IL RITO SPECIALE AVVERSO IL SILENZIO DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE (Roberto Giovagnoli) Sommario: 1. La tutela contro il silenzio-rifiuto della P.A.: osservazioni generali. - 2. Il presupposto per la formazione del silenzio-rifiuto: l’esistenza di un obbligo di provvedere. - 2.1. L’obbligo di provvedere può nascere in assenza di una norma espressa previsione legislativa che “tipizza” l’istanza del privato - 2.2. La tripartizione operata dalla giurisprudenza - 2.2.1. Istanze dirette ad ottenere atti di contenuto favorevole - 2.2.2. Istanze di riesame di precedenti atti non impugnati - 2.2.3. Istanze dirette ad ottenere l’esercizio di poteri repressivi verso terzi - 3. Il procedimento di formazione del silenzio-rifiuto: il problema della necessità della diffida prima dell’art. 2 legge n. 15 del 2005 e dell’art. 3, comma 6-bis d.l. n. 35/2005 (convertito in legge n. 80/2005). – 3.1. La necessità della diffida dopo l'art. 2 legge n. 205/2000 – 3.2 Le novità introdotte dall’art. 2 legge n. 15/2005 e dall’art. 3, comma 6-bis, d.l. n. 35/2005 (convertito in legge n. 80/2005): non è più necessaria la diffida.– 3.3. Gli argomenti a sostegno della scelta compiuta dal legislatore – 3.4. La diffida facoltativa e la diffida diretta a far valere la responsabilità del funzionario – 4. Il termine per ricorrere prima della legge n. 15/2005 e della legge n. 80/2005: la giurisprudenza prevalente applica il termine di decadenza – 4.1. Un orientamento minoritario: il termine per impugnare si rinnova de die in diem finché dura l’inerzia – 4.2. La tesi che applica il termine di prescrizione e le relative obiezioni – 5. Le novità in materia di termine per ricorrere contenute nelle leggi n. 15/2005 e n. 80/2005 – 5.1. La riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento – 6. L'oggetto del sindacato giurisdizionale nel ricorso contro il silenzio-rifiuto: l’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale fino alla legge n. 80/2005 – 6.1. La I fase: la giurisprudenza nega il sindacato sulla fondatezza dell’istanza – 6.2 La II fase: la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 10 del 1978 e la successiva evoluzione giurisprudenziale fino alla legge n. 205/2000 – 6.3. La III fase: l'oggetto della sindacato giurisdizionale nel ricorso contro il silenzio-rifiuto dopo l'art. 2 l. n. 205/2000. La lettura restrittiva accolta dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 9 gennaio 2002, n. 1 – 6.3.1. Osservazioni sulla soluzione accolta dall'Adunanza Plenaria n. 1 del 2002 – 6.3.2.La tendenza di una parte della giurisprudenza ad ampliare l’oggetto del sindacato giurisdizionale. – 6.3.3. La lettura estensiva del rito previsto dall’art. 2 legge n. 205/2000: il ricorso contro il silenzio come nuova ipotesi di giurisdizione di merito – 6.3.4. Le tesi che individuano due riti per i ricorsi contro il silenzio – 6.4. La IV fase: la riscrittura dell’art. 2 legge n. 241/1990 ad opera dell’art. 3, comma 6-bis d.l. n. 35/2005 (convertito in legge n. 80/2005). – 6.4.1. Il giudice amministrativo <<può conoscere della fondatezza dell’istanza>>: facoltà di scelta o potere-dovere? – 6.4.2. Una nuova ipotesi di giurisdizione di merito? – 6.4.3. I limiti del potere del G.A. di conoscere il merito della pretesa. 6.4.4. La verifica della fondatezza della pretesa solo in caso di attività vincolata – 6.4.5. Il Consiglio di Stato chiarisce i poteri del giudice amministrativo nel rito del silenzio: la sentenza della Sez. IV, 10 ottobre 2007 n. 5311. - 7. L'ambito oggettivo di applicazione del rito speciale contro il silenzio della P.A.: il problema del silenzio significativo, del silenzio-rigetto, del silenzio su istanze volte a far valere diritti soggettivi – 8. Ricorso contro il silenzio e riparto di giurisdizione – 9. Diniego espresso sopravvenuto nel corso del giudizio contro il silenzio-rifiuto. – 10. Natura giuridica del commissario ad acta nominato nel ricorso avverso il silenzio 1. La tutela contro il silenzio-rifiuto della P.A.: osservazioni generali. Le questioni che tradizionalmente si pongono nel dibattito giurisprudenziale e dottrinale 1 relativo alla tutela del privato contro l’inerzia non qualificata della P.A. riguardano principalmente: - il procedimento di formazione del silenzio: se, dopo l'espressa previsione di un termine per provvedere da parte dell'art. 2 l. n. 241/1990, sia ancora necessario il complesso procedimento di formazione del silenzio-rifiuto di cui all'art. 25 T.U. n. 3/1957 o se, invece, ne sia stato introdotto uno più semplice, basato sul solo decorso del termine, senza necessità di presentare apposita diffida formale; - il termine d'impugnativa: se il privato sia soggetto all'ordinario termine di decadenza o, invece, possa rivolgersi al G.A. fino a quando persista l'inadempimento della P.A., rimanendo in capo a questa il potere-dovere di pronunciarsi sull'istanza; 1 Sul tema, per una rassegna della dottrina e della giurisprudenza, sia consentito rinviare a R. GIOVAGNOLI, I silenzi della Pubblica Amministrazione dopo la legge n. 80/2005, Milano, 2005 1 - l’intensità del sindacato consentito al G.A.: se <<il giudice amministrativo debba decidere i ricorsi avverso il silenzio-rifiuto, soltanto controllando il calendario, per dichiarare che scaduti i termini, bisognava e bisognerà provvedere oppure se debba valutare, nei limiti consentiti, la fondatezza della domanda>>2. L’art. 2 l. n. 205/2000, nel prevedere un rito accelerato per i ricorsi contro il silenzio della P.A., non ha affrontato direttamente nessuna di queste tematiche anche se, con particolare riferimento all'ultima delle questioni indicate (quella concernente l’intensità del sindacato), ha avuto l’effetto di riaprire un dibattito che sembrava aver trovato una soluzione definitiva dopo l'accoglimento da parte della giurisprudenza del Consiglio di Stato dell'orientamento volto ad estendere, almeno nei casi di attività vincolata, il sindacato del giudice fino all'accertamento della pretesa sostanziale del ricorrente. Tale dibattito, come vedremo, è sfociato nell’adesione da parte dell’Adunanza Plenaria (decisione n. 1 del 2002) alla tesi più restrittiva che esclude ogni sindacato da parte del G.A. sulla fondatezza della pretesa, anche in caso di attività vincolata. Di recente, tuttavia, il legislatore è tornato a disciplinare il silenzio non qualificato della pubblica amministrazione dando una risposta definitiva a molte delle questioni sopra richiamate. Si fa riferimento, in particolare, all’art. 2 legge 15 febbraio 2005, n. 15 e, soprattutto, all’art. 3, comma 6-bis, d.l. n. 35/2005 (convertito in legge 14 maggio 2005, n. 80) che ha riscritto ex novo l’art. 2 legge n. 241/1990. Il nuovo testo dell’art. 2 legge n. 241/1990, quale risultante dalle modifhce apportate dalla legge n. 80/2005, chiarisce che ai fini della formazione del silenzio-rifiuto non è più necessaria la diffida e che la il ricorso contro il silenzio-rifiuto può essere proposto finché dura l’inerzia della P.A. e comunque non oltre un anno dalla scadenza del termine per provvedere. Inoltre, disattendendo l’orientamento accolto dall’Adunanza Plenaria con la già citata decisione n. 1 del 2002, attribuisce espressamente al G.A. il potere di <<conoscere della fondatezza dell’istanza>>. 2. Il presupposto per la formazione del silenzio-rifiuto: l’esistenza di un obbligo di provvedere Non vi è dubbio che è solo in presenza di un obbligo di provvedere che l’inerzia dell’Amministrazione assume rilevanza giuridica sub specie di silenzio-rifiuto. Occorre, pertanto, individuare preliminarmente le fattispecie dalle quali sorge in capo in capo alla Pubblica Amministrazione un obbligo di pronunciarsi sulle istanze dei privati. Sul punto si registra un recente arresto del Consiglio di Stato (sez. VI, 11 maggio 2007 n. 3 2318) che individua le ipotesi in cui dall’istanza del privato nasce un obbligo di provvedere in capo alla p.a. L’obbligo di provvedere, secondo il Collegio, sussiste, anzitutto, quando la legge espressamente riconosca al privato il potere di presentare un’istanza, così riconoscendogli la titolarità di una situazione qualificata e differenziata. Di fronte alle istanze dei privati vi è sempre un obbligo di provvedere se l’iniziativa nasce da una situazione soggettiva protetta dalle norme, se cioè è prevista dalla legge. 2.1. L’obbligo di provvedere può nascere in assenza di una norma espressa previsione legislativa che “tipizza” l’istanza del privato Ciò premesso, la sentenza (2318/2007) si chiede se l’obbligo di provvedere possa essere configurato anche in assenza di una espressa previsione legislativa che "tipizzi" l’istanza del privato. 2 E. CANNADA BARTOLI, Ricorso avverso il silenzio-rifiuto e mutamento della domanda, in Foro amm., 1993, 310. 3 In www.lexitalia.it 2 Al quesito appena formulato la Sesta Sezione dà risposta positiva sulla base delle seguenti considerazioni. Ormai da tempo, infatti, la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, partendo dal principio generale della doverosità dell’azione amministrativa, ed integrandolo con le regole di ragionevolezza e buona fede, tendono ad ampliare l’ambito delle situazioni in cui vi è obbligo di provvedere, al di là di quelle espressamente riconosciute dalla legge. Si afferma, cosi, che esiste l’obbligo di provvedere, oltre che nei casi stabiliti dalla legge, in fattispecie ulteriori nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongono l’adozione di un provvedimento. Si tende, in tal modo, ad estendere le possibilità di protezione contro le inerzie della Amministrazione pur in assenza di una norma ad hoc che imponga un dovere di provvedere. Espressione di tale orientamento è, ad esempio, Cons. Stato, sez. IV, 14 dicembre 2004, n. 7975 secondo cui <<indipendentemente dall’esistenza di specifiche norme che impongano ai pubblici uffici di pronunciarsi su ogni istanza non palesemente abnorme dei privati, non può dubitarsi che, in regime di trasparenza e partecipazione, il relativo obbligo sussiste ogniqualvolta esigenze di giustizia sostanziale impongano l’adozione di un provvedimento espresso, in ossequio al dovere di correttezza e buona amministrazione (art. 97 Cost.), in rapporto al quale il privato vanta una legittima e qualificata aspettativa ad un’esplicita pronuncia>>. Appurato che l’obbligo di provvedere può nascere anche in assenza di una norma che consenta espressamente al privato di presentare una istanza all’Amministrazione, occorre compiere uno sforzo ricostruttivo ulteriore, per verificare se tra queste fattispecie non tipizzate da cui nasce l’obbligo di provvedere vi sia anche quella oggetto del presente giudizio. 2.2. La tripartizione operata dalla giurisprudenza Al riguardo, la Sesta Sezione, nella citata sentenza n. 2318/2007, distingue tre categorie di atti amministrativi alla cui emanazione in cittadino può avere interesse, per poi verificare, in relazione a ciascuna di esse, se esiste, a fronte dell’istanza del privato, il correlativo obbligo di provvede in capo alla P.A. Viene, in particolare, operata una distinzione tra istanza volte ad ottenere: 1) atti di contenuto favorevole in quanto ampliano la sfera giuridica del richiedente; 2) il riesame di atti sfavorevoli precedentemente emanati; 3) atti diretti a produrre effetti sfavorevoli nei confronti di terzi, dall’adozione dei quali il richiedente possa trarre indirettamente vantaggi (c.d. interessi strumentali). 2.2.1. Istanze dirette ad ottenere atti di contenuto favorevole Quanto alla prima categoria, l’istanza diretta ad ottenere un provvedimento favorevole determina un obbligo di provvedere quando chi la presenta sia titolare di un interesse legittimo pretensivo. Non è seriamente dubitabile, infatti, che colui che ha un interesse differenziato e qualificato ad un bene della vita per il cui conseguimento è necessario l’esercizio del potere amministrativo sia titolare di una situazione giuridica che lo legittima, pur in assenza di una norma specifica che gli attribuisca un autonomo diritto di iniziativa, a presentare un’istanza dalla quale nasce in capo alla P.A. quantomeno un obbligo di pronunciarsi. Anche in questi casi, tuttavia, l’obbligo di provvedere, pur sussistendo in astratto, può risultare mancante in concreto. Ciò accade, ad esempio, secondo alcune pronunce, quando la domanda inoltrata dal privato sia manifestamente infondata o esorbitante dall’ambito delle pretese astrattamente riconducibili al rapporto amministrativo. 2.2.2. Istanze di riesame di precedenti atti non impugnati 3 Quanto alla seconda categoria di istanze (quelle di riesame di precedenti atti non impugnati), secondo un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, l’istanza del privato mirante ad ottenere il riesame da parte della Pubblica amministrazione di un atto autoritativo, non impugnato tempestivamente dal medesimo, non comporta, di regola, la configurazione di un obbligo di riesame, in quanto tale obbligo inficerebbe, tra l’altro, le ragioni di certezza delle situazioni giuridiche e di efficienza gestionale che sono alla base dell’agire autoritativo della Pubblica Amministrazione e della inoppugnabilità dopo il termine di decadenza dei relativi atti. 2.2.3. Istanze dirette ad ottenere l’esercizio di poteri repressivi verso terzi Maggiormente problematica è proprio la terza categoria di istanze. Laddove il privato sollecita l’esercizio di poteri sfavorevoli (repressivi, inibitori, sanzionatori) nei confronti di terzi non è sempre agevole distinguere tra l’istanza che fa nascere l’obbligo di provvedere e il semplice "esposto", che ha mero valore di denuncia inidonea a radicare una posizione di interesse tutelata sia dall’apertura del procedimento conclusivo, sia dalla conclusione dello stesso in modo conforme alle aspettative dell’istante. Al riguardo, il criterio distintivo tra istanza (idonea a radicare il dovere di provvedere) e mero esposto, deve essere ravvisato, secondo la citata decisione n. 2318/2007, nell’esistenza in capo al privato di uno specifico e rilevante interesse che valga a differenziare la sua posizione da quella della collettività. Occorre, in altri termini, che il comportamento omissivo dell’Amministrazione sia stigmatizzato da un soggetto qualificato, in quanto, per l’appunto, titolare di una situazione di specifico e rilevante interesse che lo differenzia da quello generalizzato di per sé non immediatamente tutelabile. Ove ciò accada, l’eventuale inerzia serbata dall’Amministrazione sull’istanza, assume una connotazione negativa e censurabile dovendo l’Ente dar comunque seguito (anche magari esplicitando l’erronea valutazione dei presupposti da parte dell’interessato) all’istanza. 