Note per la Giornata del ricordo Il termine foiba deriva dal latino fovea che significa “antro”, “fossa”, “cavità”. Indica le fenditure, profonde anche fino a trecento metri, che si aprono nel fondo delle doline provocate dall’erosione millenaria delle acque che hanno scavato nella roccia carsica della Venezia Giulia. Ma al di là di questo necessario riferimento geografico, occorre subito precisare che nella coscienza delle genti triestine e giuliane le foibe sono associate al fatto storico dell’eliminazione di italiani nel settembre-ottobre del 1943 e soprattutto, agli eccidi di massa compiuti dalle truppe titoiste nella primavera del 1945. Per comprendere come si svolsero i fatti e il contesto in cui maturarono gli infoibamenti, occorre partire da alcuni antecedenti storici. L’Istria entrò ufficialmente a far parte del Regno d’Italia con il decreto di annessione del 19 marzo 1920, dopo la fine della prima guerra mondiale. La regione era uno dei “pezzi” del dissolto Impero asburgico. Qualche anno dopo in Italia sale al potere Mussolini. Durante l’epoca fascista fu praticata una politica “assimilazionistica” nei confronti della popolazione slava. Si dispone di italianizzare la toponomastica, di italianizzare i cognomi, si fanno chiudere parecchi circoli ricreativi croati e sloveni. Il ventennio di italianizzazione forzata generò una situazione diffusa di tensione e avversione destinata a esplodere. L’area jugoslava rimase estranea inizialmente alle vicende della seconda guerra mondiale. Ma nell’aprile del 1941 il principe reggente Paolo Karagjorgjevic viene rovesciato da un colpo di stato militare e Hitler comanda l’invasione. I tedeschi sono guidati da Goering. In due settimane tutta la Jugoslavia è piegata. Il massiccio dispiegamento di forze occupazionali e la durezza della politica repressiva italiana non impedisce al movimento partigiano sloveno e croato di crescere in modo consistente. Fra i suoi combattenti si contano i militanti comunisti e quella fascia di popolazione slava più colpita dalla politica di persecuzione nazionale del fascismo. Dopo l’armistizio dell’8 settembre le forze militari italiane presenti nella regione si disgregano rapidamente. Il comandante del XXIII Corpo d’armata, gen. Ferrero, abbandona Trieste senza lasciare indicazioni; il generale Gastone Gambara, comandante dell’ XI Corpo d’Armata, consegna la città di Fiume ad una piccola unità corazzata tedesca; a Pola si arrende agli uomini della Wermacht l’intero comando. La cessazione formale delle ostilità fra gli eserciti non solo non sedò le conflittualità profonde, ma alimentò un clima di torbidi, prima incanalato dall’uso istituzionalizzato della 1 violenza. Si apre una caccia indiscriminata contro chiunque sia riconducibile all’amministrazione italiana. La brutale semplificazione italiano/fascista è alla base del giustizialismo politico del movimento partigiano slavo che si congiunge alla violenza selvaggia della rivolta contadina. Si mescolano spinte nazionaliste e contenuti di classe. Si colpisce chi viene percepito come italiano, come fascista, come possidente: vengono arrestati gerarchi, podestà, segretari, carabinieri, esattori delle tasse. Gli arrestati vengono condotti a Pisino, nel centro della penisola istriana e a Pinguente, nell’Istria settentrionale. Processi sommari si concludono quasi sempre con la condanna a morte degli imputati e il successivo occultamento dei cadaveri nelle foibe. Si risolve così, in modo rapido, il problema della sepoltura. L’infoibamento assume un valore simbolico in chi lo pratica: «gettare un uomo in una foiba significa trattarlo alla stregua di un rifiuto, con il conseguente rovesciamento totale dei valori», come ha scritto lo storico Valdevit. I condannati venivano ammassati sul ciglio, legati gli uni agli altri con il fil di ferro. Si sparava ai più vicini al precipizio in modo che, cadendo nel vuoto, trascinassero con sé tutti gli altri ancora vivi. Per impedire ogni possibile futura opera di ricerca e di identificazione delle vittime, talvolta i prigionieri venivano condotti sul luogo di esecuzione nudi. Accanto alle vittime venivano infoibati, talvolta, uno o più cani neri. Un rituale che rendeva ancora più macabra l’operazione. Secondo vecchie superstizioni slave, l’uccisione di un cane nero libera dalla colpa colui che si è macchiato di sangue umano; il cane nero fa da guardia alle anime dei morti insepolti; il cane nero impedisce all’anima del morto accanto al quale giace di essere accolta in cielo e di fare vendetta. Quante sono le vittime giuliane del settembre-ottobre 1943? Secondo una ricerca patrocinata dall’Unione degli Istriani il numero delle vittime è compreso fra 500 e 700. Dall’autunno 1943 alla primavera 1945 le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana vengono sottoposte alla amministrazione tedesca. La durezza del regime occupazionale tedesco è documentato dalla trasformazione della vecchia pilatura di Trieste a San Sabba in campo di concentrazione e di sterminio. Nel momento in cui si profila una sconfitta del nazifascismo, già nell’estate ’44 Tito pone le condizioni agli alleati di una annessione della Venezia Giulia. Nei mesi successivi la situazione si complica per le contraddizioni che attraversano il movimento resistenziale: si dividono, infatti, la componente comunista da quella non comunista. Le indicazioni di Togliatti sono chiare: “Noi consideriamo come un fatto positivo, di cui dobbiamo rallegrarci e che in tutti i modi dobbiamo favorire, la occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito […] Il nostro partito deve partecipare attivamente, collaborando con i compagni jugoslavi nel modo più stretto, alla organizzazione di un potere popolare in tutte le regioni liberate dalle truppe di Tito”. 