, a verificare che al raschiare il fondo del barile alla fine ci si ritrova il
barile stesso e quindi spinge al nuovo ed in questo processo elabora le nuove teorie politiche,
economiche, sociali, civili, culturali: artistiche e letterarie.
§ 2.1 Nelle città
I conventi domenicani di san Domenico Maggiore e di san Pietro Martire in Napoli,
sviluppano una resistenza al tentativo di riforma e di dispersione delle due comunità fatto nel 1586
da Sisto V e ripreso nel 1594 da Clemente VIII.
Il fenomeno doveva essere abbastanza diffuso se in memorie dell’epoca, vi sono accenni al
fuoriuscitismo di “ monaci depravati venuti in conflitto cogli sforzi riformativi di Pio V.”, ma si
accenna a persone “ di sentimenti eretici “ nelle Marche ed in Romagna, ed a Faenza “ quasi
piena d’eretici” che il papa pensò addirittura di distruggere.
Ma il movimento di opposizione e lotta supera i confini strettamente ecclesiastici e coinvolge
le “ organizzazioni di classe” della città, si intreccia con la lotta degli schieramenti politici.
Manu militari la Chiesa ed il viceré cercarono di scacciare i frati domenicani
Un frate converso, Ferrantiello, uccise a pugnalate un dei birri che tentavano di arrestarlo e fu
impiccato, con immediato consenso di Roma nella piazza mercato. Lo scontro si rifletteva intanto
sul terreno politico cittadino. L’organizzazione popolare si schierò decisamente dalla parte dei
conventuali contro Roma. La Piazza del Popolo di san Pietro Martire inviò al papa una
dichiarazione indifesa dei monaci, firmata dal capitano e dai 47 cittadini ( verosimilmente i
capifamiglia del quartiere ), tra i quali un orefice, un notaio ed un ‘ razionale’ della Sommaria.
I frati dichiararono di voler “ vivere conforme alle lor Regula” e di “ non poter “ essere riformati
per forza”. Era solo l’inizio di una vicenda che ebbe più drammatici sviluppi quando l’offensiva
raggiunge il convento di san Domenico Maggiore.
I due conventi offrivano motivi particolari di preoccupazione.
san Domenico Maggiore era uno dei più importanti centri culturali del regno, sede dello Studio
Generale dell’Ordine a contatto con l’Università ( che era nello stesso edificio ) e con il mondo
culturale laico, luogo delle più vivaci ed interessanti discussioni teologiche e filosofiche. La sua
biblioteca possedeva “ pregevolissime opere, di cui parecchie mancavano nelle altre biblioteche.
Qui sostarono e lavorarono i più grandi ‘ ribelli’ italiani del Cinquecento. Giordano Bruno vi entrò
nel 1565 e vi rimase fino al 1586. Si formarono qui i primi fondamenti della sua cultura: un
ambiente in cui gli studenti di teologia avevano la possibilità di scrivere, leggere, e studiare anche
di notte nelle proprie celle e di discutere con relativa libertà delle proprie idee. Quell’ampia e soda
preparazione letteraria e scientifica fu frutto della dimora nei conventi napoletani.
Anche Campanella, mentre il conflitto era in pieno svolgimento, frequentò la biblioteca ed il
convento di san Domenico durante il suo primo soggiorno napoletano. Frate Serafino Rinaldi da
Nocera, uno dei promotori della resistenza alle direttive romane ed uno dei più stimati religiosi
napoletani, cercò allora di aiutare Campanella. Alcuni anni dopo Caravaggio, bandito da Roma
dipinse per i frati di san Domenico Maggiore la stupenda “ Flagellazione di Cristo” e la “
Madonna del Rosario” uno dei quadri in cui la passione caravaggesca, fatta insieme di profonda
pietà e di vigorosa protesta, raggiunge il culmine. I due monaci ai lati della “ Madonna del
rosario” raffigurano san Domenico e san Pietro, i santi, cioè, a cui erano intitolati i due
monasteri “ ribelli”.
Il movimento intendeva di difendere, con la propria autonomia, idee e principi tutt’altro che
privi di vigore ideale, che Roma si sforzava, invece, con ogni mezzo di soffocare: ostilità all’uso
della forza nelle controversie interne, fiducia nella discussione, tendenza a mettersi sul piano del
dibattito razionale anche nei confronti degli eretici, rifiuto degli eccessi del trionfante superstizioso
formalismo, indipendenza dal potere politico, ricerca di legami con l’organizzazione popolare della
città. Alcuni di questi temi, fortemente radicalizzati, erano già presenti nel Candelaio di Giordano
Bruno ed affioravano nel pensiero e negli atteggiamenti del primo Campanella. Sono questi i
principi fondanti di quello che poi nel XVII e XVIII secolo sarà chiamato principio della tolleranza,
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che caratterizzerà la migliore corrente progressista e materialista borghese. Ma questi principi, e
la lotta per la loro affermazione sono già tutti qui in questa lotta del 1586 napoletano e
meridionale.
I progressi della riforma nella provincia di Napoli, dopo l’episodio di san Pietro Martire furono
realizzati direttamente dal” braccio secolare”. Nel 1591 l’iniziativa del conte di Mirandola fu
decisiva per l’estensione della riforma ai conventi di santo Spirito e Monte di Dio . Anche
l’elezione del provinciale nel 1594, nella persona del padre Marco Maffei da Marcianise, che fu poi
il commissario apostolico che istituì processi in Calabria contro i congiurati ecclesiastici, fu fatta
d’autorità , “ per mezzo di Sua Signoria Illustrissima”, ossia il viceré, secondo un documento del
Seggio del Nilo.
La storia meridionale di questo periodo, ancora tutta da scrivere e tirare fuori dall’ingiuria del
silenzio, è ricca di questi movimenti di opposizione anche armati, tra questi va segnalato quello del
movimento valdese. La repressione in Calabria che qui si accenna si riferisce, per esempio, alla
messa a ferro e fuoco di intere paesi della costa tirrenica che si erano schierati con la Riforma e
dove avevano trovato ospitalità, tra gli altri, il movimento valdese, come Guardia dei Piemontesi.
§ 2.2 Nelle campagne.
La rivolta contro il pagamento di censi, le decime e le altre obbligazioni feudali
alla Chiesa ed ai baroni.
1. la resistenza contro i censi e le decime ecclesiastiche si accompagni un atteggiamento generale
( “ ab omnibus fere” ) di disprezzo verso il clero, a minacce ed offese, al disinteresse nei
confronti delle condizioni materiali dell’esercizio del culto;
2. ruolo e funzione dei massari.
Le campagne meridionali, non toccate dall’ondata di rivolte contadine, che ha accompagnato la
diffusione della riforma protestante, reagiscono ora alla ripresa sempre più accentuata della rendita
fondiaria e feudale ed al contemporaneo sforzo di riorganizzazione economica e finanziaria della
Chiesa. Al movimento partecipano, prima dei contadini poveri, gruppi che hanno un ruolo di
direzione e di aggregazione sociale nelle campagne .
Sono gli imprenditori agricoli, massari, organizzatori semicapitalistici della coltura granaria: forze
contadine che hanno potuto approfittare della fase secolare di congiuntura favorevole lungo il
secolo XVI, raccogliendo in parte i frutti della depressione salariale ed avvantaggiandosi,
indirettamente, della crisi finanziaria della nobiltà e dello sviluppo del mercato cittadino. Sono nello
stesso tempo lavoratori, piccoli o medi possidenti, imprenditori agricoli. Con una fisionomia ben
distinta da quella del borghese possidente, i massari hanno una funzione organizzativa di grande
importanza nella coltura fondamentale del regno e nella pastorizia. Esposti alla pressione dei ceti
privilegiati , di una borghesia terriera, di usurai e di redditieri e di mercanti di grano, sono ora
seriamente minacciati dalla fine della congiuntura favorevole e rischiano di essere ricacciati nella
massa indifferenziata dei contadini. Fino a quel momento, a differenza dei piccoli coltivatori, i
massari-imprenditori hanno potuto superare con relativa facilità, grazie alle scorte, i periodi di
carestia e le cattive annate. Ma ora anche i massari, dopo un raccolto scarso, “ non possono
complire di seminare li territori già preparati alla coltura” e rischiano di essere costretti a lasciar
loro masserie ed andare fuggendo…”
Il movimento fu abbastanza esteso e stando ai memoriali e documenti dell’epoca riguardò
Lagonegro, Castelfranco, Forio d’Ischia, Giugliano, santa Maria Maggiore di Capua, Marigliano,
Castello di Aversa, Ducenta, s. Antimo, Villa di Cellole, Pomigliano d’Arco, Altavilla, Fuorigrotta,
Capua, Aversa, san Giovani a Teduccio, e molti altri ancora.
L’azione dei massari si rivolge contro la rendita feudale ed ecclesiastica. Le conseguenze sono
gravissime. Viene meno un fattore essenziale di ordine e di equilibrio che, in condizioni normali,
contribuisce a tenere a freno le forze selvagge e “ demoniache” che il mondo rurale nasconde nel
suo seno.
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E’ una resistenza, che tuttavia si diffonde silenziosamente nelle campagne. Finalmente nel
1590-91, la natura e l’entità reale de movimento, che si estende dalla Terra del Lavoro alla Calabria,
dalla Puglia all’Abruzzo, si rendono evidenti. La breve dilazione concessa dal viceré ai massari per
il pagamento dei canoni e debiti, in seguito al raccolto “ penurioso” del 1590; una dilazione da
luglio a novembre che non riguarda né i canoni feudali né quelli ecclesiastici. Il provvedimento del
viceré più che una prova dell’importanza che si poteva attribuire alla funzione dei massari nella
produzione granaria, era la prova dello stato di confusione e di sbandamento in cui viene gettato il
blocco reazionario al potere. Dinanzi alla marea montante dalle campagne, il viceré scarica i suoi
fidi alleati, attraverso la concessione della dilazione, sperando che il movimento si indirizzasse
contro baroni e chiesa e tenesse fuori la corona ed il sistema. Ma il movimento rivoluzionario è in
ascesa ed anche le concessioni non lo fermano, ma lo incoraggiano e sostengono.. E’ la forma più
radicale ed eversiva di lotta che si possa concepire nelle campagne: il rifiuto di pagare il tributo
alla rendita fondiaria ed ecclesiastica. Decine di conventi, prelati, chiese, protestano invocando il
“ braccio secolare” per costringere i massari a pagare canoni e censi; ad essi si uniscono ora
anche numerosi feudatari.
Il movimento coinvolse l’intero regno di Napoli e testimonianza indiretta la si ha dalle
proteste e dalla locazione di queste:
Monastero e clero di Venosa; il marchese di Vasto Innico d’Avalos per le terre di Pomarico e
Montescaglioso; l’arcivescovo di Conza, il marchese di san Marco Marcello Cavaniglia, Paolo di
Sangro duca di Torremaggiore; Camilla Carafa marchesa di Laino, Flumari, Castello e san Nicola
( “ essa supplicante non potrà corrispondere alla Regia Corte per li suoi adoghi, anzi
manco vivere” ); il vescovo di Troia, Ferrante Carafa barone di Montecalvi; il clero
di Laberona; l’ospedale di santa Maria Maggiore di Capua; il barone di Monteleone Don Carlo
Guevara; il clero di Procina; il monastero di san Benedetto ( le monache “ se moreno de fame );
duca di Termoli Ferrante de Capua; il marchese di Campagna Francesco Grimaldi; la marchesa
di sant’Eramo Laura Pappacoda; i monasteri di sant’Agostino di Aversa e di sant’Antonio di
Buccino.
L’epicentro della resistenza è la Puglia, il centro più importante della cultura granaria e la zona
in cui è più sviluppata è l’organizzazione dell’azienda agricola.
Il movimento non solo spacca il viceré dai suoi alleati, ma lacera anche i rapporti tra baroni,
borghesia compradora e chiesa ove i primi cercano di scaricare tutto sulla chiesa e di avvantaggiarsi
della più lenta ripresa di questa ed a tal fine, in qualche caso sono questi stessi ad indirizzare contro
la chiesa i contadini. Essi sperano così di trarne vantaggio e così nella loro ottusità non si accorgono
di indebolire lo strumento principe del consenso: la Chiesa, appunto.
Ma anche il blocco reazionario farà un bilancio dell’esperienza e reso edotto da questa esperienza
correrà ai ripari e saprà tenersi ben unito dinanzi all’assalto rivoluzionario del 1647, ma 1ui si
spaccano, si dividono. E così facendo creano ulteriori spazi all’iniziativa rivoluzionaria più
complessiva.
Quello che conta qui fermare di questa esperienza è:
Dopo l’incrinatura del blocco sociale operatasi con il distacco dei massari, vi è qui la seconda
incrinatura nel blocco sociale tra nobili e Chiesa e lotta al loro interno per scaricarsi a vicenda i
costi della crisi.
Sotto il possente attacco contadino si acuisce la lotta all’interno del gruppo dominante, ciascuno
cerca di spostare a sua favore i rapporti di forza, al fine di scaricarne i costi sull’altro.
La protesta contadina colpisce in maniera profonda parrocchie, conventi et similia di piccole entità,
che di quelle decime vivevano, oltreché che intaccare i ricchi patrimoni delle rendite feudale e
fondiarie dei nobili ecclesiastici.
La crisi e la rivolta contadina intaccano profondamente il patrimonio ecclesiastico
L’organizzazione ecclesiastica resterà ancora per diversi anni in difficoltà. “ Molti preti .. che per
loro povertà miseramente vivono” sono autorizzati a cercarsi lavoro, a fare “ alcuno esercizio
manuale” per poter continuare la loro missione; autentici preti-contadini, loro malgrado. I redditi di
molte parrocchie sono così esigui che bastano appena a comprare l’olio e la cera.
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La Chiesa si sforza di superare con una riorganizzazione della rendita ricalcata in gran parte sul
modello feudale.
A queste resistenze si accompagna anche una certa indipendenza sul piano spirituale o del
costume. Infatti quegli stessi contadini che non vogliono pagare le decime pretendono di dare ai
preti non retti certi e determinati, ma una mercede libera, in modo da poterli licenziare, quando
non vanno loro a genio; le loro donne non hanno l’abitudine di andare a messa se non a Pasqua ed
a Natale e coabitano con i fidanzati prima che il prete abbia benedetto il matrimonio.
Nella diocesi di Amalfi la resistenza si protrae a lungo.
E’ questa una testimonianza precisa che non manca di sottolineare come la resistenza contro i
censi e le decime ecclesiastiche si accompagni un atteggiamento generale ( “ ab omnibus fere” )
di disprezzo verso il clero, a minacce ed offese, al disinteresse nei confronti delle condizioni
materiali dell’esercizio del culto.
Sarà questo movimento di lotta che indebolendo l’egemonia spirituale della Chiesa nelle
campagne, apre la via al movimento della guerra dei contadini nel meridione.
La guerra contadina nelle forme e nelle proporzioni che assume sul finire del Cinquecento, sarebbe
impensabile senza questo serio indebolimento dell’egemonia spirituale della Chiesa nelle campagne
e della sua unità interna.
Come sempre cioè il passaggio a forme superiori di lotta ed opposizione presuppone e rimanda
sempre un più generale indebolimento dell’egemonia della classe dominante, che è sempre il
prodotto di profonde incrinature a monte nel blocco sociale dominante.
Giammai viceversa!!
Quindi possiamo qui dire: crisi di egemonia del blocco sociale dominante e quindi!
guerra dei contadini.
§ 3 Il Banditismo nelle campagne.
Il banditismo in quanto forma della guerra dei contadini, in quanto forma della rivolta agraria.
E’ questo l’unico movimento organizzato, che supera l’ambito delle lotte municipali e fosse in
grado di resistere al potere pubblico ed in certe zone disgregarlo. Era la più grande forza di
opposizione esistente nel regno. Nelle condizioni date di insufficiente sviluppo dei nuovi rapporti di
produzioni borghesi, per l’azione di rapina e drenaggio, viste, per l’azione cioè di autentico
massacro delle nascenti forze produttive da parte dei rapporti di produzione esistenti, questo
movimento non riesce a superare il momento della negazione, incapace di per se stesso ad
esprimere un’altra società. Ed in questo senso la sua stessa preminenza rispetto alle altre forme di
protesta costituisce un momentaneo ostacolo al collegamento tra i gruppi rivoluzionari cittadini e le
campagne. Sul piano più generale della prospettiva storica questo movimento sarà invece decisivo
per gli sviluppi futuri del movimento rivoluzionario. Saranno accumulate qui importanti esperienze
politiche e militari estremamente preziose nel e per il corso della rivoluzione borghese del 1647-48.
Il movimento di lotta contadino costringendo il nemico ad impegnare forze materiali e finanziarie,
distraendole da altri punti, e quindi ad alleggerire la pressioni su altri, creano così nuove ed altre
varchi per l’iniziativa rivoluzionaria.
Il raggio d’azione comprendeva anche la Campagna romana, le Marche, l’Umbria, la Romagna.
La prima ondata va dal 1585 al 1592; tra il 1596-1600 ci fu una ripresa un po’ meno intensa.
Durante il pontificato di Gregorio XIII e di Sisto V i banditi dello Stato della Chiesa avrebbero
raggiunto il numero di 27.000 circa; secondo le informazioni dell’ambasciatore Paruta nel1595
oltre 15.000 persone erano registrate come banditi dall’amministrazione pontificia. Era
convinzione comune che la piaga fosse assai più grave nel vicino regno di Napoli.
Il movimento più importante è costituito dal primo periodo che per sette anni, 1585-1592, tenne
impegnate le forze regolari spagnole del regno di Napoli con rinforzi da altri punti del dominio
spagnolo in Italia, con il concorso di uomini e mezzi delle varie casate nobiliari italiane, legate alla
corona di Spagna ed in combinata con l’esercito della curia romana, questi stringendo da nord e
quelli spagnoli da sud, riuscirono a mettere in condizioni di non nuocere il movimento di lotta
contadino.
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Capo indiscusso di questo movimento fu Marco Sciarra, è questa la figura mitica che poi sarà
proiettata in futuro del bandito buono, del difensore dei poveri, che toglie ai ricchi e dà ai poveri.
Nelle condizioni in cui il movimento rivoluzionario si trovava in quella fase stretto tra la
rivolta e rassegnazione, l’alternativa reale era il banditismo
Marco Sciarra tradusse questo orientamento pratico in un programma esplicito, ben
sintetizzato, pur nella sua forma messianica e burocratico: “ Marcus Sciarra flagellum Dei,
et commissarius missus a Deo contra usuraios et detenientes pecunias otiosas.”.
La forma burocratica e la dizione latina mostra ancora tutto il tratto della
subordinazione ideologica del movimento alle classi dominanti; la forma messianica
evidenzia, invece, sia pure in forma contorta, il tratto popolare della cultura contadina.
Questa presenza forte della cultura popolare e contadina può essere ricondotta a quel
lavoro fatto attraverso le “ confraternite” di cui si è detto e dal ruolo dei massari.
In generale i proprietari terrieri, di solito meno esposti a rischi dei mercanti, furono
tartassati: imposizione di taglie ai proprietari residenti, pena la devastazione di fattorie ed
aziende agricole. Nell’estate 1590 posero una specie di assedio intorno a Roma, ricattando,
insieme a molti ‘ ricconi di Roma’ perfino la sorella di Sisto V; saccheggiavano le case dei
più ricchi, rispettando il resto della popolazione. Gli stessi comuni resistevano invece con
le armi, spesso capeggiati dai loro amministratori, alle richieste regie di alloggiamento da
parte dei soldati inviati per reprimere Sciarra. A Santobuono si rifiutò l’alloggiamento alle
truppe regie, ma fu accolta volontariamente una compagnia di fuoriusciti.
Né la ricchezza feudale, né la ricchezza ecclesiastica furono immuni dall’attacco. Nel
1587 fu ricattato ed ucciso Orazio Carafa, barone di Rocca Scalegna. L’uccisione del barone
di Colonnella ( 1589) ha tutte le caratteristiche della rivolta contadina. La terra fu presa
d’assalto dai fuoriusciti che, una volta rotte le mura e superata la difesa di alcuni famigli
del barone, trovarono tutta la comunità ad aiutarli. Poiché gli uomini si erano dati tutti alla
macchia, lasciando soltanto le donne nel paese, una di queste fu giustiziata sotto l’accusa
di aver indicato ai fuoriusciti il luogo in cui si era rifugiato il barone.
Gli alti esponenti delle gerarchie ecclesiastiche sono presi particolarmente di mira. Tra il
1590 ed il 1595 un buon numero di vescovi rinunciano ad andare a Roma per la visita
triennale ad limina, per timore di finire nelle mani dei banditi. Così i vescovi di Aversa,
Potenza, Larino, Nola, l’arcivescovo di Salerno.
Il vescovo di Capaccio, Riccardo Ricciotti, “ andando in compagnia di certi preti della diocesi
fu preso e taglieggiato da certi banditi”. Così un ricco prete di Gaeta fu preso da Ascanio
Fusco; un abate di Pianella fu ucciso. ..uccisione del vescovo di Lucera, Scipione Bozzuto,
durante l’assedio alla città del 1592.
Il bandito “ sociale”, che non era al servizio dello Stato o dei baroni, aveva la “ protezione” dei
contadini… . Sciarra distribuiva denaro e grano ai poveri, imponeva ribassi di prezzi, poneva
particolare cura nel far rispettare dai suoi “ l’onore delle donne”.
“ i banditi … pagano largamente quanto pigliano per loro bisogno, non violano donne,
anzi hanno fatto dimostrazione severa contra alcuni di loro compagni per aver servato
questa parte “.
Tra il 1585-86 queste bande abruzzesi si riunirono in una sola grossa formazione, che riconobbe
Sciarra come capo. Questa formazione resistette sette anni.
Era una vera e propria formazione di guerriglieri. Il suo quartier generale era in Abruzzo ma il
raggio della sua attività era più ampio con collegamenti con nuclei operanti nella campagna romana,
nelle Marche ed in Romagna e con contatti “ internazionali”: Venezia.
“ Atipico” era il consenso che lo Sciarra incontrava negli ambienti cittadini, dove la sua azione
veniva interpretata come un movimento di ribellione antispagnola, come ci attesta la testimonianza
del Costo sulle simpatie che suscitava a Napoli, non solo nella parte povera della città, ma anche tra
coloro che da, buoni uomini di cultura, potevano fare raffronti ed istituire analogie con le vicende
della storia di Roma. Così il Costo:
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“ .. il volgo soleva pazzamente dire che Marco sarebbe venuto in breve tempo ad occupare Napoli,
e farsene anche Re. Né vi mancavano uomini di non mediocre giuditio, che ardivano paragonarlo a
Viriato Lusitano, quel che cotanto tenne a bada gli eserciti romani. Imperocché ( dicevano costoro)
.. con pochissimi rispetto a quelli d Viriato, si mantiene tuttavia contro a’ ministri del maggior re d’
Europa.”
Nel regno poterono occupare per qualche tempo delle terre, creandovi una rudimentale e
provvisoria organizzazione amministrativa. Vi tenevano tribunali e creavano magistrati e facevano
matrimoni. Sciarra cercò di dare: dare un elementare e confuso orientamento politico
un’organizzazione militare e mutamento di indirizzo. Il mutamento di indirizzo veniva riconosciuto
con vivissima preoccupazione dal viceré in una lettera del 13 settembre 1588 nella quale si alludeva
anche ad atti di ostilità di natura politica: Marco Sciarra non si limitava più a rubare ed a
commettere delitti contro i sudditi, ma resisteva alle truppe della Corte e le attaccava con successo,
giungendo così a “ perdere il rispetto per li ministri di Sua Maestà”.
Tutto questo non poteva che portare a Sciarra le simpatie cittadine.
La febbrile attività di Sciarra e la reazione generale delle popolazioni dei comuni contro i
commissari inviati dal governo avevano messo in crisi l’apparato amministrativo e statale più in
generale.
La lotta si era trasformata in guerra interna.
Consequenzialmente fu adottata la guerra controrivoluzionaria con saccheggio, deportazioni,
massacri, villaggi interi furono costretti ad essere abbandonati e spietata persecuzione contro i
parenti dei banditi.
La feroce e spietata repressione avvenne sulla base di dettagliate direttive emanate da Sisto V
con la bolla del 10 luglio 1585 e dalle istruzione del duca di Ossuna e del conte di Miranda ai
commissari di campagna. Il carattere esteso del movimento antispagnolo, nella forma del
banditismo, determinò una feroce azione di repressione contro tutto il mondo rurale. Cinquantasette
villaggi furono abbandonati e distrutti di cui 18 solo nell’Abruzzo.
Alla fine dove aver impiegato decine di migliaia di uomini, a cui si aggiunse un forte esercito del
papa Clemente VIII nel maggio 1592 gli uomini di Sciarra sono accerchiati, dopo che Lucera era
caduta nelle mani della reazione. Le squadre di Sciarra si concentrano in due grossi nuclei, come se
si riorganizzassero per dare battaglia, invece si sciolgono. Sciarra andrà a Venezia, ma sarà venduto
dai Veneziani alle truppe papaline, riuscirà a sventare la consegna e solo nel marzo del 1593 verrà
ucciso. Molti degli uomini di Sciarra continueranno per molti anni ancora una resistenza armata,
nella forma del banditismo, ma oramai quella forma di lotta era stata sconfitta.
Il nome di Sciarra rimase per lunghissimo tempo tra la gente abruzzese “ in proverbio per
denotare un uomo estremamente imponente ed autorevole”.
Il Cinquecento che si era aperto con i tumulti del 1510 contro l’introduzione dell’inquisizione
nel Regno e proseguito poi nel 1545, proseguito con il movimento rivoluzionario del 1585 in realtà
mai spento, giacché esso in definitiva evolse nella lotta armata contadina, nella forma del
banditismo, si chiude con la lotta armata contadina, nella forma del banditismo di Michele
Sciarra.
E meglio: il banditismo fu la forma che prese nella lotta contro la crisi agraria nelle
campagne, che mentre nelle città si riuscì a fermare facendo affluire tonnellate di grano nel regno
ed in modo ‘ privilegiato’ nelle città e nella Capitale.
Il movimento di Tommaso Campanella
Ne sappiamo poco, non è ben collocabile il momento, l’estensione, le forze che vengono
coinvolte, il programma, ecc.
Andrebbe fatto uno studio specifico, e meglio una ricerca storica specifica, giacché questo
movimento come quello di Masaniello è avvolto dal più fitto mistero.
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§ 4 Congiura aristocratico-nobiliare francese
e movimento rivoluzionario.
La crisi spagnola è inarrestabile, la retrovia meridionale continuava a tenere ed a fornire
uomini e mezzi alla guerra spagnola contro la sua decadenza, contro il crollo di un sistema
aristocratico-nobiliare che vedeva unito in un sol blocco reazionario la corona di Spagna, la nobiltà
italiana e meridionale e la borghesia compradora meridionale ed italiana, che viveva della rapina e
del drenaggio delle risorse e che faceva di quel macello umano e morale la base solida del suo
arricchimento. Non quindi l’industria e l’investimento agrario, m ala sordida speculazione.
Il problema di far saltare questa retrovia reazionaria diveniva una necessità di qui l’operare di agenti
inglesi e francesi nel regno al fine di staccare il meridione dalla corona di Spagna.
Ma gli intenti inglesi e francesi non erano poi tanto rivoluzionari, ma qui potrebbe apparire, gli
intenti erano quelli di sostituirsi loro nel controllo di questo importante territorio sul Mediterraneo e
controllarlo. La Francia manovrerà con i Savoia chiedendo in cambio porti sull’Adriatico e sul
Tirreno. Il punto qui da fermare è che queste due nazioni, che sul loro territorio conducevano una
guerra rivoluzionaria, per liberarsi del regime feudale, aristocratico-nobiliare, nel regno di Napoli
non punteranno sulle forze borghesi, ma su quelle aristocratico-nobiliari per asservirli a sé e non
consentire uno sviluppo delle forze borghesi meridionali ed italiane. Le forze meridionali ed italiane
giustamente sapranno scegliere tra due scelte reazionarie quella più conseguentemente reazionaria e
si schiereranno a difesa della corona di Spagna consentendo il mantenimento di un regime
aristocratico-nobiliare in Italia ed in Spagna: se fosse crollato il sostegno del regno di Napoli e della
borghesia e della nobiltà italiana lo stesso regime aristocratico-nobiliare non avrebbe retto e lo
stesso il regime feudale che dominava nella curia romana, ossia nello stato della curia romana.
La resistenza spagnola nella guerra dei Trent’anni faceva leva quasi esclusivamente sulle
risorse finanziarie napoletane. Il regno veniva così ad acquistare una nuova collocazione
internazionale - retrovia dell’impero spagnolo – diventando uno dei centri sui quali si puntava
l’attenzione politica delle potenze in lotta con la Spagna, e specialmente la Francia – e l’Inghilterra.
Tutti o quasi i moti rivoluzionari del Seicento, nelle condizioni più disparate e con le prospettive più
diverse, si presentano immediatamente come moti antifiscali.
Nel 1636 era stata scoperta la congiura di Epifanio Fioravanti ( in cui si sospettò che avesse
parte il duca di Nocera, Francesco Maria Carrafa ) e nel 1634 quella di Tommaso Pignatelli.
Contemporaneamente un noto fuoriuscito, Pietro Mancino, tentò di promuovere una sommossa
penetrando in Puglia con un gruppo di armati, ma dovette quasi subito abbandonare l’impresa.
Organizzate all’estero, queste trame erano estranee ai concreti problemi del regno, ed incapaci di
svolgimento, proprio perché facevano leva sui residui anacronistici dell’indipendentismo
nobiliare.
il memoriale di Gian Giacomo Cosso, nel maggio 1640, a nome di un gruppo di nobili, e
indirizzato al re.. la rivendicazione delle prerogative e dei privilegi della nobiltà… il disprezzo
aristocratico contro i nuovi ricchi. .. Gli stessi promotori e capi dell’opposizione cercavano di
circoscrivere la loro opera nel chiuso mondo dell’aristocrazia, rifiutando ogni possibilità di
intesa e di accordo con altre forze ed altri ceti.
In definitiva nei rapporti tra baronaggio e governo vicereale non si giunge ad una rottura.
Le trame, tra il 1640 ed il 1647, con l’obiettivo di trascinare la nobiltà ad una rivolta
indipendentistica non ebbero successo.
Il piano elaborato dalla diplomazia francese nel 1646 per promuovere una rivolta e dare la
corona di Napoli al principe Tommaso di Savoia. .. la solidarietà tra monarchia e baronaggio si
mantenne inalterata durante tutta la storia del viceregno e fu definitivamente confermata quando la
rivoluzione del 1647 mise in luce i reali orientamenti politici del regno. .. i singoli episodi di
congiura rimasero rigidamente chiusi nei limiti di una “ congiura” senza larghe ripercussioni e
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senza legami con le aspirazioni degli altri strati della popolazione e della parte più numerosa dello
stesso baronaggio.
La congiura entrò nella fase conclusiva, dopo le iniziative di Tommaso Pignatelli ( 1634) e di
Epifanio Fioravanti ( 1636) con l’episodio del principe di Sanza. Sostenuto ed incoraggiato dalla
famiglia Barberini, che fino alla morte di papa Urbano VIII fu punto di riferimento di tutte le
iniziative napoletane contro la monarchia spagnola, egli era in realtà completamente privo di
seguito e di legami politici.
Protetto dal cardinale Antonio Barberini era anche Fabrizio Carrafa che, insieme a Vincenzo
della Marra, era fuggito da regno dopo aver assassinato uno dei rappresentanti popolari della Casa
dell’Annunziata. Egli si era messo in contrasto con il principe di Sanza; dopo l‘arresto di costui
furono prese dai Barberini misure per la sicurezza del Carrafa.. Nel 1642 egli era ancora a Roma
sempre sotto la protezione dei Barberini.
Qualche tempo dopo sembrò che la congiura dovesse acquistare maggiore consistenza per
l’adesione di un personaggio di rilievo: il conte di Conversano. L’iniziativa di un piano di rivolta
partì questa volta dal conte di Chasteauvilian che aveva avuto una parte di rilievo nella congiura del
1620 di Ossuna e che aveva cercato di promuovere una lega di principi italiani contro il regno di
Napoli. Oberato di debiti e mosso dalla speranza di riacquistare a Napoli i beni che sarebbero
spettati alla madre, il conte di Chasteauvilian, si unì alla lega dei Barberini.. riuscendo infine a
mettersi in contatto con il maggior esponente della parte più inquieta del baronaggio napoletano. ..
Durante tutto l’anno 1642 gli ambienti filofrancesi di Roma accolsero e trasmisero a Parigi voci
insistenti circa un presunto disegno del duca di Medina di rendersi padrone del regno. Una serie di
“lettere senza nome” furono inviate a Roma ai cardinali spagnoli con avvertimenti contro gli “
andamenti non sinceri” e le “ macchine altissime” del duca di Medina.
Come nel 1620, anche in questo caso le accuse non avevano fondamento, ma dimostravano che
la tensione tra il viceré e l’aristocrazia era divenuta acuta. Da parte francese si riteneva necessario
informarsi più accuratamente sulla consistenza del partito del Conversano, prima di impegnarsi
concretamente con lui e di fare un trattato. Per la prima volta dunque si parlava formalmente di un
accordo con l’opposizione napoletana. Sono del marzo 1643 lettere del Conversano in cui
manifestava propositi di ribellione.
La morte di Urbano VIII e l’elezione di Innocenzo X, imprimevano una svolta all’orientamento
politico di Roma. I Barberini, che a Roma erano stati il centro delle trame antispagnole e che
avevano cercato con ogni mezzo di incoraggiare e preparare la rivolta entravano in contrasto con il
nuovo papa.
Le fila della congiura furono riprese su nuove basi, nel 1646, nel momento in cui fu
organizzata la spedizione francese contro i Presidi di Toscana. Un progetto già abbozzato dal
Richelieu fu elaborato dal cardinale Grimaldi con l’obiettivo di ostacolare le comunicazioni tra la
Spagna e l’Italia e tra gli stessi domini spagnoli n Italia; di esercitare una pressione politica sulla
santa Sede, bloccando le sue iniziative a favore della Spagna e di imporre una stretta neutralità al
granducato di Toscana. Ma l’autore del disegno, Richelieu, vedeva anche la possibilità di un’azione
più a fondo nel regno. Occorreva, dunque, preparasi all’eventualità di una rivolta, tanto più che la
conquista dei Presidii avrebbe potuto far precipitare le cose all’interno del regno.
Mazzarino stipulò allora nei primi mesi del 1646 un trattato con il principe Tommaso di
Savoia in previsione di una rivolta a Napoli. La Francia avrebbe accordato al principe aiuto e
protezione – in cambio della cessione di Gaeta e di un porto sull’Adriatico – nel caso che egli fosse
riuscito ad ottenere, in seguito ad una ribellione, la Corona di Napoli.
Mazzarino in generale era fortemente contrario ad un intervento diretto delle armi francesi nel
Napoletano. Egli aveva il dubbio che ciò potesse provocare, per reazione, un riavvicinamento tra i
napoletani ed il loro governo, con la conseguenza di far fallire per sempre le possibilità di successo
dell’azione politica nei confronti di Napoli; e temeva che un intervento come quello che i suoi
agenti in Italia sollecitavano piuttosto che dare l’avvio ad un moto rivoluzionario, avrebbe costretto
la Francia ad aprire un nuovo fronte di guerra nel Napoletano, con un risultato opposto a quello che
si proponeva di raggiungere.
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Secondo Mazzarino, l’iniziativa ed il ruolo della lotta per la “ liberazione” del regno dovevano
essere assunti dagli stessi napoletani, mentre la Francia doveva limitarsi ad incoraggiare, sostenere,
guidare la lotta.
Stipulato l’accordo con Tommaso di Savoia, nel 1646, furono intensificati gli sforzi per
risuscitare un movimento indipendentistico, questa volta a carattere filosabaudo. Gli agenti del
principe di Savoia realizzarono contatti di qualche importanza. Uno dei primi sostenitori del
disegno sabaudo fu il principe Gallicano, romano, possessore di un vasto feudo in Abruzzo .. egli
auspicava apertamente l’invio dell’armata di Francia nel regno, sostenendo che al suo arrivo si
sarebbe sollevato con tutto l’Abruzzo ed in Abruzzo raccoglieva uomini ed armi e faceva fortificare
un suo castello ai confini con lo stato romano. La conquista di Piombino e di Portolongone, e quindi
la speranza di un imminente attacco contro il regno, lo resero più audace nelle sue iniziative. Così
negli ultimi mesi del 1646 egli fu arrestato e rinchiuso dapprima a Castelnuovo e poi a sant’Elmo.
Rimase attivo un altro centro della congiura in Terra d’Otranto.
I cospiratori assicuravano che quasi tutti i signori della provincia si sarebbero “dichiarati”
appena Tommaso avrebbe messo piede a terra; offrivano la piazza di Gallipoli e, probabilmente,
quella di Taranto per lo sbarco; chiedevano l’invio di diecimila fanti ( raccomandavano che fossero
per la maggior parte italiani e svizzeri “per levar ai popoli ogni sospetto”), dieci mila moschetti per
“ armar subito le genti del paese” ed altre armi e munizioni per “ ritrovarsene quel regno
sprovvistissimo”.
La venuta di Tommaso di Savoia era prevista per dicembre 1646. .. questa volta si mirava a dare un
più ampio respiro al movimento, senza farlo uscire dai confini del ceto nobiliare. Ferrante si recò
in aprile a visitare Bartolomeo d’Aquino, carcerato a Castelnuovo e, rivelandogli il progetto del
principe Tommaso, cercò di persuaderlo a non accettare le proposte di Chacon, che gli offriva la
liberazione in cambio di un nuovo “ partito” di sette milioni di ducati.
Intanto il cardinale Grimaldi e gli altri agenti francesi premevano su Mazzarino.
I grandi del regno erano malcontenti ed il popolo assai mal disposto. Si riteneva impossibile ormai
impedire che scoppiasse qualche grande rivoluzione nel regno. Nuovi contatti furono realizzati dal
Grimaldi e dal cardinale d’Este all’Aquila, Gaeta, a Baia, a Ischia con ufficiali di stanza in quelle
piazze. Nel marzo 1647 Mazzarino accennava ad una proposta venuta da Napoli di far saltare
l’armata spagnola ed in effetti nel maggio 1647 l’ammiraglia della flotta spagnola saltò in aria nel
porto di Napoli. Poco dopo fu arrestato il duca di Maddaloni, uno dei grandi capi della nobiltà.
I centri della congiura si erano moltiplicati nei primi mesi del 1647 e da diverse partisi attendeva
l’iniziativa della Francia, quando il 7 luglio 1647, indipendentemente da queste trame, scoppiò a
Napoli la rivolta di Masaniello. L’avvenimento ( le cui origini sociali e politiche erano antitetiche
rispetto all’indirizzo della “ congiura” ) ebbe immediate ripercussioni nelle province. Il marchese
di Acaya cercò di collegarsi con la ribellione delle terre soggette al conte di Conversano. Ferrante
delli Monti , nella sua qualità di generale della cavalleria napoletana nello stato di Milano, di
membro del Consiglio di guerra in Spagna e del Consiglio di Stato, doveva assistere il viceré.. tentò
di preparare a Napoli un colpo di mano insieme ad un altro agente sabaudo, l’abate teatino Andrea
Paolucci, ed al conte torinese Corvo di Saluzzo.
Ma il 2 agosto 1647 Andrea Paolucci, che aveva anche tentato di mettersi in contatto con i capi
della rivolta popolare, fu arrestato. In base ad un’informazione avuta dal console genovese Cornelio
Spinola, il Paolucci aveva confessato e fatto i nomi di altri congiurati: Delli Monti, il principe
Gallicano, il duca di Nocera, ed altri.
L’arresto del Paolucci fece cadere le speranze di Mazzarino nella congiura aristocratica: ma fu
soprattutto l’orientamento della rivoluzione a rendere finalmente evidente il carattere velleitario ed
anacronistico dei tentativi di creare nel regno un movimento indipendentistico legato alle
rivendicazioni ed alle ambizioni della nobiltà… profonda ed insanabile la frattura tra aristocrazia e
le aspirazioni dei ceti popolari cittadini e rurali; non restavano che piccoli gruppi disposti a
promuovere e sostenere la congiura: è naturale che questi dovessero puntare essenzialmente
sull’intervento francese.. e dopo la rivolta del 7 luglio riaccostarsi senza esitazioni alla monarchia e
prenderne energicamente le difese.
Nel frattempo in questo periodo il banditismo meridionale ( la cui funzione fu assai varia nelle
diverse epoche della sua lunga storia ) fu intimamente legato all’attività ed agli interessi del
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baronaggio. Al momento dello scoppio della rivolta di Masaniello il problema del banditismo si era
aggravato, per la massiccia penetrazione di molti banditi nella capitale, al servizio dei grandi
signori. Lo sterminio di questi banditi, ai quali i popolani diedero una caccia spietata, fu uno dei
primi e più clamorosi successi della rivolta. Anche nelle provincie i contadini insorti presero subito
l’iniziativa della lotta contro il banditismo: un caso unico nella storia del Mezzogiorno.
Sollevazioni popolari contro i baroni preannunziano la tempesta del 1647: a Castiglione il
popolo si ribella contro il principe di Santobuono; una rivolta scoppia ad Atri, guidata dal dottor
Giulio Casorati; insorgono i vassalli del principe di Satriano. Nell’aprile 1643, alla notizia
dell’arresto del conte di Conversano, si rimette in movimento l’opposizione antibaronale nei feudi
di Acquaviva, capeggiata da un sacerdote, e sfocia in una serie di violenze e di tumulti.
Congiura aristocratica e rivoluzione popolare si svolsero secondo due linee antitetiche, tanto
più divergenti quanto più si venne aggravando lo squilibrio sociale e politico.
La flotta francese giunta il 24 settembre 1640 a Gaeta ed il 29 davanti a Napoli con lo scopo di
ostacolare il flusso delle “ assistencias” che venivano dal regno, evidenzia paurose carenze e vuoti
nell’organizzazione della difesa del regno e della capitale.
Nel frattempo giungevano dalla Spagna le allarmanti notizie della rivoluzione catalana.
Sarà questa carenza che spingerà l’anno successivo, il 12. settembre. 1641, l’Eletto del Popolo a
proporre che si formasse nella città un esercito popolare. Potevano essere mobilitati trentamila
uomini, ma l’Eletto poneva come condizione indispensabile che l’esercito così costituito fosse
comandato da ufficiali popolari, che i nobili fossero esclusi dal comando. I reduci delle guerre
combattute nelle Fiandre, in Lombardia, in Germania avrebbero potuto costituire l’apparato
direttivo delle truppe, la cui base organizzativa dovevano essere appunto i quartieri della città ( le
Ottine ). Il viceré accolse la richiesta e furono formate in un giorno cinquanta “ bellissime
compagnie”: si costituiva così la prima struttura di quelle che pochi anni più tardi sarebbe stata
l’organizzazione militare del movimento rivoluzionario – 1647-48 - e che avrebbe sorpreso tutti gli
osservatori per la sua ampiezza ed efficienza.
E’ il segno premonitore di un risveglio dell’organizzazione popolare, promosso più che dal
rappresentante nel governo cittadino, dai capitani dei quartieri – che erano borghesi!!.
La risposta nobiliare non si fece attendere: le Piazze nobili insorsero violentemente contro il
provvedimento, soprattutto per il fatto che il popolo aveva ottenuto che i nobili fossero esclusi dal
comando delle compagnie delle Ottine ( il principe di Bisignano fu nominato maestro di campo
generale dell’esercito popolare, ma su designazione e con il consenso del popolo stesso “ non come
nobile napoletano, ma come grande amico del Popolo e non altrimenti”). Secondo le proteste
dell’aristocrazia, la storia dimostrava che il popolo napoletano era “ fedelissimo” soltanto di nome e
che soltanto il dominio della nobiltà poteva garantire la quiete…
Altrove le popolazioni passavano alla ribellione aperta: Alfonso Piccolomini, che aveva
acquistato lo stato di Amalfi, chiedeva al governo nel 1640 l’invio di truppe contro i “ bandidos”,
che si erano messi a capo del movimento demanialista; un commissario della Sommaria, inviato
a Lanciano per dare il possesso della città ad Alessandro Pallavicino, fu violentemente
maltrattato.. poco dopo insorse Chieti contro il duca Caracciolo. Non erano più isolate proteste
ma espressioni di un generale orientamento che serpeggiava nelle provincie e che accomunava
nella lotta contro il baronaggio le popolazioni recentemente assoggettate e quelle in cui l’antico
dominio feudale aveva in quegli anni riacquistato vigore e violenza.
§ 5. Ingorgo Storico.