3. Il procedimento di formazione del silenzio-rifiuto: il problema della necessità della diffida prima dell’art. 2 legge n. 15 del 2005 e dell’art. 3, comma 6-bis d.l. n. 35/2005 (convertito in legge n. 80/2005). Per quanto riguarda il procedimento di formazione del silenzio-rifiuto, l’orientamento tradizionale, a partire dalla sentenza n. 10 del 1978 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, riteneva applicabile ad esso, per analogia, la normativa dettata dall'art. 25 T.U. sugli impiegati civili dello Stato. Per poter proporre ricorso contro il silenzio-rifiuto occorreva, quindi, che all'originaria istanza del privato seguisse una procedura di constatazione dell'omissione attraverso una diffida giudizialmente notificata contenente l'espressa intimazione che, decorso il termine minimo di trenta giorni, sarebbe stata adita l'autorità giudiziaria. L'applicabilità della procedura imperniata sulla diffida è stata, tuttavia, messa in dubbio sin dall’entrata in vigore dell'art. 2 legge n. 241/1990. Una parte della dottrina4 e della giurisprudenza5 4 Cfr. in tal senso V. CERULLI IRELLI, Corso di diritto amministrativo, Milano, 2000, 502; M. CLARICH, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, 1995, 145 ss.; F. CASTIELLO, Il nuovo modello di amministrazione, Rimini, 1998, 376; G. MORBIDELLI, Il procedimento amministrativo, in AA. VV., Diritto amministrativo, vol. II, 1998, 1355; ID., Commento agli artt. 1, 2, 3 l. 241/1990, in Prime note, 1990, 20 ss.; S. PELILLO, Il ricorso avverso il silenzio dell'amministrazione, in www.lexitalia.it, 2001, n. 9; E. SCHINAIA, Notazioni sulla nuova legge sul procedimento amministrativo e attività soggette ad autorizzazione, in Dir. Proc. Amm., 1991, 196; F.G. SCOCA, M. D'ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, in Dir. Proc. Amm., 1995, 410; B.E. TONOLETTI, Silenzio della Pubblica Amministrazione, in Dig. disc. pub., 4 riteneva, infatti, che questa norma, introducendo un sistema di predeterminazione dei termini per la conclusione del procedimento, avesse fatto venire meno la ragione principale della diffida, consistente, appunto, nell'individuare con certezza un termine finale, decorso il quale l'omissione diventa inadempimento sindacabile di fronte al G.A. Si è affermato, allora, che scaduto il termine di cui all'art. 2 della legge n. 241/1990 (o previsto nei regolamenti attuativi dell'articolo 2), il silenzio della P.A. dovesse considerarsi già ontologicamente illecito, rendendo così superflua ogni ulteriore attività procedurale, e soprattutto la diffida a provvedere. L'orientamento in esame, che consentiva al privato di ricorrere senza la necessità della previa notifica di un atto di diffida, è stato, tuttavia, respinto dalla giurisprudenza prevalente 6, la quale era ferma nel ritenere che l'azione giurisdizionale contro il silenzio-rifiuto non potesse essere esperita senza che prima fosse prospettata all'Amministrazione, mediante la notifica di un atto ad hoc, la possibilità di essere convenuta in giudizio. A sostegno di questo assunto, si osservava come la diffida, lungi dall'essere una mera formalità, svolge sia una funzione deflattiva del contenzioso, in quanto fissa il termine entro cui l'amministrazione può evitare l'insorgenza della lite provvedendo in senso conforme alla pretesa del privato, sia, soprattutto, una funzione garantistica, in quanto, impedendo il decorso immediato del termine di decadenza per l'impugnazione allo scadere del termine del procedimento, evita che il silenzio-rifiuto diventi inoppugnabile senza che l'interessato fosse a conoscenza della sua formazione7. vol. XIV, Torino, 1995, 156; P.M. VIPIANA, Osservazioni sull'attuale disciplina del silenzio-inadempimento della pubblica amministrazione, in Studi Benvenuti, vol. IV, Modena, 1996, 1719. 5 Cfr. T.a.r. Campania, Salerno, 13 marzo 2001, n. 247, in www.giustizia-amministrativa.it; T.a.r. Catania, sez. II, 10 febbraio 2001, n. 293, in www.diritto.it; T.a.r. Reggio Calabria, 23 novembre 2000, n. 1596, in Trib. amm. reg., 2001, 395; T.A.R. Reggio Calabria, 23 maggio 2000, n. 774, in Trib. amm. reg., 2000, 3448; T.a.r. Lazio, sez. II, 17 marzo 2000, n. 1970, in Trib. amm. reg., 2000, 1728; T.a.r. Marche, 25 settembre 1999, n. 1041, in Trib. amm. reg., 1999, 4413; T.a.r. L'Aquila, 16 marzo 1999, n. 138, in Trib. amm. reg., 1999, 2009; T.a.r. Calabria, Catanzaro, 17 dicembre 1996, n. 899, in Trib. amm. reg., 1996, I, 572; T.a.r. Puglia, Lecce, sez. I, 25 giugno 1996, n. 574, in Foro amm., 1997, 586. 6 Cfr. Cons.Giust.Amm., 23 dicembre 1999, n. 665, in Cons. Stato, 1999, I, 2192; Cons. St., sez. IV, 2 giugno 1998, n. 113, in Cons. Stato, 1998, I, 1048; Cons. St., sez. V, 18 novembre 1997, n.1131, in Cons. Stato, 1997, 1560; Cons. St., sez. V, 15 settembre 1997, n. 980, in Foro amm., 1997, 3044; Cons. St., 14 luglio 1997, n. 820, in Cons. Stato, 1997, 1041. In tal senso v. anche la circolare del Ministro della Funzione Pubblica 8 gennaio 1991 n. 60397-7/463, secondo cui <<la legge n. 241 non dispone nel senso della qualificazione dell'inerzia imputabile all'amministrazione, pertanto è necessario seguire la procedura per la determinazione del silenzio-rifiuto imputabile all'amministrazione>>. 7 Emblematica in tal senso la sentenza n. 10 del 1978 dell'Adunanza Plenaria secondo cui eliminare la diffida sarebbe dannoso non soltanto per >>l'amministrazione, che non sempre è tecnicamente in grado di concludere il procedimento in novanta giorni, ma anche per il privato, che sarebbe esposto al continuo pericolo di una scadenza automatica spesso ignota, ed infine per la collettività, che vedrebbe inevitabilmente moltiplicasi il contenzioso>>. In dottrina, sottolineano la funzione garantistica della diffida P.G. LIGNANI, Silenzio (dir. amm.), in Enc. dir., vol. XLII, Milano, 1990, 567, nota 26, il quale rileva come la mancanza della diffida <<potrebbe risolversi in un trabocchetto per il privato, non tenuto a conoscere le sottigliezza del diritto e dunque esposto al rischio di scoprirsi decaduto dalla possibilità di ricorrere al giudice, avendo la sola colpa di aver atteso fiduciosamente un provvedimento che ritiene (magari a ragione) dovuto>>; G.B. GARRONE, Silenzio della P.A. (ricorso giurisd. amm.), in Dig. disc. pub., vol. XIV, Torino, 1998, 197. In senso difforme, cfr. S. PELILLO, Il ricorso avverso il silenzio dell'amministrazione, cit., 7, secondo il quale i rischi connessi alla formazione automatica del silenzio potrebbero essere risolti valorizzando la comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 l. n. 241/1990. Secondo l'Autore, in particolare, <<dovrebbe non risultare estraneo agli incombente di cui all'art. 7 della stessa l. 241, far conoscere il tempo di durata della sommatoria di tutte le fasi, a partire dalla iniziativa, istruttoria, decisoria e fors'anche della integrazione dell'efficacia ed, in assenza riconoscere la scusabilità dell'errore>>. Sul punto v. anche F. CASTIELLO, Il nuovo modello di amministrazione, cit., 382, per il quale il rischio di una scadenza automatica, 5 Il mantenimento in vita del tradizionale sistema di formazione del silenzio incentrato sulla notifica della diffida, inoltre, era ritenuto anche idoneo ad assicurare un equilibrato coordinamento dell'art. 2 della legge n. 241/1990 con la disposizione dell'art. 328 del codice penale, in tema di omissione di atti d'ufficio: <<se non si vuole che il termine fissato per la conclusione del procedimento dall'art. 2 della legge 241 o dai regolamenti delle singole amministrazioni venga a sovrapporsi, coincidendovi perfettamente, con il termine di pari durata stabilito dalla norma penale quale momento costitutivo per la realizzazione della condotta antigiuridihca qualificata come omissione di atti d'ufficio>>, è, infatti, necessario <<che questo secondo termine sia identificabile proprio con quello che l'interessato ha assegnato all'Amministrazione attraverso l'atto di diffida ritualmente notificato alla medesima>>8. In senso favorevole al mantenimento della diffida anche dopo l’art. 2 della legge n. 241/1990 si era espresso poi il Ministero della Funzione Pubblica, con circolare 8 gennaio 1991, n. 60397/7493, in cui si specificava che l’art. 2 non incideva sull’applicabilità del procedimento di cui all’art. 25 T.U. n. 3 del 1957, in quanto non <<dispone nel senso della qualificazione dell’inerzia imputabile all’amministrazione>> Nel tentativo di conciliare le esigenze sottese ai due opposti indirizzi interpretativi, una parte della dottrina9 aveva prospettato una soluzione intermedia, non accolta tuttavia dalla giurisprudenza, in forza della quale la diffida sarebbe stata necessaria soltanto nei casi in cui, in assenza di una predeterminazione legislativa o regolamentare del tempo del procedimento, dovesse trovare applicazione il termine di trenta giorni previsto in via residuale dall'art. 2 legge n. 241/1990. In questo caso, infatti, <<attraverso il meccanismo della diffida si porrebbe l'Amministrazione nelle condizioni di rappresentare le proprie esigenze di tempo; sicché si otterrebbe una maggiore flessibilità dell'istituto ed una maggiore adattabilità del silenzio alle caratteristiche del procedimento in itinere>>10. 3.1. La necessità della diffida dopo l'art. 2 legge n. 205/2000. La tesi della non necessità della diffida è stata riproposta traendo spunto dalla disciplina del rito speciale per il ricorso avverso il silenzio introdotta dall'art. 2 legge n. 205/200011. spesso ignota del termine per provvedere <<scema di importanza nel nuovo quadro normativo contrassegnato dall'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento (obbligatoria nei procedimenti d'ufficio, salvo particolari esigenze di celerità) e dalla certezza del tempo nella condotta amministrativa affidata alle fonte legislativa o a quella regolamentare, entrambe oggetto di pubblicazione e di (sia pur presunta) conoscenza da parte del privato>>. 8 Così G.B. GARRONE, Silenzio della P.A. (ricorso giurisd. amm.), cit., 198, cui appartengono le frasi citate nel testo. 9 F.G. SCOCA, La tutela processuale del silenzio della pubblica amministrazione, cit., 90; S. PELILLO, Il ricorso avverso il silenzio, cit., 8; I. FRANCO, Trasparenza, motivazione e responsabilità; partecipazione e diritto all'accesso nella l. n. 241/1990. Rapporti con preesistenti normative, in Foro amm., 1992, 1291. 10 Cfr. F.G. SCOCA, La tutela processuale del silenzio della pubblica amministrazione, cit., 89. In questi termini cfr. C. CRISCENTI, Il rito del silenzio nel nuovo processo amministrativo, in Urbanistica e appalti, 2001, n. 6, 653, secondo cui è il nuovo rito la risposta immediata dell'ordinamento alla violazione dell'obbligo di provvedere in un dato termine: <<il rito avverso il silenzio, come oggi disciplinato, diverrebbe un inutile doppione del sub-procedimento attivato con la diffida e l'obiettivo di fondo, comune a quelle espresso più di dieci anni or sono dall'art. 2 l. 241/90, che è appunto quello di dare al privato una risposta alla propria domanda in tempi ragionevoli, verrebbe vanificato se si ritenesse ancora che, dopo il maturarsi del termine fissato dal regolamento o dalla legge per l'adozione dell'atto, il privato debba notificare all'amministrazione un atto di messa in mora in cui le assegni un ulteriore termine non inferiore a trenta giorni per provvedere, scaduto il quale potrà adire l'autorità giudiziaria, la quale esaminato favorevolmente il ricorso, dovrà a sua volta assegnare all'amministrazione un ulteriore termine, di norma non superiore a trenta 11 6 A questa conclusione si è giunti sulla base di considerazioni di carattere funzionale, sistematico e teleologico12 Sul piano funzionale si è rilevato che la nuova legge, nel sancire formalmente la rilevanza puramente comportamentale del silenzio (come inerzia e/o inadempimento), consente di portare ancora più innanzi quel processo di superamento del formalismo legato alla visione tradizionale dell'atto presunto o tacito, facendo così venire meno la necessità di rendere significativo - con la diffida - il silenzio, altrimenti "muto", dell'amministrazione. Sul piano sistematico e dei principi, è stato poi osservato che la previsione di cause di inammissibilità dell'azione deve di regola essere espressa nella legge di disciplina dell'azione medesima. Nel caso in esame, invece, il nuovo art. 21-bis legge n. 1034 del 1971- che pure è il luogo normativo dove l'azione contro il silenzio trova la propria piena e diretta disciplina - nulla dice in ordine a una siffatta condizione dell'azione. Pertanto, questa troverebbe quindi il suo unico fondamento in una tradizione giurisprudenziale formatasi prima e al di fuori della legge e in un contesto del tutto diverso e incompatibile con quello attuale. Ora la nuova azione contro il silenzio è volta a sanzionare l'inadempimento dell'obbligo di provvedere e prescinde da qualsivoglia significato implicito che possa attribuirsi all'atteggiamento passivo dell'amministrazione13. Sul piano teleologico, infine, si è evidenziato come, una volta accolta l'interpretazione secondo cui il ricorso ex art. 2 legge n. 205/2000 comporta, in caso di esito positivo, solo la declaratoria dell'obbligo di provvedere, non vi sarebbe più alcuno scopo pratico attuale della previa diffida e messa in mora che possa a giustificare il permanere di tale appesantimento degli oneri incombenti sul soggetto leso dall'inadempimento dell'amministrazione all'obbligo di provvedere. Secondo l'insegnamento dell'Adunanza Plenaria n. 10 del 1978, infatti, la diffida serviva, da un lato, a scongiurare il pericolo di una inoppugnabilità incolpevole, dall'altro, a dare all'Amministrazione un'ultima possibilità di provvedere prima di essere spogliata dall'intervento del giudice (nell'ottica, molto diffusa nella giurisprudenza amministrativa, dell'estensione dell'oggetto del giudizio, almeno nei casi di attività vincolata, all'accertamento della fondatezza della pretesa). Alla luce del nuovo articola 21-bis, incentrato, secondo l'interpretazione prevalente, sulla mera declaratoria dell'obbligo di provvedere, non vi sarebbe più né il rischio di inoppugnabilità, perché l'azione non è di impugnazione di un tacito diniego, ma dichiarativa e di condanna, né la possibilità una convalescenza del comportamento inerte della P.A. che è e resta di per sé illegittimo14. A sostegno della diffida, quindi, non può essere invocata la necessità di offrire alla P.A. un’ultima occasione per provvedere prima di trasferire l’esercizio del potere ad un altro soggetto. Il rispetto di tale esigenza è garantito, infatti, dal dettato del comma 2, dell’art. 21-bis legge n. 1034 del 1971 secondo cui <<il giudice amministrativo ordina all’amministrazione di provvedere di norma entro un termine non superiore a trenta giorni. Qualora l’amministrazione resti inadempiente oltre il detto termine il giudice amministrativo, su richiesta di parte nomina un commissario, che provvede in luogo dell’amministrazione>>. Come è stato rilevato, è questa la diffida che consente all’amministrazione di non vedersi spogliata senz’altro avviso del potere di provvedere. In altri termini, secondo l’impostazione in esame, è nella fase processuale, e non in quella procedimentale, che si riaprono i termini per provvedere: in caso di accoglimento del ricorso, infatti, l’ente può fruire di un nuovo periodo per provvedere, che si aggiunge a quello (gia spirato) giorni per provvedere, ciò dovrà condannarla a fare niente di più di ciò che la legge le imponeva ab initio di fare>>. In giurisprudenza cfr. T.a.r. Campania, sez. I, 22 novembre 2001, n. 4497, in www.lexitalia.it., n. 11/2001, con nota di G. SARTORIO, Ricorsi in materia di silenzio della P.A.; T.a.r. Catania, sez. II, 10 febbraio 2001, n. 293, cit.; T.A.R. Reggio Calabria, 23 novembre 2000, n. 1596. 