2 Nella regione giuliana il movimento partigiano si spacca. I sospetti reciproci di tradimento tra Comandi Osovani ( di area democristiana) e garibaldini (di area comunista) conducono all’eccidio di Porzus del 7 febbraio 1945. La brigata dei Gap al comando di Mario Toffanin si dirige verso la malga di Porzus dove si trova il comando della brigata Osoppo. Cadono il comandante De Gregori, il commissario Valente, una giovane donna e altri 18 partigiani. Intanto, l’esercito che potrà approfittare del crollo tedesco, sia esso alleato o titino, potrà imporre la propria amministrazione in virtù della correlazione tra controllo militare e controllo politico. Si apre «la corsa per Trieste» e si scatena lo spirito revanscita jugoslavo: “E’ arrivata l’ora benedetta che laverà vent’anni d’onta di tutto un popolo, l’ora tanto attesa dai nostri padri e da noi tutti”. L’«operazione Trieste» iniziata il 17 aprile, si conclude il 1 maggio con l’entrata degli uomini di Tito a Trieste. Tito ha vinto la corsa per Trieste, anche se gli angloamericani possono ancora rivendicare l’uso militare dei porti di Pola e Trieste. Matura l’idea di epurazione di ogni voce di dissenso. Non solo i fascisti, ma anche tutti coloro che si oppongono al comunismo jugoslavo, nazisti o anche gli stessi antifascisti sinceri, ma antislavi. L’epurazione preventiva si abbatte anche sugli esponenti del Comitato di liberazione nazionale di Fiume, così come su quelli del Cln di Gorizia, che si presentano come organizzazioni concorrenziali rispetto a quelle jugoslave. Le definizioni di “criminale di guerra” e di “nemico del popolo” sono abbastanza elastiche per comprendere chiunque possa essere sospettato di atteggiamenti antijugoslavi. Bastava assai poco per decidere la sorte di un individuo e per scomparire per sempre. Nelle grandi tragedie collettive la resa dei conti cortocircuita dal piano personale a quello politico e viceversa. Scatta la seconda ondata di infoibamenti che si intreccia con la partita strategica che si gioca a livello internazionale. La partita che si gioca nei Balcani vede in Tito il protagonista assoluto. Egli punta a realizzare l’amministrazione di tutta la zona giuliana occupata per forzare la posizione dell’Unione Sovietica e ottenere il pieno appoggio di Stalin alle proprie aspirazioni espansionistiche. Ma è una partita complessa che deve tener conto delle linee di spartizione dell’Europa. La questione di Trieste non è più una disputa italo-jugoslava, ma è un problema che investe direttamente le relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Per Mosca è prioritario puntare sull’Europa orientale piuttosto che sostenere il “governo amico” di Belgrado dove non ha la possibilità di insediare le proprie truppe. Così si giunge a definire la “linea Morgan” (dal nome del generale americano che tracciò i confini) dividendo la Venezia Giulia in due zone di occupazione, definite Zona A e Zona B. Il carattere convulso con cui vengono fatti gli arresti e liquidazioni, la pluralità dei carnefici, l’occultamento delle prove, l’inaccessibilità degli archivi jugoslavi rendono difficile la 3 quantificazione delle vittime della repressione jugoslava nella primavera del 1945. Secondo le ricerche del Centro studi adriatici, durate quattro decenni, e pubblicate nel 1989 nel volume Albo d’oro. La Venezia Giulia e la Dalmazia nell’ultimo conflitto mondiale, le vittime accertate sono 10.137. A questa cifra occorre aggiungere le vittime di ben 37 foibe e cave di bauxite per le quali non è stato possibile alcun accertamento. La cifra complessiva salirebbe, secondo alcune stime, a 16.500. Per riprendere un’espressione recente, si può parlare di «pulizia etnica» per definire le operazioni condotte nell’Istria, a Fiume e nella Dalmazia cadute sotto controllo jugoslavo. Gli italiani sono costretti all’esodo a centinaia di migliaia. Arresti, deportazioni e uccisioni avvengono senza che nessuno intervenga a proteggere gli infelici. E’ il comunismo italiano a sollecitare la collaborazione con l’esercito jugoslavo, in nome dell’unità nella lotta di liberazione, ma soprattutto del modello sociale di cui esso è portatore; sono comunisti i cittadini giuliani di nazionalità italiana coinvolti nelle nuove strutture di potere titoista. Quando nel 1948 avviene la rottura fra Stalin e Tito, l’Occidente inizierà a guardare al governo di Belgrado cercando di attrarlo nel proprio campo. La versione fornita da parte jugoslava è espressa nei termini della necessità storica. Il carattere politico e antifascista e la generale colpevolezza dei morti diventa una sorta di versione ufficiale accettata dalla diplomazia occidentale, che non ritorna sull’argomento. 4