L’intero periodo storico presso in esame, 1545-1600, è caratterizzato dalla presenza di una
moltitudine di forme di lotta, giacché accanto a quelle delle città e delle campagne, si assiste a
forme estreme e persistenti di ribellismo nobiliare. ma nel quadro di un più largo dissenso politico e
religioso che è difficile definire nelle sue diverse componenti. Quello che colpisce è la vastità della
frattura, la molteplicità dei piani su cui essa si verifica, la molteplicità dei piani su cui essa si
verifica, l’ampiezza e la violenza della protesta e nello stesso tempo la mancanza di elementi che
possano orientarla, organizzarla, unificarla. Siamo così dinanzi ad una sorte di ingorgo storico.
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La stessa classe baronale è in lotta con la Chiesa, spesso sono gli stessi baroni a deviare
verso la Chiesa la pressione dei contadini.
Lenti sono i tempi della ripresa della Chiesa.
La Controriforma apre profonde lacerazioni sia nei suoi quadri di base e sia nei suoi quadri teorici
fino ad intaccare seriamente egemonia e consenso, che costituirà uno dei momenti chiavi da cui
passerà il banditismo; una borghesia che guida sia nelle città il movimento contro il rincaro del
grano e la manovra speculativo-granaria e sia nella campagna con i massari; che appoggia il
movimento contro il Concilio di Trento schierandosi con i punti più alti dell’elaborazione teorica.
minacciando di scendere in armi per difendere i conventi di san Domenico Maggiore di san Pietro
Martire, che si opponevano alle nuove disposizioni di Trento; un movimento contadino armato
diretto da Sciarra. E’ limitativo con il termine “ banditismo” un movimento di massa armato che
ha coinvolto tutto il meridione sia in uomini armati che in appoggio e sostegno delle campagne e
delle città.
Questo già di per se stesso ci consente di parlare di “ guerra dei contadini “; se noi aggiungiamo
che tale movimento è durato sette anni, che ha tenuto impegnato truppe spagnole per sette anni,
scompaginandone l’assetto amministrativo, intaccando decisamente l’immagine e l’autorità politica
e militare della più grande potenza imperiale dell’epoca, la Spagna appunto, infliggendole sconfitte
militari ed umiliazioni politiche e sociali: assalti a tenute di grandi proprietari, la stessa Roma tenuta
sotto scacco per vari mesi e taglieggiata la stessa sorella di Sisto V. ma intaccando seriamente
prestigio, autorità e sicurezza dello stesso baronaggio meridionale ed infine arrecando gravi danni
alle casse della corona spagnola oltreché dei tanti baroni e principi e marchesi e duchi, che a loro
volte potevano con minori facilità soccorrere ai bisogni della corona e costretti a non poter versare
quanto loro dovuto al re di Spagna per i feudi in loro possesso, inasprendo così le difficoltà
finanziaria della corona che già da allora iniziavano a vivere momenti difficili, dovendo
fronteggiare sia le situazioni in Catalogna, Portogallo, Fiandre, che le mire inglesi sia nei mercati
oltre Atlantico che attraverso la pirateria, forma di lotta mascherata della potenza inglese in ascesa,
infliggeva severe perdite ai galeoni spagnoli e le intenzioni bellicose francesi, mentre si andavano
addensando le tremende nubi della Guerra dei Trent’Anni, che segnerà il declino definito
dell’Impero spagnolo ed il suo definitivo ridimensionamento; senza contare infine la necessitò di
dover correre ovunque il suo dominio fosse minacciato.
Limitativo si diceva giacché poi sembra che una tale azione politica e militare protrattasi per sette
lunghi anni non abbia aperto contraddizioni, crepe, creato spazi, varchi, distogliendo forze e mezzi
a quei movimenti rivoluzionari che poi si svilupperanno tra la fine del Cinquecento e gli inizi del
Seicento: Fiandre, Portogallo, Catalogna, Inghilterra, Francese, intaccandone seriamente forza e
capacità di risposta e quindi contribuendo a quel più generale declino spagnolo in Europa; se noi
aggiungiamo tutto questo, si diceva, appare in tutta la sua portata come sia riduttivo il termine usato
di “ banditismo”. Esso però non può neanche – stando alle conoscenze nostre attuali – configurarsi
come “ Guerra dei contadini”, nel senso classico, engelsiano del termine, venendo meno un
progetto unitario ed un programma politico di sovvertimento dello stato di cose presenti.
Certamente tale movimento si inscrive nella più generale “ Guerra dei contadini”, che si sviluppa
nella prima metà del Cinquecento nell’Europa centrale, ben trattata da Engels. Gli elementi
temporali sono diversi, giacché quelli dell’Europa centrale si inserivano dentro la lotta per
l’affermazione della Riforma luterana, e quindi dentro il processo di affermazione della borghesia di
quei paesi, che passava per il distacco dal controllo dalla Chiesa di Roma, questi invece avvengono
dentro l’opposizione all’introduzione di norme e regole del Concilio di Trento e traggono alimento
da questo, come ben evidenzia lo stesso Villari, quando lega lo sviluppo del banditismo e del rifiuto
di pagare la decima ed i servigi feudali dall’incrinatura dell’egemonia cattolica sul mondo
contadino e le pratiche ‘ antireligiose’ dei praticanti tali autoriduzioni.
Ma non è “ Guerra dei contadini”.
Il movimento più complessivo vede anche uno sviluppo di forme di solidarietà di classe, che
attraverso le “ confraternite” religiose tendevano a stabilire un prezzo unico per il salario giornaliero
die lavoratori, fermamente contrastato dalla Chiesa e con momenti di frizione tra i lavoranti ed i
borghesi.
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Questa complessità, questo non essere ancora “ Guerra dei contadini”, ma non essere
neppure “ banditismo” ci rimanda a quella felice intuizione di Villari di “ ingorgo storico”, che
non spiega, ma fissa implacabilmente tutta una complessità meridionale, spingendo a riflettere, ad
approfondire.
Se “ ingorgo” significa che o in un determinato punto si ha una strozzatura, per cui questi fasci
di contraddizioni vengono deviati e non riescono ad interagire tra di loro, esponenziandosi, ma anzi
si smorzano. Si tratta allora di capire in cosa, precisamente in cosa, consiste questa strozzatura. I
fasci di contraddizioni non riescono, cioè, a travolgere gli steccati, gli àmbiti propri della società,
che invece resistono e costringono i fasci di contraddizioni a restare dentro quegli àmbiti, che quegli
steccati ben delimitano, difendono e tracciano la via, l’indirizzo del corso delle cose.
Il tratto più immediato è che questi fasci di contraddizioni vanno isolatamente allo scontro e così
vengono battuti, e mentre questi si ritraggono altri ne maturano, andando anche questi alla sconfitta,
mentre altri ancora stanno maturando e si apprestano allo scontro, senza che si possa attardare i
primi ed accelerare i secondi e così farli confluire ed interagire.
E’ questa una società all’inizio del suo declino, ove singoli pezzi entrano in contraddizioni
determinano lo sviluppo di contraddizioni parziali, ma in cui esistono ancora settori in grado di uno
sviluppo e quindi agiscono da volano per la più complessiva società e così agendo consentire di
attutire ed assorbire quelle spinte, di quelle contraddizioni.
In queste specifiche condizioni quella società in declino si rafforza non solo perché riesce a
dissanguare le forze di opposizione e trasformazione, ma perché riesce ad attrezzare le linee
strategiche di difesa.
In generale, infine, possiamo dire che quando questo accade è sempre indice di uno spropositato
rapporto di forze, che consente al nemico di attingere forze: uomini e mezzi da altri punti e
concentrarli in quelli ove maggiore è il pericolo. A lungo andare il nemico si ritrova, però, solo una
lunga prima linea, molto estesa, vasta, forte e ben puntellata, ma senza più riserve e retrovia.
Presenta, cioè, solo una lunga, estesa e fortificata prima linea.
Solo particolari condizioni, il concorso, cioè, di altre forze non direttamente ed immediatamente
visibili, possono consentire il mantenimento del sistema, ma a condizione di una pesante ed
asfissiante bunkerizzazione.
In generale si tende a giustificare tale situazione con l’assenza di una direzione in grado di
unificare le varie spinte, di… .In generale è giusto, ma proprio perché “ in generale” non spiega poi,
perché quella fase storica non produce il gruppo dirigente che e che…, finendo così per non
intelligere il processo reale e, nei migliori dei casi, per costituire ferma ed inappellabile condanna
della classe borghese, come se i due momenti nn fossero l’uno e l’altro; come se un gruppo
dirigente non sia espressione e prodotto della più complessiva situazione generale ed è poi proprio
ed esattamente quel “ generale” che sfugge, finendo per leggere solo i momenti di rottura, pur se
forti e sostanziosi.
Specularmente potremmo fare il ragionamento, speculare appunto, per Spagnoletti, che vede il “
generale”, cioè che levava un aspetto, senz’altro sostanzioso, ma che egli assume come dato “ in
generale”.
Quello che Villari chiama “ ingorgo storico”, potremmo più correttamente ricondurlo alla
categoria gramsciana di “ casematte”.
Il Seicento si apre così con questo esatto e preciso scenario, ove la lotta del popolo
meridionale contro la Spagna si scontra con tutta la reazione nobiliare italiana ed europea: i
Piccolomini, gli Aldobrandini, i Carrafa, i Pignatelli, gli Este, i De Medici, i Grimaldi, gli Spinola ed i
Doria, i Savoia, giacché tutti traevano guadagni: rendite, pensioni, titoli nobiliari, e questi titoli
nobiliari avevano poi il ruolo di rendere spendibile la casata all’interno dell’impero asburgico, assai
diversamente dal titolo nobiliare di principe di Sabbioneta, o di e di… .
Saranno allora questi e sarà allora questa quello che noi, con termine gramsciano chiamiamo “
casematte”.
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Capitolo Terzo
Problemi e questioni nella formazione
della nuova coscienza borghese
Queste sono le condizioni politiche, lo sviluppo raggiunto dal movimento rivoluzionario nella sua
ascesa, ma non sono ancora tutte le condizioni, che possono consentire lo sviluppo di una
rivoluzione, queste tutt’al più danno un movimento rivoluzionario, una ribellione forte, ma non
ancora una rivoluzione. Queste condizioni sono date dallo sviluppo della battaglia sul piano teorico,
dal bilancio complessivo dell’esperienza, dall’elaborazione di una nuova teoria politica, di una
tattica e di una strategia, specifica per quelle esatte condizioni storiche.
Di solito quando si parla della rivoluzione borghese del 1647-48 si nasconde sia tutto il precedente
sviluppo del movimento rivoluzionario, i suoi zigzag e tortuosità e sia questo sviluppo sul piano
teorico. Solo dopo aver fatto questo si può far passare il tutto per “ rivolta” e può consentire al
Croce, don Benedetto, di scrivere:
“ La rivoluzione detta di Masaniello finì, insomma, come sembar le rivolte proletarie, prive di
sodi e attuosi concetti politici e perciò incapaci di intima resistenza e perseveranza. ”.
Premessa
In una società che era incapace di contrapporre l’idea di un “ nuovo ordine” al sistema tradizionale
di valori ed in cui il rispetto della gerarchia sociale, superati gli attacchi appassionati dei
propugnatori della libertà naturale e ricacciato al fondo lo spirito di eversione, era un dato
insuperabile, il richiamo al passato, alla tradizione, costituiva il presupposto fondamentale
dell’azione politica.
Il concetto stesso dell’uguaglianza sociale si identificava con quello dell’ordine gerarchico.
“ La prima critica ad ogni scienza parte sempre dai presupposti della stessa scienza
che si vuole criticare” ( Marx-Engels).
Noi dobbiamo cogliere due momenti: uno è quello riconducibile a quanto Marx-Engels e
l’altro al movimento oggettivo delle classi nel regno di Napoli. In realtà situazione non
dissimile si verifica in Olanda, Inghilterra: il processo di chiarificazione e di separazione
sarà un processo molto complesso, che troverà nella conquista del potere da parte della
borghesia un momento importante; il processo cioè di formazione della ideologia
borghesia e della teoria politica, sociale, militare, istituzionale sarà un processo che troverà
nella conquista del potere da parte della borghesia in Inghilterra ed Olanda un momento
importante. Perché questo avvenga occorre che le stesse forze produttive si sviluppino e
che il sistema di produzione borghese si sviluppasse appieno e questo avviene con il
sistema industriale, ma questo richiede una serie di scoperte ed invenzioni scientifiche:
Cartesio, Leibnitz, Newton devono ancora venire. Essi troveranno nella borghesia al
potere, nello Stato nelle mani della borghesia, strumenti eccezionali per lo sviluppo ed
applicazione delle loro teorie scientifiche. La stessa rivoluzione industriale inglese deve
ancora venire, ma non basta che essa si verifichi perché vi sia uno sviluppo della teoria
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borghese organica, essa infatti troverà la sua sistematizzazione ed definizione nel XVIII
secolo. Noi possiamo dire che la rivoluzione francese, e l’Encyclopedie costituisce
esattamente, questa sistematizzazione. Se è importante fissare questi limiti, giacché ci
consente di cogliere i limiti più generali del processo rivoluzionari, i suoi zigzag, con
l’insistere troppo su questo si finisce per occultare le responsabilità della borghesia italiana
nell’evoluzione del processo politico della Penisola. Altrove è lo stesso Villari, Elogio della
Dissimulazione, che indica come le teorie politiche che stanno alla base della rivoluzione
borghese del 1647-48 sono non solo all’interno delle più complessive teorie rivoluzionarie
dell’epoca, ma in molti punti ne costituisce una punta avanzata di eccezionale portata,
specie sul piano delle teorie politiche, dello Stato, ecc.
Il punto invece da fermare per quanto attiene la società meridionale è che mentre in
Inghilterra, Olanda, Francia questi limiti vengono superati dal corso stesse delle cose e
dalla spinta progressi va e dagli interessi della classe borghese, nella società meridionale
vengono inchiodati agli interessi della classe borghese italiana, che trovava nei
possedimenti feudali nel regno di Napoli ben precisi interessi materiali, che la saldavano
al mantenimento di uno status quo e quindi ad opporsi in maniera diretta e cosciente a
qualsiasi avanzamento di idee nuove e di nuove forze sociali, salvo poi, caso mai, ad
orientarsi diversamente nei propri paesi di origine. Ma in realtà esse si saldarono alla
corona spagnola e quei possedimenti nel regno di Napoli condizionavano, limitavano le
loro stesse azioni nei lori paesi d’origine, trasformando così l’Italia tutta in una retrovia
della società feudale-nobiliare. Trovandosi saldata alla corona di Spagna per mezzo dei
possedimenti nel regno di Napoli, essi lotteranno furiosamente contro una qualsiasi
modifica dell’equilibrio, si opporranno così alla rivoluzione borghese nel meridione
d’Italia e così facendo condanneranno se stesse ad un ruolo subalterno nel più
complessivo rapporto di produzione capitalistico. Il ritardo del capitalismo italiano si
origina proprio ed esattamente qui. Il declino della Spagna apre nuove prospettive allo
sviluppo degli stati borghesi europei, la rivoluzione inglese ed olandese da una parte e lo
sviluppo dello stato nazionale borghese in Francia consentono di rimettere in discussione
gli equilibri che si erano venuti a determinare all’indomani del 1492, ossia all’indomani
della “ scoperta” dell’America. L’affacciarsi in contemporanea dell’Inghilterra e
dell’Olanda da una parte e della Francia dall’altra consentiva spazi di sviluppo e
possibilità di uno sviluppo forte del capitalismo italiano, che venendosi a trovare ben al
centro del Mediterraneo poteva sviluppare un ruolo sia nei rapporti con i paesi afroasiatici rivieraschi e sia attraverso uno sviluppo alto della produzione agricola, specie
quella legata alla produzione: canapa, lino, olio, grano, ecc. avere un suo sviluppo
capitalistico. La borghesia italiana perde, per mere bindolerie, questa occasione e si viene
così ad essere condizionata nel suo sviluppo proprio ed esattamene dall’Inghilterra e dalla
Francia sul versante mediterraneo e atlantico-mediterraneo e sia dall’Olanda sul versante
nord-atlantico. Si è ritenuto di spiegare il declino dell’Italia con la “ scoperta” dell’America
e quindi con lo spostarsi dell’asse dal Mediterraneo all’Atlantico e quindi con il venirsi a
trovare l’Italia da centro dell’asse principale degli scambi a fuori asse. Questo è
indubbiamente vero, ma questo non determina tout court il decadimento della Penisola,
determina che la borghesia mercantile italiana abbandona il paese per investire altrove,
per farsi sostenitrice dello sviluppo degli stati nazionali atlantici, appunto: Spagna,
Francia, Inghilterra, Portogallo, e questo già la dice assai lunga sul sentimento nazionale
della borghesia in particolare italiana. Ma verso la metà del Cinquecento si viene a
configurare una situazione diversa e la borghesia italiana era in grado come forza
economica e politica di agire, avrebbe dovuto non perdersi in bindolerie e nelle elemosine
mentecatte spagnole9, senza comprendere che le sue sorti erano saldamente legate e
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determinate da quelle del meridione d’Italia, in quanto parte della Penisola e che uno
sviluppo legato a singole realtà: granducato di Toscana, Genova, Venezia era solo una
velleità piccolo borghese, una visione da mercante, implicava che questa borghesia non era
evolta verso una visione più organica dello stato e dell’economia e dei processi economici,
rimanendo legata a quelli mercantili. In generale si è voluto sostenere la tesi di uno
sviluppo capitalistico dell’Italia nella regione lombardo-piemontese fino ad elevare questo
allo sviluppo capitalistico italiano, all’Italia, fino a fare dello sviluppo capitalistico italiano
lo sviluppo avutosi in questa regione. Ci si è ostinatamente attaccati a questa visione
piccina, mercantile, che implacabilmente mostrava tutta la visione teorica piccina,
mercantile, della borghesia e dei suoi teorici, che continuavano a mantenere una visione
vecchia di 6-700 anni, dei Comuni. Ma in realtà persa l’occasione della rivoluzione
borghese nel 1647-48 la borghesia italiana si condanna alla decadenza, ad un ruolo
subalterno ed infatti tutta la storia di questa borghesia, e quindi della Penisola, sarà la
storia di quanto Inghilterra e Francia decideranno che sia. L’Inghilterra controllando in
maniera ininterrotta dal 1600 la Sicilia controllerà l’Italia meridionale, stringendo l’intera
Penisola in una morsa d’acciaio per impedirle qualsiasi sviluppo che potesse minacciare o
mettere in discussione la sua egemonia marittima nel Mediterraneo ed attraverso questo,
controllando le vie di comunicazione, condizionarne lo stesso sviluppo. La storia italiana
si farà quando Francia ed Inghilterra vorranno: la Francia nel 1798-99, dopo il 1793!!, vorrà
fare l’unità d’Italia per insediarsi stabilmente nel Mediterraneo e contrastare così
l’egemonia inglese e minacciarla sul versante orientale, in direzione Turchia-Mar Caspio
ed in direzione paesi rivieraschi mediterranei; si farà nel 1859 quando la Francia per
rafforzarsi ed estendersi nell’Europa centro-occidentale vorrà l’unità d’Italia a metà, ma
questo incontrerà la resistenza e l’opposizione dell’Inghilterra che con le sue navi, e prima
con i suoi agenti nel movimento ed in Italia dichiaratamente, sosterrà la spedizione dei
Mille, e quando la flotta italiana, su ordine di Cavour e comandata da Persano, lascia le
acque di Livorno per intercettare le tre navi dei “ Mille” troverà la potente flotta britannica
a difesa, che le scorterà fin dentro il porto di Palermo. E continuerà a farsi dopo nel 1870 e
continuerà a farsi con i capitali anglo-francesi e continuerà a farsi con la direzione della
Comit, non è scoperta il dire che i Savoia erano legati a doppio mandato agli inglesi. E si
continuerà a fare in questo secolo secondo le linee direttrici di Francia ed Inghilterra
sosterranno ed incoraggeranno le avventure imperialiste italiane per scopi anti-germanici:
nei Balcani per bloccarne lo sbocco sul Mare Adriatico, ecc. ecc. .
Lo sviluppo dell’Italia si salda così a partire dal Seicento saldamente al Meridione d’Italia
e lo stesso sviluppo di Francia ed Inghilterra viene a dipendere dalle condizioni che
vengono a costituirsi in questa parte d’Europa. E così l’intero sviluppo degli stati borghesi
nazionali europei vengono a dipendere per certi aspetti con le sorti e lo sviluppo di questa
parte d’Europa. Viene così a partire dal Seicento a costituirsi quel tutto organico della
storia europea, che vede in un nodo strategico decisivo il controllo e lo sviluppo della
regione mediterranea dell’Europa, la cui configurazione consente sia di proiettarsi sul
versante balcanico e sia sul versante dei paesi afro-asiatici rivieraschi.
Questo comporta ipso facto la necessità del controllo di quest’area strategica da parte delle
nazioni europee più forti, ossia Francia ed Inghilterra e
consequenzialmente la sottomissione tout court della borghesia di quel paese.
Mentre quindi in Inghilterra, Francia, Olanda vi sarà il superamento di questa visione
statica ed una più generale crescita della coscienza, della cultura e della maturità di un
popolo, in Italia questo non avverrà di qui quella sostanziale assenza di una cultura
nazionale ed in sostituzione il surrogato desanctiano-crociano, il surrogato della retorica
umanistica e le Categorie dello Spirito di Croce e quando sarà tutta sbilanciata saranno le
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smancerie ed i pettegolezzi labriolani. Viene con forza qui quel nesso inscindibile che
salda la sconfitta del movimento rivoluzionario meridionale alla più generale decadenza
dell’Italia, letto da qui dal lato delle coscienze e della produzione culturale.
§ 2. La Teoria Politica
Anche qui lo sviluppo della teoria politica va inquadrato e letto dentro il più generale
movimento rivoluzionario borghese: inglese ed olandese in primo luogo.
La teoria politica elaborata dal Machiavelli se poteva dare le indicazioni più generali per la
formazione di uno stato nazionale, non era in grado di indicare al movimento rivoluzionario le vie
da seguire. La rivoluzione in Olanda, in Catalogna nel meridione dovevano fare i conti con due
realtà che Machiavelli non aveva aver preso in considerazioni e che facevano la differenza:
1. la presenza di uno stato gendarme, l’impero spagnolo, in grado di intervenire in ogni punto e
concentrare forze e risorse, schiacciando così ogni movimento, ogni sussulto di cambiamento;
2. la curia romana, totalmente espressione degli interessi spagnoli, e che esercitava una forte
egemonia, che costituiva le fondamenta del consenso e dell’egemonia.
In queste condizioni il problema non è tanto quello delle esplosioni di movimenti di opposizione,
quanto quello della salvaguardia ed accumulazione delle forze, la necessità che questi si esprimano
affinché siano in grado di accumulare esperienze ed aprire varchi nel blocco sociale10,
determinando spostamenti di uomini e risorse da un punto ad un altro, creando così divisioni e
scompaginamento nelle fila del blocco dominante. E’ quello della sistematizzazione teorica e
dell’arricchimento della teoria, della tattica e della strategia, della migliore comprensione del
nemico, del suo dispiegamento delle forze in campo. Questo richiedeva quantomeno una
circolazione delle idee, bloccata dal rigido controllo dell’Inquisizione, che con la messa all’indice
dei libri agiva da autentico blocco, da strumento di repressione violento. Il dato da fermare è che il
problema si poneva in modo originale, che nel passato, per quel tratto di unicità del potere espresso
dall’Impero spagnolo e della sottomissione ad esso della curia romana.
La teoria politica elaborata da Machiavelli si rivelava insufficiente per quanto atteneva i
problemi dello Stato: teoria dello Stato, livelli di rappresentazione istituzionale, rapporto tra i vari
livelli del potere: politico, giudiziario, legislativo, del rapporto Stato e singoli e quindi
emancipazione del soggetto da suddito a cittadino, ma questo richiedeva tutta una nuova teoria
politica e nuove forme di organizzazione dello stesso convivere civile. Lo Stato di Machiavelli è
ancora lo stato assolutistico, ancora e tutto sul terreno aristocratico-nobiliare, il principe, appunto.
E’ ancora lo stato di fine Quattrocento, lo Stato spagnolo di Ferdinando e Isabella di Castiglia, lo
stato inglese che viene unificato militarmente, lo stato portoghese del Quattrocento e non ancora lo
Stato borghese.
La “ scoperta” delle Americhe aveva determinato lo sviluppo e l’affermazione di una nuova classe,
la borghesia, aveva determinato una più generale complessificazione della società civile. Lo
sviluppo dei nuovi rapporti di produzione aveva agito da indebolimento degli strumenti di controllo
e di egemonia. Consequenzialmente lo stesso Stato si era complessificato ed aveva attrezzato
strumenti adeguati, sufficienti e necessari che non quelli dell’età di Machiavelli. La modifica delle
classi determinata dal post 1492 aveva determinato profonde modifiche nell’equilibrio delle classi e
del blocco sociale, determinando il superamento dei precedenti metodi della lotta politica e del
mantenimento e conseguimento del consenso sulle classi subalterne. Tutta questa realtà non era
riconducibile al principe, alla Signoria, alla corte dell’età machiavelliana. Consequenzialmente la
lotta politica si era modificata e modificati erano gli strumenti e le forme della conduzione della
lotta delle classi, dove la classe dominante si era adeguatamente attrezzata ed impostata una saggia
politica preventiva, sulla base della nuova realtà che si era andata nel tempo profilando e
disegnando.
La rivoluzione inglese dimostrerà ampiamente la necessità di un nuovo e diverso equilibrio tra le
classi costituenti il blocco dominante e le forme ed i modi ed i metodi di risoluzione delle
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contraddizioni all’interno del blocco che aveva costituito la massa principale della rivoluzione ed i
livelli di equilibri successivi tra le classi che, invece, costituiranno il blocco dominante sociale.
La teoria dello Stato per il nuovo Stato borghese, poneva tutta una serie di problemi legati alla
territorializzazione ed all’interno di questi tutto il problema dell’esercito e della sua organizzazione.
Ulteriore problema, che rendeva se non obsoleta la teoria politica dell’età di Machiavelli,
quantomeno insufficiente era il problema militare. L’invenzione della polvere da sparo e
consequenzialmente delle armi da fuoco aveva modificato non solo la natura della guerra, ma
aveva modificato l’intero assetto dell’esercito con il superamento della centralità della cavalleria e
posto al centro la centralità della fanteria. La nuova forma raggiunta dalla guerra richiedeva una
massa enorme non solo di soldati, ma una loro specializzazione e quindi una nuova e diversa
organizzazione dell’esercito ed una diversa ripartizione, con la nascita di nuove figure espressione
delle nuove armi e la necessitò di una nuova e diversa coordinamento tra i vari tipi di armi, ciascuna
organizzata in specifiche formazioni militari. Questo comportava che lo stesso movimento
rivoluzionario in un paese non si trovava di fronte cavalleria ed alabardieri, ma moschetti e cannoni
e che quindi le stesse città e gli stessi paesi venivano ad assumere ruoli e funzioni diversi che nel
passato. Nelle singole città veniva a disegnarsi diversamente l’importanza militare di determinate
zone e nei singoli paesi veniva a disegnarsi diversamente l’importanza di determinati territori sul
piano strategico e tattico, fino a configurarsi come importanti piccoli villaggi solo perché veniva a
trovarsi su posizioni strategicamente vitali sul piano militare ed economico. Tutto questo
determinava una modifica nella teoria politica per quanto attiene le forme, i modi ed i metodi del
mantenimento e conseguimento del consenso. Il nemico si presentava in possesso di tremende
capacità distruttive non facilmente contrastabili ed ancora più difficilmente il movimento era in
grado di provvederne per sé, tale da contrastare le armi e la forza del nemico che gli stava dinanzi.
Una massa enorme di problemi stavano davanti al movimento rivoluzionario del periodo 15701650. Tale massa se per certi aspetti era assimilabile a quella che si trovava davanti il movimento
olandese era assai diversa dall’inglese. Il movimento rivoluzionario meridionale risolve in maniera
sostanzialmente corretta i problemi che gli stavano di fronte, contribuendo all’elaborazione della
più complessiva teoria politica borghese: Accetto, Boccalini, Malvezi ed altri, oltre alla produzione
di importanti pamphlet prodotti nel corso della rivoluzione, ma che fanno chiaramente intendere di
una più sostanziosa elaborazione e riflessione a monte, sviluppatasi negli anni 1620-1640.
Una funzione più grande e più diretta, come sostegno alla ricerca, ebbe la forte organizzazione del
ceto popolare, che costituiva una struttura portante del sistema politico, dell’amministrazione e della
vita cittadina. Ferrante Imperato, il promotore del gruppo dei naturalisti, che ebbe un ruolo
importante nella elaborazione delle prime idee di riforma, fu un rappresentante ufficiale del popolo
nell’amministrazione della città, come, in seguito, suo figlio Francesco Imperato, scrittore politico
ed autore di una importante raccolta di antichi Capitoli del Regno. A diversi livelli l’intreccio tra
movimento intellettuale ed organizzazione politico-amministrativa popolare riuscì ad assicurare dei
margini di relativa libertà al dibattito politico.
Ma il ruolo essenziale nel garantire la continuità del movimento lo ebbe il suo stesso sviluppo
interno, la riflessione sui metodi e sugli obiettivi. Fondamentalmente fu il ripensamento che seguì
alla fase di ribellismo, di utopie e di proteste, in cui si colloca anche l’episodio campanelliano.: una
lunga catena di fallimenti, da cui l’oppressione era uscita rafforzata e che erano sfocati in grandi
ondate di banditismo. La cultura di opposizione ( esperienze e correnti diverse) acquistò
consapevolezza della necessità di questi fenomeni, manifestazioni di impotenza ed ostacoli obiettivi
alla riforma politica ed intellettuale. L’elaborazione di linee e programmi più realistici, rispetto alla
protesta sorta, quando cominciò ad incrinarsi il tradizionale equilibrio tra il Regno e la Corona, fu
essenziale per la prosecuzione della ricerca e per il raccordo con il pensiero contemporaneo italiano
ed europeo.
Nella letteratura che contribuì a preparare a Napoli la rivoluzione del 1647 c’è, il libro di
Camillo Tutini Origine e fundatione dei Seggi di Napoli , che fu considerato una sorta di manifesto
della ribellione, o come altre opere di impianto “ scientifico” che rivelarono poi, durante la
rivoluzione, il loro significato politico.
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Gli studi su Napoli in età greca e romana, ai quali contribuirono il Capaccio e lo stesso
segretario dell’Accademia degli Orsini, Francesco de Pietri furono ampiamente utilizzati da
repubblicani ed indipendentisti nella propaganda, nella elaborazione di programmi, nelle scelte
politiche. La rivoluzione da una parte diede significato politico ad opere che erano state elaborate
con diversi scopi, dall’altra rompendo la cappa dell’oppressione e della censura, rivelò intenzioni e
pensieri che prima erano accuratamente nascosti.
In generale la teoria politica del Quattro-Cinquecento contemplava una visione
sostanzialmente semplice dei rapporti politici e sociali. Essa era fortemente determinata dalla
visione e concezione della società feudale e quindi da una concezione politica che aveva al centro,
perno e motore primo la classe aristocratico-nobiliare. Il sistema tolemaico ben esprimeva e
sintetizzava il modello ideologico della società e dei rapporti civili e sociali.
Il modello politico-teorico di rivolta comunemente accettato contemplava due tipi, in una certa
misura connaturati alla realtà stessa della società e dello Stato. Anzitutto la rivolta popolare,
provocata dalla fame e dalla miseria. Non si riconoscevano altre cause possibili di sollevazione
popolare: la plebe “ più suol muoversi per interessi vili che per spiriti generosi” ( Boccalini ).
L’altro tipo era la rivolta di una frazione o della maggioranza della “ nazione politica”.
Nel giudizio comune e nel caso specifico delle rivolte, la nazione politica coincideva con i ceti
privilegiati della nobiltà.
Non si riteneva che una rivolta potesse conseguire lo scopo del mutamento politico - e neanche che
potesse avere inizi e svolgimenti di qualche consistenza - senza il consenso e l’appoggio della
nobiltà. Non si riteneva che una rivolta potesse conseguire lo scopo del mutamento politico - e
neanche che potesse avere inizi e svolgimenti di qualche consistenza - senza il consenso e
l’appoggio della nobiltà. E sebbene la tradizione culturale assumesse spesso e volentieri come punto
di riferimento la figura classica dell’eroe tirannicida, il modello ufficiale e più largamente diffuso
attribuiva a questo tipo di ribellione fini particolari, di gruppo o di casta, contro la funzione di
equilibrio sociale e di giustizia svolta dal sovrano.
Era piuttosto incerta e confusa invece, o addirittura inesistente, l’idea che il mutamento potesse
essere tentato da gruppi sociali politicamente capaci ma distinti dalla nobiltà o in contrasto con essa,
da gruppi borghesi. Consequenzialmente le stesse norme della prevenzione e della repressione
erano corrispondenti al modello di rivolta comunemente riconosciuto e qui la distinzione tra i due
ordini della società era particolarmente netta e rigorosa. La cura particolare per
l’approvvigionamento alimentare dei centri urbani e l’attenta distribuzione di cariche e benefici ai
nobili appartenevano al normale bagaglio delle misure di buon governo ed alle legittime aspettative
degli strati sociali interessati; nella repressione delle congiure nobiliari, insieme alla decapitazione
dei colpevoli, era tipico l’impegno di disgregazione della rete di solidarietà del parentado.
L’elemento del sistema repressivo su cui era necessario richiamare, per l’importanza che ebbe nella
prima età moderna, è lo spettacolo rituale di esecuzione capitale con atroci torture riservato ai
condannati di estrazione popolare, responsabili di tumulti e delitti di lesa maestà.
[..] Una sentenza per delitto di lesa maestà fu emanata ed eseguita a Napoli nel maggio del 1622
contro sette cittadini per una manifestazione di protesta, con insulti e lancio di sassi, contro il viceré
Zapata. L’episodio è noto come “ tumulto delle zanette”, colpisce, tuttavia, la sproporzione tra la
pena comminata, a pochi giorni della protesta, e l’entità del fatto.
E in base alla rigorosa distinzione tra gli ordini adottata anche nei metodi repressivi e punitivi, al “
borghese” condannato per ribellione e lesa maestà non toccava un tipo di esecuzione diverso da
quello riservato al plebeo.
La ribellione e la congiura come forme di lotta allora conosciute.
In presenza, allora, di un apparato repressivo imponente e di modelli di interpretazione e di
giudizio rigidi e profondamente interiorizzati vengono elaborati strumenti per creare margini di
movimento e di innovazione all’iniziativa politica. Il problema riguarda, in misura diversa, tutti i
paesi europei, ma indubbiamente in Italia la situazione era più difficile che altrove: qui, perciò, le
coperture e le ambiguità nella ricerca dell’innovazione, insieme alla pratica della clandestinità nella
diffusione delle idee, ebbero le manifestazioni più complesse e difficili da decifrare e documentare.
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Alcuni settori della cultura e della politica cercarono di difendere esigenze di riforma e di
libertà senza contrapporsi frontalmente ed apertamente ai princìpi dominanti nella politica e nella
morale.
Da questa esigenza e da questa realtà la teoria e pratica della dissimulazione.
Affrontata dal pensiero classico e medievale come un problema eterno dell’uomo, del rapporto tra
apparenza e realtà, tra menzogna e verità, essa fu considerata nel tardo Cinquecento e nel secolo
successivo soprattutto come un aspetto della vita politica e del costume di quel tempo.
Francesco Bacone non si limitava ad affermare la liceità della dissimulazione, ma ne
esaminava meccanismi ed effetti. Egli la considerava come “ la parte più debole della politica e
della prudenza”, ne attribuiva la pratica soprattutto ai politici che non hanno “ tale penetrazione di
giudizio da poter discernere quali cose devono essere messe alla luce del sole e quali mostrate a
mezza luce, ed a chi e quando…”.
Per questa via si faceva, cioè, la Scienza della Politica, si faceva l’autonomia della politica dalla
teologia e dalla filosofia, il suo fondarsi in quanto scienza, distinta dalle altre e dall’arte militare.
Un documento boemo dell’inizio della guerra dei Trent’anni delinea la questione in maniera
esemplare. Venceslao Meroschwa, spiega ad un amico di Norimberga la corrispondenza tra i
metodi della ricerca scientifica ed il nuovo modo di concepire la politica, mettendo al
centro del discorso, appunto il tema della simulazione.
L’amico gli aveva chiesto un parere sul modo come dovevano comportarsi le città imperiali non
ancora coinvolte nella guerra: se dovevano schierarsi con l’imperatore Ferdinando o con l’elettore
Federico o restare neutrali.
“ Il tuo triplice schema è scolastico e proviene dai maestri di antico candore; oggi, infatti,
come i nuovi matematici con il loro cannocchiale hanno scoperto nuove stelle nel firmamento
e nuove macchie nel sole, così anche la nuova politica ha le sue lenti e la sua ottica, attraverso
la quale si possono scorgere altri elementi e alternative (…).
Tenendo conto delle possibilità offerte dalla tecnica della simulazione, infatti, le scelte politiche
diventavano molto più complesse di quelle che aveva potuto prevedere l’amico di Norimberga
Venceslao Meroschwa così scrive: “ I vostri mercanti vendendo le loro cianfrusaglie, simulano,
mentono, spergiurano per denaro, e non faremo la stessa cosa per la difesa dei nostri regni e delle
nostre città?”
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§.3. La categoria della
Dissimulazione.
La Dissimulazione come forme e tecnica dell’opposizione.
Il mondo dell’opposizione e della resistenza attiva accoglie e fa propria una tecnica elaborata
ufficialmente ed esclusivamente per l’azione di governo, svolgendo e portando a nuovi sviluppi la
tematica già delineata, nei suoi tratti essenziali, nel secolo precedente.
Un retroterra ideale e culturale è la legittimazione della simulazione religiosa, sostenuta da gruppi
eretici per la difesa della libertà interiore e della fede personale.
Giordano Bruno .. nello Spaccio della bestia trionfante, collegò il discorso della
dissimulazione con la ricerca e la difesa della verità, aprendo una nuova fase di riflessione che
avrebbe raggiunto la piena maturità nell’opera di Torquato Accetto.
“ Ancella della Prudenza e scudo della Veritade”: così Bruno aveva definito “ la studiosa
Dissimulazione, a cui Giove fa lecito che talvolta sia presente in Cielo” accanto alle virtù che
stabilmente sono accolte tra gli dei.
Il contenuto preminente non fu più, o non fu soltanto, l’esercizio dell’inganno e dell’astuzia o
l’esortazione all’adattamento e all’acquiescenza. L’accento si spostò su una funzione di educazione
politica, necessaria alla dissidenza ed all’opposizione per creare nuovi spazi di iniziativa e per
tentare di sfuggire all’alternativa tra utopia e conformismo.
Il trattato Della Dissimulazione di Torquato Accetto fu pubblicato all’inizio del decennio più
tempestoso del Seicento, in una fase storica di grandi conflitti e di accentuata instabilità politica e
sociale, nel 1641
Uno dei motivi dominanti è il dominio della ragione sull’impulso, l’invito a prestare la massima
attenzione alle condizioni reali ed alla loro “ mutazione”. E’ un elogio alla razionalità concreta, e
non senza un gusto autenticamente machiavelliano.
Bacone dal canto suo pone la necessità della dissimulazione: “ in quei primi anni del secolo XVII,
quando la morbosa caccia alle streghe andava crescendo in ogni parte d’Europa” quale strumento
per agire in modo prudente e mascherato di fronte alle “ mille insidie” che ostacolavano il
progresso scientifico.
Nel cinquantennio ( 1590-1640) che precedette il 1640, Napoli visse una duplice e contrastante
esperienza: da una parte, la grande vivacità ed ampiezza del movimento di riforma intellettuale e
politica e, dall’altra, l’estrema violenza della repressione. Censure, processi alle idee, denunce,
azioni repressive non colpirono soltanto le pratiche magiche e qualche esponente della ricerca
scientifica, come Nicola Antonio Stigliola, ma in diverse fasi ed in diversi modi, tutte le
manifestazioni della vita intellettuale che potevano mettere in discussione, sia pure in modo
indiretto e lontano, l’ordinamento politico del Regno, i rapporti tra Napoli e Madrid, il rapporto tra
cultura e potere. Le esecuzioni, le deportazioni e le fughe del 1585, con fasi di diversa intensità,
aprirono un periodo di repressione che si protrasse per molti anni.. e che colpì soprattutto il mondo
intellettuale. Fatta eccezione per quelle regioni in cui era guerra aperta ( Fiandre) e per le minoranze
etniche perseguitate ( Moriscos, Ebrei) fu questa - il napoletano - la regione dell’impero in cui tra il
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1585 ed il 1640, la repressione politica e culturale si abbatté con maggiore con maggior forza. Il
quadro dovrebbe essere completato dai dati della censura religiosa, dalle condanne che anche
Napoletani meno famosi di Giordano Bruno e Giulio Cesare Vanini subirono in quegli anni a
Roma o in altri paesi e dalla violenza privata feudale..
Il problema quindi che si poneva in quel tornante storico e specialmente nell’area in cui
Accetto viveva - il Regno di Napoli - era di evitare il rischio di annientamento, di scoprire i
modi attraverso i quali la ricerca e l’iniziativa potessero continuare a svolgersi, passando dalla
sterile protesta e dall’astratta razionalità al concreto operare politico.
Con la dissimulazione, scrive, “ si dà qualche riposo al vero” ma “ per dimostrarlo a tempo”.
Essa serve alla scelta del tempo, al calcolo die rapporti di forza ed al prudente impiego delle
energie: valori che non appartengono al domino dell’inerzia e della passività ma a quello
dell’iniziativa e dell’azione. Uno strumento che finora è stato proprio delle classi dominanti , viene
offerto all’uomo comune come una via per tentare di uscire dalla subalternità e
dall’impotenza.
La necessità della “ Dissimulazione” viene affermata anche di fronte ai modi più sanguinosi
della repressione esercitata dalla tirannide, scrive: “ .. e non è lecito di mostrarsi pallido mentre il
ferro va facendo vermiglia la terra con sangue innocente”. con riferimento a esperienze di terrore
politico come quelle che Napoli aveva vissuto.
Dissimulazione è allora la capacità di non perdersi d’animo e di impedire che l’obiettivo del
terrore venga raggiunto in pieno fino a stroncare nel profondo della coscienza l’amore per il vero.
Evitare di allarmare gli avversari, coglierli di sorpresa, riservarsi una buona via di
ritirata, scoprire più facilmente i disegni degli altri: questi sono secondo Bacone i vantaggi
concreti della dissimulazione.
Per Accetto è spiraglio attraverso cui è possibile evitare l’isolamento…: “ Non dico che non si
han da fidar nel seno dell’amico i segreti, ma che sia veramente amico.”
In forma diversa, non del trattato, ma del racconto storico
Il Tarquinio Superbo di Virgilio Malvezzi
La linea essenziale dell’opera consiste nell’analisi di due modelli di comportamento politico.
Turno, è un capo popolare generoso, legato alla sua gente latina, animato da un grande senso
di giustizia e da un forte spirito di libertà. Avendo compreso il disegno di Tarquinio di istituire un
dominio tirannico sulle popolazioni latine, egli si oppone frontalmente al re ed apertamente cerca di
sollevare contro di lui il suo popolo. Il suo stesso slancio ed il suo impeto offrono a Tarquinio la
possibilità di manovrare abilmente per minarne il prestigio. Ingannati da Tarquinio, gli stessi
seguaci di Turno lo fanno morire gettandolo nelle acque del fiume: “ in quelle acque ove lasciò
Turno la vita, pressoché si estinse la libertà dei Latini.” , volendo significare che gli errori di
precipitazione ed imprudenza del capo ricadono poi su tutta la comunità. Turno è sconfitto ed
annientato, infatti, perché la sua “ fierezza leonina” non si è servita della necessaria “ coperta di
simulazione”. Il confronto con l’azione di Bruto ribadisce il concetto fondamentale
dell’opera:
“ I Tiranni hanno da temere più dagli homini simulati che dagli homini aperti. Questi
stanno ignudi ai colpi di chiunque gli fere, quegli si riparano dagli assalitori dopo la trinciera,
per sortire quando è tempo di dare l’assalto (..). Bruto, che di quest’arte è maestro.. si fa
conoscere quando discaccia il Tiranno: si cava la maschera nell’ultima scena; ognuno lo
applaude quando lo ravvisa, perché non lo ravvisa se non quando è nel fine la Tragedia.”.