12 V. in particolare, T.a.r. Campania, sez. I, 22 novembre 2001, n. 4497, cit. 13 Così T.a.r. Campania, sez. I, 22 novembre 2001, n. 4497, cit 14 Così ancora T.a.r. Campania, sez. I, 22 novembre 2001, n. 4497, cit. 7 previsto dalle norme sostanziali; periodo che va dall’ordine del giudice sino al momento dell’insediamento del commissario. Stante questa riapertura dei termini procedimentali si è, quindi, ritenuto inutile – oltre che dannoso – consentire all’amministrazione l’ulteriore divaricazione dei tempi del procedimento conseguente all’applicazione del meccanismo della diffida ex art. 25 t.u. n 3/1957. Anche questa tesi non è stata recepita dalla giurisprudenza amministrativa, la quale, pure dopo l’entrata in vigore dell’art. 2 legge n. 205/2000, ha continuato a ritenere necessaria la diffida15. Nel senso che il privato abbia l’onere di seguire il rigoroso iter previsto dall’art. 25 T.U. n. 3 del 1957 si segnala, da ultimo, la sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 6 luglio 2004, n. 502016. Secondo i Magistrati di Palazzo Spada, la necessità della diffida sussiste <<anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 241/1990, giacché la ragione del ricorso allo strumento dell’art. 25 citato va individuata nella necessità di “qualificare” l’inerzia della P.A., situazione per la quale risulta insufficiente il mero decorso del termine di durata del procedimento […] e pur dopo la nuova disciplina del procedimento giurisdizionale sul silenzio, risultante dalla configurazione acceleratoria stabilita dall’art. 21-bis legge n. 1034 del 1971 (come introdotto dall’art. 2 legge n. 205/2000), che è diretto semplicemente ad accertare se il silenzio serbato da una pubblica amministrazione sull’istanza del privato violi o meno l’obbligo di adottare il provvedimento esplicito richiesto con l’istanza stessa (v. Cons. Stato, Ad. Plen., n.1 del 9 gennaio 2002) e dunque esclusivamente ad accertare se il silenzio sia illegittimo o no, senza incidere in alcun modo sui presupposti di formazione e qualificazione del silenzio>>. 3.2. Le novità introdotte dall’art. 2 legge n. 15/2005 e dall’art. 3, comma 6-bis, d.l. n. 35/2005 (convertito in legge n. 80/2005): non è più necessaria la diffida. Importanti novità sul procedimento di formazione del silenzio-rifiuto sono state introdotte dalla legge n. 15 del 2005 recante "Modifiche e integrazioni della legge 7 agosto 1990, n. 241. Norme generali sull'azione amministrativa". L'art. 2 della legge n. 15 ha previsto, infatti, l'inserimento, dopo il comma 4, dell'art. 2 l. n. 241/1990, di un comma 4-bis, così formulato: <<Decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3, il ricorso avverso il silenzio, ai sensi dell'art. 21-bis legge 6 dicembre 1971, n. 1034, può essere proposto anche senza necessità di diffida all'amministrazione inadempiente fin tanto che perdura l'inadempimento e, in ogni caso, entro un anno dalla scadenza dei termini di cui ai commi 2 e 3. E' fatta salva la riproponibilità dell'istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrono i presupposti>>. Prendendo atto che il ricorso avverso il silenzio-rifiuto non costituisce una azione impugnatoria, ma una azione dichiarativa e di condanna, il testo di riforma ha disposto, quindi, che la relativa domanda giudiziale non sia più sottoposta all'onere della previa diffida (che diviene ora facoltativa), e, in luogo dello stringente termine decadenziale di 60 giorni, ha introdotto termine "lungo" di un anno, decorso il quale, tuttavia, il privato non perde ogni possibilità di tutela. Ai sensi del nuovo comma 4-bis dell’art. 2 legge n. 241/1990, dunque, la presentazione del ricorso al Tar avverso il silenzio-rifiuto può avvenire immediatamente alla scadenza del “termine del procedimento”, stabilito ex art. 2, commi 2 e 3, legge n. 241/199017. 15 Cfr. Cons. St., sez. IV, 27 dicembre 2001, n. 6415, in Foro Amm., 2001, 3148; Cons. St., sez. V, 10 aprile 2002, n. 1870, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., Sez. IV, 11 giugno 2002, n. 3256, in Foro amm.- Cons. Stato, 2002, 2037, con nota di LAMBERTI; Cons. St., Sez. IV, 10 febbraio 2003, n. 672; Cons. St., sez. V, 21 ottobre 2003, n. 6537; Cons. St., sez. V, 4 febbraio 2004, n. 376 16 In Urbanistica e appalti, 2004, 1421, con nota critica di L. TARANTINO, Il coefficiente di elasticità e la diffida. 17 Per un primo commento sul nuovo comma 4°-bis della legge n. 241/1990 cfr. M. OCCHIENA, Riforma della l. 241/1990 e “nuovo” silenzio-rifiuto: del diritto v’è certezza, in www.giustamm.it, 2005 8 Alla luce di questa norma, pertanto, la giurisprudenza non potrà più chiedere l’obbligatorio esperimento della procedura sopra descritta da parte del cittadino. L’art. 3, comma 6-bis d.l. n. 35/2005 (convertito in legge n. 80/2005) ha riscritto ex novo l’art. 2 della legge n. 241/1990: in tale operazione, ha, tuttavia, confermato la regola secondo cui il ricorso contro il silenzio-rifiuto può essere proposto, finché dura l’inerzia, senza necessità della previa diffida. La relativa norma non è più contenuta, tuttavia, nel comma 4-bis, ma nel comma 5 del nuovo art. 2 legge n. 241/1990 interamente riscritto dalla legge n. 80/2005 Quanto ai termini per provvedere, l’art. 3 decreto legge n. 35 del 2005, convertito in legge n. 80/2005, ha demandato al Governo (e non più alle singole Amministrazioni) l’individuazione, con uno o più regolamenti emanati ai sensi dell’art. 17, comma 2, legge n. 400 del 1988, dei termini entro i quali debbono concludersi i procedimenti di competenza delle Amministrazioni statali. Si riconosce, invece, agli enti pubblici nazionali il potere di fissare autonomamente, secondo i propri ordinamenti, i termini di conclusione del procedimento. Nel caso in cui il Governo o gli enti pubblici nazionali non provvedano a fissare il termine si applica, in via sussidiaria, il termine di 90 giorni (che sostituisce il termine di 30 giorni previsto dalla precedente versione della legge n. 241/1990). 3.3. Gli argomenti a sostegno della scelta compiuta dal legislatore. Numerosi gli argomenti che depongono a favore della scelta compiuta dal legislatore di eliminare l’onere della previa diffida. Anzitutto, non si può non rilevare come, in un sistema in cui è l'amministrazione che valuta a priori l'adeguatezza dei termini dell'azione in relazione a ciascun procedimento, l'istituto della diffida sembra ormai costituire un elemento che contraddice la logica del principio generale della certezza del tempo dell'agire amministrativo, finendo per eluderne la portata innovativa 18. La violazione del termine rappresenta, infatti, di per sé inadempimento dell'obbligo di provvedere, facendo così venire meno la necessità che il privato si sobbarchi l'onere della messa in mora, al fine di rendere univoca la condotta inerte dell'Amministrazione. Per altro verso, la diffida rappresenta un pesante aggravio procedurale per il cittadino, perché limita il diritto costituzionalmente tutelato di adire il giudice amministrativo, producendo delle conseguenze che, secondo parte della dottrina, potrebbero ritenersi assimilabili a quelle derivanti dall'applicazione del principio del solve et repete 19. Il privato, infatti, per ottenere la protezione che gli è dovuta, è costretto ad offrire all'Amministrazione la possibilità di sanare l'illegittimità con un provvedimento tardivo, per l'emanazione del quale non è approntato nel frattempo alcuno strumento di tutela. L'autorità, quindi, potrebbe persistere nel contegno omissivo, lasciando insoddisfatte le aspettative del cittadino e solo allora costui potrebbe ottenere una tutela giurisdizionale che, però, 18 Cfr., in tal senso, F.G. SCOCA, La tutela processuale del silenzio della pubblica amministrazione, in G. MORBIDELLI (a cura di), Funzione ed oggetto della giurisdizione amministrativa, Torino, 2000, 90; S. PELILLO, Il ricorso avverso il silenzio inadempimento, cit., 8; V. TODARO, Spunti innovativi in materia di tutela contro il silenzio, in Dir. Proc. Amm., 1992, 553; G. PALEOLOGO, La legge 1990 n. 241: procedimenti amministrativi ed accesso ai documenti dell'amministrazione, in Dir. Proc. Amm., 1991, 16 ss.; B. Cavallo, Provvedimenti e atti amministrativi, Padova, 1993, 234 ss.; F. PATRONI GRIFFi, La l. 7 agosto 1990 n. 241 a due anni dall'entrata in vigore della legge. Termine e responsabile del procedimento: partecipazione procedimentale, in Foro it., 1993, III; 65; B.G. MATTARELLA, Il provvedimento, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, I, Milano, 2000, 813, g. GUCCIONE, Il ricorso avverso il silenzioinadempimento del’Amministrazione: breve ricostruzione storica dell’istituto ed applicazioni giurisprudenziali del rito ex art. 2 della legge 21 luglio 2000, n. 205, in Dir. Proc. Amm., 2004, 1093 ss. 19 Cfr. P.M. VIPIANA, Osservazioni sull'attuale disciplina del silenzio inadempimento della Pubblica Amministrazione, cit., 1722. Sul punto v. anche F.G. SCOCA, La tutela processuale del silenzio della pubblica amministrazione, cit., 90. 9 potrebbe non dargli tutti i vantaggi che avrebbero potuto scaturire dal ricorso ove questo fosse stato proposto subito dopo la scadenza del termine stabilito20. Sotto un diverso profilo, discutibile appare la possibilità stessa di applicare per analogia l’art. 25 T.U. n. 3 del 1957 al silenzio-rifiuto della P.A. Ciò in quanto, come è stato osservato, pur in presenza di un identico fatto omissivo, <<mutano i soggetti su cui le differenti discipline concentrano la loro attenzione (istante-pubblico impiegato da una parte; istante-amministrazione dell’altra) e muta anche il fine che la diffida è chiamata a soddisfare. Nel corpo dell’art. 25, la diffida rappresenta una condizione di ammissibilità per l’azione risarcitoria nei confronti dell’impiegato statale che abbia omesso di svolgere operazioni o compiere atti, cui era tenuto, secondo uno schema che riecheggia quello della diffida ad adempiere disciplinata dall’art. 1454 c.c. […] Attraverso la trasposizione della disciplina in questione sul piano dei rapporti tra cittadino e amministrazione non si rinviene la medesima ratio, in quanto il fondamento della diffida va in questo caso ricercato nel rispetto del tendenziale principio di conservazione delle competenze fissate dall’ordinamento. La diffida, in definitiva serva per evitare che altro soggetto si pronunci sulla materia assegnata dalla legge in prima battuta ad un certo organo amministrativo, ed è per questo che, scaduto il termine per provvedere , la diffida oggi non ha alcun senso se si continua a ritenere che l’esito del giudizio ex art. 21-bis legge n. 1034 del 1971 sia la declaratoria di un generico dovere di provvedere in capo all’amministrazione soccombente>>.21 Non va poi dimenticato che la tesi giurisprudenziale che richiedeva la previa diffida ai fini della formazione del silenzio-rifiuto, finiva, inevitabilmente, per dare luogo ad una dilatazione dei tempi procedimentali e, di conseguenza, ad una surrettizia dilatazione di una regola sulle modalità di esercizio del potere22. L’art. 25, cit., prevede, infatti, l’inefficacia della diffida se non siano trascorsi almeno sessanta giorni dall’istanza dell’interessato o dall’ultimo atto procedimentale, nonché che tale diffida conceda all’amministrazione un ulteriore spatium deliberandi di almeno trenta giorni. Mediante l’applicazione della diffida, dunque, i termini del procedimento siccome stabiliti dall’amministrazione o quelli sussidiari di trenta giorni finivano con il perdere qualsiasi rilevanza pratica. In ipotesi di procedimento ad istanza di parte, il termine sarebbe stato, comunque, di almeno novanta giorni (sessanta dall’istanza e trenta previsti nella diffida ad adempiere); in caso di procedimento ad iniziativa d’ufficio, il termine sarebbe dipeso dall’ultimo atto endoprocedimentale o da quando il privato notificava la diffida (il che poteva avvenire anche immediatamente dopo l’inizio del procedimento), da cui sarebbero decorsi i sessanta giorni + trenta. Questi termini, propri del procedimento di diffida, diventavano in buona sostanza i “veri” termini procedimentali e ciò a prescindere da quelli fissati dall’amministrazione con atto generale (o, in mancanza, da quello di trenta giorni, che però non avrebbe mai trovato applicazione per chi avesse volesse reagire contro il suo inutile spirare). Richiedendo l’applicazione dell’art. 25, cit., la giurisprudenza finiva, dunque, con il modificare il termine del procedimento amministrativo, stabilito dalla fonte secondaria o da quella primaria, determinando uno spazio temporale entro cui le amministrazioni dovevano adempiere al dovere di provvedere diverso da quello stabilito dall’art. 2, l. n. 241/1990. Con il nuovo comma 5° della norma in ultimo citata, i problemi appena illustrati appaiono del tutto superati: grazie all’intervento del legislatore, il silenzio-rifiuto è ancorato alla disciplina dei termini procedurali, a tutto vantaggio della certezza dei tempi del procedimento23. Né vale affermare, per sostenere la necessità della diffida, che la stessa sarebbe necessaria per consentire al privato di acquisire la piena conoscenza del dies a quo per il computo dei termini decadenziali, così evitando l’inconsapevole formarsi dell’inoppugnabilità. 