La Dissimulazione allora in quanto risposta all’oggettivo gap esistente tra i vari livelli di cultura,
esperienza e coscienza presente nel ‘ popolo’ contra la intellegibilità del progetto da parte delle
classi dirigenti e non ancora del ‘ popolo’.
Accetto e Malvezi perseguono il chiaro intento di educazione politica e civile particolarmente
importante in un paese in cui era maggiore che altrove la difficoltà di sfuggire all’alternativa fra la
protesta sterile e l’acquiescenza ed in cui le vie della liberazione e della ripresa dovevano rivelarsi
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assai più complesse di quelle che aveva immaginato Machiavelli nel momento in cui era avvenuto il
crollo della libertà.
Il Tarquinio Superbo ebbe una fortuna assai maggiore: quattordici edizioni in Italia nel corso
del Seicento, cinque traduzioni spagnole, tre inglesi, tre francesi, un olandese, due latine.
I contemporanei furono consapevoli della corrispondenza tra la teoria e l’uso pratico di quello
strumento politico, la dissimulazione, anche nel momento in cui lo scontro divenne più diretto e
generalizzato. Uno dei principali cronisti della rivolta catalana, Luca Assarino, interpreta in
questa chiave l’azione dei gruppi dirigenti catalani durante la prima e decisiva fase della ribellione (
maggio-giugno 1640). Secondo la sua ricostruzione degli avvenimenti, i rappresentanti politici che
avevano sostenuto negli anni precedenti la protesta legale contro Olivares, continuarono a
proclamare la loro fedeltà alla Corona nello stesso tempo in cui fomentavano la rivolta popolare e le
davano un indirizzo politico. I capi politici catalano si comportarono con “ apertissima finzione:
finzione fu lo sbigottimento dimostrato per l’assalto dei contadini e la conseguente incapacità del
governo di prevenirlo e prevederlo; finzione fu anche il rifiuto di uno dei carcerati, Tamarit, di
uscire dalla prigione senza l’autorizzazione del viceré. Il gioco proseguì fino alla giornata cruciale
del Corpus Christi e oltre, fino a quando, cioè, il successo del movimento popolare fu assicurato ed
ai capi catalani non rimase apparentemente altra scelta che assumerne la direzione o esserne
travolti. La loro dissimulazione accreditò nel governo di Madrid la convinzione che i moti, essendo
“ opera dei villani e della plebe vile(..) fossero per acchetarsi da se stessi, o per venir frenati da un
solo torcer di ciglio della Maestà cattolica.” Furono quindi ritardati “ quei rimedi violenti” che se
adottati in tempo, sarebbero stati sufficienti a stroncar la rivolta. L’altro obiettivo .. fu di dimostrare
che “ il Re era stato il primo a venire alle rotture, e che perciò non haveano potuto a meno di
difendersi e d’opporsi alle oppressioni”.
E così, mentre il ricorso alla dissimulazione fu per il governo una necessità imposta
dall’impotenza, per i Catalani fu un efficace strumento di iniziativa politica soprattutto nel senso
dell’isolamento degli organi di governo e della copertura e guida dell’azione rivoluzionaria
popolare.
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Capitolo Quarto
La rivoluzione borghese del 1647-48
Introduzione.
Il periodo 1620-1660 vede lo sviluppo di 6 grandi rivoluzioni in Europa: Catalogna, Olanda,
Boemia, Inghilterra, Portogallo e Regno di Napoli e profonde modifiche nell’assetto borghese nella
nazione francese.
Vede cioè un movimento complessivo borghese che interessa 7 nazioni.
Le esperienze rivoluzionarie della metà del Seicento, cioè, non furono estranee l’una all’altra. Una
maggiore attenzione ai rapporti tra i diversi episodi potrebbero rendere più agevole la comprensione
dei loro contenuti politici ed ideali, delle differenze e dei tratti che ebbero in comune.
Il periodo chiave è dato dalla Guerra dei Trent’Anni, 1618-1648, dalla Guerra per la spartizione del
dominio spagnolo oramai in declino e che coinvolse l’intera Europa centrale e parte dell’orientale:
Polonia, Svezia, ecc.
E’ cioè il momento di massimo sviluppo del processo rivoluzionario borghese in cui giunge in porto
il processo di formazione degli stati nazionali borghesi europei e gli equilibri su cui l’intera Europa
sarà retta fino ad oggi.
Questo fa della rivoluzione napoletana del 1647-48 la rivoluzione borghese italiana.
Era questa la fase in cui la nazione italiana doveva portare a compimento la rivoluzione borghese ed
iscrivere la nazione italiana dentro il movimento complessivo europeo che si andava delineando e
quindi partecipare alla vita ed alla storia borghese dell’Europa che da lì si inizia a scrivere.
Persa questa occasione, rifiutata questa occasioni, per ignobili bindolerie e per i pochi spiccioli che
la corona di Spagna lasciava cadere, la nazione italiana dovrà subire i processi delle altre nazioni,
che iscriveranno nelle loro strategie il dominio sull’Italia e sui porti italiani. Esse quindi
successivamente: Inghilterra e Francia, massimamente, lavoreranno per impedire all’Italia un suo
ruolo autonomo e massimamente di sviluppare una sua politica marinara n grado di prendere pieno
e legittimo possesso delle sue coste e di suoi territori per uno sviluppo borghese del paese.
Il paese avrà, cioè, da questo momento uno sviluppo sub conditione anglo-francese, sarà pedina
anglo-francese, sarà cioè protettorato inglese e francese ed il suo territorio, campo di battaglia degli
interessi di queste due nazioni, che del controllo dal Mediterraneo dipendeva la loro più generale
strategia politica, economica, commerciale e militare.
La Spagna dal canto suo vive una profonda crisi di decadenza, incapace di gestire i nuovi processi
produttivi e attaccata nelle sue colonie, ove i popoli le si ribellano contro e lottano per
l’indipendenza. Il blocco dominante non è in grado di dirigere i nuovi processi di produzione e
l’ombra di Villabar si presenta oramai a presentare il conto.
Stretta da necessità sempre maggiori di rastrellare denari per mantenere i tanti fronti di guerra aperti
accelera la sua fine, aprendo ed inasprendo contraddizioni in quei paesi dove riesce ancora a
mantenere i suoi possessi coloniali. Il regno di Napoli era uno di questi possessi coloniali.
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Il regno di Napoli vede allora un inasprirsi dello sfruttamento e della rapina, ma vede anche un
concentrarsi delle forze reazionarie, che avevano nel regno di Napoli i loro unici possedimenti ed
entrate parassitari e le loro uniche occasioni speculativo-parassitarie, fare blocco qui.
In specifico il processo rivoluzionario borghese nel regno di Napoli si iscrive allora sia nel più
complessivo contesto rivoluzionario borghese europeo e sia nelle specifiche condizioni che
abbiamo descritto: presenza di tutta l’aristocrazia nobiliare italiana e non solo e nelle condizioni di
retrovia decisiva dell’Impero spagnolo.
§. 1 Gli inizi: 26. dicembre 1646-7. luglio. 1647
Il movimento rivoluzionario ha inizio nel dicembre 1646 con la gabella sulla frutta al fine di
ricavare un milione di ducati, somma che doveva servire per finanziare la spedizione militare, che
partendo dal regno di Napoli, attraversando lo stato pontificio, andasse a riconquistare le posizioni
di Portolongone e Piombino conquistate nell’ottobre dai francesi. Erano questi due importanti
attracchi portuali sul Tirreno che costituivano per i francesi due importanti teste di ponte, tendenti a
minacciare sia il regno di Napoli, sia il Granducato di Toscana e sia lo stato pontificio, oltre a
costituire minaccia diretta per le vie di comunicazioni marittime tra i domini spagnoli nel
Mediterraneo e la Spagna, in modo particolare con Genova e Monaco.
La mattina del 26 dicembre 1646 la carrozza vicereale si recava con gli augusti ospiti a bordo
da Palazzo Reale si recava alla Chiesa del Carmine, lungo il tratto che costeggia la marina, viene
assaltata da masse popolari con una fitta sassaiola. I manifestanti esigevano l’abolizione della
gabella sulla frutta. Vari tentativi vengono fatti per rovesciare la carrozza, che traballa
paurosamente. Il viceré si impegna a togliere la gabella non appena tornato alla reggia.
Da questo momento fino al maggio 1647 è un lungo braccio di forza tra il movimento
rivoluzionario ed il blocco reazionario.
Il 3 gennai 1647 viene fatto affiggere dal viceré il regolamento per la riscossione della gabella sulla
frutta. Il 4 gennaio viene fatto trovare imbrattato di sangue lo stemma spagnola che sormontava il
casotto dove si riscuoteva la gabella sulla frutta. Nel frattempo il gruppo dirigente della rivoluzione
si poneva il compito di mantenere accesa la fiamma del 26 dicembre, evidenziando la non volontà
vicereale di abolire la gabella: Masaniello. Marco Vitale, Vincenzo d’Andrea, Salvatore di Gennaro,
Francesco Campanile, Giuseppe Fusco, Francesco Censale, Vincenzo Jacopo rossi, Onofrio Pagano,
Pietro Javarone, Agostino Romano, Francesco Puca assieme a molti altri borghesi e popolani.
L’azione di propaganda porta ad una nuova manifestazione di lotta: la carrozza vicereale viene di
nuovo fermata e fatta segno a colpi di pietra e sballottata al fine di rovesciarla. Nel frattempo si
intensifica la presenza di cartelli, che erano stati una caratteristica di tutto il periodo
prerivoluzionario nel regno, che inneggiavano alla lotta ed alla opposizione, alcuni furono fatti
trovare pianti davanti alla reggia. Giungono nel frattempo notizie della rivoluzione scoppiata in
Palermo, portate e diffuse dai siciliani, che incitano i napoletani a fare altrettanto.
In Sicilia la popolazione si era ribellata ed aveva ottenuto il 21. maggio. 1647 l’abolizione
delle principali gabelle.
Anche questa è un storia tutta da scrivere. E’ da scrivere ancora e tutta la grande esperinzaq
rivoluzionaria del popolo siciliano. e quel popolo siciliano
Stretto dal movimento rivoluzionario in ascesa e dalla impossibilità di togliere la gabella il
viceré attua la tattica dilatoria del prendere tempo, fino a quanto la Spagna fosse stata in grado di
distogliere forze da inviare a Napoli e reprimere nel sangue la rivoluzione.
Dietro la gabella, vi era – come si è visto, tutto un apparto finanziario speculativo, che costituiva
uno dei fondamenti del blocco sociale su cui si manteneva l’intero dominio coloniale, oltre alle
impellenti necessità finanziarie spagnole di dover scacciare i francesi da quegli importanti capi
saldi: Piombino e Portolongone.
La tattica dilatoria adottata in questa prima fase è quella istituzionale:
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si doveva sì abolire la gabella sulla frutta, ma si doveva stabilire da dove attingere i fondi sostitutivi
e poi sia l’abolizione della gabella che lo stabilire le nuove entrate questo non era competenza del
viceré, ma degli Eletti del Popolo, che andavano riuniti uno alla volta ed una volta ottenutane
l’approvazione a maggioranza allora e solo allora il viceré avrebbe potuto procedere. Ma lui il
viceré non poteva decidere niente: c’erano gli Eletti del Popolo che decidevano.
La struttura rappresentativa era data da i Seggi; 5 erano divisi tra nobiltà e clero ed uno
apparteneva al Popolo. Nel regno di Napoli gli artigiani, gli operai, i lavoranti in genere erano
totalmente esclusi dalla categoria di popolo. Artigiani ed operai non erano rappresentati né dal
Seggio del Popolo né da nessuno. Costituivano la plebe senza diritti.
Per ‘ popolo’ si intendeva il ceto civile, costituito innanzitutto dai nobili detti “ non di seggio”,
cioè i nobili non appartenenti al numero chiuso delle centoventi famiglie patrizie più antiche di
Napoli i cui capifamiglia e primogeniti erano iscritti di diritto nei cinque seggi attribuiti alla
nobiltà: Capuana, Montagna, Nido, Porto e Porta nuova.
Ai nobili esclusi da tali seggi era precluso il privilegio di eleggere ed essere eletti gli
amministratori cittadini con ingerenze negli appalto, ecc. ecc.
Oltre ai nobili non di seggio, facevano parte di ‘ popolo’ anche i ricchi proprietari di antica ed
onorata famiglia, i dottori in diritto civile e canonico, i notai, i ricchi mercanti. Queste categorie
erano tutte iscritte, e rappresentante nel seggio detto appunto del Popolo.
L’elezione di questo rappresentante, anche in base alle modifiche introdotte nel 1548, come si è
visto, era sotto la diretta sorveglianza ed il controllo poliziesco del viceré che in definitiva ne
decideva la decisione attraverso il controllo dei “ capitani di strada”, impegnati non tanto a
rappresentare i quartieri, ma divenuti, sotto la stretta poliziesca, strumenti di controllo e delazione
ed all’occorrenza di spalleggiatori e mazzieri dell’Eletto del Popolo.
A loro volta i deputati dei Sedili avevano dato mandato al cavaliere Spinelli di trovare una
soluzione da proporre. Lo Spinelli era egli stesso uno speculatore sui dazi, che aveva investito 30
mila ducati e ricevutene in rendita seimila sulla dazio del vino, e che ora aveva investito più di
centomila ducati nella riscossione della gabella sulla frutta.
Ma crepe nello schieramento nemico si aprono, date proprio del movimento di lotta in ascesa:
alcuni nobili del Sedile del Porto erano per l’abolizione della gabella e questo portò prima a vivaci
discussioni e poi a scontri fisici tra i nobili dei diversi pareri, tanto che il viceré interviene
proibendo che se ne discutesse in futuro.
In queste lungaggini burocratico-istituzionali si consuma il periodo dicembre 1646-maggio 1647,
ma questa “ fase di interregno” nelle condizioni date indeboliscono il blocco di potere e consente
alle forze rivoluzionarie di accumulare forze, serrare le fila e dare organizzazione al movimento.
Muoversi a quell’epoca era difficile per il rigido regime poliziesco, dittatoriale e terroristico che
incombeva sul regno. Feroce ed esemplari erano state le repressioni, come si è visto, contro gli
oppositori e semplici contestatori del dominio terroristico spagnolo; incombeva inoltre sul regno
una fitta rete di spie, provocatori al servizio di singoli baroni e nobili, i “ bravi” di manzoniana
memoria.
Il 3 giugno 1646 sull’onda delle crepe apertesi nel Sedile del Porto e proprio nel quartiere Porto un
banale incidente, un banale e quotidiano atto di sopruso e di arroganza delle truppe di occupazione:
alcuni soldati spagnoli si rifiutano di pagare il conto ad un oste, si trasforma prima in una lite tra
questi ed alcuni marinai napoletani venuti in soccorso delle ragioni dell’oste: ed i primi spagnoli
restano a terra. Picchiati sonoramente i superstiti tornano con i rinforzi, ma così fanno anche i
marinai napoletani e la mischia si allarga, ma… iniziano a confluire i vari abitanti del porto ed i
soldati del re e poi gli abitanti dei quartieri vicini: è battaglia, che dura fino a tarda sera, posta fine
dalla sera appunto. Il viceré alla fine non può che allontanare tedeschi ed italiani al servizio degli
spagnoli dal regno con la scusa che gli erano stati richiesti rinforzi militari da Milano. Decisione
dolorosa per lui, viste le già scarse forze a sua disposizione ed il segnale tremendo di debolezza che
lanciava all’interno del suo schieramento e per lo schieramento nemico.
Il viceré lasciava il campo. Il viceré scaricava i suoi.
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Consentire ora, dopo i fatti del 3 giugno 1647, al viceré di continuare nella tattica dilatoria
avrebbe comportato una inversione di tendenza: le forze reazionarie si sarebbero ricompattate e
quelle rivoluzionarie indebolite.
In generale si deve ben cogliere, al di là del più immediato sentire, la portata e la valenza che
un determinato fatto determina, valutarlo esattamente ed intelligerne il più complessivo movimento
di interagire sulla situazione generale. Una lotta vede in campo uomini con le loro passioni, i loro
interessi generali e ‘ particulari’ e questi possono determinare fatti, situazioni imprevedibili, che
possono far precipitare la situazione in un verso o in un altro. Una lotta è sempre la tensione
massima e quindi più facilmente può accadere che possono verificarsi situazioni imprevedibili.
Inoltre essa in generale consente di comprendere meglio la disposizione in campo delle forze
nemiche e gli spostamenti che il nemico attua, o ha attuato, e quindi le possibilità nuove di attacco
e le necessità nuove di difesa, date da quella diversa disposizione delle forze in campo; i fatti
imprevisti scoprono assai maldestramente i punti delicati del nemico, proprio perché non disposti
dalla direzione. Il far saltare i nervi al nemico, il porlo in condizioni di subalternità psicologica ha
esattamente questa funzione, quello di indurlo ad azioni improvvise o determinare azioni
improvvise nel suo schieramento e farlo scoprire. Nelle condizioni specifiche di una guerra
rivoluzionaria fin quando il nemico non è abbattuto nel senso machiavelliano del termine, esso
mantiene ancora l’iniziativa: è ancora lui che determina il movimento oggettivo dei processi ed in
questa fase, anche se di assalto al cielo delle forze rivoluzionarie, una direzione corretta deve
essere ancora e di più in grado di sfruttare appieno proprio quei movimenti oggettivi, che in questa
fase si eccitano e saper ben distinguere se sono favorevoli all’uno o all’altro contendente, giacché
in questi momenti agiscono forze policentriche che spingono in avanti o frenano in maniera
irrazionale, non avendo un quadro generale delle forze in campo e non avendo un piano strategico
e se ce l’hanno esso è parziale, limitato e quindi tendono a leggere diversamente i dati a dargli
diversa valenza e quindi a predisporre forze in maniera diversa. Quanto accaduto il 3 giugno 1647
poteva anche essere una provocazione, ossia un’azione cosciente del nemico alfine di chiamare le
forze rivoluzionarie in campo aperto ed annientarle: anche questo andava valutato.
Nelle condizioni specifiche di quel giugno 1647 il fatto costituiva solamente un’azione
improvvisa, un’azione inconsulta di un gruppo di soldati d’occupazione, che non avevano ben
chiara la situazione e ritenevano di poter fare ancora i gradassi ed hanno innescato così una
situazione assolutamente nuova.
Il gruppo dirigente rivoluzionario seppe ben cogliere la portata dei fatti del 3 giugno, che esso
stesso aveva ben saputo aiutarne l’evoluzione da lite a sommossa. trasformandola in un saggio su
scala ridotta delle forze in campo.
Si trattava adesso di strappare la maschera di buono, comprensibile, paterno, e meglio il vestito, che
il viceré si era ben cucito addosso, comprendendo che la conquista delle forze intermedie ed
arretrate avviene nel corso, ed è segnato esattamente, dall’ascesa del movimento rivoluzionario.
Il 6. giugno. 1646 Masaniello, alle prime luci dell’alba, fa saltare con un barile di polvere la baracca
dove si sarebbe dovuto riscuotere la gabella sulla frutta.
Cosa avrebbe fatto il viceré?
Come ed in che tempi sarebbe intervenuto?
Questo avrebbe aiutato i napoletani a capire il gioco del viceré ed il suo essere in combutta con
arrendatori, nobili ed essere il suo modo di fare solo una tattica per stancare il movimento.
Grande fu il botto ed immediata la risposta del viceré:
manda il consigliere Antonio d’Angelo con l’ordine di requisire l’albero posto di fronte alla baracca
saltata in aria, per metterlo immediatamente in ordine così che prima dell’alba vi fosse ricostituito
l’ufficio della gabella sulla frutta e messa in grado di riscuotere la gabella senza neppure un’ora di
ritardo.
Era strappato così il vestito di arbitro istituzionale.
Masse popolari, organizzati e spinti da agitatori ed organizzatori del movimento rivoluzionario, si
portano a palazzo reale, nel frattempo la protesta dilagava in tutti i quartieri.
Notizie dello sviluppo del movimento in Sicilia giungevano sempre più frequenti e si diffondevano
in tutto il regno, portate dai siciliani che ovunque sbarcavano diffondevano notizie sulla lotta ed
ovunque attraccassero spingevano i napolitani alla lotta.
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Occorreva accelerare i tempi.
Occorreva passare dalle manifestazioni di piazza alla insurrezione.
Si trattava di addestrare militarmente un gruppo di 400 lazzari, che costituissero la punta di
sfondamento, l’avanguardia dell’attacco e la milizia pretoriana. Non potevano essere militari di
tante campagne, che il viceré aveva inviato e che erano tornati a casa, la cosa avrebbe insospettito le
autorità.
Occorreva dissimulare per poter colpire all’improvviso ed impedire al nemico sia la preparazione
che la concentrazione delle forze.
Torna qui, ancora, la Dissimulazione come forma di lotta.
L’idea è quella di sfruttare la rappresentazione religiosa che si teneva il 16 luglio nella Piazza del
Carmine per i festeggiamenti in onori della Madonna del Carmine il 16 luglio con l’allestimento di
una macchina di festa, che era anche una macchina d guerra. Al centro della piazza veniva eretto un
castello di legno, montato il giorno prima e difeso. L’attacco e l’assalto al castello venivano
condotti da un esercito di “ alarbi”. Dovevano, armati di soli bastoni, riuscire a vincere la resistenza
ed espugnare la finta fortezza. Sotto il pretesto di provare la rappresentazione sacra Masaniello
addestra, con l’aiuto di esperti militari, veterani delle campagna dell’impero di Spagna, all’uso delle
armi giovani dai 16 ai 22 anni. A gruppi di 100-200 li addestra all’uso delle armi dalle più
rudimentali agli archibugi, alle pistole, ai moschetti, armi che commercianti e borghesi avevano
procurato acquistandoli con soldi propri.
I lazzari vengono addestrati ad attaccare ed a fuggire, a concentrarsi ed a disperdersi, ad infliggere
rapidi e violenti colpi, a stancare, a confondere, sfibrare il nemico con una serie senza fine di azioni
imprevedibili.
Occorreva sorprendere gli Spagnoli.
Ma questo non poteva assolutamente bastare. Gli spagnoli, una volta ripresisi dalla sorpresi, ben
armati e ben inquadrati, avrebbero avuto facile gioco dei 400 lazzari. Occorreva che questi non solo
sorprendessero gli spagnoli. Occorreva che questi non solo sorprendessero gli spagnoli, ma li
tenessero in una costante situazione di sorpresa proprio ed esattamente con quelle azioni
imprevedibili. Queste sfibrano, stancano un esercito, giacché un esercito regolare è facilmente
confondibile da azioni rapide ed improvvise, è facile, cioè, scompaginarne le rigide fila, il preciso
ordine di avanzata e di movimento, determinato da precisi comandi: i limiti dell’esercito regolare in
sé.
L’iniziale data del 23. giugno. 1647 dovette essere scartata, perché confidata al Genoino, il
piano fu trovato sere prima ben descritto in ogni dettaglio su vari cartelli.
L’idea del 16. luglio era da scartare necessariamente per il clima di festa in sé della ricorrenza: tutta
la popolazione in Chiesa….
D’altronde non si poteva andare oltre.
Fu così scelta la data del 7. luglio. 1647
Il piano ideato consisteva nel far saltare il rituale pacifico della procedura della compravendita di frutta ed il pagamento della gabella da parte dei commercianti: Ciommo Donnarumma
avrebbe sobillato a non pagare più la gabella sulla frutta, pretendendo che a pagarla fossero i
contadini; questi invece, organizzati e diretti da Mase Carrese ad insistere che a pagarla fossero i
commercianti come sempre.
Era questa una trappola micidiale: coinvolgeva due grandi categorie: i contadini che veniva a
Napoli a vendere la loro frutta all’ingrosso ed i commercianti al minuto: la categoria contadini va
qui ben intesa, essa non comprende solo i piccoli contadini che portano al mercato i loro prodotti,
ma anche, ed innanzitutto, i massari ed i borghesi grossisti, che raccoglievano la produzine
agricola dai più distanti punti del mercato e con propri mezzi provvedevano portarla al mercato,
dopo averla acquistata dai contadini, ossia i commercianti agrari. Insieme ai loro familiari, amici,
parenti costituivano più della metà della popolazione. Tutti interessati alla faccenda della gabella. A
questa trappola il viceré non poteva sfuggire: doveva farsi nemico una delle due e mostrare a tutta la
popolazione che non aveva intenzione alcuna di abolire la gabella sulla frutta.
I propagandisti nei giorni precedenti il 7. luglio sparsero la voce sull’imminenza dell’abolizione
della gabella da parte del viceré, creando così un clima di attesa fiducioso sull’abolizione
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dell’odiata gabella. L’autorità confermando il pagamento della gabella avrebbe anche dovuto
decidere chi tra gli opposti gruppi, dovesse pagarla, inimicandosi uno dei due contendenti. La
gabella sarebbe stata indubbiamente fatta pagare al più debole dei due gruppi ed in questo modo
maggiore sarebbe stato l’odio e la volontà di opposizione.
La mattina del 7. luglio. 1647 Piazza Mercato era ben presidiata dagli uomini della rivoluzione,
armati ed addestrati da Masaniello. Erano stati sparsi in piccoli drappelli per tutti i vicoli che
sfociavano sulla piazza, mentre la maggior parte degli artigiani, in maggior parte con la rivoluzione,
armati di fucili e pistole, nascosti in portoni poco distanti, pronti ad intervenire al segnale. Sulla
piazza c’era un’avanguardia di lazzari costituita gruppetti sparsi un po’ un po’ là, con l’aria
innocente di sfaccendati intenti a giocare a dadi o a carte, ma che in realtà tenevano sott’occhio
l’intera situazione pronti a correre in aiuto e ad avvertire gli altri nei punti in cui si erano nascosti.
Il rituale della compra vendita procede secondo i canoni classici, ma giunto il momento di pagare la
gabella i commercianti, con alla testa Ciommo Donnarumma, sostenevano che se mai si dovesse
ancora pagare la gabella, visto che il viceré intendeva abolirla, dovevano essere i contadini a
pagare; i contadini dal canto loro, con alla testa Mase Carrese, ribadivano che a pagarla dovevano
essere i commercianti. La discussione divenne accesa inframmezzata da scontri violenti tra i due
gruppi, che o inconsapevoli del gioco o immedesimandosi troppo, finivano per scontrarsi ma senza
che alla fine ci fossero vinti e vincitori, giacché a dar man forte a chi in quel momento era in
difficoltà: commercianti o contadini, intervenivano uomini della rivoluzione, ma non appena i
soldati cercavano di intervenire, i due gruppi di contendenti serravano le fila e le davano a sbirri e
soldati.
La gente che intanto accalcava la piazza non parteggiava per nessuno dei due contendenti, giacché
poi alla fine doveva essere la gente che a pagarla e quindi spingeva perché non la pagasse nessuno e
che fosse abolita: anche qui agitatori della rivoluzione provvedevano abbondantemente a dirigere il
dibattito ed a far crescere il movimento di lotta ed opposizione, facendo convergere: commercianti,
contadini e popolo sul punto dell’abolizione della gabella.
Il viceré per primo mandò avanti l’Eletto del popolo Naclerio, che nel giro di poco tempo bruciò
tutta la sua credibilità, commettendo grossolani errori: i suoi sgherri furono affrontati dalla
popolazione e bastonati sonoramente. La massa dei contadini, a cui Naclerio aveva imposto di
pagare la gabella, diretta da Mase Carrese si diresse al palazzo reale dal viceré.
La massa restante diretta da Ciommo Donnarumma, Masaniello ed altri procedette alla distruzione
di tutti gli uffici delle gabelle. Attaccarono il Forte del Carmine conquistandolo, conquistando un
importante punto militare, si impediva l’avvicinamento di qualsiasi nave, essendo in grado di
cannoneggiarla. Da lì partì l’attacco a tutti i posti di guardia spagnoli ed a tutti i forti, depositi di
armi e munizioni, prigioni, ecc.
Il popolo è in armi.
Voi vedete bene, qui, come tutto quel dibattito, che è potuto sembrare astratto, senza senso alcuno sulla
Dissimulazione, Accetto, Bacone, ecc. aveva invece un ben preciso scopo. La rivoluzione borghese italiana del 1647
pone proprio ed esattamente la Dissimulazione a base di tutta l’azione politica.
La forma nella quale viene presentata la rivoluzione è quella di un normale litigio, di una lite tra commercianti e
contadini e quindi nella forma proprio che il nemico voleva e sperava: la divisione del fronte popolare e la guerra tra i
poveri.
Il gruppo dirigente rivoluzionario con grande sagacia politica sa ricomporre quel fronte, nello stesso momento in cui
lavora nella forma a dividerlo, ricomponendo il movimento di lotta in un momento superiore: abolizione della gabella
ove convergono commercianti, contadini e popolo.
Nella fase iniziale il viceré non aveva alcun elemento per ritenere che era una messa in scena: i dati in suo possesso
dicevano che era una lite violenta tra i vari gruppi popolani ed in quanto tale andava sostenuta ed alimentata, per
creare un falso obiettivo ed un punto su cui far convergere, e così disperdere, il momento di tensione.
Ancora.
Scoperto il primo momento dell’inizio dell’attacco, il 23 giugno, il gruppo dirigtente rivoluzionario sa fare un
ottimo bilancio della lotta e sa imparare con maestria dagli eventi che accadono e combinare il piano strategico con
quegli insegnamenti di quegli eventi quotidiani.
I fatti del 3 giugno avevano insegnato, nella loro spontaneità, che una lite, scoppiata in definitiva per futili motivi:
storie di ordinaria oppressione e rapina, poteva sviluppare un grande incendio: la scintilla poteva dar fuoco a tutta la
prateria; che in quella forma di rissa le forze nemiche non sapevano come orientarsi.
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Tutto il piano tattico del 7. luglio. 1647 prende a base proprio questa esperienza: la forma di una lite, di una rissa, tra
due gruppi contrapposti, come scintilla che deve dare fuoco a tutta la prateria, che degenera
La forma nella quale viene presentato l’assalto al cielo consente al nemico di incunearsi in quella crepa ed una volta
avanzato venirsi a trovare in una situazione di assoluto accerchiamento: impossibilitato a ritirarsi ed impossibilitato a
condurre l’attacco.
Il nemico verrà a trovarsi per tutto il periodo della rivoluzione: dicembre 1646-aprile 1648 in questa situazione, che
blocca, imbriglia le sue stesse forze.
Se vogliamo dare una rappresentazione militare a questa tattica essa può essere assimilata alla battaglia di Canne, ove
Annibale offre al nemico un centro debole, consentendogli di attaccarlo in quel punto, una volta che il nemico ha
impiegato le sue forze in quel punto con la cavalleria ed il restante esercito opera un aggiramento chiudendo in una
morsa infernale i romani e massacrandoli.
Infine.
L’intera tattica aveva un punto debole, quello che presentava al nemico: la divisione del fronte di lotta – la rissa tra
contadini e commercianti – si trattava di sviluppare un buon lavoro in grado di ricomporre prontamente il fronte che
si era diviso e questo era possibile lavorando tra il popolo, ponendo a base la parola d’ordine che non si dovesse
pagare per niente la gabella e su questo ricomporre l’intero fronte, facendo trovare così il nemico che in quel punto
era avanzato in una situazione di accerchiamento, avendo subito l’aggiramento, la rapida conversione di direzione di
quelle forze che diversamente erano state disposte nella direzione dell’impatto frontale.
E’ questa veramente una grande esperienza, le forze della trasformazione non la studieranno invano.
Esse devono ripetutamente studiare questa ed altre esperienze rivoluzionarie, impadronirsene e
padroneggiarle con grande dimestichezza.
Il tentativo di bloccare sul nascere il movimento rivoluzionario si articola su due piani:
uno di dare al movimento per capo il vecchio e malandato principe di Bisignano, Tiberio Carafa,
Genoino e Giuseppe Palumbo, nella confusione della prima rivolta antispagnola, messa assieme una
colonna di lazzari, la spinge verso il palazzo del principe, per acclamarlo capo. Ma quegli stesi
lazzari che seguivano Genoino si comportavano esattamente come tutti i lazzari: disarmavano ed
attaccavano i posti di guardia, attaccavano le case dei nobili, mentre solo alcuni scagnozzi di
Genoino gridavano voler Bisignano per capo.
L’altro piano era quello di abolire la gabella sulla frutta ed in parte sulla farina.
Le notizie della diffusione del moto rivoluzionario nei quartieri della città e nei paesi vicini e poi in
tutto il regno erano eccellenti.
La scintilla aveva dato fuoco a tutta la prateria.
La concessione del viceré costituiva, nelle condizioni date, uno sfaldamento dell’intero fronte
reazionario ed un eccezionale impulso alla lotta ed un innalzamento dello scontro e quindi una
maturazione più complessiva del movimento rivoluzionario. La concessione del viceré aveva
ottenuto lo scopo di spingere alla lotta gli strati indecisi ed i più arretrati.
“ Tutte! Tutte le Gabelle”: questa la nuova parola d’ordine del movimento.
In queste nuove condizioni, la manovra Bisignano non solo si era bruciata nelle mani stese degli
ideatori, ma correva ora il pericolo di divenire copertura per un più complessivo innalzamento del
movimento di lotta.
Una situazione veramente pericolosa.
Genoino, Palumbo, i nobili ed il viceré ne rimasero maledettamente impigliati. Bisignano se ne
doveva tirare fuori subito ed a tutti i costi, lasciando a metà strada quanti avevano pur lavorato per
lui e per il viceré. Genoino, Palumbo ed i loro scagnozzi si trovano così a dover fronteggiare la
massa dei lazzari, che essi stessi avevano incolonnato, che intendevano muoversi all’assalto delle
case dei nobili e degli speculatori: ne vennero travolti e per Genoino fu la fine. Consuma qui tutta la
sua credibilità e venerazione, conquistatasi negli anni addietro per la lotta e l’opposizione agli
spagnoli. Non gli resta oramai che essere il sicario della rivoluzione, il prezzolato al soldo spagnolo
contro la rivoluzione: e Genoino compirà fino in fondo la discesa nella vergogna e nel disonore: da
capo stimato, pur con i suoi limiti ed idee strambe, a sicario della rivoluzione.
Una seconda colonna, guidata da Masaniello ed altri uomini della rivoluzione, si recò a Palazzo
Reale e lo occupa. Il re fu preso prigioniero e trascinato fuori dalla carrozza per i capelli da fra
Agostino di Muro, che successivamente, quando gli spagnoli riuscirono a catturarlo, fu assassinato
e qui senza riguardo alcuno all’abito talare e senza che la Chiesa ponesse obiezioni di qualsiasi
natura. Ed anche per lui come per tutti gli altri capi della rivoluzione non una lapide, non un ricorso,
non un monumento o una via per questo eccellente combattente per la Libertà.
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Il e intanto riesce con l’aiuto dei frati e preti vari a sottrarsi al popolo ed a rifugiarsi nel convento di
san Luigi.
Il movimento intanto si espandeva e procedeva alla distruzione di tutti gli uffici di tutte le gabelle,
alla requisizione di armi e munizioni e di depositi e luoghi di depositi di armi e munizioni.
Procedeva nella giustizia contro gli arrendatori, contro i nobili e borghesi che si erano arricchiti con
gabelle e operazioni finanziarie varie distruggendo palazzi ed averi, riducendoli così a nulla tenenti,
distruggendo carte e documenti di proprietà, distruggendo carte di credito e documenti di feudi e di
attestanti servitù, ecc.
Viene così a costituirsi di fatto un dualismo di potere: da una parte il viceré che comandava alcuni
forti, palazzo reale ed un esercito spagnolo ed italiano al soldo degli spagnoli ed il popolo guidato
da Masaniello, Marco Vitale, Donnarumma, Mase carrese, ecc.
§ 2. La rivoluzione
La prima fase: 7-15. luglio. 1647 è caratterizzata da:
1. i capitolati dell’accordo;
2. l’organizzazione militare;
I Capitolati dell’accordo.
Nei capitolati dell’accordo viene espresso chiaramente il programma borghese, tramite il quale
la borghesia dirige l’intero popolo meridionale nella lotta contro il dominio spagnolo.
In quanto tale sono qui espressi i diversi orientamenti ed obiettivi di ciascuna classe costituente il
blocco rivoluzionario, che trovano nei capitolati un momento di ricomposizione e sintesi.
Il dibattito che si svilupperà nella città e nelle province sarà alto, vedrà coinvolto l’intero popolo
meridionale e la cui accettazione da parte dei Capitani del Popolo è espressione del mandato che il
popolo meridionale e la Città affida al governo della rivoluzione.
Nell’intera città si allarga e ferve il dibattito politico, fin nelle sue più delicate pieghe giuridiche,
come la discussione sui Capitoli. Schipa indignato da tanto scrive: “ si vide ogni ignorante farsi
interprete di legge ed ogni monello mutato in giureconsulto”11, ma ciò rappresenta invece la
eccezionale vivacità e vitalità di una esperienza rivoluzionaria, che ha pochi eguali nella storia
moderna. Carlo Denina, storico illuminista, lo coglie appieno:
“ Per tutte le piazze, per le chiese, le botteghe e per ogni angolo di Napoli, ragionandosi
continuamente delle presenti occorrenze di Stato, infiniti sistemi non meno dagli ignoranti che dalle
persone letterate s’andarono disegnando di un nuovo governo da stabilire nella città e nel
regno.”12
L’intero corso della rivoluzione borghese meridionale non è dissimile dal corso di tutte le
altre rivoluzioni borghesi.
Esso si caratterizza per l’unità iniziale della borghesia e della borghesia con i contadini e le masse
popolari, ma nel corso della rivoluzione queste classi si dividono e differenziano, iniziandosi a
profilare intenti ed interessi diversi, propri alla natura delle varie fazioni che compongono la
classe borghese e propri degli interessi delle classi diverse che costituiscono il blocco delle forze
rivoluzionarie. Questo determina da una parte una costante spinta a sinistra da parte delle forze
della piccola borghesia, dei contadini e delle masse popolari a cui si contrappone una tendenza ala
stabilizzazione moderata e moderatrice della ricca borghesia. Le stesse forze borghesi tendono a
manifestare diversità di programma, strategia, tattica, obiettivi ed intenti.
La ricca borghesia ha per obiettivo quello di essere riconosciuta dall’aristocrazia nobiliare, che
vengano abbattuti gli ostacoli che le impediscono di accedere a cariche ed incarichi nello stato, che
ostacolano la sua scalata, al fine di porre lo Stato sotto il suo controllo, controllare l’apparato
economico, politico, amministrativo, militare. Tramite la rivoluzione intende imporre questa
volontà e capovolgere così i rapporti di forza all’interno dello Stato.
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La piccola e media borghesia avanza rivendicazioni più radicali circa lo Stato e la rappresentanza
istituzionale, le terre baronali, la libertà di commercio, ecc. Esse non possono fermarsi quando la
ricca borghesia vuole fermarsi, perché i suoi obiettivi devono ancora essere raggiunti e consolidati.
Le masse popolari avanzano rivendicazioni più radicali: le garanzie personali ed istituzionali, la
libera organizzazione, la parità con le stesse forze borghesi. Esse non possono fermarsi quando la
piccola e media borghesi vogliono fermarsi, perché i suoi obiettivi devono ancora essere raggiunti.
Questo movimento oggettivo delle classi determina quel carattere proprio della rivoluzione
borghese in cui vi è una costante spinta a sinistra, una costante radicalizzazione dello scontro e
degli obiettivi.
Nel corso del processo l’ala destra tende da subito a condizionare l’evoluzione, stando ben attenta
a non perderne il controllo ed a non far avanzare eccessivamente le forze popolari e radicali. E’ la
prima che tende la mano per un rapido accordo con le forze aristocratiche nobiliari e non appena
il movimento prende una direzione radicale, che mette in discussione i vantaggi ed i privilegi che
lei si attende, si stacca ed invoca l’accordo fino a fare corpo unico con le forze della
controrivoluzione per schiacciare la rivoluzione.
La piccola e media borghesia si appoggia al movimento popolare per non essere schiacciata dalla
ricca borghesia; è quella che più direttamente esprime i capi del movimento rivoluzionario.
Il processo rivoluzionario borghese, cioè, si caratterizza per un’ascesa costante delle posizioni
più radicali.
Nel corso della rivoluzione le posizioni intermedie vengono subito bruciate e scavalcate e quelle
più moderate in un costante movimento ascensionale, che sposta il movimento su posizioni sempre
più avanzate, che mettono in discussione le basi stesse della proprietà privata.
Il processo ascensionale viene bloccato con un atto violento della borghesia, che o unendosi
alle forze della reazione abbatte la rivoluzione o con un colpo di stato elimina l’ala più radicale ed
impone la stabilizzazione moderata. Viene ad operarsi così la scissione del blocco che ha dato
origine alla rivoluzione: i borghesi da una parte i contadini e proletari dall’altra.
Questo il corso delle rivoluzioni borghesi: inglese, francese, americana per indicare le principali.
Non dissimile il corso della rivoluzione borghese nel regno di Napoli.
Il programma espresso nei Capitolati esprime e sintetizza bene l’equilibrio tra le varie forze del
blocco rivoluzionario.
Nei capitoli sono sancite le conquiste popolari in primo luogo l’eliminazione delle gabelle; la lotta
antifiscale ha unificato ceti diversi non solo a Napoli ma nell’intero regno: Vi sono l’indulto per i
reati commessi nel corso della lotta ed il riconoscimento dell’armamento popolare, della struttura
militare del popolo fino all’esecuzione dei Capitoli. Il capitolo XX contiene la liberalizzazione del
commercio dei generi alimentari. L’ultimo Capitolo sancisce il diritto di resistenza, riconoscendo al
popolo il diritto di prendere le armi – senza che ciò venga considerato atto di ribellione – in caso di
inosservanza dei Capitoli.
Veniva chiesta la parità di voto popolo-nobiltà.
La libera elezione dell’Eletto del Popolo da parte dei capi di quartiere e non dai Capitani, strumenti
del viceré, libero il popolo e non il viceré di confermarli, in carica per sei mesi e da eleggere in s.
Agostino, chiesa destinata ad assemblea popolare, e così pure i Capitani di strada i Consultori ed i
Deputati da mutare ed in carica per sei mesi.
L’organizzazione militare
Il 7. luglio. 1647 viene costituito l’esercito popolare.
Era formato dalla massa della popolazione armata, cioè dai cittadini dei vari quartieri. Quando non
erano in linea contro gli spagnoli, ma sempre con le “ armi al piede”, nei momenti di sosta bellica,
riprendevano tranquillamente le loro attività. Accudivano alle proprie normali faccende di operai,
artigiani, mercanti, medici, avvocati, giudici. Per non stancare l’esercito, tenendolo sempre in armi,
sempre impegnata alla guardia delle mura e delle porte, il governo rivoluzionario dispose che le
compagnie di quartiere si dessero un turno di allarme in modo che ognuna di esse, in ogni
settimana, non fosse di linea per più di ventiquattro ore di seguito. In questo modo retrovia e riserve
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erano costituite dalla stessa popolazione e dalle sue case e botteghe, dove la gente viveva e
lavorava.
Gli uomini di linea ricevevano ciascuno per giorno di servizio un carlino, due caraffe divino e venti
once di pane.. Il loro compito in caso di attacco era di dare l’allarme e resistere finché il resto
dell’esercito non si fosse disposto in combattimento. Struttura tattica che avrebbe consentito al
governo rivoluzionario di tener testa per un tempo indefinito alle pressioni militari spagnole.
L’esercito in armi era costituito da 114.000 effettivi, organizzati in 114 compagnie di 1000 uomini
ciascuna. Tra queste sono da segnalare due compagnie femminili formate da donne del quartiere
Mercato, Lavinaio ed altri che seppero ben distinguersi, sul piano militare tattico ed
organizzativo, in tutto il corso della guerra di resistenza spagnola e che si distinsero nella
estrema difesa della città nel marzo del 1648.
Venne infine organizzata una cavalleria.
Il governo rivoluzionario seppe ben tenere in considerazione l’esperienza militare e la tenacia
rivoluzionaria dei contadini che si erano tenuti per molti anni in guerra aperta contro gli spagnoli, a
tale scopo venne emanato un appello affinché questi ‘ banditi’ si unissero alla rivoluzione.
Da questo momento la storia del Regno di Napoli è la storia della lotta mortale tra la
popolazione armata, il suo governo popolare, distinto e contrapposto a quello spagnolo.
Il governo rivoluzionario esercitava il suo potere su tutto il territorio del regno di Napoli , aveva un
esercito, un ordinamento giuridico. La bandiera della governo rivoluzionario era la bandiera rossa
e nera.
§ 2.1 Lo sviluppo rivoluzionario del movimento
e le risposte della controrivoluzione.
Lo sviluppo del movimento.