20 In tal senso cfr.. V. TODARO, Spunti innovativi in materia di tutela contro il silenzio, cit., 553. L. TARANTINO, Il coefficiente di elasticità e la diffida, cit., 1426 22 Cfr., in tal senso, i rilievi di M. OCCHIENA, Riforma della legge n. 241/1990, cit.,6. 23 In questi termini M. OCCHIENA, op. loc. ult. cit. 21 10 Come è stato correttamente rilevato, <<a tale scopo risponde pienamente la predeterminazione dei termini procedimentali, la cui conoscenza da parte del privato nella disciplina ante riforma era assicurata dalla pubblicità delle relative disposizioni (cfr. art. 4, comma 2), cui si aggiunge, nella disciplina post riforma, anche la specifica indicazione nella comunicazione di avvio del procedimento, ai sensi della nuova lettera c-bis dell’art. 8>>24. In base a tale norma, invero, la comunicazione dell’avvio del procedimento deve indicare anche <<la data entro la quale, secondo i termini previsti dall’articolo 2, comma 2 o 3, deve concludersi il procedimento e i rimedi esperibili in caso di inerzia dell’amministrazione>>. In tal modo, il legislatore ha voluto consentire al privato di conoscere con precisione i tempi dell’esercizio del potere, così scongiurando il rischio, da taluni paventato prima della riforma, dell’inconsapevole decorso del termine per impugnare il silenzio-rifiuto. Al fine di ridmensionare il rischio che, eliminato l’onere della diffida, il silenzio-rifiuto possa divenire inoppugnabile dopo appena sessanta giorni dalla scadenza del termine per provvedere, senza che il privato se ne sia effettivamente reso conto, il legislatore della novella, comunque, ha “allungato” fino ad un anno il termine per esercitare l’azione tendente ad accertare l’illegittimità dell’inerzia. In ogni caso, inoltre, anche una volta scaduto tale termine annuale, l’interessato non vede sfumare definitivamente la possibilità di tutela, potendo presentare un’ulteriore istanza volta ad ottenere il provvedimento agognato, sempre che naturalmente ne sussistano i presupposti. 3.4. La diffida facoltativa e la diffida diretta a far valere la responsabilità del funzionario. Il nuovo comma 5° dell’art. 2 legge n. 241/1990 ha, quindi, eliminato la necessità della diffida per ricorrere contro l’inerzia non qualificata della P.A. Alla luce della nuova formulazione della norma, la diffida è comunque suscettibile di volontaria applicazione da parte del cittadino: la riforma, quindi, più che eliminare la diffida, segna il passaggio da un sistema a diffida necessaria ad uno a diffida facoltativa. Come è stato rilevato, invece, la diffida sembra ancora necessaria per la contestazione della responsabilità dei pubblici dipendenti: <<in materia, infatti, l’art. 25 t.u. n. 3 del 1957 costituisce regola speciale (e non di semplice applicazione in via analogica come accade per l’emersione del “rifiuto di provvedere”), essendo strumentale ai fini dell’accertamento e determinazione dell’elemento aggravato del dolo e della colpa grave, da cui dipende, stante la disposizione dell’art. 23 t.u. n.3/957, la configurabilità della responsabilità civile dei dipendenti pubblici>>25. 4. Il termine per ricorrere prima delle leggi n. 15/2005 e 80/2005: la giurisprudenza prevalente applica il termine di decadenza. Come si è già accennato, prima che il legislatore prendesse espressamente posizione sul punto con l’art. 2 legge n. 15 del 2005 e, da ultimo, con l’art. 3, comma 6-bis d.l. n. 35/2005, questione molto dibattuta tanto in giurisprudenza quanto, e soprattutto, in dottrina, era quella concernente la natura del termine per ricorrere contro il silenzio-rifiuto della P.A. Anteriormente alla riforma, la giurisprudenza prevalente26, pur ammettendo a volte la reiterabilità della diffida27, riteneva che il ricorso giurisdizionale contro il silenzio-rifiuto dovesse 24 M. OCCHIENA, op. loc. ult. cit. M. OCCHIENA, op. cit., 2. 26 Cfr., fra le altre, Cons. St., 17 ottobre 2000, n. 5565, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., sez. VI, 19 marzo 1998, n. 315, in Foro amm., 1998, 761; Cons. St., sez. V, 18 novembre 1997, n. 1331, in Cons. Stato, 1997, I, 1560; Cons. St., sez. IV, 14 luglio 1997, n. 821, in Cons. Stato, 1997, 1041. 25 27 Cfr. Cons. St., sez IV, 2 ottobre 1989, n. 658, in Cons. Stato, 1989, I, 1134. 11 essere proposto entro l'ordinario termine di decadenza di sessanta giorni. Questo indirizzo, che pure riconosceva che il silenzio non è un atto ma un mero presupposto processuale alternativo al provvedimento formale28, si fondava essenzialmente sulla considerazione secondo la quale, quando viene dedotto in giudizio un interesse legittimo, l'azione, a prescindere dal suo contenuto dichiarativo o costitutivo, è soggetta, per una esigenza di certezza dei rapporti amministrativi, alla rigorosa disciplina temporale che il legislatore ha espressamente previsto per l’azione di annullamento del provvedimento. 4.1. Un orientamento minoritario: il termine per impugnare si rinnova de die in diem finché dura l’inerzia. La tesi dell'applicabilità al ricorso contro il silenzio-rifiuto dell'ordinario termine di decadenza era, però, respinta da una parte minoritaria della giurisprudenza29, la quale, recependo le posizioni espresse da un'autorevole parte della dottrina30, sosteneva che l'interessato potesse rivolgersi al G.A. fino a quando persistesse l'inadempimento dell'amministrazione, permanendo in capo a questa il potere-dovere di provvedere. Il maturarsi della decadenza processuale era esclusa, secondo questa impostazione, proprio dal fatto che il perdurare dell'inadempienza determinava la rinnovazione del termine di impugnazione de die in diem, evitando così la consumazione del diritto all'azione davanti al giudice amministrativo. Questo orientamento si fondava su argomenti di carattere teorico e sistematico difficilmente superabili. Quando si forma il silenzio-rifiuto, infatti, non vi è un vero provvedimento assistito da presunzione di legittimità e suscettibile di acquisire definitività nel breve termine decadenziale, nell'interesse comune alla certezza del diritto; vi è, invece, un inadempimento che si rinnova di momento in momento e che pertanto si potrebbe ritenere denunciabile in qualsiasi tempo, sino a che non venga sostituto da un provvedimento esplicito31. Né, per giustificare l'applicazione del termine di decadenza, sembra possa invocarsi una esigenza di certezza dei rapporti amministrativi. In primo luogo, infatti, in caso di silenzio, è proprio l'amministrazione ad aver dato luogo ad una situazione di incertezza, che il privato, attraverso il ricorso, intende rimuovere. 28 Cfr. Cons. St., Ad. Plen. 24 novembre 1989, n. 16, in Cons. Stato, 1989, I, 1305; Cons. St., Ad. Plen. 4 dicembre 1989, n. 17, in Cons. Stato, 1989, I, 1477. 29 Cfr. T.a.r. Lazio, sez. II, 3 marzo 1995, n. 327, in Trib. amm. reg., 1995, I, 1509; T.a.r. Lazio, sez. Latina, 11 febbraio 1993, n. 138, ivi, 1993, I, 867; T.a.r. Calabria, Catanzaro, 9 settembre 1993, n. 786, ivi, 1993, I, 3967; T.a.r. Lazio, sez. II, 29 ottobre 1992, n. 1388, ivi, 1992, I, 4236; T.a.r. Lombardia, sez. Brescia, 18 gennaio 1992, n. 7, ivi, I, 1053; T.a.r. Lombardia, sez. II, ivi, 1992, I, 1947. 30 E' la tesi di A.M. SANDULLI, Il silenzio della pubblica amministrazione oggi: aspetti sostanziali e processuali, in AA.VV., Il silenzio della pubblica amministrazione. Aspetti sostanziali e processuali (Atti del XXVIII Convegno di studi di scienza dell'amministrazione, Varenna, 23-25 settembre 1982), Milano, 1985, 67; ID., Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 673 ss.; ID., Riflessioni sulla tutela del cittadino contro il silenzio della pubblica amministrazione, in Giust. civ., 1994, II, 485. In senso conforme v. anche A. DE ROBERTO, Presentazione del tema del convegno, in AA. VV. Il silenzio della pubblica amministrazione, cit., 19; P.G. LIGNANI, Silenzio (dir. amm.), cit., 567, nota 26; F.G. SCOCA, M. D'ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, cit., 412-413; V. TODARO, Spunti innovativi in materia di tutela contro il silenzio, cit., 555. 31 A.M. SANDULLI, Il silenzio della pubblica amministrazione oggi: aspetti sostanziali e processuali, cit. 67. Sul punto v. anche A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2000, 204, il quale rileva come l'azione contro il silenzio dell'Amministrazione <<ha, per certi profili, un carattere 'preventivo': non viene impugnato un provvedimento e non è intervenuto alcun provvedimento che possa ledere l'interesse del cittadino>>. 12 In secondo luogo, inoltre, quella stessa esigenza di certezza, sottesa alla regola della inoppugnabilità delle situazioni giuridiche amministrative non tempestivamente contestate, dovrebbe escludere anche per la P.A. la possibilità di provvedere tardivamente e, quindi, la situazione giuridica del privato dovrebbe ritenersi cristallizzata fino alla conclusione del giudizio sul silenzio32. Al contrario, secondo la giurisprudenza33, il formarsi del silenzio non esclude che la P.A. si pronunci successivamente in maniera espressa; di conseguenza anche il privato deve essere posto nelle condizioni di attendere senza preclusioni di sorta la decisione dell'Amministrazione e di adire il giudice se e quando lo riterrà opportuno. Rispetto ad un giudizio che non gli garantisce risultati immediati e concreti, infatti, è probabile che egli possa preferire, almeno in un pimo momento, una "soluzione" nella sede amministrativa per i maggiori vantaggi che essa offre, soprattutto per via della motivazione espressa, che in caso di provvedimento negativo gli assicura una tutela più incisiva nei confronti della pubblica amministrazione34. 4.2. La tesi che applica il termine di prescrizione e le relative obiezioni. Nel senso dell’inappplicabilità del termine di decadenza si muove anche la tesi, sostenuta da una parte della dottrina, secondo la quale il ricorso contro il silenzio-rifiuto sarebbe soggetto al termine di prescrizione decennale perché con esso non si fa valere non un interesse legittimo, ma un diritto soggettivo35. Secondo questo orientamento, il termine di cui all'art. 2 l. n. 241/1990 può essere assimilato, limitatamente ai procedimenti ad istanza di parte36, al termine di adempimento delle obbligazioni. In entrambe le fattispecie, infatti, vi è una pretesa in capo al soggetto attivo del rapporto (creditore o istante) nei confronti del soggetto passivo (debitore o pubblica amministrazione competente a emanare l'atto) che ha per oggetto una particolare prestazione (per esempio, pagamento di una somma di danaro o consegna di un bene, da un lato; emanazione di un provvedimento sia esso di accoglimento o di rigetto dell'istanza, dall'altro). L'unica differenza sarebbe nel fatto che, mentre nel rapporto obbligatorio l'adempimento ha per oggetto un bene della vita che procura al creditore un'utilità finale, nel procedimento ad istanza di parte l'adempimento può consistere anche in un provvedimento di rigetto dell'istanza legittimo, che dunque non attribuisce il bene della vita o l'utilità finale al quale aspirava il privato37. 32 Cfr. F.G. SCOCA, M. D'ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, cit., 413, nota 28. 33 Cfr. Cons. St., sez. V, 13 febbraio 1997, n. 153, in Giur. it., 1997, III; 382; Cons. St., sez. IV, 25 settembre 1992, n. 810, in Giur. it., 1993, III, 254. 34 F.G. SCOCA, M. D'ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, cit., 413, nota 28. Sul tema vedi anche G. ABBAMONTE, Silenzio-rifiuto e processo amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 1985, 43, secondo il quale trasformare <<per effetto della perentorietà del termine, una situazione di pendenza in paralisi significherebbe incidere significativamente su quello che è il buon andamento dell'amministrazione>>. 35 E' la nota tesi di M. CLARICH, Termine del procedimento e potere amministrativo, cit., 146. Sulla necessità di passare da un regime di decadenza a un regime di prescrizione nella fattispecie dell'inerzia della P.A. cfr. F. MERUSI, G. SANVITI, L'ingiustizia amministrativa, Bologna, 1986, 21 ss. 36 Nei procedimenti d'ufficio, invece, il termine previsto dall'art. 2 l. n. 241/1990 svolgerebbe una funzione analoga a quella del termine previsto per l'esercizio dei diritti potestativi: una volta scaduto pertanto l'Amministrazione dovrebbe considerarsi decaduta dal potere di emanare l'atto. Cfr. M. CLARICH, Termine del procedimento e potere amministrativo, cit., 42 ss., in particolare 51. 37 M. CLARICH, Termine del procedimento e potere amministrativo, cit., 32 13 Partendo da questo parallelismo, si giunge allora ad affermare che in capo all'Amministrazione che riceve un'istanza dal privato sono configurabili due diverse situazioni giuridiche: da un lato, il potere-dovere di esercitare la funzione amministrativa al quale è correlata una posizione giuridica di interesse legittimo pretensivo; dall'altro, e prima ancora, un <<obbligo di natura formale di provvedere entro il termine>> a cui corrisponde in capo al privato che ha presentato l'istanza una situazione giuridica attiva che ha il rango di vero e proprio diritto soggettivo (<<diritto a una risposta>>)38. La presentazione dell'istanza, quindi, secondo questa tesi, instaura un rapporto procedimentale tra privato e pubblica amministrazione all'interno del quale trovano svolgimento le situazioni giuridiche ora individuate: il diritto, che riceve piena soddisfazione con l'emanazione di un provvedimento espresso che accolga o rigetti l'istanza, l'interesse legittimo pretensivo, che riceve piena soddisfazione con l'emanazione di un provvedimento che. accogliendo l'istanza, determina un ampliamento della sfera giuridica del privato39. Il silenzio dell'Amministrazione si porrebbe allora quale inadempimento di tale obbligo formale di provvedere nel termine e contro di esso il privato potrebbe proporre ricorso non più nello stringente termine di decadenza ma, facendo valere un diritto soggettivo, nel termine ordinario di prescrizione. L'indirizzo in esame si presta ad alcune considerazioni critiche. Anche ammettendo che l'art. 2 legge n. 241/1990 abbia attribuito al privato un diritto soggettivo a che un provvedimento, quale che ne sia il contenuto, venga emanato nel termine, non pare tuttavia che questo diritto soggettivo costituisca l'oggetto del ricorso giurisdizionale40: secondo la tesi prevalente in dottrina e in giurisprudenza (almeno fino all'entrata in vigore dell'art. 2 legge n. 205/2000), l'interesse che il privato fa valere nel ricorso contro il silenzio non riguarda la mera emanazione di un atto amministrativo, ma è volto ad ottenere un bene della vita, sia pure per il tramite del potere amministrativo. 38 Cfr. F. LEDDA, Il rifiuto di provvedimento amministrativo, Torino, 1964, 111-112, secondo il quale il contenuto della situazione di obbligo è <<l'emissione di una pronuncia idonea a rendere possibile quel giudizio di legittimità che costituisce il fulcro del sistema di tutela. [...] L'autorità, si dice spesso, può pronunciarsi positivamente o negativamente, ma deve pronunciarsi in un senso o nell'altro>>; F.G. SCOCA, Considerazioni sull'inerzia amministrativa, in Foro amm., 1962, I, 494, secondo il quale <<l'obbligo di rispondere ha un contenuto comprensivo ma determinato: esso comprende la possibilità provvedere positivamente o negativamente. Si specifica ossia in obbligo a provvedere (a seconda del pubblico interesse)>>. 39 Così M. CLARICH, Termine del procedimento e potere amministrativo, cit., 29. In tal senso v. F.G. SCOCA, M. D'ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, cit., 403, secondo cui l'inadempimento dell'obbligo di provvedere non rappresenta l'oggetto di ricorso al giudice amministrativo, in quanto resta estraneo alla tutela dell'interesse legittimo di cui è titolare il privato che ricorre contro (o meglio, sulla base del) silenzio. Gli Autori esprimo anche perplessità sull'uso della formula silenzio-inadempimento in quanto <<evoca un giudizio di valore, in termini di legittimità/illegittimità, ovvero, più esattamente di liceità/illiceità; giudizio senz'altro riferibile all'inerzia quale omissione di provvedimento che regoli (in modo soddisfacente) l'interesse del privato, ma non anche al silenzio amministrativo in senso tecnico che rappresenta soltanto un meccanismo procedurale per adire il giudice e, in quanto tale, insuscettibile di un indagine del genere>>. Nello stesso senso v. anche F.G. SCOCA, Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, 1971, 48, nota 55, secondo cui la qualificazione del silenzio de quo come inadempimento <<non significa che il silenzio sia sempre illegittimo (per usare la vecchia formula del Consiglio di Stato). In realtà il silenzio non è né legittimo né illegittimo, appunto perché non è un provvedimento e non è, sotto nessun aspetto, atto di svolgimento della funzione amministrativa. E' forse preferibile precisare i termini della figura: l'inadempimento dell'obbligo di pronunciarsi è da individuare nell'inerzia della P.A. e non nel silenzio. La prima può essere lesiva dell'interesse (strumentale) del privato ad ottenere che l'Amministrazione provveda sulla domanda [...]. Il secondo resta, invece, un meccanismo che consente al privato di rivolgersi al giudice in mancanza di un provvedimento formale>>. 40 14 Il ricorso contro il silenzio-rifiuto pertanto è teso a stigmatizzare l'inerzia della P.A. non rispetto semplicemente ad un astratto dovere di provvedere, ma rispetto ad uno specifico dovere di provvedere favorevolmente: ciò che il privato fa valere, pertanto, non è il diritto soggettivo ad ottenere una risposta dall'Amministrazione indipendentemente dal suo contenuto, ma l'interesse legittimo a che l'Amministrazione provveda favorevolmente. Sostenere l'applicazione del termine di prescrizione presuppone, al contrario, che l'oggetto del giudizio sia non la pretesa del cittadino al bene della vita, ma l'accertamento del mero obbligo di provvedere da parte della P.A. Tale tesi, che pure è stata e accolta dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 9 gennaio 2002, n. 1 41, non pare tuttavia condivisibile: essa, infatti, oltre a rappresentare un sicuro "passo indietro" rispetto all'evoluzione giurisprudenziale in materia di silenzio come consolidatasi prima dell'entrata in vigore dell'art. 2 l. n. 205/2000, ridurrebbe il giudizio contro il silenzio ad uno strumento sostanzialmente inutile, destinato risolversi in un invito all'Amministrazione a provvedere, ancorché mediante l'adozione di un atto illegittimo, con grave vulnus ai principi di economia dei mezzi processuali e di effettività della tutela giurisdizionale. In tal senso, del resto, sembra ormai orienato anche il legislatore: significativo, sotto tale profilo, l’art. 3, comma 6-bis del d.l. n. 35/2005, converito nella legge n. 80/2005, che riformula l’art. 2 legge n. 241/1990 attribuiendo espressamente al G.A. il potere di conoscere, nei giudizi aventi ad oggetto il silenzio-rifiuto, il merito dell’istanza. Inoltre, anche ad ammettere che l’oggetto del giudizio sia la verifica dell’obbligo di provvedere, la tesi del diritto di credito non è comunque sostenibile. Essa, come è stato recentemente evidenziato in giurisprudenza, si scontra con l’analisi del lato passivo del rapporto obbligatorio: nel sistema della funzione amministrativa non è ravvisabile un’obbligazione in senso tecnico che abbia ad oggetto la conclusione del procedimento, trattandosi di una tipica attività autoritativa, per quanto regolata da fonti normative puntuali. Il baricentro dell'accertamento giurisdizionale è l'obbligo di provvedere in senso pubblicistico (rinveniente dall'essere il potere amministrativo potestà, cioè potere per la cura di interessi altrui e, dunque, potere-dovere o, se si preferisce, potere funzionalizzato). Ad esso si contrappone l'interesse legittimo, la cui tutela passa per la declaratoria di illegittimità dell'inerzia tenuta dall'amministrazione42. In ogni caso, anche a voler ammettere che la situazione giuridica soggettiva fatta valere dal privato nel ricorso contro il silenzio sia un diritto soggettivo, ciò non pare di per sé argomento sufficiente per escludere l'applicazione del termine di decadenza. Nell'ordinamento giuridico non mancano, infatti, casi in cui la tutela giurisdizionale di un diritto soggettivo viene sottoposta, per motivi di certezza, ad uno sbarramento decadenziale, il quale non è certo in gradi di modificare la natura sostanziale della posizione (si pensi al termine di decadenza per contestare gli accertamenti tributari o al termine di decadenza previsto ai fini dell'esperimento del ricorso giurisdizionale contro il diniego o il silenzio in materia di accesso per chi ritiene trattarsi di un diritto soggettivo). Recentemente l’esistenza di un diritto soggettivo al rispetto dei tempi procedimentali è stata affermata sulla base di un diverso percorso ermeneutico che, applicando al procedimento amministrativo il modello di tutela pensato per il diritto alla ragionevole durata del processo, ravvisa il fondamento di tale diritto nell’art. 111 Cost., a sua volta espressione di un valore riconducibile all’art. 2 Cost. Anche questa impostazione non convince. Giova evidenziare, a tal proposito, che l’equiparazione tra procedimento e processo non trova alcun aggancio nel teso della citata disposizione costituzionale. Né il collegamento potrebbe essere ravvisato in una certa comunanza di disciplina tra procedimento e processo (il principio del contraddittorio, l'obbligo di motivazione, etc.) posto che, 41 In Dir. proc. amm., 2002, 932, con nota di F. GIGLIONI, Il ricorso avverso il silenzio tra tutela oggettiva e soggettiva. 42 T.a.r.Puglia, Bari, sez. II, 13 gennaio 2005, n. 56, in Guida al dir., 2005, n. 7, 77, con nota di G. CARUSO, nonché in Corr. Giur., 2005, 628, con nota di A. DI MAJO, Le tutele a confronto: la Cassazione prende atto della legge n. 205/2000. 15 altrimenti, invece di ricostruire gli effetti di una fattispecie sulla base della sua sussunzione nella norma si opererebbe la sussunzione in virtù di una (parziale) identità di effetti aliunde comminati, con evidente inversione logica43. D'altronde non è superfluo osservare che l'art. 111 Cost. è collocato in apertura della Sezione dedicata alle "norme sulla giurisdizione", sicché un'estensione interpretativa delle garanzie ivi contenute alla amministrazione sarebbe del tutto arbitraria. Inoltre, la natura della posizione che vanta il cittadino dinanzi ai tempi del processo è sigillata in più fattispecie legali tipiche, di diritto nazionale ed internazionale, che valgono a conferirle consistenza di diritto soggettivo, autonomamente risarcibile, in ragione degli interessi primari collegati all'esercizio della funzione giurisdizionale ed alle conseguenze esistenziali ontologicamente collegate alla durata del processo, quale oggi non possono certo riscontrarsi nella durata del procedimento ove slegata dall'interesse al bene della vita inciso44. 5. Le novità in materia di termine per ricorrere contenute nella leggi n. 15/2005 e n. 80/2005 Importanti novità sul termine per ricorrere contro il silenzio-rifiuto sono state introdotte dall’art. 2 legge n. 15/2005 e ribadite, dall’art. 3, comma 6-bis d.l. n. 35/200545 che, solo dopo pochi mesi dalla legge n. 15, ha riscritto in toto l’art. 2 della legge n. 241/1990. Ma procediamo con ordine. L'art. 2 della legge n. 15 ha previsto l'inserimento, dopo il comma 4, dell'art. 2 l. n. 241/1990, di un comma 4-bis, in base al quale, il ricorso avverso il silenzio, ai sensi dell'art. 21-bis legge 6 dicembre 1971, n. 1034, può essere proposto anche senza necessità di diffida all'amministrazione inadempiente fin tanto che perdura l'inadempimento e, in ogni caso, entro un anno dalla scadenza dei termini di cui ai commi 2 e 3. In un frenetico susseguirsi di interventi legislativi, l’art. 2 della legge n. 241/1990 è stato, da ultimo, nuovamente riscritto dall’art. 3, comma 6-bis, d.l. n. 35/2005 (nella versione risultante dalla legge di conversione n. 80/2005): la norma introdotta dalla legge n. 15 mediante l’inserimento di un comma 4-bis nel corpo dell’art 2 legge n. 241 è stata riprodotta senza variazioni, ma è ora contenuta nel comma 5 dell’art. 2 della nuova legge n. 241. Prendendo atto che il ricorso avverso il silenzio-rifiuto non costituisce una azione impugnatoria, ma una azione dichiarativa e di condanna, il testo di riforma prevede, quindi, che la relativa domanda giudiziale non sia più sottoposta all'onere della previa diffida (che diviene ora facoltativa), e, in luogo dello stringente termine decadenziale di 60 giorni, introduce termine “lungo” di un anno, decorso il quale, tuttavia, il privato non perde ogni possibilità di tutela. Scaduto il termine annuale, egli, pur non potendo più "impugnare" il silenzio formatosi sulla sua prima istanza e ormai consolidato, potrà, tuttavia, sollecitare nuovamente l'esercizio dl potere amministrativo, con una nuova istanza. La previsione di un termine finale oltre il quale l’azione non è più proponibile ha la funzione di tutelare l’amministrazione onde evitare che la situazione di incertezza si protragga all’infinito: dopo un anno di inerzia, il privato non può più “disturbare” il soggetto pubblico con un’azione giudiziaria, ma deve attivare un nuovo procedimento46. Se la P.A. mantiene il proprio atteggiamento inerte anche sulla nuova istanza si formerà un altro silenzio-rifiuto censurabile davanti al G.A. entro un nuovo termine annuale. Le novità introdotte dalla legge in esame devono essere valutate positivamente. 43 T.a.r.Puglia, Bari, sez. II, 13 gennaio 2005, n. 56,cit. T.a.r.Puglia, Bari, sez. II, 13 gennaio 2005, n. 56, cit. 45 Per un primo commento v. M. OCCHIENA, op. cit.; O. FORLENZA, Se c’è silenzio della P.A. ricorso al Tar senza diffida, in Guida al dir., 2005, n. 10, 52 ss. 46 Sul tema v., con riferimento al disegno di legge di riforma della 241, M. LIPARI, I tempi del procedimento, cit., 313. 44 16 Da un lato, infatti, il legislatore, accogliendo le istanze della dottrina più avvertita, elimina l’onere della previa diffida consentendo al privato di agire direttamente per far accertare l’illegittimità del silenzio serbato dalla P.A. Dall’altro lato, tuttavia, al fine di attenuare il rischio che, eliminato l’onere della diffida, il silenzio-rifiuto possa divenire inoppugnabile dopo appena sessanta giorni dalla scadenza del termine per provvedere, senza che il privato se ne sia effettivamente reso conto, il legislatore della novella ha “allungato” fino ad un anno il termine per esercitare l’azione tendente ad accertare l’illegittimità dell’inerzia. In ogni caso, inoltre, anche una volta scaduto tale termine annuale, l’interessato non vede sfumare definitivamente la possibilità di tutela, potendo presentare un’ulteriore istanza volta ad ottenere il provvedimento agognato, sempre che naturalmente ne sussistano i presupposti. La scelta di spezzare il legame tra l’azione contro il silenzio e il termine di sessanta giorni appare, inoltre, coerente con la ratio della decadenza ordinaria, che è quella di assicura la certezza dell’azione amministrativa rendendo incontestabile l’assetto di interessi determinato dal provvedimento amministrativo in vista del perseguimento dell’interesse pubblico. Ebbene, è evidente, che tale esigenza di certezza e di stabilità degli effetti dell’azione amministrativa è del tutto insussistente nel rito contro il silenzio, atteso che non è stato emanato un provvedimento e che il giudice non è chiamato a governare gli effetti di un atto già emanato, ma a <<regolare […] l’esercizio della futura azione da parte dell’amministrazione>>47. Sulla base di tali considerazioni appare allora senz’altro più coerente l’applicazione all’azione contro il silenzio di un termine di prescriptio brevis, quale è quello ora previsto dall’art. 2, comma 5, legge n. 241/1990. Ciò detto a favore della nuova norma, deve, tuttavia, evidenziarsi come sul piano sistematico la scelta del legislatore della novella possa suscitare qualche perplessità: stride, infatti, contrasto tra il termine “lungo”, di un anno, entro il quale può essere proposto il ricorso contro il silenzio e l’iter sincopato del giudizio speciale previsto dall’art. 21-bis legge n. 1034 del 1971 destinato a concludersi in termini brevissimi. 