Il primo atto del governo rivoluzionario fu la compilazione di una lista di 60 tra nobili e
borghesi che si erano arricchiti, decretando la requisizione delle ricchezze, l’abbattimento dei loro
palazzi e ville e la morte.
Sin dal 7 luglio, inizio della rivoluzione borghese e della guerra di resistenza alla Spagna, il
movimento si sviluppa in tutti i casali della città di Napoli. Piacente attesta come non vi fu subito
città e terra del Regno che non si sollevasse. Ovunque furono incendiate le case, uccisi i baroni e
requisiti i beni. In Calabria i nobili di Cosenza furono quasi tutti uccisi. Nella provincia di Lecce
non vi fu da meno. A Bari il capo della rivoluzione fece di tutti i nobili in catene un corteo.
Nelle altre province del regno dove i baroni riuscivano a mantenersi i contadini e la popolazione si
rivolsero al governo rivoluzionario perché intervenisse: fu nominato Onofrio della Pia, Vice
Generale per le cose del regno, messo a capo di due compagnie bene armate con il compito di uscire
da Napoli come forze mobili in sostegno dei popolani ovunque ne avessero avuto bisogno contro i
baroni e gli spagnoli.
La controrivoluzione.
Sin dal primo momento la prima risposta della controrivoluzione fu l’utilizzo della Chiesa, che
rivelerà qui tutta la sua funzione di forma organizzativa della tattica spagnola.
I primi a mobilitarsi furono i padri teatini che inscenarono una processione per la città al fine
di sedare il tumulto. Essi si mossero da due delle sei chiese in loro possesso: dalla s. Paolo e dalla
dei ss. Apostoli; dalla s. Paolo per via Toledo passando dinanzi alla chiesa di s. Luigi, ove si
conservava il “ purissimo latte della Santissima Vergine”; ed i secondi dalla chiesa di s. Luigi per
altre strade popolari fino a Piazza Mercato, entrando nella chiesa del Carmine. Seguirono i Gesuiti
con processioni e ovunque nelle chiese i predicatori inveivano contro i tumultuanti implorando su di
loro la grazia divina e simili sconcezze. Tutti: Teatini, Gesuiti e le restanti fraterie, di numero
sconsiderato, confluirono verso Piazza Mercato. Ne rimasero fortemente delusi, giacché qui furono
affrontati dal popolo in lotta. Il De Santis riporta “ Andate pure padri a fare orazioni nelle vostre
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chiese. Mai usciste in processione perché non si mettessero le gabelle, ora che si tratta di levarle,
ne state a rompere il cervello con queste litanie. Andate via e farete bene.” E sempre il De Santis
riporta che a tali parole “ i buoni padri stimarono aver soddisfatto al debito dell’ufficio loro e
grandemente attoniti, si dileguarono.”. Il Donzelli allo stesso modo riporta i fatti esposti.
Il cardinale Filomarino dal canto suo ordinò sempre il giorno 7. luglio. 1647 che venisse
esposto in molte chiese della città il santissimo sacramento, sarebbe il calice con l’ostia. Il cardinale
Filomarino ordinò anche che venisse esposto il sangue del vescovo di Benevento, che prontamente
si liquefece, fuori stagione e non richiesto, ed in tale stato vi rimase per tutto il periodo della
rivoluzione, a testimoniare che il santo non gradiva quello stato presente delle cose, ed in quello
stato istette fino alla pasqua del 1648, ossia fino a quando la rivoluzione non fu soffocata nel
sangue, ossia fino a quando l’ordine spagnolo, e le gabelle con esso, non fosse stato ristabilito.
Il cardinale Filomarino, visto che il viceré aveva perso il controllo della situazione e che teatini,
gesuiti, frati cappuccini, e fraterie varie non erano state in grado di fermare il tumulto e le risposte
ferme e le minacce, intervenne in prima persona, cercando disperatamente di cavalcare la situazione
ed ascrivere meriti a sé affinché potesse essere in grado di avere ancora voce in capitolo presso il
popolo. Insieme a tutti i preti ed i frati della città di Napoli convenuti ordinò alla presenza di tutti
che si andasse a demolire tutti i posti di riscossione delle gabelle e che sin dall’indomani fosse
aumentato di peso il pane e miglioratene la composizione. Il Cardinale in verità mandò i suoi a
controllare se per caso ve ne fosse rimasto qualcuno ancora in piedi dei posti per la riscossione delle
gabelle e per quanto riguarda il pane la modifica introdotta era assolutamente insignificante. Era più
azione di propaganda, più fumo nell’occhio, populismo di bassa lega che azione concreta, ma
questo è indice assai indicativo dello stato grave in cui si venivano a trovare le forze della
controrivoluzione se il cardinale Filomarino si vide costretto a sopperire a ruoli e funzioni del
viceré; ma questo è assai indicativo del grado di integrazione della curia romana con il potere
spagnolo.
Cosa sostanzialmente non dissimile era già accaduta in Milano nei moti del 1628, come riporta il
Manzoni ne “ I Promessi Sposi”:
“ Tutti i monsignori del duomo, in processione, a croce alzata, in abito corale, e monsignor
Mazenta, arciprete cominciò a predicare da una parte e monsignor Settala, penitenziere dall’altra e
gli altri anche loro: ma brava gente ma cosa volete fare? è questo l’esempio che date a’ vostri
figlioli? ma tornate a casa; ma non sapete che il pane è a buon mercato, più di prima? ma andate a
vedere, che c’è l’avviso alle cantonate.” 13
Stessa ed identica scena in Sicilia.
Qui nel maggio 1647 le maestranze artigiane si erano impadronite di Palermo, dove al primo
impatto si dissolse l’intero apparato: viceré, nobili e borghesi arricchiti erano semplicemente
fuggiti. Restò all’arcivescovo Trasmiera, spietato fanatico e non meno crudele inquisitore, condurre
in campo le sue spietate spie della Santa Inquisizione assieme a frati, preti, monaci, che usciti da
chiese e conventi, organizzati in veri e propri reparti armati, teatini a gesuiti sempre in testa.
Si interposero tra le forze militari spagnole ed il popolo, innalzavano altari proprio dove il
movimento popolare mostrava di dirigersi; esponevano i santissimi sacramenti, mettendosi a dar
messe nei punti minacciati, minacciando scomuniche, inferni e dannazioni varie a chi osava
avanzare.
E così a Napoli la prima ondata popolare fu fermata con l’intervento della curia romana.
Il giorno seguente l’8. luglio. 1647, essendo falliti i tentativi del viceré di spacciare per vero un
falso privilegio di Carlo V, il movimento, guidato e diretto dai rivoluzionari, cresce di tono. Suonata
la campana del Carmine a martello il popolo è chiamato alla lotta. Le forze spagnole sono
ininfluenti, di nuovo i domenicani in processione cercarono di fermare il movimento, ma il
domenicano che con la croce apriva il corteo fu affrontato da un popolano, che, trattenuto, non fu in
grado di attuare appieno quanto era nella volontà di fare, e così i domenicani a passo veloce
ritornarono al loro convento.
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L’ATTENTATO.
Mercoledì 10. luglio. 1647 è convocato da Masaniello, che il giorno precedente era stato eletto
Capitano Generale del Popolo, la massima carica del governo rivoluzionario, su insistenza del
Cardinale Filomarino, l’assemblea generale per l’approvazione da parte di tutti i capitani del popolo
dei capitoli concordati.
I capitoli erano stati concordati la notte tra il 9 ed il 10 luglio nella chiesa del Carmine, negli
appartamenti del Generale dei Carmelitani. La delegazione trattante era costituita per gli spagnoli
da: il cardinale Filomarino, Genoino ed alcuni avvocati; per la rivoluzione tutti i membri del
governo.
Il pomeriggio del 10 luglio piazza del Carmine vide una massiccia partecipazione popolare: una
massa enorme, che costituiva, riportano i cornisti dell’epoca, una fitta muraglia impenetrabile che
dalla chiesa del Carmine occupava più della metà dell’intera piazza.
Non appena Masaniello inizia a salire sul pulpito, dove doveva leggere i capitolati dell’accordo è
fatto segno da cinque colpi di arma da fuoco, che andarono a vuoto. Subito dopo le campane del
Carmine suonarono a morto, dovevano annunciare la morte di Masaniello e costituire il segnale
dell’aggressione armata delle forze reazionarie italiane e spagnole: baroni, nobili, borghesi
arricchiti; l’inizio del massacro commissionato dai Barberini, i Borgia, i Farnese, i Colonna, i
Piccolomini, gli Aldobrandini, i Grimaldi, i Carafa, i Gonzaga, i Doria, gli Spinelli, i Savoia, e tutta
la canea accattona e miserabonda dell’italica stirpe nobiliare e borghese.
Banditi a cavallo ed a piedi attaccano la folla: era scattato il piano per il massacro. La maggior parte
dei capi erano in chiesa, in trappola.
Cinquecento banditi confluiscono subito su piazza mercato, altri provenienti in ordine ben studiato
da tutte le altre direzioni in modo da chiudere ogni via di scampo.
La risposta popolare è immediata. L’attacco viene immediatamente respinto ed iniziata la pesante
ed inesorabile controffensiva rivoluzionaria, il che dimostra la validità dell’organizzazione politica
e militare e le doti militari dei capi militari.
I banditi presi vivi sono costretti a confessare, rivelando cose atroci.
Sin dalla sera, mentre era in corso l’incontro per stendere i capitolati, cinquecento banditi armati,
ben ordinati e divisi in squadre, si erano distribuiti nelle chiese attorno piazza Mercato, in agguato,
pronti a confluire per il massacro al segnale della campana a morto.
Il fatto che nessuno li aveva visti sta ad indicare che erano tenuti, 500 banditi, ben nascosti nelle
celle, nei corridoi, nelle sale interne; tutti luoghi chiusi alla vista del pubblico.
Micaro Perrone, capo dei banditi, e suo fratello Gregorio sono stanati nella cella di un carmelitano.
Confessa Perrone essere il duca Maddaloni uno dei mandanti, ma confessa cosa evidente, essendo
egli uomo del Carafa. Confessa che la chiesa era stata minata con ventotto barili di barile, un’altra
mina con molti barili di polvere era stata collocato sotto il convento del Carmine: la strage!
L’offensiva rivoluzionaria è ferma: conventi, chiese vengono messi a soqquadro ed ovunque
vengono stanati banditi e qui giustiziati.
Il cardinale Filomarino viene stanato con il fratello assieme a capi della congiura.
Alla vista dei popolani in armi, distribuisce benedizioni il Filomarino invitando alla calma; nascosto
con lui stava Antino Grassi, che si stringe ai piedi del Filomarino per chiedere protezione, lo scaccia
il cardinale. Grassi, sperando di aver salva la vita, confessa:
“ Guardatevi dalle chiaviche, perché vi è stata riposta quantità di polvere da far saltare tutto per
aria.”
Non solo la chiesa del Carmine ed il convento erano stati minati per massacrare lì sul posto la folla
convenuta per i capitolati, ma l’intera piazza Mercato era stata minata e per farla saltare si attendeva
l’arrivo di una nuova ondata di banditi, che doveva confluire su Napoli per completare il massacro,
dopo aver fatto saltare il centro della rivoluzione, i simbolo della rivoluzione: l’intero Quartiere
Mercato.
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Un altro bandito catturato in cambio della vita rivelò: che la notte sarebbero dovute venire
compagnie a cavallo, che sarebbero fatte entrate come i precedenti 500 banditi, nascosti cioè in
chiese conventi, e distribuiti per la città avrebbero dato fuoco alle mine poste sotto piazza Mercato
per dare inizio alla seconda ondata del massacro. Vengono trovate 15 mila libbre di polvere
collocate sotto piazza Mercato determinando così la morte quanto meno più di 50 mila persone, il
resto l’avrebbero fatto le squadracce del Filomarino, del viceré, dei baroni e dell’aristocrazia
nobiliare italica.
Altri banditi confessano il crimine peggiore ordito dalla canea reazionaria:
le acque sotterranee che servivano la popolazione dei quartieri popolari erano state tutte avvelenate.
Un piano criminoso ideato ed attuato al fine del massacro di tutta la popolazione della città di
Napoli: era “ l’estinzione per via di sangue” di machiavelliana memoria applicata su larga scala, a
tutto il popolo napoletano.
Questo obiettivo dell’estinzione per via di sangue sarà l’asse centrale di tutta la strategia spagnola e
di tutta la reazione, che ne determinerà tutta la condotta politica e militare, come vedremo nel
prosieguo: per ora fermiamo qui questa direttiva strategica delle forze reazionarie.
Non bisogna mai dimenticare che quando si parla di forze reazionarie si parla di ben precise ed
esatte forze, di ben precise ed esatte casate, di ben precisi ed esatti nomi, che non sono solo quelli
meridionali, ma quelli di cui si è discusso all’inizio: genovesi, lucchesi, fiorentini, ecc.
Gli spagnoli e la curia romana in verità non erano insoliti nell’attuare queste pratiche di feroce
sterminio di massa. Le avevano già abbondantemente sperimentate.
Nel corso del Cinquecento, in piena controriforma, intere popolazioni come gli albigesi, i valdesi di
Calabria, gli ugonotti in Francia vennero sterminati in massa. In Calabria nel 1561 interi villaggi
vennero bruciati, intere popolazioni assassinate con il fuoco, con la tortura, con decapitazioni di
massa. Non si risparmiarono le più atroci torture: unti di resina e poi bruciati vivi, scorticati vivi e
poi diviso il corpo in due parti, ecc. In generale l’Inquisizione, che non è riconducibile soltanto alle
esecuzioni capitali per rogo degli eretici, procurò non meno di 700 mila morti in Europa, oltre le
decine di milioni di morti delle popolazione dell’America Latina.
Ma torniamo ora all’attentato.
Giuseppe Carafa è stanato ben nascosto nel monastero di santa Maria la nova. Qui Onofrio
Brando con un sol colpo del lungo coltello che aveva con sé gli taglia la testa. La testa del Carafa
assieme a tutti i banditi che con lui sono catturati ed uccisi sono posti su picche.
In generale le teste tagliate venivano poste su picche ed esposte, alcune venivano inchiodate ai
portoni dei loro palazzi o ai portoni delle chiese ove venivano scovati.
La testa ed il piede di questo barone sono posti in una gabbia di ferro e così appesi sotto porta san
Gennaro: il piede stava ad indicare un fatto avvenuto tempo addietro: il barone aveva voluto
umiliare un popolano costringendolo a baciargli quel piede, ora ben esposto, a faccia per terra.
La sera del 10 luglio un nuovo attentato. Ma anche questo va a vuoto.
L’ASSASSINIO.
L’11. luglio. 1647 mentre si reca in corteo dal viceré pronuncia un importante discorso, che
mostra bene la natura rivoluzionaria di questo eccezionale capo.
Da questo traiamo alcuni brevi stralci:
“ Inoltre se non fossi stato costretto un’ora fa da Sua Eminenza – il cardinale – con il tenace
vincolo di un precetto ed atterrito con lo spaventoso fulmine della scomunica a vestirmi dei vestiti
che porto addosso, mai avrei deposto gli ordinari miei stracci di marinaio, perché tal io nacqui, tal
vissi e tal anche vivere, e morire pretendo. Dopo la pescagione della pubblica libertà, che io farò
nel tempestoso mare di questa afflitta Città, tornerò alla primiera di pescare e vender pesce senza
riservarmi neppure un puntale di strenga per la mia casa. Pregovi dunque, giacché altro non
chiedo, che quando io muoio mi vogliate dire ciascuno di voi un’Ave Maria…”
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In chiusa Masaniello esterna i suoi timori di una trappola o.. ed invita il popolo a seguire la strada
della lotta, a non deporre le armi qualsiasi cosa accada; indica infine al popolo la via da seguire,
tracciandone le linee tattiche, dopo un’analisi delle classi ed i movimenti oggettivi di queste.
“ voglio darvi un avvertimento: non lascite le armi fintanto che non venga dalla Spagna la
conferma delle ricevute grazie, e Capitoli del Re nostro Signore. Della nobiltà non ve ne fidate
punto, perché son traditori e nostri nemici. .. Io vado a negoziare con Sua Eccellenza e fra un’ora
mi rivedrete o al più tardi domattina; però quando di mattina non sarò da voi, mettete a fuoco e
fiamme tutta la Città: non me ne date tutti parola? Di quanto ha finora fatto Sua Eminenza, ne ha
grandemente gustato, perché sebbene le Gabelle sono levate, Sua Maestà però non ha niente
perduto; ha bensì fatto perdita di questa nobiltà nostra nemica; impoveriti si sono, e ritornati alla
loro primiera mendicità gli ingordi lupi, e voraci affittatori, e partitari, compranti e vendenti il
nostro sangue, e che questi perdano è gloria di Dio, servigio del nostro Re e pubblico beneficio
della Città e Regno di Napoli. Ora più che mai sarete vero Re di questo Regno, Re Filippo. .. quel
che d’ora innanzi gli sarà donato sarà tutto suo, e non come prima, che donandogli tesori,
svanivano come in fumo: perciò è tanto il gusto del Sig. Viceré di quel che noi si è fatto e si fa
quanto se per l’appunto vedesse i suoi nemici tutti distrutti.”
Così commenta Vittorio Dini:
“ Colpisce, innanzi tutto, la forza del richiamo ad un valore così profondo e poco consueto, perfino
nella riflessione politica più alta: la libertà. Non a caso Bacone, la più alta intelligenza europea,
vedrà in Masaniello il simbolo della libertà.”14
Ed in verità le innovazioni apportate alla teoria politica da Masaniello sono profonde e sono
testimoniate dai bandi da lui firmati. Il punto che colpisce è il superamento del concetto del suddito
e l’affermazione, in atti ufficiali, del concetto del citoyen, I bandi infatti introducono questa nuova
dizione:
“ si ordina e si comanda a qualsivoglia persona di qualsiasi stato, grado e condizione si sia”;
ove secondo questa formulazione tutti i sono ritenuti uguali ed in quanto tali soggetti tutti allo
stesso modo al rispetto delle leggi, vi è cioè la parificazione dei diritti e dei doveri, non più stabiliti
secondo il censo, ecc. Ed infatti la formulazione è precisa, scientifica, “ qualsiasi persona di
qualsiasi stato, grado e condizione si sia”: è il citoyen appunto.
Questo dà ben il segno dell’altezza a cui era giunto il movimento rivoluzionario sin dai suoi
primi giorni, che fa ben intendere che esisteva tutto un dibattito ed una elaborazione teorica e
concettuale precedente, che innervava dentro il più complessivo dibattito teorico europeo come si è
visto. In una sezione specifica affronteremo il dibattito e la produzione teorica sviluppatasi nel
corso della rivoluzione borghese del 1647-48, che renderà bene tutto il carattere di rivoluzione e
non moto o tumulto.
Fallito il tentativo di Bisignano, messo in un angolo Genoino, fallito l’attentato occorreva
abbattere assolutamente Masaniello.
Il movimento rivoluzionario si era spinto troppo oltre, aveva raggiunto i confini dello stato romano
e movimenti cominciavano anche lì a serpeggiare; aveva raggiunto la Francia, l’Olanda,
l’Inghilterra; aveva messo in ginocchio la Spagna nelle trattative di Munster, che preparavano il
trattato di Westfalia del 1648, con il quale si chiudeva la Guerra dei Trent’anni.
Il re di Spagna ed il viceré con tutta la loro estesa e capillare rete di spie, provocatori,
confidenti, ruffiani si erano fatti miseramente giocare dalla sottile arte della “ Dissimulazione”,
messa in atto dal gruppo dirigente rivoluzionario.
Il re ed il viceré avevano finito per essere rimasti impigliati in quella stessa rete di spie e ruffiani,
che essi stessi avevano così ben tessuto e sonoramente e beffardamente battuti sul loro terreno
principe: la Dissimulazione.
Nella fitta rete di congiure e congiurette tramate dai vari baroni e cardinali, legati alla Francia ed
all’Inghilterra, che cercavano di controllare, infiltrando spie e manovrando, avevano finito per
perdersi essi stessi in quei meandri. E così quella fitta rete aveva svolto oggettivamente il ruolo di
cortina fumogena, di distrarre l’attenzione dal pericolo vero. L’insulsa ottusità baronale aveva
impedito di comprendere che un moto rivoluzionario poteva avere un centro diverso dai baroni;
aveva impedito di vedere i processi reali nuovi e la fondazione di una nuova Scienza della Politica
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con nuovi protagonisti ed il superamento del concetto di plebe e suddito da accattivare con lancio di
monete tra la folla o con elargizione di viveri; aveva impedito di cogliere la formazione di una
nuova coscienza civile e quindi di una nuova e più alta dignità dell’uomo, che la rivoluzione
borghese portava con sé: il citoyen appunto; aveva impedito di cogliere il superamento del vecchio
rapporto dominati-dominanti.
Si erano così! persi in quella fitta rete e giocati beffardamente proprio da quella fitta rete. Quando il
movimento rivoluzionario inizia a prendere corpo: il 26. dicembre. 1646 e fino al 7 luglio. 1647,
pur avendo le maggiori forze impegnate altrove e dislocate esigue nel regno di Napoli, pur tuttavia
non impegnarono da subito quelle che avevano a loro disposizione, che concentrate nel punto vitale
avrebbe represso sul nascere il movimento; avrebbe sopraffatto le forze rivoluzionarie in via di
ulteriore accumulazione, che avverrà proprio nel corso della fase che va dal dicembre 1646 al
maggio-giugno 1647. Non lo faranno per il timore che dietro quel movimento vi fosse qualche setta
congiurante, il cui intervento avrebbe finito per regalare quel movimento plebeo ai francesi o agli
inglesi.
Essi non potendo concepire un qualche movimento autonomo alla plebe ed al popolo, ritenevano
che solo i baroni potevano essere centro propulsore di un qualche movimento politico.
Finzione ben studiata fu la scelta di Masaniello, pescivendolo, quale capo; finzione ben studiata
quella di dare al movimento un carattere di moto plebeo, questuante, in pieno stile di tutte le
precedenti sommosse plebee, proprio al fine di “ Dissimulare”, coprire il vero centro dell’attacco,
per coprire l’intero schieramento delle forze rivoluzionarie in campo e consentire a questo da una
parte di rafforzarsi accumulando nuove forze e dall’altro di dispiegarsi secondo i tempi e le
necessità del procedere del movimento rivoluzionario. Neppure dopo il 16. luglio. 1647 re e viceré
intuirono la vera portata dello scontro, ma intuirono dai capitolati quanto bastava per serrare le fila e
scatenare la controrivoluzione armata.
La logica dell’assassinio se in generale è l’espressione di uno stato di disperazione e di depressione,
nel caso specifico è la conferma dell’ottusità spagnola, baronale ed ecclesiastica di capire che dietro
esisteva un autentico gruppo dirigente rivoluzionario, un intellettuale collettivo, che sapeva guidare
il movimento in avanzate e ritirate per i tortuosi sentieri e le inesplorate vie della rivoluzione. Erano
convinti che abbattuto Masaniello avevano abbattuto la rivoluzione e si trovarono, dopo il 17 luglio,
una situazione ben più grave. E non erano serviti spie, ruffiani e provocatori: in abito talare o civili;
non erano servite neppure le intelligenze della curia arcivescovile, la raffinata esperienza della curia
romana per intelligere il movimento reale.
Grande era il prestigio e l’affetto che Masaniello si era conquistato sul campo, occorreva non
tanto e non solo uccidere Masaniello, ma screditarlo e l’assassinio essere opera, così doveva
sembrare, di popolani che abbattono il tiranno.
Testi documentari ben studiati, analizzati ed esposti da Rosario Villari e Vittorio Dini dimostrano
ampiamente la cricca che agì da mandante: il viceré, Genoino ed il cardinale Filomarino, a nome e
per conto della curia romana. Lettere, documenti, presso gli archivi della corona spagnola e del
Vaticano, analizzati ed esposti da Villari e Dini, attestano e provano la responsabilità diretta e
soggettiva di Filomarino e Genoino, oltreché del viceré.
Il piano è quello di dare di Masaniello un immagine di pazzo, reso arrogante dal potere: il plebeo
che resta accecato dal contatto con lor signori. A tal fine Filomarino aveva insistito perché
Masaniello indossasse quell’abito per il corteo che si recava dal viceré e che Masaniello nel suo
discorso ben spiega: ma comincia già da lì il piano della pazzia.
A tal fine viene somministrato nel vino una droga: la Rauwalpia Serpina, un allucinogeno.
Occorre considerare che all’epoca era pratica consueta questa di droghe e veleni: preti, monache,
principi e sovrani ne facevano uso quotidiano quale strumento per eliminare avversari: nota ed
elevata a simbolo dell’epoca e la Borgia. Nelle corti italiane e spagnole se ne trovavano di varie
specie ed esisteva una cultura specifica e ben addottorata in merito a cui si poteva attingere a piene
mani: c’era solo l’imbarazzo della scelta. Occorre infine considerare che gli europei, e gli spagnoli
in modo particolare all’epoca, entrarono in contatto con tutta la cultura indios e quindi con le
droghe latino-americane: mescalina, ecc. che aveva ben arricchito la loro cultura in merito.
Esistevano quindi materialmente queste droghe, era pratica diffusa l’uso come arma politica ed
esisteva una cultura approfondita in merito.
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Dai resoconti delle cronologie dell’epoca si evince chiaramente lo stato allucinogeno nel quale si
trovava Masaniello domenica notte ed il lunedì 15. luglio. Resoconti parlano di notte insonne,
agitata, sudorazione profonda, brividi, tremori, ecc.; parlano cioè di una chiara situazione
confusionale: perdita della dimensione spazio-tempo, stati di esaltazione che si rapidamente si
alternano a stadi di profonda depressione, paure e timori esagerati.
L’assassinio matura nel più generale clima festoso della raggiunta sottoscrizione dei Capitolati.
Errore mortale questo commesso: la vigilanza deve aumentare, essere più rigida e ferma proprio nei
momenti di vittoria ed essere sfruttati questi per abbattere i nemici e liquidare spie, provocatori,
infiltrati, che possono costituire testa di ponte in un momento di difficoltà, che deve sempre essere
previsto nel corso di una rivoluzione.
Nella notte di domenica 14 luglio gli spagnoli piazzavano cannoni e Doria riceva l’ordine di tenere
Napoli con le sue navi sotto il tiro dei suoi cannoni. Vengono armati uomini in previsione
dell’assassinio, segnale per un nuovo assalto, per il massacro. Ma la quasi totalità degli armati dal
viceré e da Filomarino si rivelarono infidi, rivolgendo le armi che avevano avuto contro spagnoli,
curia e nobili.
Marco Vitale è assassinato la notte del 16 luglio.
Il 17 luglio viene assassinato da banditi Masaniello: la testa viene separata dal corpo, che viene
gettato via.
Il popolo e l’intero gruppo dirigente, mostrando ancora una volta una salda organizzazione ed una
formidabile unità politica e morale, si riebbero subito. . Gli sgherri lanciati all’assalto dopo
l’assassinio vengono prontamente affrontati e massacrati.
Nel pomeriggio in armi reclamarono il corpo di Masaniello e ricongiuntolo alla testa mossero il
corteo funebre. Imposero i funerali di Stato e Filomarino, sotto la punta delle baionette, celebrò il
funerale di Stato imponendo la presenza di tutto il clero; fecero poi passare il corteo funebre dinanzi
Palazzo reale imponendo il presentar armi alle guardi spagnole.
Così Capecelatro15
“ Unita la testa al corpo, fu recato in processione con molti lumi alla Chiesa del Carmelo,
collocandolo nobilmente innanzi l’altare maggiore,.. . Conchiusero finalmente di seppellirlo con la
maggior pompa funebre che potuto avessero, onde giti al Cardinale, ottennero da lui, che sotto
certa stabilita pena, vi dovessero andare tutti i preti della città con torce accese, i quali radunatisi
al Carmelo in numero di ben quattromila, si avviarono due ore prima del tramontare del sole,
precedendo innanzi da cento figliuoli di quelli che si allevano nella chiesa di santa Maria di
Loreto…
Portavano il feretro, ed i lembi della coltre i capitali e gli altri capi di guerra e molte compagnie di
soldati , strascinando le bandiere per terra, con le armi al rovescio, ed i tamburi scordati,.. .
Comandarono anche i popolari, che si mettessero lumi in tutte le finestre, acciò splendendo la notte
come fosse stato giorno. Sonarono le campane di tutte le chiese ove passava. Portarono il corpo ..
per tutti i sei Seggi della città, cioè Capuana, Montagna, Nido, Porto, Portanova e Popolo, ed in
ciascun quartiere , sempre increscendo in passare in ordinanza militare le compagnie abbattevano
le armi al passaggio. Passa poi per la piazza del Palazzo.. , e giunto al principio della strada del
Porto, ove stava di continuo di guardia un’intera compagnia di Spagnoli, stante capitano Giovanni
d’Erbias, i popolari gli dissero che insieme ai suoi soldati avesse volto le armi al rovescio
passando il mortorio. La magnificenza dell’esequie, quando non da altro, si può conoscere dalla
lunghezza del tempo che durò; perché essendo uscita dalla chiesa del Carmelo alle ventidue del
giorno vi tornò alle tre della notte ….”
Così Donzelli.16
Così De Santis, che non si discosta dalle precedenti cronache, aggiunge:
“ Finì questo furore con l’arsione di tre case fornai contumaci e fu la prima quella di Salvatore
Cataneo, nel cui incendio fu visto gittare una gran quantità di zecchini. Cercavano di lui per
ucciderlo, chiamandolo parricida per aver ucciso Masaniello; ma già al primo odore di questo
tumulto s’era egli posto in salvo.”17
Così Piacente, che ribadisce le precedenti testimonianze dei cronisti e così descrive la parata
militare: “ strascinando le bandiere per terra e sonando tamburi non meno scordati che coperti di
negro, il suono feriva con tanta pietà gli animi degli astanti che pochi furono coloro che quella
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pompa non onorassero con il pianto. Infine fu l’esequie così maestosa che non potrebbero con
apparenze più grandiosei funerali del Primo Monarca del mondo celebrarsi.”18
Tutto imposto dai popolani, come scrive il Nunzio al Papa, descrivendogli appunto il fastoso e
regale funerale.19
Infine il De Santis riferisce che i popolani recatisi sotto la reggia così gridarono:
“ che tra di loro era più di un Masaniello del medesimo ardore, e forse di migliore condotta, con il
cervello intero e non tocco dalle fraudolenti bevande, e che non si dessero ad intendere di aver
vinto il gioco con la morte di Masaniello.”.20
Così infine il viceré nella sua lettera al re di Spagna 23. luglio. 1647:
“ Si è manifestato rammarico per la morte di Masaniello, tanto che il giorno 17. luglio hanno
portato il suo cadavere per la città, unendo la testa al corpo.. . La loro insolenza è arrivata al
punto che l’hanno portato a seppellire nella stessa notte con quelle cerimonie che si usano per i
generali defunti, facendo passare il corte funebre davanti alle finestre del Palazzo. ”
§ 3. Ripresa del movimento rivoluzionario
Il 26 agosto, quaranta giorni dopo, al viceré fu imposto con la forza delle armi di riscrivere i
Capitolati, ed il 7 settembre di rigiurarli, aggiungendone due ove si perseguitava a morte al presente
e per le generazioni future Genoino e gli assassini di Masaniello.
In specifico i Capitolati in questione così recitavano:
“ 2. Item. che il presidente della Regia Camera della Summaria Giulio Genovino sia privato del suo
carico di Presidente, e Vicecancielliero, e così anche il Giudice Giuseppe Santovincenzo ( nipote di
Genoino, nda ) sia privato di Giudice di Vicaria e fra Luca Genovino ( altro nipote di Genoino,
nda) sia finalmente privato del carico di Capitano di cavalli e che li sopraddetti, Giulio, Giuseppe e
fra Luca siano disterrati ( cacciati dal regno e privati di ogni bene ) dal presente Regno, insieme con
tutti i loro discendenti di linea mascolina in infinitum, eccettuato le figlie femmine, e discendenti di
linea femminina; e né essi, né detti discendenti di linea mascolina, ut sopra, possano mai
rimpatriare, né ottenere gratia, ne anco da S. M. Cattolica, e nel suddetto termine di un mese
debbiano sfrattare dal presente Regno, sotto la stessa pena della vita per aver macchinato falsamente
contro detto fedelissimo Popolo di Napoli e Regno, il che è notorio a detto fedelissimo Popolo; e li
parenti di linea mascolina di detti Giulio, Giuseppe e fra Luca fino al quarto grado, computando de
jure Canonico, non possono esercitare Offici Regii di questa fedelissima Città e Regno, così di
giurisdizione, d’amministrazione, come di cose pubbliche…”
Sentenza severa ed inequivocabile sul ruolo di Genoino.
Ma quello che qui deve maggiormente attirare la nostra attenzione è la precisa, esatta, formulazione
giuridica, il che presuppone un apparato di giureconsulti profondi ed attenti conoscitori della
giurisprudenza civile, penale e canonica dell’epoca.
“ 17. Item, che Salvatore e Carlo Cataneo, Angelo Ardizzone, Andrea Rama ed altri declarandi (gli
assassini ancora non scoperti, ma di cui si era ancora aperta l’indagine giudiziaria, nda )per la
Piazza del detto fedelissimo Popolo siano nel predetto termine di un mese disterrati dal presente
Regno e che mai possano essere agratizati, etiam da S. M. Cattolica, e ritrovandosi ciascheduno di
essi per il Regno, incorrano ipso facto nella pena di morte naturale, e si possino impune occidere; e
di loro discendenti in infinitum di linea mascolina non possino godere di Offici regii, né Baronali di
questa fedelissima Città e Regno, stante che furono macchinatori della morte di Masaniello … .”21
Sentenza severa ed inappellabile e che sancisce sul piano giuridico formale quanto sul piano
politico era stato inappellabilmente stabilito.
Ma anche qui l’attenzione va fermata sulla esatta formulazione giuridica, che rimanda anche qui ad
un apparato di giureconsulti in grado di esporre in termini giuridico-formali la sentenza e di
trasporre sul piano giuridico-formale quanto il piano politico aveva inappellabilmente stabilito.
Ma c’è qui un altro punto da fermare, presente anche nel precedente Capitolato, ma qui formulato
con maggiore nettezza: quello di negare a discendenti Uffici Regi e titoli di baronaggio. Si
impedisce in questo modo al viceré di remunerare comunque gli assassini. La rilevanza politica di
questo è enorme: si attesta cioè che il viceré ed il re di Spagna non sono in grado di garantire quanto
promettono e che il fatto di agire a nome e per conto del re non comporta impunità e certezza del
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godimento del premio, ma quantomeno incertezza e quindi rischio. Re e viceré ma anche la curia
romana è clamorosamente sconfessata nella garanzia di impunità. Entrambi re e curia danno qui un
segnale tremendo di debolezza di non essere in grado di garantire i loro fedeli servi e di scaricarli.
Il tentativo, riprendendo l’esposizione cronologica, di porre Genoino alla testa di tutto il
movimento fallisce miseramente: Genoino consuma fino in fondo il suo tradimento, fino alla più
plateale manifestazione di servilismo ed accattonaggio, come si vedrà nella lotta dei tessitori, che
condurrà poi il governo ed il popolo a quella sentenza severa ed inappellabile di cui si è riportato il
Capitolato.
Il movimento rivoluzionario riprende la usa marcia in avanti e questo conferma sul piano immediato
tutta la giustezza e veridicità di quanto il popolo napoletano disse al viceré il giorno dei funerali di
Masaniello, di cui si è detto, ma questo conferma l’esistenza di un saldo gruppo dirigente, legato al
movimento popolare e contadino, espressione reale di questo ed in quanto tale Stato Maggiore della
rivoluzione borghese, che trova in Gennaro Annese l’eccellente erede di Masaniello. Ma questo
vuol dire proprio ed esattamente, ed ancora, dell’esistenza di un collettivo, di un intellettuale
collettivo in grado di sostituire i capi assassinati; ma vuol dire ancora di più che il movimento che
parte nel dicembre 1646 aveva avuto una corretta preparazione e che aveva saputo unire attorno a sé
veramente l’avanguardia della classe borghese e dei popolari ed aveva saputo costruire uno Stato
Maggiore di grande validità teorica, politica, organizzativa.
Il movimento rivoluzionario riprende alto il suo volo, raggiungendo da subito più alte vette.
Genoino impaurito ed incapace fa appello al Filomarino.
I popolani il 21. luglio 1647 con un memoriale, sorretto dalla punta delle loro baionette e dalla
bocca dei loro cannoni, intimarono al Filomarino di astenersi dall’intervenire e “ di stare servito” e
che
“ V. Em. voglia farli gratia ordinare alli Padri Gesuiti che vogliano attendere agli Divini offici,
stante che detti Padri con indebito zelo e con una carità pelosavanno cotidianamente a
raccomandare al Signor Genovino gl’interessi propri e particolari, stuzzicando il vespaio per
essere cacciati in camicia, con poco gusto e soddisfazione di questo Regno; .. . “
Il 22. luglio.1647 un funaio del Mercato Francesco Cerullo alla testa di un gruppo di popolani
chiamò a raccolta il popolo contro Arpaia e Genoino, definiti traditori del popolo. Il nuovo tumulto
fu soffocato sul nascere per l’assassinio di Francesco Cerullo ad opera di Domenico Milone e
Peppe Palumbo, agenti segreti degli spagnoli.
Il 23. luglio. 1647 i popolani di Melito giunsero a Napoli a chiedere aiuto contro Antonio
Muscettola, consigliere regio e cavaliere del seggio di Montagna. il quale pretendeva la riscossione
delle gabelle abolite. I popolani napoletani corsero subito in aiuto di quelli di Melito.
Se ne stava il Muscettola a gozzovigliare con i suoi sicuro del ripristinato ordine, alla notizia di
forze armate che marciavano contro di lui riesce a stento a scappare come stava, in camicia ed
assistere da lontano alla requisizione di tutti i beni ed alla distruzione del palazzo, rimanendo così
come era scappati: in camicia.
Il viceré dal canto suo, anch’egli sicuro della riconquistata libertà, credette fare cosa buona
ristampare i capitolati a modo suo. Il popolo in armi gli impose di riscrivere i Capitolati così come
erano stati concordati aggiungendone dei nuovi, tra cui i due: su Genoino ed i sicari dell’assassinio
di Masaniello, di cui si è detto.
Le popolane attaccarono il “ Monte di Pietà” assieme alle case degli amministratori di questo.
Gli studenti in armi respinsero l’imposizione della tassa di laurea, abolita dalla rivoluzione.
I mendicanti organizzatisi marciarono sulla chiesa di san Martino per incendiare quel
monastero, ma furono prevenuti dalla soldataglia che presidiava Castello sant’Eremo. Essi
riuscirono allora ad imporre che i padri del convento attaccato in alcuni giorni della settimana
sovvenissero i mendicanti con una certa elemosina, in soddisfazione di un legato fatto da un
testatore ed a cui i suddetti padri non davano soddisfazione alcuna.
Imposero inoltre che fosse ripristinato nel valore originario il legato di Giovanna I d’Angiò, regina
di Napoli, consistente nella distribuzione giornaliera d’un grosso pane e di un boccale di vino , che
era stata sostituita dai pii padri certosini con altra elemosina di altro valore e di natura diversa.
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Le serve dei monasteri, in modo particolare di quello di santa Chiara, si ribellarono al modo
come veniva trattate ed imposero nuove e migliori condizioni: la badessa non poté che aderire alle
richieste, dato la compattezza del movimento ed il sostegno immediato dei popolani e del governo
rivoluzionario.
Un forte movimento si sviluppa contro le bische ed il gioco d’azzardo: ciascuna bisca fu
scovata ed assaltata bruciando carte, tavoli e quanto altro vi trovavano, per totale di almeno cento
bische e case da gioco furono assaltate e date alle fiamme.
L’iniziativa, anche questa diretta ed organizzata dal gruppo dirigente rivoluzionario, diversamente
non si spiega, ha un’eccezionale portata rivoluzionaria ed un immediato significato politico. In
quelle case da gioco oltre i nobili molti popolani per il passato vi avevano giocato e perduto e
sottoscritti debiti capestri, usurai. Inoltre dette bische continuando alcuni popolani a frequentarli,
costituivano un ricettacolo di individui potenzialmente disposti per debiti di gioco e per il vizio del
gioco a prestarsi ad azioni scellerate contro la Repubblica. L’iniziativa consente di legare a sé quei
popolani che per il passato si erano indebitati, liberandoli così dal debito, spazza via il ricettacolo ed
uno strumento di ricettazione di elementi per scopi scellerati, infligge infine un serio colpo alla
malavita ed alla camorra, che in giochi, bische, prostituzione et similia traeva la sua forza ed i suoi
guadagni.
Il movimento di lotta dei tessitori di drappi di seta impone al viceré che non potesse essere
esportata la seta prodotta nel regno. I mercanti interessati invece all’esportazione si opposero e
entrambi ricorsero in giudizio. I mercanti erano difesi da Cennamo, noto incettatore di gabelle e
legato alle manovre speculative del d’Aquino ed arricchitosi proprio con l’esportazione della seta; i
lavoratori erano difesi da Genoino. In sede dibattimentale Genoino prende le difese di Cennamo
contro i tessitori, sottoscrivendogli una dichiarazione che l’incendio delle sue proprietà gli era stato
prcurtato da nemici personali e non dal popolo; in sostegno di tale dichiarazione fa circolare una
dichiarazione che fa sottoscrivere ai suoi sostenitori.
Il pezzo di carta cade nelle mani di Orazio Rossetti, detto Razzullo de Rosa, autentico capo
rivoluzionario. Impadronitosi del foglio lo mostra a tutti come prova dell’ulteriore tradimento di
Genoino, smascherando ad alta voce quella dichiarazione come “ iniqua, fraudolenta ed in tutte le
sue parti contraria al popolo, che abbatteva i suoi ordini, .. che aveva preso a difendere il mercante
per dare addosso al tessitore, come più affezionato al popolo. Con questo mantice soffiava sul
fuoco.”
Il 21. agosto. 1647 organizzati e diretti da Orazio Rossetti i tessitori mossero sul tribunale della
camera dove dovevano trovarsi i due compari: Genoino e Cennamo. Ma il viceré provvide ad
avvertirli in tempo ed i popolani non ve li trovarono, che avevano trovato rifugio a palazzo reale.
Rossetti senza perdersi di coraggio diresse il movimento dal tribunale a palazzo reale imponendo
la consegna di entrambi e la liberazione del fratello di Masaniello, arbitrariamente e proditoriamente
fatto prigioniero dalla soldataglia spagnola. Il viceré si disse subito disponibile a liberare il fratello
di Masaniello, ma che non sapeva dei due. Palazzo reale è così posto subito sotto l’attacco popolare.
Il viceré ritiene di poterne approfittare e fare piazza pulita. Ordina il massacro.
La risposta fu immediata: un possente contrattacco che dà inizio alla seconda fase della rivoluzione
borghese meridionale. I soldati spagnoli vengono affrontati dal popolo che accerchiava palazzo
reale e messi in fuga.
Salvatore Barone nel frattempo guida l’assalto per la conquista il piano degli Angioli a
Pizzofalcone, posto eminente d’incontro il Palazzo. La popolazione di santa Lucia del mare
attaccarono il posto della Croce e conquistarono il convento di san Luigi, congiungendosi così con
le forze di Barone ed accerchiando il Tuttavilla, che vista perduta la resistenza e temendo la perdita
della ritirata, fugge riparando nella reggia, lasciando così nelle mani del governo rivoluzionario
l’intera zona, che si trovava così nelle condizioni di stringere di più Palazzo reale, esposto a duplice
attacco ed all’accerchiamento. Nel frattempo la casa del principe d’Ascoli, maestro di campo della
fanteria spagnola, e svaligiata. Successivamente furono attaccati soldati tedeschi e spogliati di ogni
arma e beni vari, successivamente toccò alla casa del conte Bisconte, colonnello di detti soldati: una
gran quantità di armi caddero nelle mani del governo rivoluzionario e dell’esercito popolare.
Il viceré deve immediatamente ricorrere ai ripari ed accettare in cambio della tregua nuovi
capitolati, molti più onerosi dei precedenti. Lo stesso Schipa è costretto a riconoscere:
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“ non tanto richieste di grazie, quanto imposizioni di patti.”22
Alcuni punti importanti dei nuovi Capitolati sottoscritti il 31. agosto. 1647 erano:
La consegna di castelli, della reggia e dei posti chiave nell’amministrazione del Regno, che
dovevano essere di esclusiva attribuzione a napolitan e con l’esclusione dei nobili da ogni pubblico
ufficio.
“ 7. Tutti i nobili, tanto quelli che godono Nobiltà nelli seggi di Napoli, quanto quelli che godono
Nobiltà nel Regno, non possano havere, né esercitare Offici Regii, né di Toghe, né Militari, né
qualsivoglia officio pubblico….”
La cacciata dal Regno e requisizione dei beni, “ il disterro” degli arrendatori della gabella
della frutta e di tutte le altre gabelle.
“ 8. .. Ed anco di tutti gli altri Gabellotti, Arrendatori, e Governatori di qualsivoglia gabella ed
imposizione, che s’esigeva prima nel presente Regno, debbiano depositare tutte le quantità per essi
debite per tutto il tempo passato sino al detto 7 luglio 1647 .. “.
Il riconoscimento dell’armata popolare.
“ 13. Che si debbia fare una casa per la conservazione delle artiglierie ed altre armi a disposizione
del fedelissimo Popolo, e s’habbia da custodire da detto fedelissimo Popolo, e per le persone da
esso eligende .. .”
Si proibiva al viceré di poter costruire alcunché.
L’interpretazione dei Capitolati era competenza esclusiva della Piazza del Popolo.
La Piazza del Popolo diventava parlamento sovrano. Solo essa, non più con la partecipazione
dei Seggi Nobili, decideva sulle leggi della Città e del Regno.
§ 4. L’assalto alla Rivoluzione
I Capitolati imposti veniva firmati dal viceré al fine di poter prendere tempo in attesa dei
rinforzi dalla Spagna; erano imposti e sottoscritti dal governo rivoluzionario nella strategia
dell’accumulazione delle forze e nell’attesa dell’ulteriore indebolimento della Spagna, che si
dissanguava nella Guerra dei Trent’anni.
Il 1. ottobre. 1647 la Grande Armada, ossia la flotta spagnola, al comando di Giovanni
d’Austria, figlio di Filippo IV fu schierata nel golfo di Napoli contro la Città, il Regno e la
rivoluzione. La città fu sottoposta ad un feroce cannoneggiamento, più di 150.000 cannonate furono
sparate sui quartieri popolari.
Inizia qui la terza fase della rivoluzione borghese.
L’Armada doveva costituire l’appoggio ad un più generale attacco scatenato dalle forze reazionarie.
Il piano prevedeva un attacco da terra con truppe arruolate nel regno e costituito dagli sgherri al
servizio dei vari nobili: meridionali, ma ancor più fiorentini, lucchesi, genovesi, ferraresi, modenesi,
piacentini, romani, ed in specifico: Colonna, Aldobrandini, Estensi, Gonzaga, Piccolomini, Medici,
Grimaldi, Doria, Spinelli, ecc. Questi non poteva fare blocco una volta che la rivoluzione li aveva
privati degli uffici e requisiti i loro averi, frutto delle speculazioni sulle gabelle. La canea
reazionaria era stata toccata nel vivo e così il popolo degli accattoni fece lega contro la rivoluzione.
Ciascuno ci mise del suo e mise al servizio della reazione per la conquista della libertà di
speculazione e di ruberia i propri “ bravi”, armi e soldi: perché questi uomini andavano pagati e
bene.
Il duca di Maddaloni con grandi difficoltà riusciva nel regno ad organizzare i bravi delle varie
casate per l’opposizione del movimento contadino e con grandi difficoltà riusciva a muoversi e ad
avvicinarsi alla Capitale. Quando vi giungerà in enorme ritardo non porterà con sé che un pugno di
malfattori, assolutamente incapaci oltreché insufficienti per la bisogna della reazione.
Le forze spagnole impegnate nella battaglia per la Capitale sono intanto fatte penetrare con la
copertura di frati, preti e monaci e da questi nascosti, secondo la ben nota consuetudine. Anche qui
non si prestò molta attenzione se conventi di frati o di monache e meno che mai all’ordine, per cui
gli stessi conventi di clausura videro ospitare gherri.
La chiesa del Gesù fu trasformata dai gesuiti in una fortezza di soldati spagnoli.
La chiesa di santa Chiara non fu da meno.
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I frati zoccolanti ospitarono nella chiesa di santa Maria la Nova soldati e malfattori di ogni risma,
che al servizio delle nobili casate dell’italica e non solo stirpe nobiliare erano stati prestati alla
reazione. Anche qui erano tenuti ben nascosti in celle, accampati nei corridoi, sale interne:
trasformando così detti luoghi in bivacchi di assai mala affare, accampati, cioè, in luoghi esclusi al
pubblico ed all’occhio del pubblico.
La mattina del 5. ottobre vengono fatti prigionieri ed assassinati alcuni capi e membri del governo
rivoluzionario, erano mercanti, procuratori, artigiani, lavoranti, dottori, giurecosulti,
L’attacco si sviluppava su tre direttrici ed aveva come asse strategico l’accerchiamento della zona
popolare in generale e convergere tutte sulla zona Mercato.
L’Armada costituita da vascelli per la maggior parte di primo rango, ossia a tre ponti e novanta
cannoni, seguivano quelli di secondo rango con due punti e settanta cannoni, poi quelli di terzo
rango con sessanta cannoni, aprì il fuoco sui quartieri Mercato, Lavinaio, ed altri.
La fanteria spagnola nel contempo, con la copertura della marina, avanzava sulle tre dirrettrici
indicate. Il primo momento non può essere che favorevole alla reazione, ma non resse al pesante e
poderoso contrattacco dell’esercito rivoluzionario popolare, che poteva contare sul concorso di tutta
la popolazione della città e dei paesi vicini che accorsero in gran numero, stringendo in una morsa
gli aggressori. Innumerevoli i casi di grande eroismo, che proprio nei primi momenti dell’attacco
seppero fermare, ritardare l’avanzata nemica e preparare condizioni migliori alla controffensiva
rivoluzionaria. Di Onofrio Pagano, Capitano della Pietra del Pesce, così ne racconta un cronista
dell’epoca: Aveva egli visto venire alla volta di quella Porta una gran quantità di nemici, seguiti
da molte galee. Sostanzialmente solo fece un riparo e vi pose due cannoni di ferro ed iniziò a
cannoneggiare le forze nemiche. La porta fu difesa con eroismo e le forze spagnole costrette a
retrocedere ed alla fine a desistere dal penetrare in città per quella Porta.
La situazione nel campo reazionario precipita, da precarie diventano insostenibili le posizioni
spagnole, l’attacco era fallito e la controffensiva dilagava. I centri di resistenza spagnoli divennero
ben presto i conventi e chiese, ma anche da qui furono costretti a sloggiare sotto l’attacco risoluto
dei popolani. Sola la chiesa del Gesù resisteva tenacemente, ben fornita di armi e munizioni, ma alla
fine anch’essa dovette soccombere ed i nemici sloggiare.
Diserzioni vi furono sulle galee spagnole. La galea di santa Teresa si ribello ed imprigionati in una
stiva gli ufficiali spagnoli, i forzati condussero la galea verso Torre del Greco, dove furono accolti
dal Popolo con il quale si unirono e nelle fila della rivoluzione combatterono come archibugieri.
Fallita l’aggressione le forze spagnole sono costrette a chiedere una nuova tregua.
Innalza la bandiera bianca il viceré, questa volta le forze rivoluzionarie sono decise a dare battaglia
e rispondono alzando sul forte del Carmine la bandiera rossa e nera : “ volendo significare che
volevano combattere fino alla morte”. Gli spagnoli avevano un disperato bisogno di una tregua. Il
governo rivoluzionario prevenendo le mosse del nemico che di certo si sarebbe appellato al
Filomarino, provvidero armati di imporre al Filomarino di non immischiarsi.
Inizia qui l’ultima fase della rivoluzione borghese nel regno di Napoli.
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Capitolo Quinto
La Repubblica
Questa ultima fase che richiede una disamina attenta, di cui si tratterà di ben intelligerne i
movimenti delle classi interni al Regno ed il più complessivo movimento delle classi in campo
europeo, che trovavano nella Guerra dei Trent’anni la loro più immediata espressione e nella pace
di Westfalia il loro punto di equilibrio, occorre esaminare il più generale clima venutosi a creare
nella repubblica E’ questo movimento complessivo delle classi in campo europeo che guida ed
orienta tutta la politica estera dei singoli Stati nazionali. La guerra dei Trent’anni fu cioè un
possente scontro di classe, che ebbe per teatro l’intera Europa ove le due classi l’aristocraticonobiliare e quella borghese si contesero l’egemonia ed il primato nella rapina e nello sfruttamento,
ma che vedeva la classe borghese in posizione di classe rivoluzionaria.
Il periodo in esame è il più confuso, qui si accavallano ed accatastano fatti ed annotazioni diversi e
contrastanti, che impediscono una iniziale lettura dello sviluppo del processo in atto.
Vi è da una parte la difesa dall’aggressione che dura per tutto il periodo ottobre-1647-6 aprile
1648,
la politica di alleanza con la Francia: Mazzarino ed il duca di Guisa, di cui non si riesce ben a
tracciare i profili ed i contorni di entrambi e come questi interagiscono con i movimenti delle classi
sul piano interno ed europeo; diviene infine assai difficile comprendere quale sia la portata e
l’influenza degli accordi di Munster, poi ratificati a Westfalia, sull’evoluzione della rivoluzione
borghese nel Regno di Napoli. Il tratto più immediato che si coglie è il rapido e vertiginoso
capovolgersi delle situazioni e dei rapporti tra le classi, giacché ciascuno si orienta e si modella
sulla base di come si va profilando l’accordo di Munster; una serie di azioni militari hanno un
significato proprio dentro Munster, ossia al fine di spostare in una direzione o nell’altro quel
particolare accordo, quel particolare capitolato dell’accordo. Solo se si riesce a fermare i processi
rivoluzionari nel Regno con l’evoluzione degli accordi di Munster si può cercare di fendere la fitta
nebbia.
Uno dei primi atti della Repubblica, proclamata il 1. ottobre. 1647 è la costituzione del
Parlamento del Regno.
Il dibattito teorico e politico sviluppatosi sin dai primi anni del Seicento e che dalla rivoluzione
aveva trovato alimento e sostegno oltreché libera circolazione e confronto, trova in questo atto del
governo rivoluzionario il suo punto di arrivo.
Gennaro Annese, Presidente della Repubblica, emana un bando nel quale si dice che
ciascuna città e terra di ogni Provincia del Regno deve eleggere un proprio rappresentante che sia
“ una persona popolare fedele ed interata dalli maneggi universali e delli bisogni di essa Città
e Provincia”, ossia che sia legata alla popolazione di quella città o provincia e quindi in grado di
intenderne ed esprimerne interessi ed istanze ed in questo esatto e preciso contesto essere mandante,
essere rappresentante e quindi Eletto del Popolo in quella, e di quella, Città o Provincia.
Viene espresso qui il corretto concetto di rappresentanza politica e si salda questa alla capacità di
esprimere interessi ed istanze ed in quanto tale Eletto, in quanto tale rappresentante.
E’ questo un alto concetto di democrazia che lega, che salda in maniera indissolubile, la democrazia
formale con la democrazia sostanziale, respingendo la divaricazione tra i due termini ed affermando
la sostanziale momento centrale e fondante e quella formale, espressione e derivata dalla
sostanziale, la formale forma del manifestarsi della democrazia sostanziale ove il passaggio alla
formale non esproprio il Popolo dal mandato e nn lo affida all’Eletto per il tempo in carica.
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E’ questo un alto concetto, il più alto che mai più sarà raggiunto nel corso di tutte le rivoluzioni
borghesi del Sei-Settecento ed a cui non prevarrà mai la democrazia borghese parlamentare, anche
nelle forme più avanzate.
§ 1. Problemi nuovi e dibattito teorico
Molta è stata la strada che il dibattito teorico ha dovuto percorrere per poter creare le
condizioni fondamentali per la rivoluzione. Ha dovuto innanzitutto liberare il campo dal concettocategoria di “ suddito” a cui era intimamente legato quello di “ fedelissimo”, “ fedeltà”, che
saldava il servo della gleba al signore feudale. Era questa cioè una categoria chiave della più
complessiva costruzione del consenso/dominio della classe feudale sul servo della gleba. Il
concetto-categoria di “ fedeltà” presuppone e rimanda proprio ed esattamente a quel rapporto di
dipendenza personale, che era la quintessenza del regime feudale. La fedeltà nella proiezione mitica
diveniva così punto di onore, e quando questo non bastava la iattura della infedeltà si estendeva a
tutto il parentado, che data la realtà contadina costituiva la base e l’essenza stessa del mondo
agricolo, come bene attesta e documenta Villari. La fedeltà era al signore, a cui spettava far
rispettare gli ordini e le disposizioni del re, da cui aveva ricevuto il feudo. Il processo di
scardinamento di questa pesante catena era complesso già di per sé, ma dovendosi, poi, anche
muovere entro il rigido e barbaro ordine imposto dal Concili di Trento lo era di più. Viene articolato
attraverso la dimostrazione storica della fedeltà del popolo del regno di Napoli
Il quasi completo monopolio nobiliare della rappresentanza nazionale e l’antagonismo o la
divisione tra nobiltà e popolo erano condizioni essenziali per la stabilità del dominio. La resistenza
al radicalismo della nobiltà venne invece dal movimento popolare. Ed il cardine di questo era dato
proprio ed esattamente da quel concetto-categoria di “ fedeltà”. La nobiltà ascriveva a sé questa ed
a legittimazione del suo dominio ascriveva ai dominati quello di “ infedeltà”.
Il “ popolo” nell’accezione dell’epoca di tale termine, ossia borghesi, artigiani, nobili non di seggio,
non aveva alcuna legittimazione al governo se “ infedele”, ossia incapace di mantenere il governo
delle cose nelle difficili situazioni. La classe dominante in lotta contro la classe rivoluzionaria in
ascesa fa ampio uso di questa incapacità-impossibilità della classe rivoluzionaria di essere classe di
governo e quindi di non poter essere affidabile sul piano interno ed internazionale. La borghesia non
fa diversamente nei confronti del proletariato.
Il lavoro storico di Tommaso Costo ” L’Apologia istorica del Regno di Napoli. Contro la falsa
opinione di coloro che insinuano i Regnicoli d’incostanza e d’infedeltà” del 1613, assestava un
duro colpo in questo senso. Il lavoro di Giulio Cesare Capanio, Il Forastiero del 1634, faceva
un’analisi storica sulla tradizione storica repubblicana
“ [ I Napoletani] vissero con costumi di Repubblica, e questa ritrovo di quattro maniere: la prima [..]
era divisa, ma unitamente, in Senato e Popolo. Di quello erano capo gli Arconti; e di questo il
Demarco, voci che significano l’autorità degli uffici loro.”
Questo lavoro affondava di più l’attacco mostrando come in tempi precedenti agli Spagnoli i
napoletani erano stati in grado di formare un proprio gruppo dirigente.
Il secondo passo è stato quello di formulare diversamente il concetto di “ fedeltà”, definendo verso
chi e quando. A questo provvede il lavoro “ Il Cittadino Fedele”. Qui vi è anche una disamina
delle forme di governo a cui la rivoluzione doveva tendere con un bilancio delle varie forme che si
erano affacciate nella storia. Qui il carattere preminente è il rapporto che viene costruito tra le forme
dello Stato e le garanzie che queste sono in grado di dare al mantenimento e consolidamento della
Libertà. Si lega cioè saldamene forma dello Stato e Libertà. Così scrive l’autore:
“ .. maggior beneficio della desiderata libertà, con la quale facendosi Repubblica, o conforme agli
Svizzeri, che ritengono con tanta quiete il governo appresso li Popoli, e che con tanta stima di
fedeltà sono da tutti i Prencipi tenuti e preggiati, o conforme agli Olandesi, che da semplici
pescatori, agguerriti per lungo uso delle Armi, sono fatti ragguardevoli tra’ Potentati; o vero fare un
Re elettivo, come quello di Polonia, o pigliarne uno dalla Francia, indipendente da quel Regno, ma
concorde con quella Corona per aver forze da resistere agli Spagnoli, o almeno chiedere all’Armata
che sta in Portolongone Capitani e Officiali esperti e Veterani, Armi e monitioni da bocca e da
Guerra, delle quali provvidamente abbondano, se la fama che ciò che porta è vera; o pure tornando
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a vivere, come nei primi tempi della fondatione di Napoli, in forma di repubblica con libertà greca
divisa in Senato e Popolo, rinnoverete gli antichi Arconte e de Marco.”
Assieme e complementare a questo lavoro uscito nel corso della rivoluzione è quello di un anonimo
ove discute delle forme dello Stato e quindi della democrazia e dell’organizzazione militare,
leggendo l’unità del processo, ossia legando strettamente la forma dello Stato con l’organizzazione
militare entrambi strumenti di garanzia per la Libertà e per la Democrazia, facendo, infine,
dipendere tutte queste dal un saldo e sano sviluppo ed economico, che ha per base l’indipendenza
nazionale.
In: “ Lettera scritta da un Personaggio Napolitano agli ordini del Regno di Napoli, nel quale dà
loro una breve istruttione per formare la nuova Republica”, questa complessa problematica è
esposta non solo nella sua organicità ma anche in una forma molto semplice e popolare, indice
questo dell’altezza del dibattito e della ricerca teorica che lo sostanziava – senza la quale non vi è
mai sintesi e chiarezza logica e d espositiva.
In generale di questo lavoro possiamo dire che, al di là dei temi che abbiamo fermato all’attenzione,
esso costituisce un autentico manuale di Scienza della Politica. I lavoratori avanzati ed i comunisti
non lo leggeranno invano.
Fissa bene l’altezza della produzione teorica e del dibattito politico alti che si vengono a maturare
negli anni della rivoluzione del 1647-48.
Idea del governo da prendersi
“ E’ diviso come, voi sapete, il Regno di Napoli in dodici provincie considerabili. In ciascuna
vi sono i suoi Baroni, sparsi per varie Terre e Castella, delle quali sono signori. In tutte le Città v’è
la sua Nobiltà distinta dal Popolo, e di Popolo ogni luogo ne è pieno. Hor’io formo in questo modo
il Governo, e prendo per esempio una delle Provincie, a simiglianza di come le altre s’intendano
regolate. Ci vaglia per esempio l’Abruzzo. Qui vi sono molti Titolati, molte Città con molte
famiglie di Nobili e da per tutto gran popolo. S’intenda per capo di questa Provincia L’Aquila. Qui
in tempo di Parlamento o assemblea concorrano tutti i Baroni, contanti Nobili scelti dalle Città et un
numero proporzionato de’Popolari, eletto da ciascuna Città, Terra e Castello, secondo la gente che
fanno. Da questo corpo di persone si dovranno scegliere, sì da parte Nobile come dalla Popolare, a
proportione tanti deputati. i quali con quelli delle altre Provincie fatta la massa in Napoli,
governeranno tutto il Regno a nome commune.
Il formare una Republica, di cui Napoli fosse capo assoluto, a somiglianza di Venetia e di
Genova,.., non riuscirebbe. Sappiano che le Provincie del Regno sono habitate da gente feroce e
bellicosa, e forse più tolleranti della guerra che quella di Napoli; perché alla fine vi sono gli Ernici,
gli Appuli, i Sanniti, che furono quelli co’ quali Roma vinse tante Nationi d’Europa. E queste mal
volentieri di colpo si metterebbero sotto il giogo de’ loro uguali. E quando riuscisse il metterli, non
riuscirebbe il mantenerli, perché risorgerebbero tutti in favor della causa commune, e sarebbe
affatto impossibile che una Città sola potesse resistere nonché domare un Regno intiero, che
combatterebbe per la sua libertà. Aggiungete che, sendo sparse per il Regno famiglie nobilissime e
potenti, l’ambitione di queste servirebbe di mantice alle sollevazioni de’ Popoli sdegnati, per
vedersi privi di quelle prerogative che altri ad essi non superiori godrebbero. [… ].
Parimenti tutti [ i Baroni] manterrebbero i loro feudi; e che più ottengono da’ Spagnoli?
[…].
Dopo aver indicato come tutte le cariche siano nelle mani di ‘ forastieri’, scrive:
“ Chi finalmente tira tutte le utilità della toga e della spada, se non il forastiero? Non può una grossa
dote per rapacità degli Spagnoli fermarsi tra voi. I Principati di Stigliano, di Caserta, Venosa, di
Castiglione e tanti altri non sono andati per forza, ed a vostro dispetto, in mano degli stranieri?
Non dico nulla de’ Vescovadi, Abbadie e beneficij, tutti sparsi in case Spagnole, Romane,
Genovesi. [..].
Viene qui ora un passo centrale che sulla divisione dei poteri: legislativo, esecutivo e
giudiziario, unito ad un abile passaggio politico in cui tende una mano ai nobili meridionali affinché
si stacchino dalla restante nobiltà “ forestiera”.
I Nobili non potrebbero più strappare i Popolari, sì perché troverebbero sempre giustizia presso
un Senato o Tribunale, in cui parte dei Senatori o dei Giudici fossero Popolari, sì perché gli stessi
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Nobili, ambitiosi d’avvantaggiarsi negli honori della Repubblica, non vorrebbero disgustar quelli
dai quali dipendesse per metà la lor fortuna.
.. . Si creerebbero i Generali degli eserciti dall’Ordine Nobile; ma si potrebbe scegliere i
Provveditori generali dall’Ordine Popolare; se quelli andassero per Ambasciatori, questi potrebbero
assisterli con titolo di Segretari della Repubblica. .. gli altri uffici di toga e di spada si dividerebbero
a parte. Né vieterei che, quando un Popolare divenisse… aspirare alle massime cariche.. .
.. . Né vi lasciate lusingare dalla propria vanità che pensiate formare una Repubblica affatto
Popolare e senza le preminenze di Nobili.
le utilità del Regno saranno di lunga mano maggiori di quelle che hora vediamo; .. . Che
emolumento è hormai restato a voi? Che concorso a’ vostri Porti? I mercanti, in mano ai quali cola
tutto l’oro ed il prezzo delle vostre sostanze, sono Genovesi e ciò per astutia ed interesse de’
Governanti. I commerci di Taranto, di Brindisi, di Bari, di Gallipoli sono affatto dismessi e ciò per
lasciarvi smunti ed inetti a risorgere contro gli oppressori; ma quando il traffico nelle vostre mani
venisse. che ricchezze tra voi non si numererebbe?
… ergere in piedi una Repubblica per molte unite qualità superiore a quante oggi vediamo in
Europa. ..Né passerebbero i Napolitani per vili mercantuzzi, come altri di altre Republiche, né per
servi legati, come i Signori di molti Regni.[ .. ].
Lega infine questo all’organizzazione militare della Repubblica.
“ Nella conquista delle Provincie osserverei questo ordine.
Nelle fortezze e negli altri luoghi bisognosi di presidio vi metterei gente di diverse Province, ma in
modo che ciascuna di questa fosse custodita da gente d’altra Provincia, e questa similmente
mandasse de’ suoi a custodire una delle altre. Per esempio la gente di Puglia potrebbe mettersi nelle
fortezze d’Abruzzo, e quei d’Abruzzo nelle fortezze di Calabria, e quelli di Calabria in quelle di
Puglia, e così di mano in mano; con che s’otterrebbero diverse buone conseguenze. La prima, che
ciascuna Provincia resterebbe fedelmente guardata. La seconda, che la Repubblica [ mostrerebbe di
fidarsi egualmente] di tutte. La terza che i soldati sarebbero meno insolenti et andrebbero con più
riguardo con quei dell’altre Provincie per timore che ai loro Paesani non fussero usate le medesime
insolenze ch’essi farebbero agli altri.”
Si vede bene da qui come allora il decreto del governo rivoluzionario sull’organizzazione del
Parlamento del Regno non era frutto di una improvvisazione di lazzari, di tumultuanti, ma il
prodotto esatto di un dibattito forte, pubblico, che si sviluppava nella repubblica e nel corso della
rivoluzione, alimentandola e trovando da questa sempre nuovi punti e stimoli e linfa vitale.
L’esistenza di un intellettuale collettivo che solo una classe rivoluzionaria, giunta alla sua maturità
può esprimere ed esprime.
Il movimento contadino, che aveva oramai assunto il carattere di guerra dei contadini ed il
movimento popolare delle città e terre di ogni provincia del regno, sviluppatisi sull’onda del 7.
luglio. 1647 trovano in questo atto rivoluzionario nuova linfa e legittimazione.
Va qui detto che il governo instaurato il 7. luglio.1647 assolse appieno al suo ruolo di governo
rivoluzionario: esso fu un vero centro propulsore dell’iniziativa rivoluzionaria delle masse popolari
delle città e delle campagne, difensore strenuo degli interessi di questi contro tutto e tutti, contro
qualsiasi mercanteggiamento e linea compromissoria: Agì cioè da centro propulsore dell’intero
movimento rivoluzionario, organizzatore instancabile che seppe utilizzare appieno tutte le funzioni
del governo e del potere in difesa della rivoluzione e per la sua costante espansione; instancabile
coordinatore delle azioni e delle iniziative rivoluzionarie delle masse; difensore instancabile della
cultura e della Libertà. Raccolse l’affetto di tutti i rivoluzionari del regno e d’Europa.
Esso ha veramente conquistato sul campo di battaglia l’appellativo di governo rivoluzionario,
in quanto comitato della Rivoluzione: amico sicuro del popolo e nemico terribile per baroni, viceré
curia contro cui seppe ben far sentire la sua autorità morale, politica e militare.
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§ 2. La politica delle Alleanze
Proclamata la Repubblica ed eletto Gennaro Annese capo, il governo rivoluzionario e la
Repubblica cercarono ed allacciarono rapporti di alleanze in primo luogo con la Francia.
Il 17. ottobre. 1647 il governo rivoluzionario pubblica un manifesto indirizzato a tutte le corone ed
ai tutti i potentati della Cristianità nel quale concludevano di sostenere le armi per liberarsi dalla
politica spagnola.
Era l’atto ufficiale di indipendenza e l’atto ufficiale di nascita della Repubblica.
Gli spagnoli reagirono la notte stessa del 17. ottobre lanciando un disperato attacco, che si
protrasse per molti altri giorni, anche se fin dal primo momento apparve chiaro l’assoluta inutilità
ed evanescenza di questo. Esso assolveva al compito politico, di dimostrare infondata la
proclamazione di indipendenza della repubblica, stando il suo continuare ad essere sotto il fuoco
spagnolo e stando gli spagnoli ancora presenti sul territorio della repubblica, da cui facevano partire
e mantenevano un attacco.
In un attacco contro un casale di Nola venne ucciso il duca Ferrante Caracciolo. Questa perdita fu
grave per il nemico, giacché sbandò l’intera cavalleria e spinte l’intero nolano alla lotta, tagliando
così Aversa, in mano spagnola, da ogni collegamento. Papone con il sostegno della popolazione
locale attacca Venafro, minacciando seriamente Capua, ove il Tuttavilla aveva ricevuto l’ordine di
resistere. Disperando della ritirata abbandona Capua nella speranza di correre in aiuto di Aversa: ma
le esigue forze che gli erano rimaste: non più di 400 uomini a cavallo e 300 di fanteria, di cui non
più di 100 di linea, non gli consentono neppure questo ed Aversa è in mano della repubblica.
In movimento popolare e contadino divampa in tutto il meridione e le forze spagnole sono costrette
ad arretrare.
§ 2.1 La Francia.
Sia per indebolire ulteriormente la Spagna, e rafforzare la testa di ponte a Piombino e
Portolongone ed al fine di imporle più pesanti condizioni al tavolo di trattative di Munster offre il
suo intervento alla Repubblica Napoletana tramite il cardinale Mazzarino, cardinale di Aix. fratello
di Mazzarino che governava la Francia. Questi con una lettera inviata ai capi della repubblica, e
pubblicata in bando dichiarava:
Primo che il re di Francia approverà e troverà buono lo stabilimento fatto da codesto fedelissimo
Popolo di vivere in Repubblica.
Secondo che tra detta Serenissima Repubblica e S. M. sarà eterna e perpetua lega offensiva e
difensiva.
Terzo lascerà e si contenterà che tutti li Officiali si diano e dichiarino dalla Serenissima Repubblica
con patenti di essa.
Con bando del 29. ottobre. 1647 Gennaro Annese dava pubblica notizia delle trattative in
corso con i francesi. E Luigi XIV il 29. novembre. 1647 scriverà una lettera al popolo di Napoli:
“ Il Re al Popolo di Napoli”:
“ noi vi soccorreremo con tutta la nostra potenza e vi assisteremo con tutte le forze del nostro
Regno, senza pretendere nient’altro che la pubblica gloria di avervi procurata la libertà e di
permettervi mantenerla, stando però la dipendenza consueta al santo Seggio Apostolico.”
Il riferimento qui è al legame di vassallaggio che legava il regno alla curia romana, che si esprimeva
nell’omaggio della chinea.
Il altri termini. Il re di Francia riconosceva la Repubblica Napoletana ed il suo esercito, i cui
ufficiali sarebbero stati di esclusiva nomina repubblicana così come tutti gli uffici della Repubblica.
Avrebbe rispettato l’indipendenza e le decisioni prese dalle sue istituzioni autonome e sovrane.
Il punto che qui va fermato – un ragionamento a sé va fatto sulla questione delle alleanze – è il
corretto rapporto democratico: il governo rende noto al popolo la trattativa in corso, secondo il
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principio della delega e dell’assoluto rispetto del principio essere il popolo l’unico e solo
depositario del mandato a cui occorre fare capo e rendere conto. Questo consente al popolo, ossia al
proprietario legittimo del potere, di sapere in anticipo, farsi un’idea, valutare ed esprimere
orientamenti e giudizio ed intervenire così in tutto il corso del processo di formazione, elaborazione,
formalizzazione di una decisione, valutando ed esprimendo opinioni per il governo ed i suo
rappresentanti nelle loro azioni future in merito a quel problema. Questo consente così all’intera
Nazione: Popolo ed Eletti la partecipazione democratica alla vita civile, sociale ed istituzionale.
Si ripresenta ancora una volta qui il rapporto democrazia formale e democrazia sostanziale di cui si
è detto. Ed anche qui va ben fermato che solo la rivoluzione borghese del regno di Napoli vede
raggiungere questi livelli di vita democratica, che nelle condizioni date costituiscono un
determinante contributo alla teoria Politica, alla Teoria dello Stato ed alla Teoria della Democrazia.
Sposta decisamente in avanti il concetto di “ cittadino”, cancellando definitivamente quello di “
suddito”, inquadrandolo e leggendolo quale portatore di diritti, bypassando qui tutta la tematica del
diritto naturale e diritto delle genti, facendo cioè una decisa puntata in avanti per proiettarsi nei
Principi della Rivoluzione Francese del 1793. Abbiamo avuto modo di verificarlo, anche se lì non
lo abbiamo evidenziato, allorquando veniva riconosciuto al Popolo il diritto alla sollevazione
armata in caso di inadempimento, oggi diremmo costituzionali, e di condizioni di asservimento o di
ritorno dell’ancient regime. Qui veniva non solo riconosciuta la legittimità e non perseguibilità
dell’insurrezione armata, ma veniva riconosciuto un luogo ove sarebbe stato costruito un deposito e
dove fossero depositate le armi, che all’occorrenza sarebbero dovute servire al Popolo per
esercitare questo diritto riconosciuto dal Capitolato e l’impedimento di costruivi alcunché, al fine da
non poter costituire artifizio per controllo o impedimento.
§ 2.2 Il Proclama del duca d’Arcos
Gli spagnoli dopo la lettera del re di Francia sono veramente con l’acqua alla gola, devono
assolutamente uscire da quest’angolo che li stritola. si muovono su tre direttrici:
1. da una parte lanciano sempre più rabbiose offensive, attacco tendente ad investire più punti dello
schieramento rivoluzionario. Anche qui la natura e la forma dell’attacco fanno ben intendere il
carattere eminentemente politico che non quello militare.
2. Il duca d’Arcos emana un bando, che si muove su due direttrici.
L’aspetto immediato è la grazia per quanti si uniranno a lui e la liberazione dal peso delle Gabelle e
che “ siano – dice il bando- franchi ed esenti di qualsivoglia pesi”. Ma il messaggio vero, e più
profondo, è ben altro. E’ la chiamata all’unità di tutti i baroni, paventando loro il pericolo del crollo
della Spagna nel meridione d’Italia. E’ un chiamare a serrare le fila, giacché i loro privilegi, le loro
speculazioni e truffe il Re di Spagna, il re Borbone di Spagna, poteva, e si impegnava a, garantire.
Il testo infatti, dopo aver detto delle gabelle e dei pesi, prosegue con:
“ continuando però con la solida fedeltà a Re Nostro Signore e nell’ubbidienza delli loro
Baroni.”
Ora nelle condizioni date le gabelle erano tutte state abolite, per cui non vi era guadagno alcuno,
avrebbe un senso se le forze spagnole tendevano alla vittoria, ma non nelle condizioni in cui
subivano sconfitte. Ma nelle condizioni più generali, astraendo cioè dalla situazione militare, il
sottolineare “ nell’ubbidienza delli loro Baroni” è politicamente errato e quantomeno poco
opportuno e questo da parte di ha la menzogna e l’inganno per norma assoluta di vita. Ha senso,
invece, solo se letto come chiamata a serrare le fila. Il bando nella forma così concepita è un
messaggio esplicito alle varie case regnanti in Italia che nel regno avevano pensioni, « ayudas de
costa» , rendite, feudi e titoli, giunge infatti presso queste corti nella forma di atto ufficiale del
viceregno di Napoli.
L’elemento più forte, che caratterizza il bando del D’Arcos, è – ed in risposta alla ufficializzazione
dei rapporti Repubblica Napoletana e Francia – l’appello ad un fronte comune degli speculatori,
avventurieri, accattoni di pensioni, di « ayudas de costa» che insistevano sul e nel Regno di Napoli.
Il fronte, il compattare le fila, ha una sua maggiore validità d’essere proprio per il precipitare degli
eventi per la Spagna, che perso il regno di Napoli non sarebbe più stata in grado di garantire
pensioni, « ayudas de costa» e feudi e rendite e speculazioni e quindi quel drenaggio di risorse che
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fino ad allora aveva consentito agli estensi, ai Grimaldi, ai de’ Medici, ai Colonna, Piccolomini,
Doria, Spinelli, Aldobrandini, Gonzaga, i Savoia, ecc. di mantenersi nel lusso e far fronte alle nuove
forze sociali in ascesa ed i cui possedimenti nel Regno, più che quelli di scarsa entità che avevano
nelle loro terre d’origine, consentiva loro di avere “ seggia”, ossia di contare sullo scenario europeo.
Persa la grande retrovia finanziaria e feudale questa nobile genia si sarebbe trovata sul lastrico. La
chiamata a serrare le fila, al fronte unico controrivoluzionario, aveva cioè una ben precisa e solida
base materiale, aveva ben precise ragioni materiali: la propria sopravvivenza come gruppo
parassitario.
Le forze coinvolte avevano, e mantenevano, un loro peso politico se si vuole per quei legami
dinastici, costruiti con centellinate politiche matrimoniali, ed erano in grado di far sentire la loro
voce, la voce dei loro interessi, presso le principali corti europee, che poi sedevano a Munster e
firmataria della Pace di Westfalia.
Io credo che questo elemento sia stato poco analizzato, ma esso se non modifica la sostanza
degli equilibri usciti da Westfalia, gli accattoni non hanno mai un tale potere, pesa nel determinare
alcune varianti dei capitolati, che pesarono sulle sorti della rivoluzione borghese del Regno di
Napoli.
La Spagna esce dalla Guerra dei Trent’anni sostanzialmente ridimensionata. Francia ed
Inghilterra ereditano in buona sostanza l’impero spagnolo.
Con la Guerra dei Trent’anni giunge così a conclusione la decadenza spagnola e la sua discesa a
sub potenza. E’ allora dentro questo movimento complessivo che occorre leggere l’intero
andamento delle trattative di Munster.
La classe aristocratico nobiliare aveva e manteneva ancora una sua forza.
Nella stessa Inghilterra, caposaldo della rivoluzione borghese, le forze nobiliari avevano, e
mantenevano, una considerevole forza. La classe borghese aveva stretto un’alleanza con questa
dopo la prima fase della rivoluzione, era riuscita ad assorbire il movimento di Cromwell ed attuare
la sua transizione nelle forze borghesi, isolando e schiacciando il Movimento dei Livellatori.
La classe nobiliare inglese era ora ancora forza di potere e di governo, anche se in posizione
subalterna a quelle borghesi.
Le forze nobiliari in Olanda mantenevano ancora una loro consistenza.
In Francia era ancora tutta aperta la battaglia tra le forze borghesi e quelle aristocraticonobiliari; tutta aperta era ancora la battaglia per il controllo e la sottomissione dello Stato da
parte della borghesia e la battaglia per l’eliminazione di quei vincoli, legacci, prerogative feudali
che agivano da impedivano al pieno sviluppo delle forze di produzione capitalistica e la questione
verrà risolta centocinquanta anni dopo nel 1789 ed attraverso la Rivoluzione Francese.
La borghesia non voleva e non poteva rompere con queste, ma a queste si appoggiava per la
costruzione del suo dominio. I successivi cento anni da Westfalia costituiranno il periodo della
transizione di forze intellettuali nobiliari al campo borghese e la costruzione della intellighenzia
borghese nei vari stati nazionali, la cui linfa fu proprio ed esattamente la transizione di forze
intellettuali nobiliari che transitavano al campo borghese.
Le forze nobiliari di questi paesi: Inghilterra, Olanda, Francia in quanto tale non potevano volere
un azzeramento di questa forza in Spagna e nel resto dell’Europa, pena il loro stesso indebolimento
e rapida precipitazione sotto il bastone del comando borghese.
La stessa borghesia non poteva volerlo:
1. per non rompere con le forze aristocratico-nobiliari con cui aveva costituito ( Inghilterra ed
Olanda ) il nuovo blocco dominante in funzione egemone e con cui costituiva (Francia ) il blocco
dominante in lotta per l’egemonia.
Rompere avrebbe voluto significare aprire una guerra aperta contro l’aristocrazia-nobiliare,
un’aperta minaccia alla sua esistenza, con ripercussioni immediata sulla recente stabilizzazione
moderata raggiunta nei detti Paesi.
2. Le rivoluzioni in Inghilterra, Olanda e nel Regno di Napoli erano state tremendi campanelli
d’allarme sulla necessitò di tenere sotto controllo non tanto la costituenda forza del proletariato,
che pur aveva fatto minacciosamente sentire la sua presenza già nei moti dei Ciompi e di Londra
della fine del Trecento, quanto e di più del movimento contadino, ed ancora prima la Guerra dei
Contadini in Germania e l’intero Movimento Riformatore del Cinquecento che vide bene al centro
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proprio il movimento dei contadini e forme diverse di guerra dei contadini, che solo le vecchie
classi potevano tenere a bada. E la borghesia stessa dipendeva ancora in larghissima parte dalla
campagna e dal profitto agrario per potersi permettere il lusso di allentare la presa sui contadini
ed allentargli il morso. E questo morso era ancora il dominio aristocratico nobiliare, che non
poteva ex abrupto essere soppiantato. Il processo di separazione dell’industria dall’agricoltura era
ancora agli inizi e la penetrazione capitalistica nelle campagne ancora gli albori. Lo stesso
processo produttivo capitalistico avveniva nelle campagne attraverso il lavoro a domicilio, dove il
lavorante manteneva ancora la sua fisionomia principale di contadino e solo in subordine di
lavorante.
Lo stesso sviluppo capitalistico avrebbe ancora, ed abbondantemente, attinto dalle campagne:
saranno le campagne la base dell’accumulazione originaria e saranno le campagne a fornire le
prime schiere di proletari.
In queste condizioni doveva essere trovata una soluzione, che non modificando l’essenza borghese
della Pace di Westfalia, consentissero alle ancora presenti forze aristocratico-nobiliari una loro
esistenza.
Il mantenimento della corona di Spagna, oramai in posizione subalterna e del suo dominio nel
Regno di Napoli: questa era la via d’uscita.
Se noi poniamo dentro questo quadro l’intero svolgimento dei rapporti Repubblica
Napoletana - Francia essi acquisiscono contorni meno sfumati e più nitidi.23
La flotta francese si fa vedere nella baia di Napoli, ma non andrà oltre un sostegno di facciata, non
portando a termine alcuno degli obiettivi dichiarati: sbarcare uomini a terra, conquistare un porto.
§ 2.3 Enrico II di Lorena, duca di Guisa
Le cronache ed i resoconti circa Enrico II di Lorena, duca di Guisa, sono assi contraddittori.
Giunge a Napoli e si presenta come accreditato dal re di Francia ed in quanto tale viene accolto da
una parte delle forze rivoluzionarie, altre vi si opporranno, tra le quali quelle facente capo a
Gennaro Annese, Marcantonio Brancaccio, Tenente Generale, ed altri. Unisce attorno a sé un
gruppo di fedeli, per lo più ostili al governo diretto da Annese e trova nel contempo un sostanziale
ed assai poco celato sostegno da parte delle forze spagnole, che non attuano alcun impedimento,
intercettazione od altro, al suo sbarco in Napoli. Il suo tentativo di farsi riconoscere capo del
movimento falliscono miseramente, nonostante avesse intrigato molto e cercato attraverso
l’assassinio di capi popolari a lui oppositori di superare le difficoltà che incontrava nel suo progetto.
I dati più immediati e che non convincono sono:
il sostegno francese alla repubblica Napoletana ed il ruolo e l’agire del Guisa, ossia di Enrico II di
Lorena, duca di Guisa.
Non è pensabile che il Guisa potesse agire in Napoli come uomo della Francia senza l’approvazione
della Francai stessa. La Repubblica aveva suoi contatti con la Francia e le sarebbe stato assai facile
verificare la fondatezza delle dichiarazioni del Guisa, anche perché la Francia poi non mandò
nessun al di fuori del Guisa.
Il Guisa era persona ben accetta dalla curia romana.
Guisa faceva parte del più feroce estremismo cattolico, quello delle feste, delle luminarie, dei tridui,
dei “ Te Deum” e degli affreschi celebrativi delle stragi di san Bartolomeo.
Ai tempi delle guerre di religione in Francia ( 1562-1598 ) i Guisa erano stati a capo della “ Lega
Cattolica”, predominante a Parigi e nelle province settentrionali francesi. Lega che era la quinta
colonna spagnola in terra di Francia.
§ 2.3.1. La Francia.
E’ probabile che la Francia abbia messo in atto una tattica assai duttile:
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appoggiare direttamente il Movimento rivoluzionario al fine di indebolire la Spagna al tavolo delle
trattative e mettere comunque un piede avanti. Va qui ricordato come sin dal Cinquecento agenti
francesi operavano nel Regno e continuarono ad operare fino a tutto il periodo risorgimentale,
1860-70; vanno qui ricordate le congiure e congiurette imbastite dal Mazzarino, di cui si è detto. Il
trattato di Plombiers tra Cavour e Napoleone III del 1858 dice bene, e conferma di più, l’asse
strategico della politica internazionale francese per quanto attiene il Mediterraneo, al fine di avere
per sé porti e minacciare lo strapotere della marina britannica.
Il Guisa è stato mandato avanti dal Mazzarino:
1. per non irretire la curia romana. il Guisa, persona fidata della curia, era in grado di essere garante
degli interessi curiali: segnale questo francese che il suo operare non costituiva minaccia per Roma;
2. forza comunque moderata che in estrema ratio i baroni avrebbero potuto digerire. Ed il Guisa
tentò di attrarli nella proprio sfera, ma la sua proposta venne rifiutata;
3. forza moderata in grado di contrastare l’ala rivoluzionaria che egemonizzava la rivoluzione, in
grado di essere punto di coagulo delle forze moderate borghesi e farli staccare, garante il Guisa,
moderato, dei loro interessi e passaggio credibile per un loro agganci alle forze francese presenti
nella curia Roma e quindi persona credibile per una futura mediazione con la Chiesa: i Barberini.
Si tratta di leggere qui l’unità e lotta.
Da una parte la lotta che vede opposta la Spagna alla Francia, ma dall’altra esisteva un problema più
generale che era quello di ricondurre assolutamente la rivoluzione napoletana entro limiti moderati,
di porla comunque sotto un qualche controllo: era andata ben oltre ogni ragionevole limite, senza
che alcuno fosse in grado almeno di sapere, di conoscere intenti ed agire futuri ed immediati.
Nel frattempo la stessa Francia aveva visto manifestazioni popolari di donne che dicevano di voler
fare come Masaniello a Napoli.
Il sostegno e seguito che il Guisa incontrò ed il suo operare, possono ben costituire l’indice di
forze borghesi moderate che si spostarono sul Guisa.
Ed in verità gli atti formali della Repubblica: modi e forme dell’alleanza con la Francia
costituiscono la mediazione tra due tendenze presenti nel movimento:
una indipendentista, espressa dalla forze popolari e da forze radicali della piccola e media
borghesia
l’altra, antispagnola. espressa da settori di borghesia ricca, nobili non di seggio, ecc.