5.1. La riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento Il comma 5 del nuovo art. 2 legge n. 241/1990, inoltre, fa espressamente salva la riproponibilità dell'istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrono i presupposti. Si tratterebbe, secondo alcuni, di una previsione superflua: <<è noto, infatti, che l’inerzia dell’Amministrazione su un procedimento avviato ad istanza di parte non costituisce esercizio del potere, ma semplice fatto di inadempimento (a differenza di quanto avviene in caso di silenzioassenso). E perciò successivamente il potere può essere sempre esercitato, anche in pendenza di giudizio sul silenzio, anche sulla base della nuova istanza di parte>>48. In realtà, tuttavia, la previsione pare avere una sua “utilità” laddove chiarisce, e non era scontato , che anche dopo lo scadere di un anno, l’inerzia dell’amministrazione non vale come provvedimento implicito di rigetto dell’istanza, ma conserva la propria valenza comportamentale, ancorché la situazione di antigiuridicità non sia più denunciabile dall’interessato49. 47 G. ABBAMONTE, Silenzio-rifiuto e processo amministrativo, in La disciplina generale del procedimento amministrativo, Atti del XXXII Convegno di studi di scienza dell’Amministrazione di Varenna, 18-2 settembre 1986, Milano, 1987, 162. Sul tema v. anche M. OCCHIENA, op. cit., 10. 48 V. CERULLI IRELLI, Osservazioni generali sulla legge di modifica della l. n. 241/90 – II parte, in www.Giustamm.it, 2005, n. 2. 49 V. sul tema M. LIPARI, I tempi del procedimento, cit., 313, secondo il quale <<si potrebbe pensare ad una sorta di “perenzione” del procedimento per inattività delle parti, ma la legge considera essenzialmente gli effetti processuali del decorso del tempo, senza qualificare le conseguenze sostanziali: il silenzio non pare configurabile come una sorte di esito tipizzato del procedimento>>. 17 Più complesso è stabilire se l’inerzia prodotta dopo l’anno, senza iniziative dell’interessato, vada considerata, o meno, come un fatto privo di illiceità e, quindi, inidoneo a determinare la responsabilità risarcitoria dell’amministrazione. La risposta a tale quesito presuppone che sia risolo a monte il problema del rapporto tra azione contro il silenzio-rifiuto e azione di risarcimento del danno da ritardo. Ed invero, muovendosi in un’ottica di pregiudizialità tra le due azioni (sulla falsariga di quanto la giurisprudenza amministrativa ha affermato in ordine alla domanda di annullamento del provvedimento) si dovrebbe ritenere che decorso l’anno, l’inerzia sino a quel momento tenuta dall’amministrazione non possa essere più censurata neanche ai fini del risarcimento del danno. Al contrario, in un’ottica di autonomia tra le due azioni non pare vi possano seri ostacoli ad ammettere una domanda risarcitoria anche oltre il termine annuale. Sul tema si rinvia al capitolo IV. L'oggetto del sindacato giurisdizionale nel ricorso contro il silenzio-rifiuto: l’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale fino alla legge n. 80/2005. 6. La delimitazione dell'ambito della cognizione consentita al giudice amministrativo nel giudizio instaurato sulla base dell'inerzia dell'Amministrazione riflette - come è stato autorevolmente rilevato - <<da un lato, l'evoluzione subita dal concetto stesso di inerzia nel corso dei decenni e, dall'altro, la crisi generale e la trasformazione del processo d'impugnazione>>50. Al riguardo, è da registrare un’interessante evoluzione dottrinale, giurisprudenziale, sulla quale, da ultimo, è intervenuto anche il legislatore con l’art. 3, comma 6-bis, del decreto di legge n. 35/2005, nel terso risultante dall’emendamento governativo approvato in sede di conversione, avvenuta con la legge n. 80/2005. Volendo schematizzare, il tema in esame può essere affrontato distinguendo, in chiave diacronica, quattro diverse fasi: I) la prima va dalla “nascita” dell’istituto del silenzio-rifiuto sino alla decisione dell’Adunanza plenaria n. 10 del 1978; II) la seconda inizia con la pronuncia della Plenaria n. 10 del 1978 ed arriva sino alla legge n. 205/2000; III) la terza fase è iniziata dopo l’introduzione da parte dell’art. 2 della legge n. 205/2000 di un rito speciale contro il silenzio-rifiuto della P.A. ed è terminata con la conversione del d.l. n. 35/2005 ad opera dalla legge n. 80/2005; IV) la quarta fase, infine, è stata appena inaugurata con la riscrittura dell’art 2 legge n. 241/1990 ad opera dell’art. 3 comma 6-bis d.l. n. 35/2005 (nella versione risultante dalla legge di conversione n. 80/2005) che espressamente attribuisce al G.A. il potere di conoscere, nei giudizi contro il silenzio-rifiuto della P.A., <<la fondatezza dell’istanza>>. 6.1. La I fase: la giurisprudenza nega il sindacato sulla fondatezza dell’istanza. Secondo l'orientamento tradizionale, l’esame del giudice deve consistere nell'accertare, calendario alla mano, l'esistenza di un obbligo dell'Amministrazione di provvedere e l'inosservanza ingiustificata di tale obbligo da parte della stessa. In quest'ottica, quindi, la sentenza emessa avverso il silenzio-rifiuto è di mero accertamento perché: o ribadisce l'obbligo della P.A. di provvedere, oppure lo dichiara inesistente. 50 Così F.G. SCOCA, M. D'ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, in Dir. Proc. Amm., 1995, 415. 18 A sostegno di questa posizione, vengono addotte sia ragioni di salvaguardia delle prerogative della P.A., sia esigenze di tutela del privato51. In alcune pronunce, infatti, si rileva, in ossequio al principio di esclusività del potere amministrativo52, che il giudice non può sostituirsi all'Amministrazione nel determinare il preteso contenuto del provvedimento, in quanto gli effetti costitutivi cui mira l'istanza proposta dal privato avverso il silenzio-rifiuto non possono essere prodotti in via giurisdizionale, ma solo attraverso l'adozione di atti formali da parte della P.A.53. In altre pronunce, invece, a sostegno di questo indirizzo restrittivo, vengono poste esigenze di tutela del privato. Così, nel respingere l'eccezione di inammissibilità del ricorso avanzato dall'Amministrazione resistente che faccia valere l'insussistenza dell'obbligo di provvedere su un'istanza infondata, la giurisprudenza ha affermato che l'obbligo di provvedere che il giudice è chiamato ad accertare <<ha carattere meramente preliminare e procedimentale, e viene in gioco prima e indipendentemente da ogni indagine sulle rispettive posizioni sostanziali che leghino la parte pubblica e quella privata>>54. L'Amministrazione, quindi, in virtù dei doveri di buona amministrazione e correttezza, avrebbe l'obbligo di soddisfare la "legittima aspettativa" del privato a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni che la parte pubblica intende adottare nei suoi confronti a prescindere dalla fondatezza dell'istanza. 6.2. La II fase: la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 10 del 1978 e la successiva evoluzione giurisprudenziale fino alla legge n. 205/2000. A partire dalla fine degli anni ’70, tuttavia, si è andato affermando, con riferimento al ricorso avverso il silenzio-rifiuto su atti vincolati, un orientamento innovativo volto a superare la tradizionale concezione che configura il processo amministrativo esclusivamente come impugnatorio. Già con la sentenza 10 marzo 1978 n. 10 dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 55, si è ammessa per la prima volta la possibilità per il giudice amministrativo, limitatamente agli atti vincolati, di andare oltre il mero accertamento dell'illegittimità del silenzio-rifiuto e di pronunciarsi anche sulla fondatezza dell'istanza presentata dal ricorrente. 51 Cfr. B.E. TONOLETTI, Oggetto del giudizio contro il silenzio-rifiuto della pubblica amministrazione: orientamenti giurisprudenziali, in Studium iuris, 1996, 613. 52 A.M. SANDULLI, Il silenzio della pubblica amministrazione oggi: aspetti sostanziali e processuali (1982), ora in Scritti giuridici, V, Napoli, 1990, 595 ss. 53 L'intento del giudice di pregiudicare il meno possibile le ulteriori scelte dell'amministrazione traspare fra l'altro in Cons. St., Ad. Plen., 3 maggio 1960, n. 8 (in Giur. it., 1960, III, 257, con nota di GUICCIARDI, Silenzio e pronuncia sullo stesso ricorso gerarchico) secondo cui nel caso di silenzio-rifiuto <<il Consiglio di Stato può bensì accertare l'illegittimità dell'omissione, ma non può anche sostituirsi all'Amministrazione nel determinare il contenuto dell'atto>> in quanto <<l'illegittimità consiste non nell'aver rigettato l'istanza (poiché appunto il Consiglio di Stato non è in grado di stabilire se nel merito l'eventuale rigetto sarebbe o no illegittimo) ma nell'aver rifiutato di emettere su di essa un qualsiasi provvedimento>>; Cons. St., sez. V, 14 ottobre 1961, n. 529, in Foro it., 1962, III; 82, secondo cui <<il giudice amministrativo, investito del ricorso avverso il silenzio-rifiuto, può accertare l'illegittimità del comportamento negativo soltanto sotto il profilo del suo contrasto con l'obbligo di provvedere, ma non può sostituirsi all'Amministrazione del determinare il preteso contenuto di siffatto comportamento>>. 54 Cons. St., sez. V, 9 marzo 1984, n. 230, in Cons. Stato, 1984, I, 264; T.a.r. Trentino Alto-Adige, sez. Trento, 26 maggio 1989, n. 161, in Trib. amm. reg., 1989, I, 2372; T.a.r. Lazio, sez. I, 24 ottobre 1990, n. 954, in Trib. amm. reg., 1990, I, 3752; T.a.r. Lazio, sez. I, 21 febbraio 1995, n. 325, in Trib. amm. reg., 1995, I, 992. 55 In Cons. Stato, 1978, I, 335 19 Tale posizione, inizialmente accolta con molta cautela, è stata poi recepita, anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 2 legge n. 205/2000, dalla giurisprudenza prevalente, secondo la quale oggetto del giudizio di impugnazione del silenzio-rifiuto non è il silenzio in sé, bensì la fondatezza della pretesa del ricorrente. Il giudice amministrativo, quindi, non è chiamato a pronunciarsi solo sull'obbligo di provvedere in capo all'Amministrazione, ma è altresì abilitato, sia pure nel solo caso di atti vincolati, a verificare la fondatezza della pretesa stessa e a definire il contenuto del provvedimento che (avrebbe dovuto e) deve essere adottato56. La tesi volta ad estendere l'ambito di cognizione del G.A. è stata, inoltre, sostenuta, già prima della legge n. 205/2000, dalla dottrina prevalente57. A sostegno di questa posizione, in particolare, vengono invocati due principi, quello di economia dei mezzi processuali e quello di effettività della tutela giurisdizionale. Quanto al primo, si afferma che un principio generale di economia processuale impone di evitare la necessità di un nuovo giudizio che rimetta in discussione lo stesso bene della vita. Sarebbe, quindi, in contrasto con tale principio una pronuncia del G.A. volta a rilevare il mero obbligo di provvedere, senza alcun ulteriore vincolo nascente dal giudicato per quel che riguarda il quid e il quomodo. Seguendo l'impostazione criticata, infatti, come è stato autorevolmente rilevato58, per avere una tutela piena contro il comportamento omissivo della Amministrazione si renderebbe necessario un triplice giro di attività giurisdizionale: a) un giudizio di legittimità che si limita a dichiarare l'obbligo di provvedere senza alcun risultato ricostruttivo del rapporto amministrativo; b) un primo giudizio di ottemperanza - esperibile soltanto nel caso di persistente inerzia – che consente per la prima volta l'accertamento del rapporto controverso e che si conclude – in caso di esito favorevole al ricorrente - con una pronuncia impositiva dell'obbligo di emettere il provvedimento richiesto; c) un secondo giudizio di ottemperanza, che consente finalmente al giudice - in caso di violazione dell'obbligo imposto dalla precedente pronuncia - l'esercizio di poteri sostitutivi e, dunque, l'emissione del provvedimento richiesto. Del resto, dopo l'art. 2 l. n. 241/1990, l'obbligo di 56 Cfr., ex pluribus, Cons. St., sez. IV, 7 luglio 1986, n. 483, in Foro amm., 1986, 1361; Cons. St., sez. VI, 19 febbraio 1993, n. 170, in Cons. Stato, 1993, I, 233; Cons. St., sez. V, 7 aprile 1994, n. 418, ivi 1990, I, 852; Cons. St., sez. V, 12 marzo 1996, n. 251, in Foro amm. 1996, 869; Cons. St., sez. VI, 29 febbraio 1997, n. 162, in Cons. Stato, 1997, I, 133; Cons. St., sez. VI, 1° febbraio 1999, n. 201, ivi, 1999, I, 242; C.G.A. 25 maggio 2000, n. 264, in Cons. Stato, 2000, I, 1544; Cons. St.. Tra le decisioni dei T.a.r. si segnalano T.a.r. Piemonte, sez. I, 7 dicembre 1994, n. 682, in Foro amm., 1995, 102; T.a.r. Campania, sez. IV Napoli, 30 luglio 1998, n. 2702, in Ragiusan, 1999, f. 178-9, 51. 57 Cfr. G. ABBAMONTE, Silenzio-rifiuto e processo amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 1985, 20 ss.; E. CANNADA BARTOLI, Inerzia a provvedere della pubblica amministrazione e tutela del cittadino, in Foro padano, 1956, n.2; F. CASTIELLO, Il nuovo modello di amministrazione, cit., 383; E. FOLLIERI, Silenzio della P.A. e tutela degli interessi diretti all'acquisizione di un vantaggio (c.d. interessi pretermessi), in Foro amm., 1987, I, 2195 ss.; G. GRECO, Silenzio della Pubblica Amministrazione e oggetto del giudizio amministrativo, in Giur. it., 1983, III, 137 ss.; G. SALA, Oggetto del giudizio e silenzio dell'amministrazione, in Dir. Proc. Amm., 1984, 147 ss.; F.G. SCOCA, Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, 1971, 26 ss.; F.G. SCOCA, M. D'ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, cit., 451; P. STELLA RICHTER, L'aspettativa di provvedimento, in Riv. trim. dir. pubb., 1981, 1; V. TODARO, Spunti innovativi in materia di tutela contro il silenzio, in Dir. Proc. Amm., 1992, 552-3. 58 Cfr. M. NIGRO, Le linee di una riforma necessaria e possibile del processo amministrativo, in Riv. dir. proc., 1978, 254 ss.; G. GRECO, L'accertamento autonomo del rapporto nel giudizio amministrativo, Milano 1980, 19. Sul punto v. anche V. CAIANIELLO, Diritto processuale amministrativo, Torino, 1994, 483. 