§ 2. 4. Il dibattito teorico
Le posizioni indipendentiste sono ben espresse in “ Il Cittadino Fedele ”:
“
.. voi ancora potete mandare i Deputati a Monster - rappresentanti al Congresso di
Munster - dove si preparava la pace di Vestfalia, sottoscritta nel 1648 e che concludeva la Guerra
dei Trent’anni - e fare istanza d’esser compresi nella pace Universale, come han fatto gli stessi
Olandesi ed i Catalani, per assicurare con la fede di quel Congresso e dei Prencipi ( con i quali
potete confederarvi ) la libertà per sempre, godendo dei benefici della congiuntura corrente ,
ricordandovi che simili gravezze del 1356 e 1418 stando la Regia Maestà in Napoli, ottenne il
Popolo che governassero otto, che furono chiamati del buon governo… Et che perciò questi
presenti moti .. mentre le forze del Re di Spagna sono in tante parte divise et impegnate in
Catalogna, Fiandre, Germania, Portogallo, Stato di Milano, Sicilia ed altrove .. né può avere o
sperare aiuto dai suoi aderenti , occupati tutti nella cura e custodia dei propri domini.. .”
In “ Lettera scritta da un Personaggio Napolitano agli ordini del Regno di Napoli, nel quale
dà loro una breve istruttione per formare la nuova Republica .” vengono tracciate le linee di
politica internazionale, che possano consentire alla Repubblica di muoversi tra le contraddizioni
esistenti in campo europeo e quindi di svolgere una sua politica sul terreno internazionale in grado
stringere le opportune alleanze per salvaguardare così la Repubblica
“ Inoltre questo Inverno dovrebbe attendersi a strette negotizationi con Potentati stranieri,
massime con gli interessati nella medesima vostra causa. .. Ambasciatori segreti a Portogallo ed
impetrare da quel re la sua Armata, ogni volta che dal Brasile ritorni ed in questo non risparmiar
preghiera o danaro; .. . Né sarebbe disutile spedire un huomo di partito in Olanda, e far a quegli
Stati le dimande medesime. E quantunque quella Repubblica ( la quale avete a venerare per Dea
), sia tornata in amicitia co’ Spagnoli, potrà nondimeno soccorrervi con il darvi a nolo i suoi vascelli
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con altro pretesto; giacché la lega con la Spagna - l’accordo degli Olandesi con la Spagna – non
contraddice ai vostri disegni, ma a quei dei Francesi. In somma potreste trattare una lega in
commune con tutti gli Stati separati e smembrati dalla Corona di Spagna.
Vi consiglierei ancora a passare qualche ufficio con la Republica di Venetia, non già perché hora
ve ne possiate promettere, stando ella impegnata nella guerra di Candia, ma acciocché con le
prattiche non procuri frastornare i vostri disegni. Che perciò dovreste per tempo stringere con le
amicitia, affine che ella gelosa che voi non sorgiate con pretendenze vaste, non pensi a farvi
contro per tempo e per ogni strada. Et il sollecitare e confortare unitamente all’impresa i Popoli di
Sicilia lo stimerei partito profitttevole. E’ quella gente avvezza a seguire la vostra fortuna, et hora è
agitata dalle medesime cause che voi. Potreste perciò offerire l’unione della Republica et esibire
prerogative eguali o poco inferiori o almeno la lega offensiva e difensiva a favor della libertà
commune.
Vi consiglierei similmente a mandare un editto pubblico, con il quale dichiarare che non è vostra
intentione ritenere l’entrate de’Benefici a quelle persone Ecclesiastiche che di presente le godono,
et universalmente vorrei che mostrasse gran pietà ed affetione verso la Sede Apostolica, .. ciò
giova assai ai vostri particolari interessi. Le persone ecclesiastiche possono in Roma farvi gran
guerra col consiglio e con l’oro se non con la forza e con ferro. Oltre che i Pontefici haverrebero
sempre buoni pretesti d’invadervi o congiungersi con i vostri nemici… riconosceste non solo con il
tributo ma con ogni altro ossequio non pregiudiziale.”.
I due testi mostrano sfumature di orientamento più generale, che fissano bene il dibattito e gli
orientamenti prevalenti all’interno delle forze rivoluzionarie.
Il punto di entrambi i lavori è l’autonomia della Repubblica, il suo dover agire per sé e da sé senza
affidarsi a questo o a quello.
§ 3. L’isolamento della Repubblica da parte delle forze borghesi europee.
La posizione del governo mentre da una parte si affida alla Francia, anche perché l’unica che si era
fatta avanti, ma non provvede a quanto “ Il Cittadino Fedele “ indicava, dall’altra non si piega al
Guisa e sa bene condurre la battaglia per la sua autonomia ed indipendenza ed anche i capitolati
d’accordo sono tutti all’interno della salvaguardia dell’indipendenza e dell’autonomia e della
dignità nazionali, ben altra cosa dall’accattonaggio della borghesi compradora regnicola e italica.
La posizione di stabilizzazione moderata guisiana non trova gli oggettivi spazi di manovra e
viene rapidamente bruciata. Lo sviluppo alto della rivoluzione aveva ben mostrato le difficoltà
insormontabili di porre sotto controllo quella rivoluzione. Era andata ben oltre i Livellatori inglesi,
aveva prodotto un ben saldo, vasto ed intercambiabile gruppo dirigente, un eccellente intellettuale
collettivo, Gramsci lo chiamerebbe senz’altro “ un moderno Principe” in grado di sostituire ed
integrare i capi che cadevano sotto il fuoco nemico. La rivoluzione aveva portato ad un livello
inesplorato la Teoria politica: del cittadino portatore di diritti ed il popolo unico depositario del
potere, della distinzione dei poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario prevedendo le opportune
forme di bilanciamento in grado di impedire che uno di questi sopravanzi l’altro: che è poi un
livello teorico giureconsulto che si svilupperà in modo approfondito solo agli inizi degli anni
Quaranta del XX secolo; dello Stato; della Democrazia: democrazia formale, democrazia
sostanziale e mandato, e dei suoi livelli istituzionali, amministrativi, militari e giurisdizionali; della
Scienza Militare e dell’organizzazione militare in tempo di pace e di guerra e questi strumenti ed in
funzione delle garanzie democratiche e della Libertà.
Gli stessi borghesi inglesi, francesi, olandesi, inoltre, non potevano volere una Repubblica
forte e florida – si ricordi qui quanto l’anonimo Personaggio napolitano scrive a riguardo – ben
piantata nel cuore del Mediterraneo in grado di tenere testa e sviluppare una sua posizione nel
militare e commerciale nel cuore del Mediterraneo; una Repubblica forte, florida ed indipendente ed
n grado di difendere la sua indipendenza da condizionamenti ed investiture straniere; ed essere così
in grado di contrastare piani ed egemonie francesi ed inglesi. Questi dall’abbattimento di una tal
Repubblica – si ricordi che la congiuretta con il principe di Savoia prevedeva porti francesi sul
Tirreno e sull’Adriatico, qui invece la Francia si deve accontentare della “ gloria” – ne traevano
l’indubbio vantaggio di rimanere padroni del Mediterraneo e tenere l’Italia soggetta e quindi in
grado di stabilire rapporti di aiuto ed alleanza ottenendone in cambio posizioni e sbocchi nel
Mediterraneo.
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Abbandonarono così la Repubblica Napoletana e con essa la borghesia meridionale, ai cani da
guardia spagnoli e vaticani il compito del massacro, di “ estinguere nel sangue la Rivoluzione.
Essi se ne tennero ben in disparte, ma furono esse che ne trarranno vantaggi e profitti e questo sta
ben ad indicare le modifiche intervenute nel giro di un secolo, dalla pace di Chateux Cambrais,
1559: la Spagna ridotta a cane da guardia per conto di altri, ossia la Spagna ridotta a ruolo
subalterno alle nascenti potenze nazionali borghesi: Francia ed Inghilterra.
La Spagna e le forze aristocratiche nobiliari non potevano permettersi il lusso di perdere questa
riserva finanziaria e feudale, base dei loro arricchimenti ed esigeva la testa della Rivoluzione, “
l’estinzione in via di sangue” di machiavelliana memoria della Rivoluzione, condizione unica per il
ripristino del vecchio ordine “ delli Baroni”, come diceva l’Appello del D’Arcos.
La Rivoluzione venne così consegnata nelle mani dei suoi carnefici,
La Spagna e la Curia Romana furono in grado di concentrare truppe e mezzi, ed avute le mani libere
e le assicurazioni di alcun intervento a nessun titolo e livello poté scatenare il massacro.
E quell’accordo di tacito assenso e di garanzia dell’impunità resta ancora a tutt’oggi ben saldo
e nessuna forza osa rompere quel patto di sangue di silenzio.
Il silenzio sulla rivoluzione del 1647-48, la produzione teorica tendente a nascondere, celare,
mistificare oggi a 350 anni di distanza, è il mantenimento ancora di quel patto scellerato di sangue
che le potenze borghesi strinsero. Ed il fatto che la borghesia italiana fa ben lega con queste sta ben
a dire che è essa stessa dentro quel patto di sangue sottoscritto all’epoca, essendo essa la figlia
diretta di quella borghesia compradora, di quella nobiltà mentecatta alla tavola del re di Spagna, il
cui motto assoluto era ben scritto su tutti gli stemmi: “Franza, Spagna o Alemanna basta che se
magna” e quindi, per il suo, mandataria anch’essa di quel massacro, a cui in verità vi concorse con
mezzi finanziari ed uomini. Ed in verità quel motto è la borghesia italiana di ieri e di oggi: quel
motto è la borghesia italiana mentecatta ed accattona pronta a darsi a chi le lancia una elemosina di
più; sempre avida ai banchetti altrui, da cui cerca di arraffare briciole e qualche pacca sulla spalla:
ieri come oggi pronta a fare del territorio nazionale luogo e mercato di scambio in cambio di
qualche rendita, pensione o « ayudas de costa»
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Capitolo Sesto
La fine della Repubblica
§ 1. La vile mattanza.
Le condizioni in cui matura l’assalto alla Repubblica sono di un’atrocità unica, che vede coinvolto
in prima e personale persona il papa Innocenzo X e Filomarino.
I fatti si commentano da soli.
Ci limitiamo pertanto ad una esatta cronologia ed all’indicazione delle fonti d’archivio.
Il conte d’Ognate, chiamato dal 1. marzo. 1648 alla carica di viceré, fa richiesta formale al Papa di
promulgare un Giubileo Speciale. Nel ricevere il Nunzio Apostolico il 12. marzo dichiara:
“ di rassegnare la sua unica speranza nelle preghiere del Papa e nel Prossimo Giubileo”24
Il cardinale Filomarino si mobilità e mobilita tutti i preti, e monaci, e frati e suore di Napoli per il
Giubileo.
Il clero comincia a disporre gli animi alla pace, profittando della prossima Pasqua del 6. aprile.
1648.
Il Papa pubblica il giubileo “ per eccitare con l’esempio la pietà altrui, in modo da rendere più
efficaci le preghiere tanto necessarie per la presente condizione di cose.” ( marzo 1648 )25
Innocenzo X invia direttive al Nunzio di Napoli ed al Filomarino direttive affinché dispongano per
la prima processione il giorno dell’Annunziata e la seconda per il 27 marzo, nei quartieri tenuti
dagli spagnoli. La forma, in deciso contrasto con il giubileo in sé, è una forma dimessa, senza
pompa alcuna; vesti liturgiche, statue, altari, emblemi, architetture delle chiese tutto è in forma
dimessa, a lutto, senza paramenti sgargianti e faraonici. Il segnale è chiaro: aperto dissenso della
Chiesa nei confronti della guerra che vedeva opposti i popolani agli Spagnoli.
Nel clima giubilare le truppe spagnole fatte affluire in abbondanza preparano l’attacco alla città e si
preparano al massacro.
Domenica 6. aprile. 1648, Pasqua dell’anno santo il Cardinale Filomarino “ a capo delle
truppe vicereali nella Pasqua del 1648 sprona i soldati all’assalto dei quartieri popolari.”26
“ Il Cardinale vestito questa volta pontificamente, montò sulla chinea – cavallo bianco che viene
donato in segno di vassallaggio dal regno di Napoli al papa – fra una moltitudine di armati. Erano
3000 ma tutti irresoluti, pensierosi e titubanti: la fiera voce del Cardinale vinse la loro pusallinimità
e li spronò alla vittoria. Nella cavalcata che potè ben dirsi trionfale perché non vi fu traccia di lotta,
il cardinale pretese il posto d’onore tra il Viceré ed il principe don Giovanni d’Austria.”27
Il popolo di Napoli venne colto alla sorpresa da un attacco fulmineo e su più direttrici, intento come
era in quella giornata della santa Pasqua in Chiesa e nelle famiglie.
L’assalto guidato dal Cardinale con alla testa la Croce non fu inteso dal popolo in armi quali un
assalto, troppo tardi comprese l’inganno, ma era veramente tardi: il massacro, il macello, lo
scannatoio era ormai in buono stato di avanzamento. L’intero apparato militare, non aspettandosi
affatto alcun attacco ed in quella forma: il Cardinale che guida l’assalto e la Croce e nel giorno di
Domenica della santa Pasqua.
Ciascuno dal suo posto si difese, difese l’onore della Rivoluzione, A miglia caddero sotto il ferro
del Cardinale. In migliaia rifiutando di gridare viva il re: Matteo dell’Amore, Lorenzo di Lando
che rispondevano con “ Viva il Popolo”
Le cronache riportano:
“ ‘Al viva chi’ i popolani rispondevano “ Viva il Popolo” e venivano uccisi.
Il 17. maggio. 1648 venne stipulata la pace di Munster tra il re e gli Stati dei Paesi Bassi.
Feroce fu la repressione che si protrasse per mesi: centinaia di migliaia uomini e donne passati
massacrati. Nel solo primo giorno: Domenica 6. aprile. 1648 della santa Pasqua dell’Anno santo
migliaia gli assassinati, donne violentate, bambini massacrati.
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Ritornò l’ordine “ delli Baroni” ma il popolo meridionale era stato sconfitto non battuto e
riprese la via della lotta: giovedì 19. novembre. 1648 alcuni quartieri ripresero la via della lotta.
Il movimento di lotta si protrasse con sollevazioni e forme armate fino al 3. giugno. 1655,
ossia ancora per otto anni.
Genia maledetta questa meridionale, bisognava estirparne il seme. Bisognava veramente
estinguerla tutta questa genia ribelle, che non si piegava, che nulla la intimidiva e pronta sempre
alla lotta; e si che se ne erano massacrati, violentati, bruciati vivi: niente si era sempre punto e
daccapo
Il problema di porre fine a tutto questo, di mettere veramente fine a questa storia era un
problema vero, serio. Bisognava pur dare garanzie di rendita e di stabilità, bisognava pur consentire
ai possessori di rendite di godersele le loro rendite, costretti invece a fuggire, a vivere nel terrore di
sommosse popolari e guerre per bande di contadini. Il regno non trovava pace e tutti gli accordi non
valevano niente. La Spagna non riusciva ad entrare in possesso reale del suo dominio e la canea dei
nobili regnicoli e di italica stirpe non erano in grado di essere liberi e sicuri delle loro proprietà.
Si era fatto trenta si doveva fare trentuno: la Peste!
§ 2. La peste a Napoli, 1656
Ghirelli così ne scrive:
Gravi inefficiente ed ancora peggiori insabbiamenti di casi eclatanti del morbo e
incarcerazione del medico napoletano: Giuseppe Bozzuto, che curava gli infermieri e
informava il viceré del morbo che dilagava. Le autorità sanitarie ufficiali non solo
negavano, ma davano spiegazioni svianti sui sintomi delle morti per il peste. Anche
quando alla fine furono costretti: autorità sanitarie e viceré, a riconoscerne l’esistenza
continuarono le inadempienze e gravi sottovalutazioni.
“ Mentre pullulano i miracolosi rimedi dei ciarlatani, il clero alimenta con zelo alluvionale le
pratiche religiose, alternando le confessioni al viatico, le penitenze ai digiuni, le processioni ai
giubilei e moltiplicando così incoscientemente le occasioni del contagio.28
“ … la furia del morbo ha finito per concentrare la collera popolare proprio contro il governo
spagnolo, che i vecchi ribelli cominciano ad accusare più o meno velatamente di aver trascurato
tutti i rimedi validi nella speranza di sterminare la povera gente, .. .”29
“ Il morbo dilaga ben presto a Roma, negli Abruzzi, in Umbria, salvando il litorale toscano, ma
senza risparmiare quello ligure fino a Genova.”30
“ Napoli ha perduto scienziati, medici, artisti, curiali, magistrati, cioè una parte sostanziale dei
suoi quadri dirigenti, oltre ad enormi masse del popolo grasso e minuto. Infine ricchezze risultano
irreparabilmente distrutte o passate di mano attraverso furti, truffe, intrighi, falsificazioni di ogni
genere. Le dispute ereditarie moltiplicandosi in un groviglio di cavilli e di imbrogli, accrescono
l’influenza dei paglietta. L’arricchimento improvviso, la concentrazione di molti beni nelle mani di
pochi.. .”31
“ … abati che gettano la sottana alle ortiche per sposare una donna galante, e vedove della buona
borghesia che accettano come amante l’ex cameriere, tra analfabeti che si improvvisano avvocati e
vecchie comari che si caricano di ornamenti e monili d’oro, come madonne sull’altare.”32
Il re Borbone di Spagna, la curia romana – e per essi il viceré ed il cardinale Filomarino,
l’aristocrazia nobiliare regnicola e di italica stirpe, la borghesia compradora diffusero scientemente
il morbo della peste. Un’ammissione indiretta vi è già in Ghirelli quando dice del medico
imprigionato, ma non dice tutto.
Fu lasciato, semplicemente, che proveniente dalla Sardegna appestata, alcune navi alle quali erano
stati chiusi tutti gli altri porti della penisola, potessero non solo entrare nel porto di Napoli, ma fu
consentito ai marinai di sbarcare.
Salvatore di Giacomo così ne scrive:
“ La peste continuò l’opera distruttiva. Corse voce che gli spagnoli l’avessero con meditato disegno
di vendetta, fatta allignare in Napoli dalla Sardegna; ma se non fu disegno di oppressori la causa
di tanto male fu certamente una interessata lor imprudenza.”33
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Scoppiata la peste, i preti ne approfittarono per dire che era castigo di Dio. Sostenevano che il
morbo si era diffuso esalando mefiticamente proprio dal vicolo in cui Masaniello era nato.
Per la Chiesa fu un’autentica manna dal cielo, giacché in quel periodo centinaia furono le donazioni
ed altre centinaia i patrimoni caduti in suo possesso, secondo le vigenti leggi di allora, per queli che
morivano senza testamento o senza eredi.
§ 3. Intellettuali e Popolo.
Non si insisterà mai abbastanza sulla eccezionalità della rivoluzione borghese nel Regno di
Napoli e l’altezza politica, teorica e culturale che essa raggiunse.
Può servire considerare l’eccezionale clima culturale che venne ad aversi nel corso della rivoluzione
borghese, che raggiungerà vette inedite e mai più superate dall’intero processo rivoluzionario
borghese e che trova forti e decisivi momenti di continuità solo con la Rivoluzione d’Ottobre e con
la Rivoluzione Cinese.
Un altro aspetto interessante della direzione politica del movimento fu l’impegno di collegarsi alle
tradizioni culturali e di mobilitare intellettuali, scienziati, artisti per legittimare e diffondere i
contenuti ideali e gli indirizzi politici della rivolta. La Partenope Liberata di Giuseppe Donzelli,
infatti, fu scritta e pubblicata per diretta sollecitazione dei capi popolari:
“ Per ubbidir poi a havea l’autorità espressamente comandarlo, ho posto insieme questo volume
…. essendomi convenuto di star sempre con l’armi nelle mani, non mi rimaneva altro tempo,per
dettar l’opera, che quel solo che io toglieva alle brevi hore che assegnatamente mi si
concedevano per risotrare co’l vitto e co’l sonno li continuati patimenti dell’Individuo.”
[ Donzelli, Partenope Liberata ]
Vi fu un raccordo diretto tra intellettuali e capi rivoluzionari. I quadri di Micco Spadaro sulla
rivoluzione sono stati commissionati o comunque ispirati dai dirigenti politici della rivolta.
L’idea di fare di un avvenimento del genere il soggetto di una serie di dipinti è un fatto nuovo nella
storia della pittura italiana. Francis Haskell ha segnalato la novità a proposito dell’opera di
Michelangelo Cerquozzi: un fatto “ avvolto nel mistero (..) dato che simili rappresentazioni di
avvenimenti contemporanei erano pressoché sconosciute nell’arte italiana del Seicento.”
La descrizione di insieme di Micco Spadaro si riferisce alla prima fase della rivoluzione; ad essa si
devono aggiungere, per avere una visione completa del suo contributo, anche i dipinti minori su
episodi particolari, e soprattutto quello sull’uccisione di Giuseppe Carafa.
I quadri dello Spadaro corrispondono ai contenuti, ai gesti, ai simboli della rivoluzione,
contribuiscono a fissarne gli orientamenti ideali e politici, dimostrano una notevole consapevolezza
dei problemi che erano sul tappeto: le loro indicazioni scaturiscono dall’interno dell’avvenimento,
corrispondono all’immagine che gli stessi capi rivoluzionari volevano dare, specialmente per quel
che riguarda il drastico risanamento della piaga del banditismo e l’eliminazione delle pericolose
infiltrazioni di banditi nella capitale, la punizione degli speculatori e degli elementi più faziosi e
violenti della nobiltà, la glorificazione di Masaniello. Il pittore dunque attinse al comune patrimonio
di idee politiche popolari che si formò e si diffuse in quel periodo; ma non improbabile che siano
stati gli stessi capi popolari ad ispirarlo e dirigerlo, secondo un disegno di informazione e diffusione
delle idee che, come si è già visto per Donzelli, si servì di rappresentanti della cultura.
Salvator Rosa, poeta notevole oltre che pittore di fama, nella composizione poetica del 1647:
“ La guerra” Masaniello viene ricordato con versi pieni di forza e di sentita partecipazione.
La cultura napoletana della prima metà del Seicento era in qualche modo preparata nel suo
insieme, già prima del 1647, ad una esperienza particolarmente intensa di impegno civile e di
tensione ideale. Si salda indissolubilmente con quella tradizione culturale e civile che aveva
caratterizzato la battaglia in difesa della tolleranza contro l’ordine imperiale di sottomettere gli
importanti centri di san Domenico Maggiore ed altri alla piattezza dogmatica ed all’insipienza
tridentina.
Il confronto tra Spadaro e Cerquozzi mette ulteriormente in risalto il diverso grado di partecipazione
dei due artisti e di interesse documentario delle loro opere.
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Fu talmente profonda la rivoluzione borghese nel regno di Napoli che sconvolse tutta la
precedente concezione della politica, imponendo modifiche nello stesso apparato definitorio della
Scienza della Politica.
E’ proprio a questa esperienza storica che si può far risalire l’uso da parte di storici del concetto di
rivoluzione per indicare un fenomeno di trasformazione sociale e politica, che coinvolge masse
consistenti di popolazione. Precedentemente il termine rivoluzione stava ad indicare soltanto la
descrizione di un moto degli astri. Per i fenomeni di disordini sul terreno sociale, che nella “ crisi in
Europa” del Seicento, è il vero e grande e problema della riflessione politica, si adoperavano una
quantità di termini notevole. Benzoni in “ Gli affanni della cultura”, Feltrinelli, a pagina 129
impiega una fitta mezza pagina per enumerarne ed elencarne gran parte.
§ 4. Echi ed influenza in Europa
Ma la rivoluzione borghese nel Regno di Napoli seppe essere un contributo teorico, politico,
civile, e militare di eccezionale importanza.
Spinoza e Cromwell sono tra i primi grandi personaggi a testimoniare non solo la conoscenza, ma
ammirazione profonda per Masaniello.
Colereus, biografo ufficiale di Spinoza, annota di aver ritrovato tra le carte del filosofo olandese
“ Un intero libretto di ritratti ad inchiostro o carboncino di illustri personaggi che lo conoscevano e
che occasionalmente gli rendevano visita. Tra gli altri trovai al quarto foglio un pescatore ritratto in
camicia con una rete sulla spalla destra: proprio come appare nell’iconografia il famigerato capo
degli insorti napoletani Masaniello. .. era somigliante come una goccia d’acqua, attesta il signor
Hendrik van der Spyk, suo ultimo proprietario di casa, a Spinoza, il quale l’aveva senza dubbio
disegnato prendendo se stesso a modello.”
Singolare è la presenza di una raffigurazione pressoché uguale in una stampa tedesca.
A sua volta Cromwell compare in una medaglia che ha dall’altro lato l’effigie di Masaniello.
Gregorio Leti sostiene nel 1666 che Masaniello e Cromwell sono esempi di rivoluzione per
l’Europa.
Intorno a quegli anni, 1650-52, in Inghilterra un segno di attenzione parallela alla rivoluzione
inglese ed a quella napoletana fu la diffusione di medaglie che portavano per un verso l’immagine
di Cromwell e nell’altro quella di Masaniello.
Più esplicita ed interessante è un’altra medaglia non registrata nei cataloghi pubblicati ma
conservata nel Department of medals and coins del British Museum, attribuita a Pietro Aquila e
datata 1658. Attorno alla figura di Masaniello sono rappresentati, infatti, alcuni elementi essenziali
dei primi giorni della rivolta: una casa in fiamme, che rappresenta un episodio centrale e
particolarmente significativo della prima fase rivoluzionaria; una scena di violenza popolare che
probabilmente si riferisce anch’essa agli incedi delle case dei nobili e speculatori, ed un’ordinata
schiera di soldati spagnoli
Si è visto già come la figura di Masaniello viene immediatamente identificata con la figura
dell’Eroe borghese per eccellenza, del simbolo della Libertà; sinonimo di Libertà.
E’ questo poi il senso profondo di quel disegno di Spinoza che ritrae Masaniello dandogli le
sembianze di Spinoza stesso, come a significare essere lui stesso Masaniello ed è nota la figura di
Spinoza come grande campione della Libertà.
Ma questo non è ancora tutto.
E se la distruzione del materiale rivoluzionario fatto con accanimento dopo la fine della ribellione e
rivolta in maniera particolare agli scritti che documentano la capacità di dare contenuti politici e
culturali al movimento indipendentistico antispagnolo è prova documentaria inappellabile della
potenza di quell’esperiena: a dichiarazion di parte, inutilità di prove, ancora di più è la
documentazione circa la produzione degli elaborati del periodo rivoluzionario in tutta Europa e
dell’attenzione forte se Parlamento inglese, olandese, francese e quella di Venezia chiedono ai loro
ambasciatori ed inviati resoconti attenti e puntuali e se i giornali dell’epoca riportano con dovizia di
particolare gli sviluppi della rivoluzione e se documenti, libri vengono pubblicati in più edizioni e
se molte saranno le produzioni letterarie: racconti, rappresentazioni teatrali, poesie, saggi storici di
evocazione di quella rivoluzione in Inghilterra come in Francia come in Olanda.
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Enorme fu, cioè, l’influenza e la conoscenza dei contemporanei europei degli sviluppi della
rivoluzione del 1647-48.
In realtà quella rivoluzione ebbe in Europa una risonanza immensa: fatto che di per sé
costituisce un problema storico, che non può essere sbrigativamente attribuito ad
ingenuità ed a gusto del folclore. Il Parlamento inglese fu informato tempestivamente
degli avvenimenti napoletani. … il presidente del Parlamento in Parigi, René Augier, inviò
dettagliati resoconti al presidente della commissione per gli Affari Esteri:
“ lettera del 10 novembre 1647.. Non voglio far partire questo corriere senza informarvi della
continuazione dei grandi avvenimenti in Napoli,dove il popolo ha costituito la repubblica, fatto a
pezzi i ritratti e le insegne del re di Spagna, chiamato il duca di Guisa alla carica di
Generalissimo… dichiarato suo protettore il Cardinale di Aix ( fratello di Mazzarino), impiccato
Toraldo, caduto in sospetto nonostante i suoi impegni…. . Il cardinale Mazzarino mostra di non
essere di non essere soddisfatto della scelta di suo fratello per protettore con la clausola “ durante
la guerra”, pensando che quando la guerra sarà finita i Napoletani sceglieranno come protettore il
cardinale Filomarino o qualcuno della loro stessa nazione, e d’altra parte, e d’altra parte se questa
clausola non fosse inserita il papa diventerebbe troppo geloso:..”
Una lettera successiva del 5 febbraio 1648, informa il presidente della commissione della
fuga da Napoli dei più grandi signori del Regno e della ribellione delle provincie che fino
ad allora erano rimaste fedeli.
“ […]. Gli Spagnoli perdono, con le ultime rivolte, tutte le forze che erano rimaste e così non sono
più capaci di tenere tanti bei paesi nonostante i loro sforzi. Nulla se non la pace li può salvare dalla
rovina. I ministri spagnoli vendono ai Genovesi la città di Finale per 600.mila corone e cercano un
mercante che voglia comprare il regno di Sardegna.
Lettere del 28 gennaio [ 1648] informano che Capua è stata è stata presa e che il Conte Onate,
ambasciatore spagnolo a Roma, ha ordine del re di andare a Napoli ad offrire ai Napoletani il
perdono per quello che hanno fatto, l’abolizione di tutti i sussidi e gabelle e la conferma dei loro
privilegi.”
La più importante opera inglese resta quella che James Howell dedicò all’episodio. Due anni
dopo, 1652, Howell scrisse una continuazione del racconto sulla base dei resoconti che gli furono
inviati da corrispondenti inglesi residenti in Italia ed ancora nel 1654 tornò sullo stesso argomento
pubblicando un quadro complessivo della storia recente del Regno di Napoli, insieme alla
traduzione di un’opera di Scipione Mazzella.
Con “ La ribellione napoletana o la tragedia di Masaniello”, scritta da un testimone dei fatti, inizia a
Londra la lunga serie di opere letterarie pubblicate in varie vari paesi europei sulle imprese della
giovane ribelle napoletano. Vi saranno anche importanti opere teatrali ed il lavoro di Giraffi.
L’interesse per la rivoluzione napoletana fu più intenso nelle Provincie Unite, che avevano in
comune con Napoli la tradizione di appartenenza alla monarchia spagnola. Ma la questione della
loro indipendenza era ormai praticamente risolta e l’ulteriore indebolimento della monarchia,
provocato dalla crisi napoletana, giunge troppo tardi per avere un’influenza di rilievo …
Gli Stati generale ricevettero dettagliati e tempestivi resoconti sia dal console a Venezia e sia
da informatori che risiedevano a Napoli. Le prime notizie furono inviate il 26 luglio a cui seguì
un’ampia relazione del 2 agosto e regolari informazioni nei mesi successivi. La relazione
napoletana si sofferma in particolare sul rapporto tra i ribelli e le istituzioni religiose e sulla seconda
rivoluzione del 21 agosto. 1647, mettendo bene in luce l’importante indicazione che il contrasto con
i gesuiti ebbe luogo fin dalle prime fasi della ribellione:
“ li padri Gesuiti facevano pratiche con la nobiltà, li cittadini et mercanti, ad effetto di opprimere
li populari, il Popolo era andata dal cardinale Filomarino con protestargli che se non rimediava a
questo negozio, esso popolo haveria fatto uscire fuori del regno tutti li padri Gesuiti con la sola
camisa e sotto calzoni.”
Documenti e relazioni tradotti in olandese furono diffusi in opuscoli e fogli volanti a poche
settimane dagli avvenimenti , contribuendo ad incrementare i ‘ pamphlet di guerra’. Seguì una
relazione inviata da Aversa l’8 ottobre 1647 sulla venuta di Don Giovanni d’Austria. Apparvero
diverse edizioni del manifesto che proclamava il distacco del regno dalla Spagna.
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Ad Amsterdam fu stampato nel 1647, in forma di manifesto, il testo dell’accordo tra il popolo
napoletano ed il duca di Guisa nel momento in cui assunse il comando delle milizie popolari.. . Il
documento esprime infatti sia la volontà di limitare i potere e le funzioni del duca e di regolare i
suoi rapporti con i capi politici del movimento. popolare.
Con tempestività l’opinione pubblica olandese seguì le vicende napoletane e precisione con cui
sono documentati i momenti essenziali di svolta: una conoscenza diretta e diffusa, dato il carattere
popolare delle stampe, della rivoluzione di Napoli che non può non avere avuto qualche influenza
sui fermenti popolari nelle Province Unite, se è vero che “ già nel 1651 Masaniello ispirò una
rivolta a Dordrecht”
Le Provincie Unite videro anche in seguito studi e pubblicazioni sulla rivoluzione napoletana e
la pubblicazione di scritti italiani sull’argomento come Traiano Boccalini Ragguagli della Pietra del
paragone politico; Donzelli Partenope Liberata, ecc.
In Francia
Il capitolo più rilevante, a proposito delle ripercussione della rivoluzione napoletana in Europa
riguarda la Francia. L’impatto fu forte a tutti i livelli e su diverse correnti di idee e tendenze
politiche; le spinte espansionistiche, la protesta sociale, il dibattito sull’ordinamento istituzionale, le
polemiche antimazzariniane ricevettero dagli avvenimenti napoletani impulso più che dagli altri
episodi contemporanei.
In seguito all’aggravarsi del clima di tensione nella capitale ed in particolare dopo una
manifestazione di una folla di donne parigine invocanti l’esempio di Napoli, Mazzarino cercò di
contenere la diffusione di notizie sugli avvenimenti napoletani. A Parigi appare nel settembre 1647
la prima immagine a stampa di Masaniello, che non riproduceva il volto reale, ma fissava gesti e
simboli, che sarebbero rimasti nella iconografia della rivoluzione napoletana. Era il segno di una
popolarità che aveva nello stesso tempo altre e non superficiali manifestazioni.
§ 5.Un primo bilancio.
§ 5.1 Ruolo e funzione della curia romana.
L’intero corso rivoluzionario: dicembre 1646-aprile 1648 è contrassegnato, decisamente
caratterizzato da questo semplice ed elementare dato:
le forze rivoluzionarie riescono ad accumulare forze, spostare rapporti di forza e spingere in avanti
il processo, ma sono contrastata dalla curia romana, che blocca, frena, devia. Le forze
rivoluzionarie riescono a respingerne la presenza, ad incrinarne ulteriormente l’egemonia e
riprendere il cammino interrotto, ma la curia si ripresenta in quanto forza economica, politica e
militare ed interviene nei punti alti del processo, costringendo le forze rivoluzionarie a sostare
l’attenzione su di essa. La curia romana, cioè, con il suo intervento impedisce al movimento il salto
qualitativo, imponendogli il segnare il passo; e così facendo consente alle forze reazionarie, di
riprendersi, riorganizzarsi ed attaccare.
La tattica della curia romana è abbastanza complessa:
per tutta la fase che le due forze si contendono assume la funzione di al di sopra delle parti,
quando la controrivoluzione è sopraffatta interviene richiamando su di sé le forze della rivoluzione,
costringendole in questo modo a disimpegnarsi dalla pressione sulle forze nemiche, alleggerendo
così la pressione su queste e mettendole in grado di riprendere fiato, riorganizzarsi, serrare le fila
ed essere pronte ad un nuovo assalto contro le forze rivoluzionarie. A questo punto la curia
romana lascia il campo per riprendere la sua funzione di al di sopra delle parti, di centro di
moderazione.
Questo sul piano immediato, su piano più immediatamente visibile.
Sul piano invece nascosto, invisibile – dietro le quinte – essa agisce sempre al servizio della
controrivoluzione; è una forza di costante sostegno politico, militare, ideale delle forze coloniali.
I conventi, di suore e di frati, le chiese, i campanili, l’Arcivescovado, il Duomo saranno il luogo
sicuro dove nascondere uomini, armi e munizioni; dove nascondere sgherri e camorristi al servizio
di nobili e borghesi arricchiti: base militare operativa per sortite contro la popolazione, base di
appoggio ed operativa, oltreché centro di provocazione e spionaggio, nelle fasi di attacco della
controrivoluzione. Qui le truppe avranno modo di nascondersi, qui avranno modo di essere ospitati
gli oltre cinquecento banditi che tenteranno prima l’assassinio di Masaniello e poi di attaccare la
città; le truppe e banditi che assalteranno la città in coordinamento con l’assalto da mare delle
.
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galere spagnole inviate da Madrid; questi i luoghi dove saranno nascosti gli ori i documenti di
nobili, borghesi, ecc. Nel corso della rivoluzione molti conventi e chiese e priori e abati e badesse
saranno giustiziati dalla rivoluzione per il ruolo di provocazione, spionaggio, assistenza a banditi e
soldati: non si terranno in disparte neppure le badesse dei conventi di clausura: anzi questi erano i
privilegiati, sicuri che nessuno sarebbe mai andato ad immaginare tanta nefandezza.
La chiesa cioè consentirà alle forze coloniali di resistere fino a quando la Spagna sarà in grado di
concentrare forze da inviare nel regno di Napoli e – nelle mutate situazioni internazionali –
schiacciare la rivoluzione borghese.
La chiesa, e questo punto va ben fissato e nessun equivoco deve sussistere in merito, agisce da
forza subalterna, funzionale alla strategia coloniale spagnola.
E’ forza subalterna, la sua è una tattica all’interno della strategia spagnola; è una forza tattica
alle forze spagnole. Si muove sullo scacchiere spagnolo ed è mossa dal re di Spagna da cui
dipende e ne è funzionale. La sua azione è azione tattica, giammai strategica; è parte, e quindi si
coniuga con essa, della strategia delle forze aristocratico-nobiliari, che nella corona di Spagna
avevano trovato punto di forza e cane da guardia. La Chiesa è cioè una forma organizzativa
della tattica della strategia spagnola. Sarebbe un errore mortale considerarla una forza autonoma,
un’altra forza, uno Stato nello Stato.
Il movimento rivoluzionario commetterà rispetto alla Chiesa due errori gravi, vitali per la stessa
rivoluzione:
da una parte non la considererà una forma organizzativa della tattica della strategia spagnola;
dall’altra la considererà forza ideale, religiosa, questo le impedirà di vedere che quella forma ideale
era la forma specifica, concreta, che quella forma organizzativa della tattica assumeva nel più
complessivo dispiegamento delle forze nemiche in campo. Scinde i due momenti in due atti
autonomi e distinti tra di loro e non ne legge l’intima unità; non ne legge, cioè, l’interdipendenza
relazionale tra i due momenti e di questi due momenti con il più generale piano strategico e tattico
delle forze reazionarie spagnole.
Non vedrà allora che la capillare struttura organizzativa della Chiesa ben serviva la sua funzione di
forma organizzativa della tattica:
le processioni, i monaci, i preti inviati nei quartieri, le chiese, le prediche domenicali, i confessionali
erano tutte le esatte, precise, articolazioni di quella forma organizzativa della tattica. In quanto tale
essa non poteva assolvere ad alcun ruolo strategico, poteva assolvere invece al ruolo tattico
appunto di attirare le forze rivoluzionarie su di sé e consentire al resto dell’esercito reazionario di
riprendersi, riorganizzarsi e ripresentarsi così, serrate le fila, di nuovo sul campo di battaglia:
funzione classica della retroguardia, che è appunto una forma organizzativa della tattica.
Non poteva quindi essere la chiesa la causa della sconfitta, l’artefice della sconfitta, ma solo
elemento tattico che concorre con tutti gli altri elementi delle forme della tattica al conseguimento
dell’obiettivo tattico, che la strategia aveva posto, all’interno del più generale piano strategico alle
varie forme dell’organizzazione della tattica, altre ne assegna alle altre forme: militari, istituzionali,
di propaganda, di agitazione, culturali, ecc. che tutte si compongono nel piano tattico generale ,
stabilito dalla strategia e dentro il piano strategico generale.
In quanto tattica essa non può avere il compito di dirigere un processo, ma di concorrere ad isolare
determinate forze, intervenire in determinati punti e spostare qui forze e rapporti di forza.
In quanto tale la chiesa è allora forza culturale, ideale, politica, economica e militare del piano
tattico spagnolo.
L’intero corso degli avvenimenti confermano appieno questo ruolo tattico e quindi subalterno,
funzionale al perseguimento degli obiettivi strategici che era quello, nelle condizioni specifiche, di
ritardare la rivoluzione, consentire alle forze spagnole di resistere e prepararsi ad inviare rinforzi, in
quel momento impegnate altrove e che non poteva essere distolte dai fronti di guerra in cui la
Spagna era impegnata.
Questo avrebbe dovuto far comprendere alle forze rivoluzionarie la necessità immediata, come era
stato fatto per le forze del viceré, di sottomettere militarmente questa forza e militarmente
neutralizzarla o imporle di mettersi al suo servizio. Lo farà nel corso della rivoluzione come fatto
episodico, non organico e concettuale. Ben diversamente Championnett che militarmente impose
alla Chiesa a Napoli di sottomettersi al potere delle armi francesi; ben diversamente Vittorio
Emanuele II, ben diversamente le truppe anglo-americane nel 1944.
Gli Eletti del Popolo, ossia i livelli istituzionali, costituivano un’altra forma organizzativa della
tattica, funzionale all’organizzazione ed alla costruzione del consenso/dominio; la camorra ed i “
bravi” al servizio dei nobili un’altra ancora: tutte a seconda della loro natura, avevano il compito di
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organizzare, controllare particolari forme organizzative del popolo concorrendo tutte al
mantenimento del consenso/dominio nelle forme, che di volta in volta si rendevano necessarie,
combinandosi cioè l’elemento pacifico, di convinzione, con quello violento della repressione.
Carceri, sbirri, esercito erano altre forme organizzative della tattica e tutte queste trovavano il loro
momento di sintesi e di direzione nella Giunta, nel viceré e nel Consiglio d’Italia, ove il momento di
direzione era esercitato dall’avanguardia della classe nobiliare, che era organizzata attorno al
Grandato di Spagna.
La Chiesa ha una struttura capillare ed i suoi elementi di base vengono dalle fila del popolo e
quindi mantengono stretti legami con il popolo e questo dà a loro una forte capacità di
penetrazione, di controllo, di spionaggio. La struttura capillare diffusa consente che ogni chiesa,
ogni convento, ogni edicola votiva può essere un punto di raccolta di forze nemiche, armi,
munizioni, punto di raccolta e riferimento. La loro veste religiosa consente loro di infiltrarsi,
spargere il veleno della calunnia: sanno molte cose, apprese nei confessionali in tempi normali e
tranquilli; tutto ricordano e tutto utilizzano. Queste consente loro infine di essere e dare copertura a
spie, provocatori.
La storia della chiesa è piena di questi provocatori e spie professionali infiltrati in missioni religiose
al fine di provocare rivolte popolari e giustificare così poi l’intervento militare delle forze imperiali o
imperialiste nei paesi del Terzo Mondo, come ben documenta Pannikar in “ Storia della
dominazione in Asia dal Cinquecento ad oggi.”.
La tattica adottata dalla rivoluzione borghese è stata quella di neutralizzarla, ma non di
sottometterla militarmente.
Il movimento popolare nelle campagne aveva già raggiunto un forte grado di autonomia dal
dominio spirituale della chiesa con il movimento nelle campagne, di cui si è visto, contro il
pagamento delle decime e degli obblighi feudali e con Sciarra aveva opposto una guerra armata a
preti, cardinali, vescovi e papa.
La rivoluzione inglese poté essere vincente proprio perché da tempo questa forza era stata
abbattuta e sottomessa al potere centrale inglese; non diversamente in Olanda ove attraverso il
protestantesimo e l’estromissione di quella cattolica, questa forza era stata sottomessa alle forze
borghesi in lotta. Il protestantesimo in definitiva costituisce esattamente questo.
Nelle specifiche condizioni del regno di Napoli non si era potuto fare diversamente, anche se forte
era stato il movimento contro l’Inquisizione.
Da questo punto di vista esemplare fu l’atteggiamento dell’esercito francese nel 1799, quando armi
in pugno imposero la realizzazione della liquefazione del sangue: quando Championnet entrò in
Napoli e successivamente. In questa seconda volta Championnet aveva deciso anche l’ora: 11.30.
Un drappello di uomini armati, penetrati nella sagrestia gettò sul tavolo degli officiandi, una borsa
con denari per i poveri della città ed alla risposta che era il santo che decideva posero sul tavolo
una pistola. La liquefazione del sangue avvenne quel giorno secondo i desiderati di Championnet:
alle ore 11.30.
Andavano posti sotto controllo tutte le chiese ed i conventi, spostati altrove i rispettivi occupanti e
destituiti priori, badesse, occupati militarmente in quanto centri militari del nemico, postazioni
nemiche, posti molte volte in punti strategici. La Controriforma aveva ben mostrato come assalti
militari in piena regola erano stati la norma per ripristinare l’ordine in monasteri e conventi che non
si piegavano agli ordini del Concilio di Trento. Andavano, poi, posti sotto il diretto controllo militare
e civile delle forze armate e degli organi civili di quartieri e tolti ad essi ogni funzione di
beneficenza: distribuzione delle minestre e dl pezzo di pane ai poveri. In tempi normali costituisce
questa un utile sostegno a formazioni reazionarie ed in rari casi moderate, quando non vi possono
provvedere le forze rivoluzionarie, diviene in tempo di guerra strumento di corruzione, repressione,
reclutamenti di elementi instabili.
L’intero apparato apicale doveva essere messo in assolute condizioni di non nuocere e quindi
trasferiti seduta stante ai confini con la stato romano.
Grave infine che si permise la propaganda controrivoluzionaria del cosiddetto miracolo del vescovo
di Benevento per tutto il periodo della rivoluzione
.
§ 5.2. Borghesia compradora ed aristocrazia-nobiliare italiana.
La seconda grande differenza è data dalla natura e composizione di classe del blocco
controrivoluzionario dominante.
Il gruppo rivoluzionario vide il principale, ossia il blocco: viceré, baroni e speculatori napolitani,
ma non vide tutta l’aristocrazia nobiliare italiana e non che insisteva sul regno di Napoli. Documenti
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dell’epoca parlano chiaramente di genovesi, lucchesi, fiorentini che avevano nelle loro mani il
commercio, che gestivano, ecc. ma non videro la complessità. Non videro che tali borghesi e nobili
attuavano un drenaggio di risorse nelle loro zone di origine al fine di attutire la pressione fiscale ed
attuare forme di accumulazione originaria. Non videro che sul regno, e nel regno, insisteva tutta la
canea parassitaria nobiliare italiana e non e tutta la borghesia compradora italiana.
Ossia che insisteva sul regno di Napoli e nel regno di Napoli l’intero blocco reazionario
aristocratico-nobiliare europeo, che si difese con maggiore tenacia nel momento in cui veniva
scacciata o decisamente ridimensionata dalle nuove forze borghesi. Difesero cioè l’ultimo ed
estremo lembo della loro esistenza fisica.
Queste agirono da forze invisibili dello schieramento controrivoluzionario e non furono
intaccate né minacciate. Furono esse che fecero la seconda grande differenza.
Spezzata la borghesia meridionale dai suoi legami con i borghesi di tutta Italia, che tramavano per
isolarla dai legami internazionali: Francia, Olanda, Inghilterra, si veniva a trovare in condizioni di
isolamento, che, allorquando la Spagna fu in grado di concentrare le forze, a cui concorse tutta
lacanea accattona e parassitaria dell’aristocrazia nobiliare europea, non poteva alla fine non pesare e
decretare la sconfitta. Queste forze internazionali agirono con pressioni a vari livelli sulla Francia,
affinché allentasse i legami con la repubblica guidata da Gennaro Annese. Fecero ben sentire tutto il
loro peso in tutto il corso degli incontri di Wunster, che ben si vide nel trattato di Westfalia del 1648
con il quale si chiudeva la Guerra dei Trent’anni. Ed essa si chiudeva proprio ed esattamente con il
decretare la sconfitta della rivoluzione borghese italiana e la consegna del regno di Napoli nelle
mani della Spagna, oramai ridottasi essa stessa a funzione subalterna alle potenze nascenti Francia
ed Inghilterra.
Capitolo Settimo
1660-1779
Ghirelli, come abbiamo riportato circa la Peste del 1657, tra l’altro scrive:
“ Napoli ha perduto scienziati, medici, artisti, curiali, magistrati, cioè una parte sostanziale dei
suoi quadri dirigenti, oltre ad enormi masse del popolo grasso e minuto. Infine ricchezze risultano
irreparabilmente distrutte o passate di mano attraverso furti, truffe, intrighi, falsificazioni di ogni
genere. Le dispute ereditarie moltiplicandosi in un groviglio di cavilli e di imbrogli, accrescono
l’influenza dei paglietta. L’arricchimento improvviso, la concentrazione di molti beni nelle mani di
pochi.. .”34
Così e fin qui Ghirelli.
Ma la realtà all’indomani della peste del 1656, che prosegue il massacro e l’annientamento, “
l’estinzione per via di sangue” della rivoluzione meridionale borghese del 1647-48, era ben più
grave.
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Senza esagerazione alcuna possiamo sintetizzarla con il grande Tacito:
“ Hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato Pace.”
L’agricoltura distrutta, distrutto l’intero apparato industriale.
Massacrata, “ estinta in linea di sangue” la classe borghese, che era stata l’anima della rivoluzione,
l’unica classe in grado di contrastare baroni, nobili ed impero di Spagna, il regno di Napoli si trova
senza la classe in grado di guidare i nuovi processi produttivi, di avviare in Italia il processo di
produzione capitalistico; senza la classe in grado di guidare il mezzogiorno fuori dal regime
aristocratico-nobiliare, verso il progresso e la civiltà borghesi. consequenzialmente si estinse quel
fervido rapporto che salda la classe rivoluzionaria alla produzione di nuovi intellettuali.
Giustamente Petronio in “ Storia della Letteratura Italiana” ferma il carattere rivoluzionario del
nuovo intellettuale che forma un nuovo pubblico. E “ pubblico” è poi quella coscienza civile
diffusa, quella rete capillare, che motu proprio sgorga dai viventi nuovi rapporti di produzione e che
costituisce l’intelaiatura, l’intellighenzia in tutti i suoi vari livelli e specializzazioni, in tutte le sue
policrome sfaccettature.
L’economia è così in mano a nobili e borghesia compradora, speculatori, arraffatori, che non
sanno che perpetuare i vecchi sistemi di sfruttamento, liberi ora di elevare ogni ostacolo, vincolo,
legaccio alla più timida libera circolazione delle merci. Padroni di incementare la viva società entro
i loro interessi particolaristici: quali la pretensione che la tassa dovesse essere pagata sul luogo della
produzione. Questo significava per esempio che la produzione di olive comportava il pagamento
della tassa al barone che su quelle terre, o su quella giurisdizione, era avvenuta la produzione
tecnica dell’oliva, obbligando così il produttore alla trasformazione in olio su quella stessa
giurisdizione, impedendo così che si potesse avere la concentrazione di tutta la produzione di olive
di una zona ed un’unica trasformazione e quindi la nascita di un grande oleifici e così dicasi per
ogni produzione. Problemi insormontabili venivano a crearsi per quanto attiene la seta, la cui
materia prima veniva prodotto in luogo, la sua trasformazione in un’altra e la lavorazione in altre
ancora, aggravando, ed accelerando, l’uscita del regno di Napoli dal grande circolo commerciale ed
industriale. Perde nel giro di un decennio qualsiasi presenza sulla scena del commercio
internazionale: olio industriale, che pure fino ad allora esportava in gran quantità e che i nuovi
processi industriali richiedevano in misura maggiore, produzione agricola al fine della
trasformazione industriale, scivolando nella decadenza. Incapace di contrastare l’egemonia
britannica nel Mediterraneo, si lasciò controllare le linee e vie di comunicazione con
l’assoggettamento reale della Sicilia all’Inghilterra, che tramite questo importante centro mantiene il
meridione in una costante situazione di decadimento e farne al tempo stesso base del suo
commercio.
Scrive a riguardo Cuoco, “ Saggio Storico sulla Rivoluzione di Napoli”35
“ Ferdinando .. aveva dei potenti alleati, i quali erano per noi nemici terribili, specialmente gli
inglesi, padroni del mare ed, in conseguenza, del commercio di Sicilia e di Puglia, senza di cui una
capitale immensa qual è Napoli, non poteva che difficilmente sussistere.
Dall’epoca dei Romani in qua, la sorte dell’Italia meridionale dipende in gran parte da
quella della Sicilia. .. la Sicilia era il granaio d’Italia. .. Nei secoli di mezzo chiunque fosse
padrone della Sicilia turbò a suo talento l’Italia; dalla Sicilia i saraceni la infestarono per tre
secoli, finché i Normanni la riunirono di nuovo al regno di Napoli, al quale rimase unita fino
all’epoca di Carlo I d’Angiò. E chi potrebbe negare che quella separazione non abbia influito
a ritardare nel regno di Napoli il progresso di quella civiltà, la quale prima che in ogni
regione d’Italia vi avevan destata Federico di Svevia e la sventurata sua progenie. I due
regni furono riuniti sotto la lunga dominazione della casa austriaca di Spagna, iniziata con
Carlo V nel 1516 e durò fino al 1738 quando fu sostituita dalla Casa borbonica. In quei tempi
appunto Napoli incominciò ad ingrandirsi , ed è divenuta una capitale immensa, la quale per
sussistere ha bisogno del frumento e più dell’olio delle provincie lontane che bagna
l’Adriatico ed il commercio delle quali non si può comodamente esercitare, né la capitale
potrebbe comodamente sussistere senza il libero passaggi per lo stretto di Messina. E si
aggiunga che di quello stretto il vero padrone è colui che possiede la Sicilia, poiché egli vi
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tiene in Messina ampio e comodo porto, mentre dalla parte delle Calabrie non vi sono che
piccole e mal sicure rade..”
Questo sopravanzare del dominio baronale ha fatto parlare Rosario Villari di “
rifeudalizzazione”. Se la formulazione, posta sintesi di un’analisi, non è corretta, giacché non vede
che quella economia “ rifeudalizzata” è già, e tutta, dentro il grande circolo produttivo capitalistico
e funzionale ad esso, fissa però un aspetto formale nel quale si esprimeva la realtà economica. I
baroni attraverso uno sfruttamento bestiale di contadini e lavoranti sopperiscono così alla sempre
decrescente rendita agraria e decrescente produzione della ricchezza sociale, perpetuando una vita
di lusso, di fasto e di etichetta, aumentando così la loro sempre crescente dipendenza per debiti da
usurai, speculatori e banchieri, che ormai non sono più i genovesi o lucchesi, ma francesi, olandesi,
inglesi. Finiscono così per passare da subalterni alla corona spagnola al servizi di inglesi, francesi
ed olandesi; finiscono per divenire il puntello degli interessi di questi nel regno, come lo erano stati
degli spagnoli. E la nobiltà si dividerà allora sostanzialmente in filobritannica e filofrancese.
E la moda dei salotti francesizzante o britannizzante sarà allora l’indice del prevalere in quel
momento di questo o quello o del prevalere in quel circolo di questo o quello.
Il “ Franza, Alemanna basta che se magna” di spagnolesca memoria!
La rivoluzione borghese meridionale sarà allora la Villabar italiana, giacché l’Italia tagliata dal
bacino del Mediterraneo, egemonizzato dalla marina britannica, contrastata da quella francese, non
è in grado, chiusa nei piccoli appezzamenti dei singoli staterelli, di dare vita ad una possente
accumulazione originaria e ad un’altrettanta possente riproduzione allargata. Minime e di poco
conto le innovazioni in Lombardia ed in Piemonte, che non andranno oltre la fabbrica di scarsa
entità commerciale, senza poi alcun supporto logico: marina mercantile, valida politica estera,
vastità del territorio nazionale.
E così, per ironia della sorte, esattamente due secoli dopo la sconfitta della rivoluzione
borghese italiana, nel marzo-maggio 1848 “ Il Manifesto del Partito Comunista” di Marx ed Engels,
suonerà come monito e sentenza inappellabile per il decadimento dell’Italia e per il suo ruolo
subalterno per tutto il corso dell’epoca borghese.
“ La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi […]: una lotta che finì sempre
o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi
in lotta.”.
E quel ruolo subalterno, timido, impacciato, da accattone la borghesia italiana non se lo toglierà mai
di dosso, perché connaturato alla sua specifica natura, prodotto ed espressione della sua storia del
suo essere divenuta borghesia. Il suo ruolo nell’economia mondiale sarà sempre subalterno a
Francia ed Inghilterra, e poi verso la fine dell’Ottocento, alla Germania. Anche quando giunge
all’unità nazionale non vi giunge senza l’assenso e la volontà della Francia e dell’Inghilterra.
E vi giunge, in verità, quando quella struttura non era più funzionale alla più complessiva strategia
inglese e francese; quando per lo sviluppo ulteriore dei rapporti di produzione capitalistici quella
struttura del regno di Napoli e dell’Italia più in generale non era più funzionale, agendo da ostacolo
alla circolazione della produzione delle merci. Lo sviluppo raggiunto dal sistema di produzione
borghese, e quindi le istanze del capitalismo anglo-francese, richiedevano in Italia un mercato unico
capitalisticamente organizzato: e l’italica Patria fu fatta.
Non da meno sarà la sua politica coloniale, sempre subalterna e funzionale alla più complessiva
politica estera ed istanze egemoniche franco-inglesi-alemanne, non da meno la sua partecipazione
alla 1 guerra mondiale e la stessa politica estera dell’epoca fascista non la vedrà in posizione
egemone, ma sempre subalterna e funzionale a più complessive istanze e quindi strategie
imperialiste altrui; non lo sarà nei cinquant’anni successivi alla 2a guerra mondiale; d’accatto infine
la sua presenza e partecipazione alle avventure dell’imperialismo di fine secolo: Somalia, Albania e
Balcani più in generale, 1 e 2 guerra del Golfo. E’ subalterna, giacché il suo momento era
esattamente quel periodo 1580-1650, quando Francia ed Inghilterra in primo luogo combattevano la
Spagna ormai potenza in declino e tra di loro si contendevano la spartizione dell’impero spagnolo:
e’ in quella crisi rivoluzionaria che l’Italia si sarebbe dovuta inserire ed in quella crisi di decadenza
della massima potenza dell’epoca ed ascesa delle due potenze inglesi e francesi uscire come terza
potenza e ben salda al centro del Mediterraneo. Non averlo fatto, aver consentito a Francia ed
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Inghilterra di insediarsi nel Mediterraneo ha significato consegnarsi a queste due potenze e
rinunciare in maniera definitiva a qualsiasi ruolo autonomo.
Accumulazione originaria e paternalismo borbonico
La società meridionale nel corso del Settecento vede aggravarsi il ritardo del suo sviluppo
economico. Lo sviluppo capitalistico delle campagne è ostacolato dalle strutture e quindi vincoli di
natura feudale. Lo stesso sviluppo della borghesia era avvenuto attraverso una pesante
compromissione con la classe feudale. Fissa in maniera irreversibile a partire dal Seicento la sua
natura compradora. vive delle rendite, dei privilegi della società nobiliare e la sua stessa
evoluzione è nella direzione aristocratico-nobiliare. In generale questa evoluzione nella direzione
dell'assimilazione è similare in tutti gli altri processi: Francia, Inghilterra, ecc. solo che qui non
essendovi un rapporto coloniale, di dominazione da parte di Stati stranieri, tale ' involuzione' non
evolve nel compradora, come invece evolve in Italia. Tende, cioè, attraverso le ricchezze acquisite
a passare nella classe feudale con l'acquisto di fondi, con matrimoni, ecc. legittimare tale suo
ingresso. I profitti di questa classe sono essenzialmente rendite parassitarie: usura, arrendamento
di imposte, rendita agraria. Lega così indissolubilmente la sua sorte alla sorte della classe
nobilare-aristocratica, al sistema di produzione feudale.
Non vi sono investimenti per migliorie nelle campagne ed anche nel settore industriale, in modo
particolare nella produzione della seta, nel giro di un ventennio, 1740-1760, vede perdere tutte le
posizioni che aveva sul mercato estero per la mancanza di investimenti in grado in questo ramo,
che aveva visto modificare il processo produttivo e la produttività del lavoro per l'introduzione di un
nuovo strumento di lavoro.
La stessa estensione delle terre messe a coltura, sottraendole al boschivo ed al pascolo,
determinata dall’esigenza di una maggiore richiesta sul mercato di cereali, per il lungo periodo di
pace e consequenziale movimento demografico, non si traduce in un miglioramento della
produzione e dei rapporti di produzione nelle campagne, limitandosi solo a brevi vantaggi sul
mercato locale.
La stessa grave carestia del 1764, che spinge ad una ulteriore messa a coltura di terre non
produce alcun beneficio nei rapporti agrari. Vede, invece, la nascita di una particolare classe
parassitaria borghese: incettatori e l'estensione dei “ contratti alla voce”.
Gli incettatori, borghesi, che acquistano tutta la produzione cerealicola, praticando poi il
prezzo di monopolio.
Un cronista dell’epoca così scrive:
“ .. i prezzi si mantengono al doppio cresciuti.
La classe degli incettatori granisti ha formato come una catena indissolubile in tutte le province
del regno. .. Ecco come il lucro delle messe passa tutto nelle mani degli incettatori ed ai massari di
campo è rimasta la sola perdita.” ( F. Longano , Viaggio per la Capitanata ).
Questo comporterà lo sviluppo dei “ contratti alla voce”. Si trattava di contratti in base ai quali
l’incettatore acquistava tutta la produzione ad un prezzo forfetario. Molte volte questi contratti, ad
un prezzo ancora più basso - ma che era poi la pratica più diffusa - prevedevano l’acquisto del
raccolto ancora in maturazione, chiamati anche “ alla pianta”. I contadini vi erano costretti per far
fronte alle spese immediate per sopravvivere. Questo li metteva nelle mani degli speculatori e
faceva sì che la rendita agraria invece di tornare all’agricoltura andasse ad alimentare attività
parassitarie.
Nella realtà l’incettatore che acquistava “ alla pianta” era poi lo stesso che pratica l’usura, a cui
durante l’anno il contadino andava soggetto, sicché alla vendita, detratti i debiti e gli interessi
usurai, il contadino aveva meno di prima.
Questa classe borghese, che esercitava un controllo, un’oppressione e lo sfruttamento ancora
maggiore del nobile, era odiato dai contadini più del nobile, di per sé già profondamente odiato dai
contadini. erano questi borghesi poi che sul piano locale, del paese, era presente e brigava con le
autorità comunale, viveva in combutta con il nobile, ecc.
Qui, innanzitutto e soprattutto, la rottura del fronte antifeudale.
Il fronte antifeudale non avrà mai nel regno base alcuna, se non in alcune località dove era
presente una piccola e media borghesia, che si opponeva allo strapotere dei nobili.
In generale la liberalizzazione dei demani attraverso la possibilità di recintare campi in
precedenza adibiti alla raccolta di legname ed al pascolo e la formazione così di vaste proprietà
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terriere, costituisce il normale processo di accumulazione originaria, ben illustrato da Karl Marx nel
24° Capitolo del 1° volume de “ Il Capitale”.
Essa comporta miseria e disperazione per milioni di contadini poveri, che vivevano avvinghiati a
quei demani, che consentiva loro di condurre una vita bestiale, ma autonoma. Dai demani
ricavavano legna per il fuoco e libertà di pascolo per la capra, la pecora da cui… Ma questa era la
condizione per trasformare questa massa di contadini poveri in proletari e renderli così disponibili
per le aziende capitalistiche.
Nelle condizioni specifiche del regno di Napoli, nelle condizioni cioè di non sviluppo capitalistico,
quella massa contadina si sarebbe trovata nella disperazione. La stessa politica delle riforme
illuminate, Bernardo Tanucci, andava in senso opposto a quella degli altri stati. La base che
ispirava tale politica era l’immobilismo. Era il timore che adottando un regime liberista, o
introducendo modifiche, si sarebbe avuto la rottura dell’equilibrio sul quale poggiava la monarchia
borbonica.
Questa volontà di mantenere il precario equilibrio a tutti i costi era determinato dal terrore della “
immensa plebe”, di cui si temeva di provocare rivolte ed il timore delle riforme era che esse
potessero dare inizio a processi di trasformazione di cui non era possibile prevederne lo sviluppo e
sbocchi nell’assoluta certezza dell’impossibilità di poter gestire.
In questa situazione la monarchia borbonica attua una politica tendente a non impattarsi
direttamente con la “ plebe” ed utilizza “ lo spettro della plebe” come freno alle istanze di
rinnovamento, di per sé moderate, ed a quelle più retrive baronali e borghesi. Questa è la logica
che ispira il dispaccio del 13 giugno del 1789 e la Prammatica del 1792.
Il dispaccio 13 giugno 1789: dopo aver riconosciuto dignità di classe al terzo stato, sopprimeva il
precedente il precedente sistema politico rappresentativo ne introduceva un altro, ove trovavano
rappresentanza membri del terzo stato ed a capo dell’Amministrazione il sindaco e quattro eletti:
sindaco e due eletti scelti tra il primo e secondo stato, i restanti due eletti dal terzo stato.
La prammatica del 1792: aveva a fondamento due elementi:
1. favorire il processo di liberalizzazione delle terre, i demani, e quindi recinzione e costituzione in
proprietà privata;
2. andava incontro ad esigenze della terra ai contadini, prescrivendo che si dovevano preferire i
braccianti dei terreni più vicini alle Popolazioni e quelli più lontani ai cittadini coltivatori; a parità
di condizione dovevano essere preferiti i meno provveduti e solo successivamente procedere
all’assegnazione per sorteggio.
Questa logica si caratterizza per esitazioni ed incertezze, passi avanti, zigzag e ritiro di disposizioni
se incontravano resistenze.
Si è voluto leggere, e denominare, tale politica con il termine “ paternalismo” decisamente non
corretto, giacché fuorviante, che non definisce e fissa i caratteri ed i limiti di tale politica; rimanda,
invece, alla visione di una società retta dal furbo - ovviamente il re! - e la massa degli stupidi e
bonaccioni che..
Il regno di Napoli all’alba della rivoluzione francese si trova in una grave situazione di stallo: avanti
non può, e non vuole, andare per gli ostacoli e vincoli che lo tenevano legato; indietro o immobile
non poteva, di qui la politica dei passi avanti ed indietro, che consentiva al sistema di attutire le
contraddizioni ed impedire a queste di confluire ed interagire e così impattarsi sul regno.
Crollano qui assieme all’immagine del “ paternalismo borbonico”, quello ancor più pittoresco del “
re lazzarone”, ossia di un re imbelle, stupido, inetto. Fu invece un monarca reazionario intelligente,
abile tattico ì, sempre pronto a schivare l’onda d’urto ed a trovare sempre altri obiettivi ed altri capri
espiatori su cui riversare l’impatto dell’onda d’urto. Abile tattico, ma saldo nei principi, fedele al
principio dell'assolutismo monarchico, che seppe difendere ed a cui seppe garantire una più lunga
vita.
Ma l'immagine della “ politica paternalistica” e del “ re lazzarone” erano, e sono, poi funzionali a
proiettare un’immagine che salvi la borghesia ed i galantuomini meridionali dalle loro responsabilità
e questo funzionale per il loro riciclaggio di uomini puri ed immacolati, costretti a piegarsi dinanzi
alla furia reazionaria dei lazzaroni, alle violenze della plebe.
Le classi
Aristocrazia-nobiliare legata alle sorti del regine feudale borbonico.
Al suo interno esisteva una sorda lotta tra l’ala del maggiorasco e quella cadetta.
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La legge feudale faceva obbligo che l’eredità passasse per intero al primogenito, per cui ai
secondi e terzi genitivi andavano, in ordine decrescente, gli incarichi civili e religiosi.
Nella più generale crisi del sistema l’ala cadetta spingeva per il superamento di tale obbligo del
maggiorasco. Questo comporta che tale contraddizione prenderà la forma - ma qui solo la forma di lotta generazionale.
L’aristocrazia nobiliare si divideva in due fazioni:
nobili di spada: che erano la nobiltà vera e propria,
nobili di toga, nobiltà minore che aveva incarichi civili e nel governo dello stato monarchico e che
per molti tratti si identificava con l’ala cadetta.
Possedimenti e gerarchie ecclesiastiche vanno fatte rientrare dentro la più complessiva
classe feudale.
Borghesia. Bisogna qui distinguere una parte, la più consistente e la più ricca, che era legata
all’aristocrazia nobiliare, era assimilabile a questa e traeva i suoi guadagni da rendite parassitarie
che il regime feudale consentiva: proprietari terrieri, commercianti, usurai, appaltatori di imposte,
speculatori.
Massari e conduttori di fondi, medi proprietari di appezzamenti, commercianti, proprietari di
industrie su base locale, proprietari di imbarcazioni, ecc., costituivano quella parte di borghesia che
spingeva per la trasformazione, ma essa era stata sostnazialmente massacra, ‘ estinta in linea di
sangue”. Quest’ala, assieme a quella cadetta, costituiva il fronte per la trasformazione. Ma il loro
orizzonte politico non andava oltre timide riforme illuminate, che consentissero loro un
miglioramento, dentro il quadro esistente. I loro stessi teorici si muovevano dentro il quadro
esistente e non prospettavano mai il superamento ed una diversa società. Non vi era in loro alcuna
teoria dello Stato.
I Contadini. Costituiscono la schiacciante maggioranza della popolazione: erano contadini poveri,
che lavoravano la terra di nobili e borghesi, proprietari di fazzoletti di terra, soggetti a tutte le leggi
del servaggio feudale, traevano la loro sopravvivenza fisica dai fondi demaniali.
Avevano costituito sin dal 1500 un forte movimento ed avevano condotto una lotta ininterrotta
contro nobili, borghesi e monarchia nelle forme e nelle condizioni più disparate: dalla rivolta
contadina, alla guerra: nella forma classica e per bande. Aveva accumulato una grande esperienza
di lotta e di organizzazione e costituiva una minaccia terribile per la forza con cui si abbatteva sulle
teste dei nobili, dei borghesi e della monarchia.
I suo interessi erano: la distribuzione della terra, eliminazione di tutti i gravami feudali, liberazione
dai debiti e servitù personali varie, andavano contro il regime vigente e nella direzione
dell’abbattimento per un nuovo regime sociale.
All’interno dei contadini vi erano anche piccoli e medi proprietari terrieri, oppressi e sfruttati, ma
che riuscivano ad avere un livello di vita meno peggiore degli altri, che costituivano la parte che
evolveva verso la borghesia.
I Popolani. Essi erano costituiti nelle città da: lavoratori giornalieri, servitori delle varie case nobili
e borghesi, pescatori, marinai, venditori ambulanti, addetti al commercio, alle industrie locali, che in
quanto tale vivevano alla giornata. Erano contadini costretti a lasciare le loro terre ed a cercare in
città la sopravvivenza. Accanto a questi quelli che vivevano di espedienti, del piccolo imbroglio,
furti, prostitute. Su questa massa: contadini e popolani gravava tutto il peso fiscale.
Da i popolani vanno tenuti fuori gli sgherri al servizio di nobili e borghesi, gente dedita al crimine,
allo sfruttamento della prostituzione, ecc.
Questa massa aspirava ad una stabilità del proprio lavoro, al superamento del sistema di
angheria, servaggio, tassazione e quindi per uno sviluppo delle industrie e del commercio, di uno
sviluppo borghese della società.
Essi assieme ai contadini avevano maturato nel corso dei secoli una grande esperienza
rivoluzionaria. A partire dal 1500 avevano dato vita ad una lotta ed una opposizione ininterrotta in
varie forme fino alla sollevazione armata e decapitazione di nobili e borghesi.
Il movimento contadino nelle provincie e quelle popolare delle città costituivano la forza motrice del
processo rivoluzionario. L’avanguardia di questo movimento era dato dal movimento popolare
della città di Napoli ( 1545, 1587, 1647-48, ecc. ).
Per le condizioni di allora non era in grado di avere un programma, né intellettuali in grado di
dirigere in prima persona il processo rivoluzionario. Erano la forza motrice e non classe dirigente
del processo rivoluzionario in atto. Aveva quindi bisogno di un momento di sintesi in grado di
unificare le varie spinte in un quadro politico ben preciso, dentro un programma, una teoria, una
strategia ed una tattica.
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Ma quel deserto chiamato Pace pesava sullo stesso potere centrale, costretto oramai a
contendere da solo il consevatorismo municipalistico aristocratico-nobiliare, restio a qualsiasi
autorità centrale, senza più la classe borghese su cui poggiasi per fronteggiare le richieste baronali.
Il movimento contadino massacrato, senza la sua struttura organizzativa e senza i massari, che
erano stati l’anima del movimento nelle campagne nell’organizzazione, orientamento e formazione
politica dei contadini, si ritraevano nell’isolamento, in quell’isolamento proprio dellaproduzine
parcellizata ed arretrata baronale.
La strategia allora del potere centrale – borbonici di Spagna e borbonica di casa d’Austria:
Ferdinando IV – sarà quello di accentuare quella politica paternalista e di “ panem et circensem”,
tramite la quale ecciterà la formazione di uno strato di lazzari quale strato cuscinetto ed a
salvaguardia del suo potere marcio, quale pretoriani del regime monarchico nobiliare.
L’assenza di una classe borghese rivoluzionaria si farà qui pesantemente sentire, per l’assenza del
centro in grado di fare orientamento, prospettare un’uscita dall’ancient regimee quindi contrastare i
progetti di egemonia del re. E qui per “ lazzari” non si deve intendere il popolo di lavoranti, ecc,,
ma quella genia di “ bravi” che era stato alleato contro la rivoluzione del 1647-48. Mentre per il
passato questa era stata una politica dettata dalla situazione contingente, diviene nel periodo 16601789 l’asse di tutta la strategia sociale del potere.
Nasce da qui quella che, non correttamente, viene chiamato “ paternalismo borbonico”. Nasce
non potendo, e nella coscienza di non poterlo fare, di contare sui baroni, la cui “ infedelissima”
genia era ben nota. Essa aveva a base da una parte l’essere sostegno dell’aristocrazia nobiliare, ma
dall’altro di scavare un fossato tra popolo e nobili e su questa divisione, ove il momento
paternalistico era il momento chiave, mantenere divisa qualsiasi opposizione ed avocando così alla
corona il ruolo di mediazione, di forza al di sopra delle parti.
G. Battista Vico lascia un quadro della realtà sociale all’alba della congiura del 1701, messa su da
alcuni nobili per favorire l’ascesa della casa d’Austria e la caduta dei Borboni di Spagna:
“ Nella città di Napoli poi, la vita sociale era caratterizzata da una bassa plebe senza alcuna
coscienza politica, da un ceto medio nemico del disordine e adagiato nell’ozio, da una nobiltà che
univa l’arroganza nei confronti della plebe al disprezzo delle attività pubbliche, e agitata al suo
interno da malcontenti e ostilità reciproche. Il tutto in un malcostume genrale, caratterizzato da
frivolezze, ostentazione e sfarzo divampante.”36
Quadro questo decisamente misero ed assolutamente insufficiente che finisce per non dire niente,
tale è la lacunosità, ma che comunque pur in questa prevalenza assoluta di ciò che non dice, dice
anch’egli dello stato di decadenza, della mancanza di un polo di aggregazione e organizzazione, che
avesse per programma l’uscita dall’ancient regime.
In queste condizioni, quando non vi era più prospettiva di Futuro, si discettò del Futuro in astratto e
si ebbe la “ Scienza Nova” del Vico, che in quanto tale non poteva al fondo che avere la generica
quanto strampalata teoria dei corsi e ricorsi, che poi alla fine si riduceva alla banalità che tutto nasce
si sviluppa e muore coniugata con l’antica teoria ellenica delle quattro età: dell’oro, dell’argento,
del bronzo e del ferro e del loro costante ripresentarsi, concluso un ciclo, che poi altro non era che
la banalizzazione della teoria scientifica astronomica caldea del grande ciclo e del piccolo ciclo.
Quando non vi era più regalismo, quando il regalismo era solo un’idea che copriva ogni decadenza,
si ebbe l’Accademia dei Pugni, degli Ostinati e tra tante miserie, ed in queste miserie, si ebbe la “
Istoria civile del Regno di Napoli” del Giannone. Povere e misere erano le acque entro cui il genio
del Giannone era costretto a muoversi e da cui trarre alimento per la sua opera. Ma il genio seppe
ricavarvi assai più di quanto vi si poteva ed avemmo l’Istoria Civile del Regno di Napoli. Fu un
lavoro grande per il respiro di Libertà che lo animava e lo attraversava. Ma era una Libertà monca,
che leggeva il regalismo, l’assolutismo, quando esso era già tramontato, e non lesse la Repubblica
Napoletana del 1647-48. Elevò a principio quello che c’era ed ecco allora il suo pregio consistere in
quell’analisi lucida delle prerogative dello Stato nella sua autonomia dalla religione di Stato, le
prerogative dello Stato laico e borghese.
In realtà, venuta meno la borghesia rivoluzionaria non potevano che emergere le frange
estremiste del potere centrale e della baronia e quindi il “ particulare” guicciardiano, che nella
piccineria della classe che lo partoriva: l’aristocratico-nobiliare, diveniva la totalità. Mancando il
centro propulsore della trasformazione, veniva meno il centro di elaborazione di idee, teorie e
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programmi per la trasformazione, ed allora trasformazione divenne la politica della montagna che
partorisce il topolino, ossia la politica riformatrice tanucciana. Una politica che aveva sempre paura
di se stessa, che s’impauriva dopo aver osato pensare e che cercava di far dimenticare tale osare nel
pensiero con mezzi rimedi e concessioni all’ala della stabilizzazione moderata, ed alla fine la
situazione risultava peggiore di prima. Le condizioni del regno peggioravano, mentre gli eventi
precipitavano. Si giunse alla cacciata dei Gesuiti quando questi erano già stati cacciati da tutta
Europa, si giunse a mezze riforme quando queste erano già state applicate nelle principali
monarchie d’Europa e superate abbondantemente: non vi fu più pensiero, né politica di mutamento,
ma solo una politica di stabilizzazione moderata, variamente confezionata. Di certo vi fu
l’avanzamento e la progressione della sottomissione del regno all’Inghilterra, che finì per divenire,
la corte napoletana, stipendiata della corte d’Inghilterra ed esecutrice della volontà e delle istanze
della politica estera britannica.
Divenne cioè il teatro dello scontro franco-inglese nel Mediterraneo.
Ed alla Francia non rimaneva allora altro che riprendere la via delle congiure e congiurette, del
cercare di appoggiarsi a questa o quella frangia dissidente della baronia regnicola.
Ed allora la cultura ed il centro di orientamento e contrasto non poterono che essere alcune ali del
pagliettismo napoletano, sempre pronto al momento decisivo a fare da cappello al re ed ai baroni, e
comunque sempre pronti a dare addosso al più debole: secondo il ben noto principio, con grande
vividezza tracciato dal Manzoni: forte con i deboli e debole con i forti, che poi esprime la figura di
don Abbondio che nella lite tra i due stava sempre con il più forte, facendo però sempre attenzione a
non inimicarsi il più debole, facendo capire che sarebbe stato con lui se fosse stato più forte.
La figura di don Abbondio traccia in maniera inequivocabile la natura ed il carattere di questo
pagliettismo, che sarà poi carattere e natura della borghesia meridionale e dell’intellettuale
meridionale, descritto, e così descritto inchiodato alla berlina, da Antonio Gramsci. E se non era
pagliettismo furono alcune ali minoritarie dell’aristocrazia-nobiliare: l’ala cadetta, che più di tutti
soffrivano la legge del maggiorasco e che alla soppressione di questo affidava sorte migliore per il
suo futuro.
Il maggiorasco poteva ancora passare fino a quando all’ala cadetta, ossia ai secondo-terzo geniti
venivano garantiti incarichi munifici nella vita ecclesiastica, militare e nell’amministrazione dello
Stato: ma erano ormai tempi di vacche magre ed i primogeniti erano a loro volta assai meno
munifici del passato. Saranno, allora, queste, che riprendendo la via della congiura e della
congiuretta e del cospirare con la Francia, questa volta in funzione antibritannica, che animeranno la
politica e la lotta politica nel Regno.
Alla vigilia della caduta dei Borboni di Spagna e per accelerare l’ascesa della casa Borbone
d’Austria, venne messa su una nuova congiura: siamo nel 1701.
Cercavano i congiurati appoggi e sostegni nel popolo meridionale e prima di tutto nel popolo della
città di Napoli.
G.B. Vico così scrive:
“ Si racconta che, durante la scorreria notturna nella parte più bassa della città, sia alla Conceria
che al Mercato, il Gambacorta ebbe dei colloqui con persone più rappresentative di quelle
contrade, esortandole dietro promessa di grandissimi benefici, a spingere alla sommossa tutti i loro
vicini e compagni di lavoro, e, armati, di fascine impeciate e di uomini – perché quelle erano le
armi – a volersi schierare con lui. .. si racconta che alcuni risposero prontamente di volersi
consultare con i compagni, altri opposero un moderato rifiuto, dicendo: ‘ Voi aspirate ad un
destino migliore, noi ci appaghiamo del nostro.’ . Ma si racconta anche che uno di costoro, non
senza malanimo abbia risposto: “ Sotto la guida di Masaniello, noi tentammo di alleggerire la città
dal gravissimo carico di gabelle e di rivendicare l’osservanza dei privilegi dell’imperatore Carlo
V. Vi poneste allora contro di noi, quando sarebbe stato giusto, che secondando i desideri dei più
deboli, i nobili ci sostenessero e proprio da voi, dal vostro potere, contrariamente ad ogni giustizia,
le forze del nostro ordine furono schiacciate, in modo tale che non c’è quasi nessuno, di quanti voi
oggi chiamate ad imprese dubbie ed ardue, che non abbiate privato dei genitori con i più crudeli
dei supplizi ed i peggiori tormenti. Ora ci si presenterebbe l’occasione di rendere la pariglia: ma
preferiamo starcene al sicuro e guardarvi affrontare i pericoli.”37
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La testimonianza vichiana è di una importanza decisiva nella sua schietta esposizione dei fatti fissa
in maniera inequivocabile quella scissione tra borghesia compradora e nobili da una parte e popolo
dall’altra.
E letta con gli occhi del 1799 indica con rara lucidità una complessa realtà politica.
Ad una società legale fatta di viceré, di nobili, borghesi arricchiti ed i loro movimenti contraddittori,
si contrapponeva una società reale che affondava le sue radici nelle più profonde visceri del popolo
meridionale, che continuava ad avere suoi punti di riferimento, di orientamento e di organizzazione;
una realtà sotterranea, ma con una sua rete ed un suo linguaggio, una realtà-catacomba, pronta in
qualsiasi momento a prorompere dalle visceri profonde della società ad ogni vuoto di potere.
Era cioè!, e ancora, quella realtà fatta di congiure e congiurette da una parte ed il movimento
sotterraneo, clandestino, popolare, che si prodotto per tutto il primo quarantennio del Seicento e che
poi proruppe come il Vesuvio.
E’ questa esatta, precisa realtà che vedrà lo scoppio della Rivoluzione Francese ed i suoi riflessi nel
regno di Napoli e con questa occorrerà fare i conti e questa realtà farà la differenza.
Arduo era il compito che stava allora dinanzi al gruppo dirigente rivoluzionario giacobino
napaoletano: ritessere le fila di quel rapporto, ricucire quella profonda scissione apertasi nel 1547,
nella lotta contro l’introduzione dell’Inquisizione in Napoli, e matura nel profondo delle coscienze
nel corso della rivoluzione borghese del 1647-48.
La stessa congiura del 1795 diretta da Vitaliano, operaio, che aveva mostrato vasti legami nella
Capitale e nel Regno, il circolo giacobino “ Liomò”, - disitnto da quello aristocrstico-nobiliare “
Reomò”- che si caratterizzava per la importanza presenza di lavoratori, artigiani, ecc., non seppe
cogliere e mettere mano a tale ricucitura dell’unità del popolo meridionale, rimanendo comunque
estraneo a quella realtà sotterranea.
Questo compito spettava alla borghesia, nelle condizioni di stato coloniale, soggetto alla
dominazione nella forma della casa regnante ed a quella sostanziale della Francia, Inghilterra,
Olanda, e quindi nella condizione di borghesia compradora non era in grado di assolvere.
In generale nei paesi a dominazione coloniale la borghesia compradora non
costituisce classe dirigente del processo e quella nazionale è troppo debole da un lato e
legata per mille fili al sistema coloniale dall’altra, per poter essere lei la classe dirigente.
In queste condizioni è il proletariato, che con un suo programma democratico-borghese,
spinge la borghesia nazionale a rompere con la compradora ed a mettersi sulla strada della
rivoluzione.
E’ stato questo il processo che per tutto il XX secolo ha caratterizzato le lotte di liberazione
dei paesi coloniali. Perché questo potesse avvenire occorreva non solo che vi fosse un
proletariato sviluppato, ma che il sistema capitalistico sia in fase discendente.
Tutte queste condizioni all’alba del 1789 non sussistevano e come tale la borghesia
nazionale rimaneva legata alla compradora in un fronte contro il movimento contadino e
popolare.
Ma il regno di Napoli non è tout court assimilabile ad un paese coloniale, ben saldo al
centro del Mediterraneo, subiva le spinte e le contraddizioni dei vari paesi capitalistici ed
era spinto esso stesso sulla strada della rivoluzione borghese. I, movimento che agiva in tal
senso era dato dal Movimento contadino e popolare.
Nella fase della rivoluzione borghese, ossia nella fase della transizione al sistema
borghese, qualsiasi movimento rivoluzionario agisce sempre in definitiva nella direzione di
accelerare la fine del vecchio regime e per l’affermazione del modo di produzione
capitalistico.
L’assenza della borghesia meridionale da questo processo e quindi l’assenza di una direzione
in grado di unificare tutte le spinte nella direzione dell’abbattimento del sistema feudale,
determinerà la frantumazione del il blocco antifeudale e l’esaltazione di spinte individuali, sulla
base cioè delle singole istanze di ciascuna classe e frazione di classe, determinando così una
costante mutazione del posizionamento in campo di queste classi e frazioni di classe, sulla base,
appunto, degli interessi specifici di ciascuna,
Nello specifico il blocco antifeudale si era già da tempo dissolto, la borghesia meridionale si era da
tempo giocata qualsiasi credibilità politica e morale già dalla metà del Seicento, epoca in cui si era
incamminata in maniera irreversibile sulla strada di borghesia compradora. Questa aveva
determinato sia la rottura del fronte antifeudale e sia la scissione al suo interno. Si era sfaldato il
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fronte nobiliare-popolari alla stessa epoca; una importante incrinatura si era verificata alla data del
1585.
Il fronte popolare ne usciva compatto nelle sue componenti e con una sua autonoma identità, le cui
linee guida saranno quelle di inserirsi come movimento a sé allorquando entrambe le classi
avranno esaurito il loro ruolo di direzione, ossia nelle crisi di potere, e con proprie rivendicazioni,
prendere la testa del movimento, imprimendogli l’indirizzo a sé conforme sulla base delle parole
d’ordine:
“ Fora le gabelle”, “ Fora borghesi e nobili”, “ Terra ai contadini”, “ Abolizione di tutti i debiti”.
Un movimento estremo n sé, ma debole giacché non in grado di prospettare la fuoriuscita dal
sistema di produzione feudale e la transizione ad un altro e che costituivano la ininterrotta
continuità del movimento di classe.
Il fronte feudale-borghese/compradora si muoverà all’insegna della difesa dello status quo;
mentre quello feudale-cadetto assieme a frange di borghesia nazionale in quello del
rinnovamento con “ prudenza”.
Il fronte popolare nella direzione del ribaltamento totale dell’ordine esistente.
La massa dei problemi
Questa la massa dei problemi che stavano davanti ai rivoluzionari borghesi giacobini. Per
poter prendere la guida del movimento essi avrebbero dovuto innanzitutto ricucire quella frattura.
Questo significava:
avere una teoria, un’analisi, un programma, una strategia ed una tattica in grado di attirare a sé le
forze motrici del processo rivoluzionario;
di unire la piccola e media borghesia delle città e delle campagne e porle in rottura con la
borghesia compradora; posta nelle condizioni di isolamento spingerla alla rottura con fronte
nobiliare- aristocratico, attirando a sé l’ala cadetta, rompendo così sia il fronte feudale e sia
lacerandolo al suo interno ed in queste condizioni posto nelle condizioni di subire l’assalto delle
forze rivoluzionarie.
Per poter fare questo, sarebbe occorso:
a. l’assimilazione di tutta la precedente esperienza di lotta e di tutte le forme di lotta ed
organizzazione e quindi l’assimilazione della coscienza e della maturità del movimento
rivoluzionario in quell’esatto momento. L’intellezione dei nessi ed interrelazioni reali, concrete,
che saldavano il movimento rivoluzionario del regno al più complessivo movimento di sviluppo
dell’Europa nel suo complesso. L’intellezione esatta, precisa, del rapporto tra lo sviluppo del
processo capitalistico inglese e quello del regno; quello francese e del regno; quello olandese,
russo, turco e del regno; quello della Spagna e quello francese e del regno; quello portoghese
con quello inglese e quello del regno; quello russo, turco con quello inglese e del regno; quello
austriaco con quello francese ed inglese e quello del regno.