20 provvedere è già sancito in tutto e per tutto dalla legge, sicché quale la sentenza dichiarativa non aggiungerebbe nulla di nuovo59. Con riferimento al principio di effettività della tutela giurisdizionale60, si osserva, invece, che la sentenza deve essere realmente satisfattiva dell'interesse fatto valere in giudizio e che questo interesse non è mai relativo alla mera emanazione di un atto amministrativo, ma è volto ad ottenere un bene della vita, sia pure per il tramite del legittimo esercizio del potere amministrativo61. In quest'ottica, il ricorso avverso il silenzio-rifiuto sarebbe teso a stigmatizzare l'inerzia della P.A. rispetto non semplicemente ad un astratto dovere di provvedere, ma ad uno specifico dovere di provvedere favorevolmente62. A fondamento della domanda, in definitiva, il ricorrente pone quella stessa situazione sostanziale che, esistendo già prima del processo, contribuisce a qualificare come illegittimo il silenzio serbato dalla P.A.63. D'altra parte, l'art. 23 della legge n. 1034 del 1971, prevedendo l'estinzione del processo per cessata materia del contendere soltanto qualora l'amministrazione proceda all'annullamento o alla riforma dell'atto impugnato in modo conforme all'istanza del ricorrente, dimostrerebbe chiaramente che il fine ultimo del processo amministrativo è di appagare le pretese sostanziali dell'interessato 64. Per queste ragioni, qui sinteticamente riportate, si è sostenuto che la tutela contro il silenziorifiuto della P.A. (e più in generale la tutela degli interessi legittimi pretensivi) possa essere effettiva solo in un giudizio di accertamento autonomo del rapporto <<che consenta di colmare le lacune del mero annullamento, per giungere all'accertamento della disciplina giuridica del caso concreto, nei limiti in cui questa scaturisce dalla normativa vigente (e salvi, dunque, solo i margini di discrezionalità)>>65. Si arriva così ad introdurre uno strumento di tutela per molti versi simile alla Verpflichtungsklage e cioè a quella speciale azione di adempimento prevista dall'art. 42 della legge tedesca sul processo amministrativo (VWGO)66 tramite la quale si può chiedere al giudice la condanna all'emanazione di un atto rifiutato o omesso67. 59 In questi termini v. G. MORBIDELLI, Il procedimento amministrativo, in AA.VV., Diritto amministrativo, Bologna, 1998, 1356; G. GRECO, Silenzio della P.A. ed oggetto del giudizio amministrativo, cit., 139; E. FOLLIERI, Silenzio della P.A. e tutela degli interessi diretti all'acquisizione di un vantaggio (c.d. interessi pretermessi), cit., 2195; V. TODARO, Spunti innovativi in materia di tutela contro il silenzio, cit., 552-3. 60 Sul punto v. le osservazioni di G. GRECO, Per un giudizio di accertamento compatibile con la mentalità del giudice amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 1992, 485. 61 In questi termini, B.E. TONOLETTI, Silenzio della pubblica amministrazione, in Dig. disc. pubb., vol. XIV, Torino, 1998, 165. 62 Cfr. G. GRECO, Per un giudizio di accertamento compatibile con la mentalità del giudice amministrativo, cit., 485, il quale rileva che il giudizio sul silenzio-rifiuto, così come congegnato in quelle applicazioni giurisprudenziali che lo circoscrivono all'accertamento del mero obbligo di provvedere, <<risulta ad un tempo il più scontato quanto a risultato e il più inutile quanto ad effettività della tutela>>. 63 E. CANNADA BARTOLI, Inerzia a provvedere da parte della pubblica amministrazione e tutela del cittadino, cit. 64 Cfr. F.G. SCOCA, M. D'ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, cit., 420, nota 44. 65 Così G. GRECO, Per un giudizio di accertamento compatibile con la mentalità del giudice amministrativo, cit., 486 66 Il testo della VwGO può leggersi in A. MASUCCI, La legge tedesca sul processo amministrativo, in Quaderni Dir. proc. Amm., 1991, 71 ss. 21 6.3. La III fase: l'oggetto della sindacato giurisdizionale nel ricorso contro il silenzio-rifiuto dopo l'art. 2 l. n. 205/2000. La lettura restrittiva accolta dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 9 gennaio 2002, n. 1. Delineato il quadro esistente prima della riforma del processo amministrativo, si tratta ora di stabilire se, ed eventualmente in che misura, l’art. 21-bis l. n. 1034/1971, introdotto dall'art. 2 l. n. 205/2000, abbia inciso sull'oggetto della cognizione del G.A. nel ricorso avverso il silenzio-rifiuto. Diverse sono le letture che si possono dare della norma. Questa, infatti, contiene indicazioni che possono apparire di segno contraddittorio. Da un lato, la previsione di un rito accelerato destinato a concludersi con sentenza succintamente motivata entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso ed il ruolo centrale attribuito al commissario ad acta, farebbero propendere per una lettura restrittiva. Dall'altro però, il riferimento testuale ad un accoglimento parziale del ricorso, nonché la possibilità di porre in essere adempimenti istruttori, sembrerebbero legittimare una verifica giurisdizionale della spettanza del bene della vita. Secondo un primo indirizzo interpretativo, l'art. 2. l. n. 205/2000 avrebbe circoscritto la cognizione del G.A. esclusivamente alla verifica dell'esistenza di un obbligo di provvedere della Amministrazione, precludendogli l'esame del merito dell'istanza anche nei casi di attività vincolata68. Questa tesi è stata accolta dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 9 gennaio 2002, n. 169 sulla base di argomenti di natura letterale, teleologica e sistematica. 67 Cfr. G. GRECO, Per un giudizio di accertamento compatibile con la mentalità del giudice amministrativo, cit., 485; ID., Accertamento autonomo del rapporto nel giudizio amministrativo, Milano, 1980; I. FRANCO, Annotazioni sul regime delle azioni nel processo amministrativo e sulle posizioni giuridiche tutelabili in sede di giurisdizione esclusiva, in Dir. Proc. Amm., 1990, 96; Sulla Verpflichtungsklage v. L. TARANTINO, Giudizio amministrativo e silenzio della pubblica amministrazione, cit., 31 ss.; ID., L’azione di condanna nel processo amministrativo, cit. 68 Emblematico in tal senso T.a.r. Catania, sez. II, 10 febbraio 2001, n. 293, cit., secondo cui <<nel caso di ricorso volto a censurare il silenzio amministrativo, il G.A. deve limitarsi ad operare due valutazioni fondamentali: che sia decorso il termine previsto dalla legge o dagli atti di autoregolamentazione per l'adozione del provvedimento senza che questa sia intervenuta; che il ricorrente abbia un interesse (anche oppositivo) all'adozione dell'atto. Dopo l'intervento dell'art. 2 della l. 205/2000, è infatti da ritenere che il Giudice non si possa sostituire all'Amministrazione stessa, indicando il contenuto che il provvedimento debba assumere anche nell'ipotesi di attività vincolata. I termini acceleratori del processo concernente il silenzio dell'Amministrazione sono stati concepiti al solo fine di obbligare l'Amministrazione ad una risposta, qualunque essa sia, contro la quale azionare l'eventuale processo nelle forme ordinarie>>. In senso analogo cfr. T.a.r. Campania, Salerno, sez. I, 2001, n. 1035, in www.giustizia-amministrativa.it; T.a.r. Veneto, sez. II, 2 marzo 2001, n. 467, in www.giustizia-amministrativa.it; T.a.r. Piemonte, sez. II, 13 gennaio 2001, n. 34, in www.giustizia-amministrativa.it; T.a.r. Pescara, 26 gennaio 2001, n. 57, in Urbanistica e appalti, 2001, n. 6, 649; con nota di C. CRISCENTI, Il rito del silenzio nel nuovo processo amministrativo. Una variante a tale orientamento è fatta propria da alcune pronunce in cui si afferma il G.A., adito in sede di impugnazione del silenzio serbato dalla P.A. deve limitarsi ad accertare l'illegittimità dell'omissione, a meno che il provvedimenti da emanare abbia natura vincolata e la palese infondatezza del ricorso risulti ictu oculi dagli atti di causa: cfr. T.a.r. Lazio, sez. II, 23 marzo 2001, n. 2372, in Urbanistica e appalti, 2001, n. 10, con nota di R. GIOVAGNOLI, L'oggetto del sindacato giurisdizionale nel ricorso contro il silenzio-rifiuto della P.A.; T.a.r. Lazio, sez. I-bis, 30 novembre 2000, n. 10704, in Trib. amm. reg., 2000, 5112; T.a.r. Lazio, sez. II bis, 9 maggio 2001, n. 4021. 69 La questione relativa all'intensità del sindacato che il g.a. può esercitare in sede di ricorso contro il silenzio-rifiuto era stata sottoposta all'Adunanza Plenaria dalla VI sezione del Consiglio di Stato con l'ordinanza 10 luglio 2001, n. 3803 (in Diritto&Formazione, 2001, 726 con nota di R. GIOVAGNOLI, 22 Sotto il profilo letterale le considerazioni svolte nella sentenza possono essere così sintetizzate: - l'art. 21-bis, al comma 1°, identifica l'oggetto del ricorso nel "silenzio", senza fare alcun riferimento alla pretesa sostanziale del ricorrente e, poiché, in linea di principio, i poteri del giudice sono delimitati dal ricorso (art. 112 c.p.c.), se ne deve dedurre che il legislatore ha inteso circoscrivere il giudizio alla inattività dell'amministrazione; - la stessa norma, al comma 2°, prevede che, in caso di accoglimento del ricorso, il giudice <<ordina all'amministrazione di provvedere>> e se <<l'amministrazione resti inadempiente [...] su richiesta di parte, nomina un commissario che provveda in luogo della stessa>>. L'espressione >>resti inadempiente>> lascia intendere che l'inadempimento dell'amministrazione non ha contenuto diverso prima della sentenza, quando è condizione per l'accoglimento del <<ricorso avverso il silenzio>>, e dopo la sentenza, quando è condizione perché provveda il commissario; - la terminologia usata dal legislatore (<<ordina ... di provvedere>>; <<un commissario che provveda>>; <<provvedimento da adottare in via sostitutiva>>) definisce nell'accezione comune in dottrina e in giurisprudenza, l'esercizio di una potestà amministrativa, sicché sarebbe inappropriata se il giudice dovesse spingersi a stabilire il concreto contenuto del provvedimento, poiché in tal caso all'amministrazione e al commissario non residuerebbero altri spazi se non per un'attività avente contenuto e funzione di mera esecuzione. Inoltre, anche l'indeterminatezza circa il contenuto (positivo o negativo) dell'eventuale provvedimento tardivo dell'amministrazione, avvalora la tesi che l'organo competente in via ordinari conservi, pur dopo la sentenza e fino all'insediamento del commissario, pur dopo la sentenza e fino all'insediamento de commissario, de commissario, il potere di provvedere in senso pieno. Sotto il profilo teleologico, la sentenza rileva come l'intento del legislatore fosse solo quello di indurre l'amministrazione ad esprimersi sollecitamente sull'istanza del privato. Ciò emerge, secondo la Plenaria, sia dai lavori preparatori - nei quali si legge che la trasformazione del ricorso in un procedimento d'urgenza è rivolta ad evitare che <<la dichiarazione dell'obbligo di provvedere (che di per sé non soddisfa l'interesse sostanziale al ricorso) sopraggiunga dopo i lunghi tempi del processo ordinario>> - sia dalla caratteristiche acceleratorie del nuovo rito (brevità dei termini, snellezza delle formalità), la cui configurazione è congrua se il giudizio si incentra sul "silenzio", non anche se il giudice dovesse estendere la propria cognizione ad altri profili. Sul piano sistematico, infine, l'Adunanza Plenaria rileva come la lettura restrittiva dell'art. 21-bis legge n. 1034/71 si allinea al principio generale che assegna la cura dell'interesse pubblico all'amministrazione e al giudice amministrativo, nelle aree in cui l'amministrazione è titolare di potestà pubbliche, il solo controllo sulla legittimità dell'esercizio della potestà. Pertanto, rileva il Supremo Collegio, se nulla impedisce, in linea astratta, di individuare in via interpretativa ipotesi di L’accertamento del rapporto nel rito speciale per il silenzio della P.A.). L'ordinanza sottolinea come in seguito all'entrata in vigore della norma si sono profilate due possibili interpretazioni circa la natura del giudizio speciale per i ricorsi avverso il silenzio dell'Amministrazione. Un orientamento più restrittivo, traendo spunto dalla semplificazione dell'iter processuale prevista dal citato art. 21-bis (trattazione dei ricorsi in camera di consiglio, imposizione di un termine breve per la pronuncia, sentenza resa in forma succintamente motivata, termini abbreviati per l'appello), esclude che il giudice possa accertare il fondamento della pretesa del ricorrente e determinare il contenuto del provvedimento da adottare. Un'altra tesi, invece - sul rilievo che la riforma del processo amministrativo ha introdotto altre ipotesi di definizione del merito tramite riti “accelerati" (cfr. art. 3, comma 1°, e art. 9, comma 1°, della legge n. 205/2000) e valorizzando il riferimento contenuto nel citato art. 21-bis alla possibile istruttoria disposta dal collegio giunge alla conclusione che, almeno nei casi di attività vincolata, il giudice può anche determinare il contenuto dell'atto che l'Amministrazione deve adottare. La VI sezione, quindi - ricostruite in tal modo le due possibili interpretazioni relative al nuovo art. 21-bis - ritiene, pur in assenza di un contrasto di giurisprudenza, di dover provocare l'intervento dell'Adunanza Plenaria, considerata l'importanza della questione e la possibilità che la stessa dia vita a contrasti di giurisprudenza. 23 ingerenza del giudice nella sfera dell'attività pubblicistica, l'art. 21-bis legge n. 1034/1971, anziché fornire elementi persuasivi in tal senso, accredita la soluzione opposta. D'altro canto, conclude la sentenza, sarebbe irrazionale ammettere che nel caso di inerzia il privato possa ottenere, mediante il ricorso avverso il silenzio, l'accertamento immediato da parte del giudice, della fondatezza della sua pretesa sostanziale, mentre, nella medesima situazione, se l'amministrazione avesse adottato un provvedimenti esplicito di diniego, la tutela giurisdizionale sarebbe stata soggetta alle forme ed ai limiti, oltre ai tempi, del giudizio ordinario. Accolta, sulla base di queste argomentazioni, la lettura restrittiva della nuova norma, la Plenaria respinge anche la tesi che, al fine di evitare un "arretramento" rispetto all'indirizzo giurisprudenziale formatosi anteriormente alla legge n. 205/2000, individuava due riti contro il silenzio: il primo, quello previsto dall'art. 21-bis legge n. 1034/1971, connotato in termini di semplicità e celerità, ma contraddistinto da poteri cognitori e decisori circoscritti alla mera declaratoria dell'obbligo di provvedere; il secondo, quello ordinario, più lungo e complesso, ma che rende possibile accertare, almeno nei casi di attività vincolata, la fondatezza della pretesa. Il precedente indirizzo giurisprudenziale, si legge nella motivazione, <<non può che cedere di fronte alla normativa sopravvenuta che definisce in modo compiuto la tutela giurisdizionale accordata al privato nei confronti del comportamento omissivo dell'amministrazione>>. Ciò, però, continua la sentenza, non determinerebbe nessun <<arretramento>> rispetto al passato in quanto, il nuovo rito, grazie all'abbreviazione dei termini e alla possibilità di ottenere la nomina del commissario ad acta, nel corso dello stesso giudizio, senza necessità di promuovere un giudizio di ottemperanza, assicura pur sempre al privato un significativo vantaggio anche rispetto all'indirizzo giurisprudenziale anzidetto. 