Questo, e solo questo, avrebbe consentito di avere una giusta tattica in grado di intelligere gli
alleati oggettivi della rivoluzione appoggiarsi ad essi ed indebolire gli elementi ostili, ossia gli alleati
oggettivi della controrivoluzione.
b. Una teoria politica complessiva ed una teoria, in specifico, dello Stato, la sola in grado di avere
una esatta visione della realtà economica, politica e sociale, i vincoli e le potenzialità, i
movimenti oggettivi della società: i suoi zigzag, tentennamenti, spinte eversive in avanti, spinte
devianti e freni: le classi, i meccanismi, le istituzioni ed ancora le tradizioni ed i luoghi della
formazione delle coscienze, del consenso e del dissenso, il loro movimento oggettivo ed i
meccanismi relativi che agivano nell’uno e nell’altro senso.
Questo avrebbe consentito l’elaborazione di una teoria politica ed una teoria dello Stato da
costruire, che costituisse rottura con la monarchia, strumento dell’ancient regime, ma anche
continuità, rinnovandoli profondamente, con gli istituti di rappresentatività borghese e popolare.
Questo avrebbe consentito l’educazione del popolo borghese38 nella sua totalità e la sua
transizione al nuovo, dentro la tradizione e la continuità dell’esperienza e della coscienza del
popolo borghese. Consequenzialmente una produzione teorica ed un dibattito teorico in grado di
consentire la sintesi e la definizione di un quadro referente unico, la formazione di quadri ed il
profilarsi di un gruppo dirigente autorevole.
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Gli eventi precipitano e quella scissione è ben in agguato e sarà questa scissione che farà la
differenza. La farà perché il gruppo dirigente ed il governo rivoluzionario non seppero coglierla e vi
si impattarono.
Su questa scissione la borghesia costruirà il suo stato nazionale, che pone quella scissine a principio
risorgimentale, che Benedetto Croce, don Benedetto, ha ben fermato:
“ Essa valse a creare a creare una tradizione rivoluzionaria e l’educazione dell’esempio nell’Italia
meridionale. … . Essa mettendo a nudo le condizioni reali del paese, fece sorgere il bisogno di un
movimento rivoluzionario fondato sull’unione delle classi colte di tutte le parti d’Italia, e gittò il
primo seme dell’unità italiana; mentre spinse i Borboni ad appoggiarsi sempre più sulla classe che li
aveva meglio sostenuti in quell’anno, ossia sulla plebe, trasformando via via l’illuminata monarchia
di re Carlo di Borbone in quella monarchia lazzaronesca, poliziesca e soldatesca, che doveva finire
nel 1860. Essa, finalmente, dette ai liberali italiani moderni i primi rudimenti della saggezza
politica, insegnando a diffidare delle parole dei governi stranieri, quando non ci è modo di renderle
serie con convertirle in interessi di vantaggi e di sicurezza. Così per effetto del sacrificio e delle
illusioni dei patrioti, la repubblica del Novantanove, che di per sé non sarebbe stato altro che un
aneddoto, assurse alla solenne dignità di avvenimento storico. E ad essa si rivolge lo sguardo, quasi
a cercarvi le origini sacre della nuova Italia.”39
Ed è su questa scissione, qui dal Croce, don Benedetto, insomma, pontificata, che faranno leva sia le
forze controrivoluzionarie borboniche, come dimostreremo, che raccoglieva cioè i frutti di quella
lungimirante politica inaugurata verso la fine del Seicento dai Borboni. Ed è su questa scissione che
faranno leva i Pagano, i Cuoco, i Carafa, isolando e mortificando le forze più vive ed intelligenti
della rivoluzione: Vincenzo Russo, Lauberg, Cestaro, ecc. e stringendo in un angolo a ruoli
marginali figure come Pimentel Fonseca, Manthoné. Ed è su questa scissione che farà leva lo
Championnet per far divenire il suo esercito l’unico strumento su cui la Repubblica poteva ergersi
ed esistere e poter così derubare e razziare ed estorcere denaro, tenendo n ostaggio così le forze
rivoluzionarie napoletane, che in quanto ostaggio furono consegnate al boia Borbone, come
implacabilmente denuncia Pignatelli Strongoli, che vedremo a suo tempo.
Capitolo Ottavo
La repubblica napoletana del 1799
L’essenza.
Con l’occupazione francese dell’Italia nel corso della campagna napoleonica, 1795-1800, si
ha costituzione di varie repubbliche: Cisalpina, Cispadana, Romana, che professavano le idee e le
teorie della rivoluzione francese. Anche nel Regno di Napoli e della Sicilia si ha la costituzione di
un governo favorevole alla Francia ed ispirato alle idee e teorie della rivoluzione francese. Ma essa
non andò mai oltre la città di Napoli, la capitale del regno e prese il nome di Repubblica
Napoletana. Viene costituita il 22 gennaio 1799, sotto le armi francesi comandate da Championnet,
e abbattuta dalle forze borboniche guidate dal cardinale Ruffo cade il 13 giugno 1799. Durò 4 mesi
e 20 giorni quando le truppe francesi vennero spostate altrove, secondo le esigenze dell’esercito
francese.
L'elemento chiave è tutto dentro questo semplice ed elementare dato:
il movimento contadino delle provincie ed il movimento popolare della città di Napoli abbatte
militarmente la repubblica borghese napoletana, sorta nel gennaio 1799 sull'onda delle idee e
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teorie della rivoluzione francese. Ed ancora più sinteticamente: il gruppo giacobino borghese si
scontra militarmente con il movimento contadino e popolare e viene militarmente abbattuto e
fisicamente soppresso.
Durante tutto il periodo della repubblica napoletana l’elemento che caratterizza decisamente
questa esperienza è l’opposizione armata del movimento contadino delle province del regno e
l’opposizione armata del movimento popolare della Capitale alla repubblica napoletana.
è cioè la scissione che si viene ad operare tra quel gruppo di giacobini ed il popolo meridionale nel
suo complesso.
Il movimento contadino delle provincie a schiacciante maggioranza si schiera sotto la guida di suoi
capi: Mammone, Fra Diavolo, Prodio, ecc. con l’esercito borbonico guidato dal cardinale Ruffo ed
abbatte la Repubblica. Il movimento popolare della Capitale, unito a quello contadino, aveva prima
contrastato in armi l’avanzata dell’esercito francese ed una volta entrato in Napoli opposto una
resistenza armata accanita strada per strada, casa per casa, imponendo come nel caso del
comandante Duhesme accampato a Porta Capuana di ritirarsi per la resistenza accanita casa per
casa che aveva incontrato nel proseguire l’occupazione. Sconfitto, il movimento popolare si
ritrasse, ma sempre pronto a dare battaglia dove e quando poteva per cacciare l’esercito francese
riuscendo alla fine ad abbattere la repubblica e cattura e decapitazione e impiccagione dei ‘
giacobini’., come ben documenta Aurelio Lepre.40
I fatti.
L’opposizione contadina e popolare ha due aspetti:
uno rispetto all’esercito di occupazione francese,
l’altro rispetto al gruppo di giacobini che proclamerà la repubblica napoletana.
Questi due aspetti si intrecciano e si sovrappongono, occorre disgiungerli per intendere il processo
nella sua complessità.
Verso l’esercito francese.
In tutta la fase che vide opposto l’esercito borbonico, guidato dal generale austriaco Mack, si
mantenne totalmente neutrale. L’esercito borbonico per incapacità militare ed organizzativa
accumulerà sconfitte . In questa fase forti sono le diserzioni, l’indisciplina e forte l’opposizione ai
reclutamenti forzati, con momenti alti di tensione e scontri con il governo borbonico.
Imbellità e conclamate accondiscendenze con i francesi sono i tratti caratteristici dell’intera
condotta di guerra. Dinanzi alle sconfitte dell’esercito il re di Napoli, sul finire del mese di dicembre,
prepara la fuga ed emana un editto in cui proclama il Pignatelli suo vicario, depaupera il Regno
portando via valori in oro e contanti per 20milionidi ducati e lascia il principe Pignatelli quale
sostituto. A tale nomina si oppongono gli Eletti del Popolo, che era la struttura rappresentativa
della Regno, costituita dagli eletti dei sei seggi, o Sedili. Secondo la normativa quando il re era
assente la Città, e quindi il Regno, veniva guidato dagli Eletti del Popolo e non da un viceré.
Pignatelli liquidò senza tante discussioni tale pretese, rimandando i delegati alle loro case.
Con la fuga del re ed i francesi alle porte il movimento popolare si organizza in armi per
contrastare il potere di Eletti e dei baroni e quello dei francesi.
Così ne scrive Pietro Colletta:
“ Cosicché, spezzati gli ordini sino ad allora venerati della società, la parte per numero ed ardire
più potente, cioè la bassa moltitudine dominava; tanto più nella città dove la plebe più numerosa, il
ceto dei lazzari audace.. ... i popoli si armano;
…; e dove manca superiorità di condizione, il più ardito è capo. I soldati fuggitivi, a quelle viste fatti
vergognosi, si uniscono ai volontari; le partite, piccole in sul nascere, tosto ingrandiscono ed in
pochi dì sono masse e moltitudini. Le quali concitate da scambievoli discorsi e dalla speranza di
bottino , cominciano le imprese; non hanno regole se non combattere; non hanno scopo fuorché
distruggere; secondano il capo non gli obbediscono; seguono gli esempi non i comandi. …
.., inanimiti dai primi successi, pigliarono la città di Teramo, quindi il ponte fortificato sul Tronto, e,
slogati i battelli che lo componevano impedirono il passaggio ad altre schiere; mentre in Terra di
Lavoro, torme volontarie adunate a Sessa, correndo il Garigliano, bruciano il ponte di legno, si
impadronirono di quasi tutte le artiglierie di riserva dell’esercito francese, poste a parco su la
sponda: e poi trasportando il facile, distruggendo il resto, uccidendo le guardie, desertavano quel
paese. Le tre colonne dell’ala sinistra non più comunicavano tra loro, né con l’ala dritta, impedite
dai Napoletani, che in vedetta delle strade uccidevano i messi e le piccole mani di soldati.
..senza esercito, senza re, senza Mack uscivano i combattenti come dalla terra e le schiere
francesi, invitte da numerose legioni di soldati, oggi menomavano di uomini e di ardimento contro
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nemici quasi non visti. … i Napoletani, poco innanzi codardi e fuggitivi, ricomparivano negli stessi
campi, contro lo stesso nemico, valorosi ed arditi.”
La conduzione della guerra continua ad essere disastrosa ed accondiscendente con i francesi, con
il cedere fortificazioni che potevano essere ben difese per posizione, dotazione di marmi e
munizionamento fino a giungere all’armistizio di Sparanise del 12 gennaio 1799. Con questo
accordo si regalano posizioni e postazioni all’esercito francese consentendogli un rafforzamento
delle sue più avanzate posizioni, in cambio di una tregua di tre mesi. Inoltre ci si impegnava a
pagare per la Città di Napoli due milioni e mezzo di ducati: metà il giorno 15, metà il giorno 25 del
mese di gennaio; e 10 milioni di ducati per le provincie all’esercito francese come indennità di
guerra. Pietro Colletta così commenta questo armistizio:
“ Tregua peggiore di guerra sfortunata!”
Il commentatore del lavoro di Pietro Colletta , Gino Capponi, così commenta in nota 34:
“ La tregua ed i conseguenti patti, che il Pignatelli accettò per timore di una sollevazione interna,
furono così vergognosi da lasciar stupiti gli stessi francesi, che non speravano tanto. In quel
momento, per la resistenza di Capua ed il furore antifrancese delle popolazioni, Championnet si
trovava in una situazione difficile che la tregua risolse inaspettatamente.”41
I popoli della città e delle province respinsero quegli accordi, definendoli tradimento e danno
inizio alla guerra civile contro i francesi e contro i baroni.
Successivamente il Direttorio francese dichiarò proprietà francese ed avocò a sé tutti i beni ed i
patrimoni artistici del regno: castelli, palazzi, dipinti, e perfino gli scavi di Pompei ed Ercolano.
Quando gli emissari francesi si presentano per riscuotere la prima trance dei 2milioni e mezzo di
ducati il popolo insorge ed a difesa di questi si pongo baroni, borghesi e clero. Feroce si scatena la
repressione contro il movimento popolare da parte della guardia civile, che riesce in un primo
momento a tener a freno il movimento di lotta ed a far scappare i francesi. L’indomani
organizzatosi il movimento rivoluzionario per prima cosa impone al Pignatelli di consegnare al
popolo in armi i castelli della Città e disarmano quella ‘ guardia civile’ dei baroni e dei borghesi.
Chiamando traditori e giacobini i generali dell’esercito, nominò suoi condottieri i colonnelli
Moliterno e Roccaromana, segnati di fedeltà l’uno da un occhio accecato nella guerra di
Lombardia, l’altro da recente ferita nel combattimento di Caiazzo.. Invia poi al generale
Championnet una delegazione con un ben preciso mandato e ben precise condizioni di trattare la
resa.
“ Generale, dopo la fuga del re e del suo vicario, il reggimento del regno è nelle mani del Senato
della città; così che trattando a suo nome, faremo atto legittimo e durevole; questo ( e diede un
foglio) racchiude i poteri dei presenti legati. Voi, generale, che debellando numeroso esercito,
venite vincitore dai campi di Fermo a queste rive dei Lagni, crederete breve lo spazio, dieci miglia,
quello che vi separa dalla città; ma lo direste lunghissimo e forse interminabile, se penserete che vi
stanno intorno popoli armati e feroci; che sessantamila cittadini, con armi, castelli e navi, animati
da zelo di religione e da passione di indipendenza, difendono città sollevata di cinquecentomila
abitanti; che le genti delle province sono contro di voi in maggior numero e moto; che quando il
vincere fosse possibile, sarebbe impossibile il mantenere. Che dunque ogni cosa vi consiglia pace
con noi. Noi vi offriamo il denaro pattuito nell’armistizio e quanto altro ( purché moderata la
richiesta ) dimanderete; e poi vettovaglie, carri, cavalli, tutti i mezzi necessari al ritorno e strade
sgombere da nemici. Aveste nella guerra battaglie avventurose, armi, bandiere prigioni;
espugnaste, se non le armi con il grido, quattro fortezze; ora vi offriamo denaro e pace di vincitore.
.. Pensate, generale, che siamo assai ed anche troppi per il vostro esercito; e che se voi per pace
concessa vorreste non entrare in città, il mondo vi dirà magnanimo; se per popolana resistenza
non entrerete, vi terrà inglorioso.”
Discorso molto dignitoso, che trovava nelle armi, nel popolo in armi, la sua forza e validità.
Quello che qui occorre mettere bene in evidenza è la profonda diversità del rapporto che si viene
ad instaurare tra l’esercito francese e quello napoletano.
Prima fortezze cedute senza combattere, navi distrutte, tregue peggiori di una guerra perduta; qui
in condizioni e situazioni assolutamente peggiori c’è la dignità e la forza di un popolo.
Championnet respinge queste condizioni e scatena il suo esercito contro il popolo meridionale.
La resistenza sarà ferma, infliggendo ai francesi pesanti perdite e grandi umiliazioni militari; sarà
una guerra di popolo: strada per strada, casa per casa: come si è detto.
Ecco cosa ne scrive Colletta:
“ Duhesme .. presi alcuni cannoni, entrò in Porta Capuana per mettere campo nella piazza.
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Subito in giro in giro, dalle case preparate a combattere, da feritoie nei muri, e per cammini coperti,
partono a migliaia i colpi di archibugio, ed i Francesi ne sono uccisi o feriti; cadde moribondo il
generale Monnier, cadono i più arditi, non si vede nemico a nulla puote arte o valore; sì che
abbandonato l’infausto luogo, traggonsi indietro.”
Ancora Colletta:
“ Al generale assalto i lazzari per le strade combattevano, senza consiglio, senza impero, a
ventura, disperatamente; e quando da sant’Elmo partì colpo di cannone ed uccise alcuni di essi
nella piazza del Mercato tutti volgendosi al castello viddero bandiera francese e si accertarono del
tradimento; altri repubblicani, vestiti da lazzari tramezzo a questi, menavano al flagello dei
Francesi la tradita plebe.”.
Il movimento è, cioè, costretto il 22 gennaio ad arrendersi, quando da Castel sant’Elmo viene
attaccato alle spalle, il popolo in armi è ormai tra due fuochi: i francesi davanti e Castel sant’Elmo
che cannoneggia sui quartieri popolari, seminando strage.
E’ su questa presenza di repubblicani, travestiti da lazzari, che conducono al flagello dei francesi la
tradita plebe e sul Castel sant’Elmo che cannoneggia che i giacobini aprono lo scontro armato con
il movimento e rivoluzionario della Capitale e di tutto il Regno. Castel sant’Elmo fu occupato con
l’inganno da un gruppo di 2° giacobini tra cui Fonseca, Pagano, e tutti i maggiori nomi della
repubblica napoletana. Essi tennero l’inganno per tutto il 20 ed il 21 gennaio: innalzando la
bandiera della città di Napoli e indicando all’esercito francese posizioni. Quando Championnet
sferrò l’attacco finale contro la Città, che da giorni resisteva, allora i congiurati si manifestarono:
ammainarono la bandiera della città per alzare quella francese e puntando i cannoni di sant’Elmo
sul Mercato lo cannoneggiarono, facendo strage dei popolani. Davano essi così l’avvio alla guerra
contro il popolo del regno di Napoli.
Se il movimento della Città fu costretto a ritrarsi, la lotta armata continuò in tutto in regno, non
dando tregua all’esercito di occupazione francese. Ma la stessa repubblica fu costretta a tenersi
con le armi dei francesi che occupavano Napoli ed il primo atto della repubblica, e l’unico applicato
con sollecitudine, fu la costituzione di una commissione poliziesca e militare contro i popolani che
si erano battuti contro i francesi.
Noi dobbiamo fissare, prima di passare all’altro aspetto. quello del movimento contadino e
popolare nei riguardi dei congiurati, bene i motivi che spinsero il popolo del regno ad opporsi ai
francesi. Il regno nei momenti migliori non raccoglieva più di 2 milioni di ducati per tassazione dal
regno, ora i francesi ne richiedevano 12 milioni e mezzo, nelle condizioni però che le casse erano
vuote e tutto era stato portato via dal re in fuga. La città ed il regno venivano così a trovarsi da una
parte in mano ai francesi e dall’altra nelle mani di baroni, borghesi e clero senza alcun freno.
L’unica via che la popolazione del regno aveva, era quella di opporsi ai francesi ed impedire che
facessero lega con baroni, borghesi e preti e costituire se stesso come potere. Non vi è quindi
alcuna pretesa fedeltà al re o sciocchezze simili, ma unicamente difesa oltre all’inserirsi del
movimento nel vuoto di potere venutosi a creare con la fuga del re, che consentiva al movimento
contadino e popolare di svolgere un proprio ruolo autonomo.
Siamo così entrati ad affrontare l’altro aspetto del movimento rivoluzionario verso i congiurati.
Innanzitutto quella che viene costituita non era affatto una repubblica, ma un governo
quisling, giacché qualsiasi delibera del Parlamento e del governo era poi sottoposta alla decisione
di Championnet. Essa non costituiva affatto una repubblica, ma un’aristocrazia oligarchica e la
visione e concezione che anima i membri della repubblica è proprio ed esattamente una
concezione oligarchia, sullo stampo degli ottimati di aristoteliana memoria.
E già questo allontanava questo governo e questa repubblica dal movimento contadino e popolare.
La sua composizione di classe è il motivo decisivo che mette repubblica e governo in opposizione
netta e frontale con il movimento contadino e popolare.
Ad essa aderirono importanti membri della nobiltà del regno: i principi Serra di Cassano, i principi
Pignatelli, i Principi Carafa; ricchi borghesi, che fino al giorno prima si erano arricchiti con
l’arrendamento delle tasse e che erano poi i primi che traevano profitto da quella contribuzione di
guerra che Championnet chiedeva.
La nostra attenzione deve ora fissarsi su questa composizione di classe.
Innanzitutto delle varie casate nobiliari vi aderivano, in genere i cadetti, ossia i secondo e
terzogeniti, essendo essi esclusi dal patrimonio della famiglia, che passava, per la legge del
maggiorasco, interamente al primogenito, al fine di non disperdere la proprietà e la potenza del
casato.
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Essi si batteranno con grande valore, mettendo a frutto tutta la loro preparazione specialmente in
campo militare per difendere la repubblica contro gli assalti del movimento contadino, specie nelle
provincie del regno. Alcuni di loro si copriranno di gloria nell’esercito francese ed a capo di truppe
poste sotto il loro comando. In modo particolare si distinse per esempio Carafa nella lotta per
sconfiggere la popolazione di Andria e Trani che in armi si era sollevata contro la repubblica e si
stava per dare all'esercito del cardinale Ruffo. Con una stratagemma Carafa guida i suoi uomini
per un lato poco difeso delle mura di Andria e scala in spalla e spada in pugno muove per primo
all’assalto delle mura da quel lato, incitando e guidando i suoi uomini, che riescono così ad entrare
nella città ed a consentire a tutto l’esercito francese di conquistare la città e conquistatala metterla
a ferro ed a fuoco ed a passare per le armi l’intera popolazione.
Pietro Colletta così descrive i fatti:
“ penetrando in città trovò guerra peggiore; fatta ogni casa un castello; e benché in aiuto della
prima colonna venisse la seconda, stava incerto il generale Broussier se procedere o tirarsi fuora,
quando si vide incontro Ettore Carafa con la sua schiera, Napoletani e Francesi, i quali, messi
avanti la porta detta Barra, non riuscendo ad atterrarla ed inteso di pericolo di Broussier,
assalirono le mura con le scale, e trasandando lo scemar dei compagni42 e le proprie ferite,
entrarono nella città. Al quale assalto il colonnello Berger, gravemente ferito su una scala, facevasi
spinto a montare; e fu visto Ettore Carafa con lunga scala su una spalla, e in pugno banderuola
napoletana e spada nuda, esplorare l’altezza dei muri, cercando il luogo dove la scala giungesse,
e, trovato, ascendere il primo ed entrare primo e solo nella città. E, sebbene tutto l’esercito fosse
già in Andria, non finiva la guerra, essendo mirabile il valore dei Borboniani: tanto che dieci di loro,
dentro debole casa, sostennero per molte ore gli assalti di forte battaglione francese. Ed altre
prove dettero di non facile virtù. Soggiacque alfine la città di Andria, feudo una volta, ed allora
pingue possesso di quel medesimo Ettore Carafa, che la espugnò. “.
Si verifica cioè una situazione molto semplice: le popolazioni della provincie si schierano in modo
esattamente opposto di come si schierano i propri feudatari, al fine di approfittare di questa lotta tra
Borboni e Francesi per indebolire i loro odiati nemici: i baroni. Il movimento contadino calabrese si
schiererà con il cardinale Ruffo in opposizione ad uno dei forti feudatari della provincia i principi
Pignatelli. Quando questi si schieravano con i Borboni il movimento si schierava con la repubblica.
La storia del meridione a partire dalla metà del Quattrocento è caratterizzata dalla lotta feroce e
furibonda che vede opposti i baroni al movimento contadino e popolare ed è questa lotta perenne,
ora palese ora sotterranea che caratterizza l’intera storia politica e sociale del meridione d’Italia.
Successivamente nel Seicento a questi si uniranno i borghesi arricchiti, che erano parte integrante
del blocco sociale dominate. Il movimento contadino e popolare era d’uso appoggiarsi alla forza
della proprietà terriera ecclesiastica come momento di mediazione alla loro oppressione e
sfruttamento.
La repubblica napoletana non farà nulla per far uscire il più complessivo movimento
rivoluzionario da questa situazione, ma i suoi deliberati andranno nella direzione di approfondire
questo solco. Ora è ben noto che la rivoluzione borghese si caratterizza per la rottura della
feudalità e per una nuova distribuzione delle terre feudali e demaniali e la costituzione di una più
estesa proprietà contadina. Il punto forte è cioè l’eversione della feudalità e la soppressione di tutti
i vincoli feudali che legavano il contadino alla terra ed al signore.
I deliberati della repubblica invece saranno due:
primo l’abolizione del maggiorasco, ossia della legge che impediva la vendita del patrimonio di una
casata e l’obbligo di passare tutto in eredità al solo primogenito. Questo costituiva non solo un
danno per i secondi e terzogeniti, ma innanzitutto era un limite all’acquisizione della proprietà da
parte dei borghesi, che erano costretti a prendere in affitto tali terre senza poterle comprare ed un
immobilizzo di proprietà, il cui trasferimento di mano era vietato proprio dalla legge del
maggiorasco.
Secondo il mantenimento sulle proprietà feudali di tutti i vincoli feudali in obblighi e prestazioni che
i contadini erano tenuti ad effettuare sui fondi feudali e la trasformazione dei possessi feudali in
possessi borghesi.
Questo significava che già il movimento contadino veniva penalizzato dall’eversione della feudalità,
giacché perdeva tutti i diritti sulle terre demaniali e feudali su cui esercitava diritto di pascolo e di
legna, immiserendoli ulteriormente, ma senza ottenerne neppure i momentanei benefici che la
rivoluzione borghese offriva con il liberarli dalle prestazioni ed obblighi feudali.
Si avvantaggiarono così i cadetti ed i ricchi borghesi, senza per questo danneggiare le famiglie
baronali giacché le loro proprietà non venivano intaccate minimamente.
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La repubblica provvederà infine a rapinare il popolo della Città per foraggiare l’esercito di
Championnet e non si preoccupò minimamente di alleviare il popolo dal pesante peso dei tributi,
ma si procurò di aggiungerne degli altri. Strumentale e ridicola la soppressione della gabella sul
pesce un giorno prima della caduta, ossia l’11 giugno.
Quale fosse lo stato miserevole in cui l’esercito d’occupazione francese fece precipitare
ulteriormente la popolazione della città è bene illustrata dall’opposizione di una parte dei membri
della repubblica al decreto di Championnet che rinverdiva l’impegno dei 12 milioni e mezzo di
ducati, che ancora non aveva raccolto e che in definitiva non raccoglierà.
Ascoltiamo Colletta:
“ Championnet domandò alla città le somme pattuite per la tregua, imponendo taglia di guerra di
due milioni e mezzo di ducati ed altri quindi milioni su le provincie.. prefisso tempo di due mesi.
… in luogo di moneta si riceverebbero a peso i metalli preziosi ed stima le gemme; cosicché
vedevasi con pubblica pietà spogliar le case degli ultimi segni di ricchezza
… Cinque del Governo andarono deputati .. al generale Championnet,.. Abbamonti parlandogli ai
sensi di carità e giustizia… quando il generale rompendone il filo e ripetendo barbaro motto di
barbaro antenato “ Guai ai vinti”.
Gabriele Manthoné, già capitano di artiglieria, .., fattosi oratore di circostanza così disse:
“ Tu cittadino generale, hai presto scordato che non siamo tu vincitore e noi vinti; che
qui sei venuto non per battaglie e vittorie , ma per gli aiuti nostri e per accordi: che noi ti
demmo i castelli; che noi tradimmo per santo amore di patria, i tuoi nemici; che i tuoi
deboli battaglioni non bastavano a debellare questa immensa città: né basterebbero a
mantenerla se noi ci staccassimo dalle tue parti. Esci, per farne prova, dalle mura e ritorna
se puoi; quando sarai tornato imporrai debitamente taglia di guerra e ti si addiranno sul
labbro il comando di conquistatore e l’empio motto, poiché ti piace, di Brenno. ”
E così annota Colletta:
“ Nacquero da quel punto in lui sospetti e nei repubblicani disamori ai francesi.”
Ben diversamente agirà il cardinale Ruffo.
Varcato lo stretto di Messina e giunto in Calabria il primo decreto dimezza le tassazioni rivedendo
e riformando il testatico ed altre tassazioni ed abolendo le gabelle sulla farina ed il grano.
Nella sua corrispondenza con re Ferdinando spiega le decisioni per lo stato miserevole in cui
versava il popolo, mentre la regina Carolina in una sua corrispondenza con il cardinale Ruffo così
scriveva: “ Animare quelle provincie a unirsi con levarle dazi per dieci anni, abolire la
feudalità, ius proibitivi, insomma anticipare tutte quelle cose che i francesi faranno e con le
quali si renderanno graditi alle popolazioni.”43
L’esercito di Championnet si dimostrerà esclusivamente un vorace esercito d’occupazione ed
il governo della repubblica prigioniero-ostaggio dello Championnet.
Tutta la inconsistenza della Repubblica del ’99 è ben tracciato da Francesco Pignatelli Strongoli
nel suo lavoro: “ Intorno alla guerra tra la Repubblica Francese ed il Re di Napoli ed alla
Rivoluzione che ne fu conseguenza.”.
Pignatelli Strongoli mette bene in evidenza la natura di governo-ostaggio e come siano stati i
francesi a consegnare i giacobini napoletani al boia Ferdinando IV.
La testimonianza è decisiva.
Noi possiamo assumere questo testo come fonte documentaria per il ruolo, gli interessi e la
funzione che Pignatelli Strongoli assolse per tutto il periodo napoleonico.
Nato nel 1775 cominciata giovanissimo la carriera militare nell’esercito austriaco, passa ben presto
al servizio della Repubblica Francese, entra in Napoli al servizio dello Championnet e fa parte, nei
primi mesi della Repubblica Napoletana, di varie commissioni militari. Continua, dopo la caduta
della Repubblica, a prestare servizio nell’esercito francese, all’interno del quale ricopre alte cariche
militari, fino al 1815.
Lo scritto costituisce una “ Memoria” del 1800-1801.
Scrive, tra l’altro:
Pag. 5 “ Il governo francese,…, premendogli di conservare i commercio con i porti delle Due Sicilie
[…]
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Pag. 34 “ La condotta che il governo francese tenne rispetto ad essi, ed il vile abbandono che
ordinò dopo averli messi nell’impossibilità di difendersi, appariranno così anche più delittuosi.
Vediamo ora qual uso i vincitori fecero della vittoria. Non appena i Francesi furono entrtati
nella capitale, tutte le città del regno fino a Reggio innalzarono l’albero della libertà; ed i patriotti
di tutte le provincie inviarono deputati a Napoli per ricevere istruzioni sulla nuova forma di
Governo. Questi deputati esponevano unanimemente che bisognava affrettarsi a dirigere con
vantaggio l’entusiasmo della novità, prodotto dalla stanchezza del giogo del ferro sotto il quale i
popoli erano tenuti durante l’ultimo regno; …. I Francesi avrebbero dovuto appoggiarli, e,
mettendo successivamente guarnigioni nelle piazze forti, la libertà del paese sarebbe stata
assicurata per sempre. Per riuscire in questo il generale in capo avrebbe dovuto lasciare al
governo napoletano qualche mezzo finanziario e sceglier capi che avessero capacità militari ed
opinioni repubblicane.
Sventuratamente si tenne una condotta affatto opposta; e con l’ingiustizia e con operazioni
affrettate si perdette la stima della popolazione. I commissari francesi confiscarono, anome del loro
governo, i beni nazionali, ..; sequestrarono i beni immensi dei cavalieri di Malta.., spogliarono il
Museo, specie quello di antichità, che formava il più bel ornamento di Napoli; confiscarono per
ordine superiore finanche le pietre nascoste nelle viscere della terra, impadronendosi delle rovine
venerabili di Pompei ed Ercolano. Si appropriarono la Topografia Nazionale, istituto che faceva
onore all’Italia e sorpassava tutto ciò che esisteva in questo genere; e perché non restasse speranza
di ristabilimento, si fecero offerte al famoso Zannoni per indurlo ad andare in Francia, La rapacità
ed il vandalismo di parecchi individui giunse fino a distruggere le belle fabbriche delle seterie di S.
Leucio ed a portar via fino gli ordigni della famosa fabbrica di porcellane di Napoli. Gli impiegati
dell’esercito da parte loro si rendevano padroni di tutti i magazzini di effetti militari, dai quali
avrebbero potuto prendere tutto ciò che era necessario ai loro soldati e lasciare il resto al governo
napoletano.
Il generale in capo metteva al tempo stesso una contribuzione di dieci milioni di ducati
napoletani ( ossia di circa 50 milioni di lire ). Ed era enorme perché pesava sulla sola città di
Napoli, giacché nessuna delle province era sottomessa.
Pag. 38 “ Si vede chiaramente che, non lasciandosi al governo napoletano nessun mezzo
finanziario, esso non poteva provvedere alle spese necessarie per organizzare un esercito e
mantenerlo. Alcuni giorni dopo la presa di Napoli, si vide arrivare nel suo porto la guarnigione di
Livorno ed il corpo del generale Damas, i quali, di comune accordo ufficiali e soldati, sprezzando
gli ordini di questo generale.. avevano preferito offrire i loro servigi alla repubblica.
Questi militari furono subito disarmati ed inviati a Portici, come quelli riuniti a Capua da un
ufficiale napoletano, che serviva nell’esercito francese. Gli otto o nove mila soldati a Portici, per la
mancanza del soldo e per l’incapacità o cattiva volontà del capo, sparirono prontamente, seguendo
l’esempio del resto dell’esercito napoletano.
Pag. 40 “ Championnet aveva nominato ministro della guerra un francese; ma senza mezzi, in poco
accordo con il governo ( il quale era dolente nel suo segreto dell’introduzione dei Francesi nei
primi posti per timore di una dipendenza cui non avrebbero voluto sottostastare), senza essere
secondato da un abile generale, non poteva fare nessun bene.
Pag. 42 “ [..]; 3.) che la dispersione dell’esercito napoletano fu la causa prima dell’insurrezione
delle province; 4.) che bisogna tuttavia attribuire la maggior parte di questo errore agli ordini del
governo francese, i quali obbligavano il generale in capo ad autorizzare l’esazione di contribuzioni
enormi ed impolitiche, e ad usurpare tutte le risorse dello Stato; .. .
Circa la morte dei giacobini napoletani:
Pag.44 “ Si dimostrerà che questo uffiziale, il cittadino Méjan, che finge di ignorare che quasi tutti
i membri del governo napoletano, tutti i generali, i personaggi più notevoli per talenti a Napoli…
avrebbe potuto salvare tanta brav gente se avesse fatto eseguire la capitolazinoe da lui confermata e
garantita. Méjan avrebbe ottenuto chele navi cariche di repubblicani e pronte a partire avessero
messo la vela, se egli avesse minacciato di dar fuoco a Napoli non eseguendosi la capitolazione
nello spazio di due giorni. Pochi mortai e cannoni a s. Elmo, prima che il nemico abbia montato un
pezzo contro il forte, sono ben fatti per incutere timore ai padroni di Napoli: me ne appello agli
uffiziali di artiglieria e del genio, che conoscono la situazione di quel forte. Non era lo stesso il
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caso, quando con un lungo armistizio, si fu dato tempo al nemico di tracciare le sue linee, di
trascinare su per le colline che circondano s. Elmo l’artiglieria e gli altri materiali necessari per
far l’assedio del forte, e di costruire anche batterie mascherate.”.
Nota a chiusura..
In effetti il programma politico dell’aristocrazia nobiliare consisteva nel mantenimento delle
prerogative feudali ed una espansione di questi nella forma del più diretto dominio sui ‘ vassalli’mantenendo qui la terminologia del Villari. In cambio di questa ‘ espansione’ essi pongono se stessi quali
garanti dell’ordine; chiedono per sé un controllo maggiore sullo stato e gli affari dello stato, perché migliori
garanti del mantenimento di quello status quo. In questo senso tutta la valenza di quel “ fidelissimo” ed “
infedelissimo”.
I ‘ giacobini’ napoletani del ’99 e tutta la politica di questi in effetti non si discosterà da questa linea: saranno
garanti dei più complessivi privilegi baronali e feudali, nelle condizioni della tempesta rivoluzionaria
scatenata dal 1789.
Occorre seriamente prendere in considerazione che oramai la situazione era in mano al movimento popolare
delle città e delle campagne che in armi si opponeva allo Championnet e che per baroni e borghesi si
apprestavano giorni neri, sotto il tiro del movimento rivoluzionario meridionale in armi.
Championnet aveva serie difficoltà ad entrare in Napoli, e Mantoné lo dichiarò esplicitamente e Colletta lo
conferma, un ritardo di qualche altro giorno sarebbe stata la fine per l’esercito francese, il che avrebbe
significato la città ed il regno nelle mani del movimento rivoluzionario cittadino e delle campagne. Colletta
ferma bene questa aspirazione borghese e nobiliare dell’arresto della forte presenza popolare e contadina e la
benedizione per qualunque forza: francese, se non quella borbonica, pur del ritorno all’antico ordine. Di qui
il sostegno allo Championnet.
Tutta la manovra ‘giacobina’ potrebbe essere letta in questa ottica, di togliere la direzione al movimento
popolare e contadino ed imporre l’ordine della proprietà con le armi francesi.
Si tratta di comprendere come e dove e perché è poi avvenuta la rottura, che porterà alla decapitazione dei
giacobini. Una linea interpretativa, su cui andrebbero fatti studi, sarebbe quella della maggiorascato, per cui
la vendetta sarebbe stata chiesta dall’ala maggiorasca contro quella cadetta. Lo ‘ sgarro’ può essere stato
quella legislazione, anche se molto annacquata, giacché salvava le proprietà feudali convertendole in
borghesi. La prima linea dell’allontanamento dal regno in cui i 120 patrioti, messi sulla nave francese
sarebbero dovuti essere portati in Francia, ma poi, fatto passare del tempo - di cui ben documenta Pignatelli
Strongoli – viene accettata l’intimazione di consegnare i prigionieri che fatti scendere a terra verranno tutti
giustiziati.
Perché entrambe le parti vengono meno all’accordo stipulato?
105
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1
Processi della Transizione: La rivolta dei Ciompi.
Il successivo è quello 1799-1860: che vede la conclusione dell’intero processo di formazione di Stati nazionali europei
e l’inizio del processo di evoluzione dei processi capitalistici nel loro forma suprema: l’imperialismo, che inizierà ad
articolarsi attorno al 1880 per sfociare definitivamente nel 1910. Ovviamente noi parliamo di stati nazionali borghesi.
Ma questa è una tautologia: lo Stato nazionale in quanto tale è la borghesia; è, cioè, la formazione statale e statuale
della proprietà privata borghese, della società borghese, dei rapporti di produzione borghesi. O se si vuole la forma
statale entro cui i rapporti di produzione borghesi si esprimono e si muovono.
3
Si rimanda qui ai lavori dell’Istituto:
a. Processi della Transizione,
b. b. Storia del Capitalismo Italiano.
4
Abbiamo qui un esempio storico di quanto K, Marx –F. Engels indicano ne “ Il Manifesto del Partito Comunista”:
“ La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi. […]: una lotta che finì sempre o con una
trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta.”.
La pubblicistica corrente è partita da questo passo sulla “ comune rovina” per inscenare tutta la storia di “
socialismo o barbarie”, prospettando, cioè, un futuro apocalittico di barbarie; un futuro, cioè, in cui la lotta di classe tra
proletariato e borghesia si risolve
nella “ rovina comune” di qui la barbarie.
Il processo storico ha condannato la Spagna alla decadenza, ma il processo storico borghese si è fatto, nei modi e nelle
forme storicamente determinantesi, che ha visto la Spagna tagliata fuori e subire il processo capitalistico, ma non
l’intero processo borghese si è arrestato, né il mondo è precipitato nella barbarie.
In verità questa teoria, per quanto intelligente e sottile, non è altro che una ulteriore riedizione della ben nota teoria
borghese secondo la quale comunque senza la borghesia e dopo la borghesia la barbarie, il che è certamente la
convinzione profonda della borghesia, giacché essa non sa pensare un mondo diverso dal modo di produzione borghese,
ma che questa proiezione mitica di una classe venga poi raccolta e proiettata nel mondo reale è solo un’operazione
ideologica, che non ha alcuna base e fondamento scientifico.
5
Ventura, Relazione dell’Illustrissimo signor Giovanni de Mulla”
6
Rosario Villari, La rivolta antispagnola a Napoli, pag. 192
7
Da questo punto di vista risulta ben strano il mea culpa, giubilare, della curia circa l’Inquisizione.
Se carità cristiana spinge a sobbarcarsi errori e carichi altrui, questa però non può far cambiare le cose.
Val pur bene un tale mea culpa, ma è il mea culpa dell’esecutore e non ancora del mandante e quindi è il mea culpa di
chi il crimine ha commesso, ma non è ancora la “ riabilitazione”, che può essere fatta solo dal mandate, ossia dalla
corona di Spagna, che invece si defila, come se la cosa non lo riguardasse. In verità la curia romana cerca così di
proiettare un’immagine di una forza, di un’auctoritas che avrebbe avuto nel passato, ma che non ha mai avuto e nel
contempo tenere lontana da sé l’immagine di semplice esecutore, o se si vuole di boia e vestirsi nel contempo delle
veste di signore. In altre parole è il servo che di nascosto del signore si mette le vesti del signore e così parato a festa si
fa vedere per la piazza del villaggio.
8
R. Villari, Elogio della dissimulazione, pag. 8
9 ma essa non ha mai avuto una visione borghese vera e propria, non è mai andata al di là del mercante, della bilancia e
del peso posto sotto la bilancia per alterare di qualche decina di grammi il peso.
10
Il termine “blocco sociale” è utilizzato qui nella piena accezione gramsciana.
11
M. Schipa, Masaniello, Laterza 1925
12
C. Denina, Le rivoluzioni d’Italia
13
A. Manzoni, I Promossi Sposi, cap. 16
14
V. Dini, Masaniello, pag. 32, Newton ediz.
15
F. Capecelatro, Diario delle cose avvenute nel reame di Napoli negli anni 1647-50, con annotazioni del marchese
Angelo Granito, principe di Belmonte.
16
Giuseppe Donzelli, Partenope Liberata
17
De Santis Tommaso, Storia del tumulto di Napoli
18
Giò Battista Piacente, Le rivoluzioni del Regno di Napoli negli anni 1647-48
19
Ester Visco,Politica della santa sede nella rivoluzione di Masaniello, Napoli 1928
20
De Santis Tommaso, Storia del tumulto di Napoli
21
De Santis, op. cit
22
M. Schipa, Masaniello
23
Studi e ricerche devono ancora approfondire molte cose:
1. la Pace di Westfalia ed i suoi riflessi nel Mediterraneo, giacché modificando gli equilibri tra Spagna, Olanda,
Inghilterra, Francia di facto configura nuovi scenari sul e nel Mediterraneo.
2. Ruolo di Spagna, Francia, Olanda, Inghilterra, Portogallo dopo Westfalia ed incidenza di questa sul loro sviluppo
interno ed internazionale.
3. Ruolo della Spagna dopo Westfalia: l’intero corso della sua decadenza e la mutuazioni di quelle forze egemoni e
principali nel Seicento, loro evoluzione.
4. Ruolo del Regno di Napoli dopo Westfalia ed il rapporto tra lo sviluppo, e problemi dello sviluppo e ruolo del
capitalismo italiano, del capitalismo italiano e la sconfitta della rivoluzione napoletana del 1647-48.
2
106
107
24
Nunziature di Napoli, Archivio Vaticano, Napoli 43, pag. 33, 12. marzo 1648
in Visco, Politica della santa sede nella rivoluzione di Napoli, pag. 97, Napoli, 1928
25
Nunziature diverse, 76-4 marzo 1648, pag. 523
in Visco, op.cit., pag. 101
26
Visco, op. cit., pag. 21
27
Visco, op. cit., pag. 102-103
28
Antonio Ghirelli, Storia di Napoli, pag. 68
29
ibid, pag. 70
30
ibid, pag. 72
31
ibid, pag. 73
32
ibid, pag. 74
33
Salvatore di Giacomo, La prostituzione a Napoli nei secoli XV-XVI-XVII
34
A. Ghirelli, op. cit., pag. 73
35
V. Cuoco, Saggio Storico sulla rivoluzione di Napoli, pag. 131-132, BUR, aprile 1966
36
G. B. Vico, La congiura di principi napoletani
37
G.B. Vico, Opere, pp. 243-44
38
Il termine ‘ popolo borghese’ sta ad indicare: borghesi, operai e contadini.
39
Benedetto Croce, La rivoluzione napoletana del 1799, pag. 12, Ed. Bibliopolis, 1998
40
Aurelio Lepre “ Storia del Mezzogiorno nel Risorgimento”, ‘ La rivoluzione del 1799’, pagg. 64-66
P. Colletta, “ Storia del Reame di Napoli”, Pag. 296, Bur.
41
42
Nonostante le perdite e quindi il diminuire degli attaccanti.
43
Lettera del 16 febbraio. 1799
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