6.3.1. Osservazioni sulla soluzione accolta dall'Adunanza Plenaria n. 1 del 2002. La decisione della Plenaria, senz'altro apprezzabile per lo sforzo ricostruttivo e l'analiticità della motivazione, suscita, tuttavia, alcune considerazioni critiche. Essa, infatti, riduce il ricorso contro il silenzio ad un giudizio sostanzialmente inutile, destinato a risolversi con un invito all'Amministrazione a provvedere in qualche modo, ancorché con l'adozione di un atto illegittimo. Sotto questo profilo, è difficile non scorgere un arretramento rispetto alle posizioni cui erano giunte prima della riforma sia la dottrina, sia, pur se in maniera più faticosa, la giurisprudenza. Tale arretramento, che non risulta "compensato" né dalla maggiore celerità del rito né dalla possibilità di nominare il commissario ad acta senza necessità di promuovere un giudizio di ottemperanza, non sembra neanche coerente con la tendenza, che emerge a più riprese dagli ultimi interventi legislativi in materia di processo amministrativo, e in particolare dalla l. n. 205/2000, di ampliare i poteri cognitori e decisori del G.A., al fine di assicurare l'effettività della tutela giurisdizionale. Basti pensare alla nuova tutela cautelare, non più vincolata nei ristretti limiti della sospensione del provvedimento impugnato, ma estesa all'adozione di tutte le misure che appaiono idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso; all'introduzione della consulenza tecnica d'ufficio e ai riflessi che questa scelta potrà avere sul delicato tema della sindacabilità della discrezionalità tecnica dell'Amministrazione; alla generalizzazione del rimedio risarcitorio e, in particolare, del risarcimento in forma specifica che, come emerge dalle prime letture, potrà consentire al giudice di sostituirsi all'Amministrazione nell'emanazione del provvedimento, almeno nei casi di attività vincolata; alla nuova disciplina dei motivi aggiunti la quale, consentendo l'impugnazione mediante proposizione di motivi aggiunti di <<tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all'oggetto del ricorso stesso>>, rivela che, pur essendo il giudizio occasionato dalla impugnativa di un atto amministrativo, il fine per cui il potere giurisdizionale viene sollecitato è la tutela di una pretesa 24 sostanziale, cioè il fine di soddisfare l'interesse al conseguimento di un determinato bene della vita70. Tali innovazioni sembrano allora il segnale dell'avvenuta evoluzione del processo amministrativo, <<sempre più orientato verso il modello del giudizio di cognizione sul rapporto controverso, anziché sulla mera illegittimità dell'atto, e capace di rivelare la pretesa nella sua identità sostanziale; qualificato da un giudicato avente effetto conformativo e non più circoscritto alla mera eliminazione del provvedimento illegittimo>>71. In questo contesto risulta, pertanto, difficile pensare che, con riferimento al ricorso verso il silenzio-inadempimento, il legislatore abbia voluto fare una scelta opposta, circoscrivendo l'ambito di cognizione del G.A. negli angusti limiti della verifica della scadenza del termine per provvedere. L'oggetto del giudizio avverso il silenzio, a nostro avviso, dovrebbe allora essere definito sulla base dei risultati cui erano approdate, già prima della riforma del processo amministrativo, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti. Ciò significa che il G.A. potrà spingersi oltre la mera dichiarazione dell'obbligo a provvedere, andando ad accertare la spettanza del bene della vita ogni qualvolta l'attività della P.A. si presenti come vincolata. E questa verifica, lungi dall'essere limitata alle sole ipotesi in cui l’infondatezza della domanda risulti ictu oculi anche da una delibazione sommaria, dovrà essere condotta anche nei casi di maggiore complessità di giudizio, eventualmente con l'ausilio di quei mezzi istruttori cui l'art. 21-bis legge n. 1034/1971 fa esplicito riferimento72. A sostegno di questa conclusione sembrano, infatti, deporre le seguenti considerazioni. In primo luogo, c'è da rilevare che, nella maggior parte dei casi, il ricorrente contro il silenzioinadempimento chiede non solo che venga dichiarato l'obbligo di provvedere, ma che, accertata la fondatezza della pretesa, si ordini alla P.A. di accogliere l'istanza. Il privato, infatti, è interessato non ad una pronuncia qualsiasi, ma ad una pronuncia positiva, satisfattiva dell'interesse fatto valere. Seguendo l'interpretazione restrittiva, il giudizio speciale contro il silenzio si risolverebbe, quindi, in un nulla di fatto ovvero, come è stato osservato, nella <<onerosa anticamera di una nuova lite>>73, con ciò vanificando la scelta compiuta dal legislatore verso una tutela più rapida ed effettiva degli interessi legittimi pretensivi frustrati dall'inerzia della P.A. In altri termini, la tanto attesa azione di adempimento finirebbe per diventare un'arma spuntata, sostanzialmente inutile, 70 Cfr., in questi termini, B. MAMELI, Atto introduttivo e attività istruttoria, in F. CARINGELLA, M. PROTTO, (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, cit., 7. 71 Così F. CINTIOLI, Osservazioni sul nuovo processo cautelare, in Urbanistica e appalti, 2001, 237. In tal senso cfr. anche Cons. St., Commissione speciale, 17 gennaio 2001, in Urbanistica e appalti, 2001, n. 6, 648, secondo cui con il nuovo rito previsto per i ricorsi proposti in costanza dell'inerzia tenuta dall'Amministrazione nei riguardi dell'istanza dell'interessato, il legislatore si pone due obiettivi primari: <<quello di accelerare tali processi e quello di concentrare in un unico rapporto processuale le due fasi che spesso si rivelavano necessarie per costringere l'Amministrazione ad ottemperare. La sequenza tra giudizio di cognizione per la dichiarazione di illegittimità del silenzio e giudizio di ottemperanza per la pronuncia positiva è assorbita in un giudizio unitario. Esso ha un duplice oggetto, misto di accertamento e di condanna, che assorbe in via definitiva l'interpretazione che affidava alla decisione del giudizio una mera efficacia demolitoria del silenzio dichiarato illegittimo, Il nuovo modello, invero, consente non solo di pronunciare sull'inadempimento dell'Amministrazione, ma anche di ordinarle di provvedere sull'istanza e di nominare un commissario ad acta alla scadenza del termine all'uopo assegnatole>>. 72 73 F. MARIUZZO, Commento all'art. 2, in V. ITALIA (a cura di), La giustizia amministrativa. Commento alla l. 21 luglio 200, n. 205, Milano, 2000, 24, il quale rileva come aderendo all'interpretazione restrittiva, <<ne discenderebbe, non solo un'ipocrita elusione di un rito soltanto fittiziamente accelerato con finale frustrazione delle finalità anche per questo aspetto perseguite dal legislatore, ma la scontata conclusione che il nuovo istituto, pur formalmente delineato come potente mezzo di effettiva tutela nei confronti dell'inerzia, diverrebbe nell'immediato assai scarsamente credibile e comunque contraddittorio con l'esigenza che sia fatta piena luce sull'esistenza in concreto di un obbligo per l'amministrazione di provvedere>>. 25 destinata a risolversi in un invito all'Amministrazione a provvedere in qualche modo, ancorché illegittimo74. Verrebbero in tal modo tradite le finalità acceleratorie e di economia processuale perseguite con la riforma del processo amministrativo: da un lato, infatti, il privato sarebbe costretto anche nei casi di attività priva di discrezionalità e di manifesta fondatezza della sua pretesa, a due gradi di giudizio, seppur con procedura accelerata, per la mera declaratoria dell'obbligo di provvedere; dall'altro, l'Amministrazione sarebbe gravata dall'obbligo di una decisione espressa, anche nelle ipotesi di pretesa manifestamente infondata. Oltre a queste considerazioni, volte soprattutto ad evidenziare le conseguenze negative che sarebbero determinate dalla tesi restrittiva, ci sono poi importanti elementi testuali e sistematici che fanno propendere per una interpretazione estensiva dell'art. 21-bis della legge n. 1034/1971. In primo luogo, il comma 2 della norma in esame usa la locuzione <<in caso di totale o parziale accoglimento del ricorso>>, mentre se la condanna dovesse essere limitata all'attuazione del mero obbligo di provvedere il ricorso potrebbe essere solo accolto o respinto e non resterebbero margini per ipotesi intermedie. Inoltre, è prevista la possibilità di porre in essere adempimenti istruttori che non sarebbero necessari – eccezion fatta per la mera acquisizione documentale dell'istanza dalla quale nasce l'obbligo di provvedere –qualora il giudice dovesse limitarsi a stabilire se il termine è scaduto. Deve, infine, rilevarsi che non sempre alla "celerità" del rito corrisponde la semplicità del giudizio. Emblematico, in tal senso è il rito in materia di accesso agli atti amministrativi che, pur essendo modellato secondo una logica di forte celerità e presentando, sotto questo profilo, molte analogie con l'azione introdotta dall'art. 2 legge n. 205/2000, non è per questo contraddistinto dalla semplicità del giudizio. D'altra parte, diverse ipotesi di definizione del merito del ricorso con rito "accelerato" sono previste dalla stessa legge n. 205/2000. Innanzitutto, l'art. 9, comma 1°, ha introdotto l'istituto delle "decisioni semplificate", tra le quali rientrano le c.d. <<sentenze brevi>> che il giudice può adottare non solo nei casi di manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità del ricorso (sentenze brevi di rito), ma anche nei casi di manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso stesso (sentenze brevi di merito). Questo tipo di sentenza, analogamente a quella pronunciata in materia di inerzia della P.A. sensi dell'art. 21-bis, è motivata succintamente – ovvero con un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo, o in relazione a un precedente conforme – ed è adottata in camera di consiglio, nell'udienza fissata per l'esame dell'istanza cautelare o fissata d'ufficio per l'esame istruttorio ex art. 44, comma 2, R.D. 1054/192475. L'art. 23-bis legge n. 1034/1971, introdotto dall’art. 4 della legge n. 205/2000, inoltre, al fine di dare una risposta alle istanze di rapidità fortemente avvertite in taluni settori, introduce una disciplina speciale di carattere acceleratorio del processo in determinate materie 76. La ratio acceleratoria prevista dalla nuova normativa si è realizzata, in particolare, attraverso la netta riduzione dei termini processuali ordinari (dimezzati, con l'eccezione di quello per il ricorso); la creazione di un rito speciale eventuale (subordinato alla sussistenza di ulteriori requisiti particolari); la rapida pubblicazione del dispositivo; l'accelerazione dei termini per l'appello; la previsione di particolari misure cautelari77. 74 Sul tema v. anche S. FANTINI, Il rito speciale in materia di silenzio della pubblica amministrazione, in Giust. civ., 2001, III, 191. 75 Sulle decisioni in forma semplificata v. F.F. TUCCARI, Le decisioni in forma semplificata, in F. CARINGELLA, M. PROTTO, Il nuovo processo amministrativo, cit., 775 ss. 76 Sui riti abbreviati ex art. 4 l. n. 205/2000 v. M. LIPARI, I riti abbreviati, in F. CARINGELLA, M. PROTTO, Il nuovo processo amministrativo, cit., 262 ss.; G. GIOVANNINI, I procedimenti speciali, in V. CERULLI IRELLI (a cura di), Verso il nuovo processo amministrativo, Torino, 2001, 293 ss. 77 Sul punto cfr. F. CARINGELLA, Il diritto amministrativo, cit., 1225. 26 Da questo rapido excursus di riti "abbreviati"78 emerge, dunque, che la rapidità della decisione non è necessariamente espressione di un'esigenza antagonistica rispetto all'intensità del sindacato giurisdizionale, ma, anzi, a volte è proprio la peculiarità di determinate materie, caratterizzate da un <<tasso particolarmente significativo di obsolescenza delle posizioni soggettive>>79, che induce il legislatore a creare una sorta di corsia preferenziale, introducendo strumenti di accelerazione e snellimento finalizzati ad evitare che <<la definizione giudiziaria intervenga quando ormai è esaurita la vitalità della materia del contendere>>80. Anche la semplificazione dell'iter processuale per i ricorsi avverso il silenzio, allora, pare inquadrarsi nella linea delle procedure speciali, cui il legislatore ha fatto frequente ricorso negli ultimi anni81. La scelta acceleratoria compiuta con l'art. 21-bis, pertanto, più che rappresentare un elemento da cui dedurre una limitazione del sindacato giurisdizionale, sembra invece espressione dell'esigenza fortemente avvertita di fornire al privato una tutela rapida ed effettiva verso un fenomeno, qual è quello del silenzio, che da sempre costituisce una delle forme più temibili di comportamento illegittimo della P.A. e che spesso non è <<mera inerzia>>, ma <<scelta strategica, ambigua riserva di potere di un'amministrazione che vuol decidere ma è conscia della debolezza della scelta presa e della possibile motivazione>>82. La celerità che impronta il giudizio sembra così rispondere ad un preciso interesse la cui cura in prima battuta dovrebbe essere assicurata proprio dall'amministrazione rispettando i termini di legge nell'evadere le procedure amministrative83. Alla luce delle considerazioni sinora svolte, perdono gran parte della loro consistenza anche gli argomenti generalmente assunti a favore di una interpretazione restrittiva del nuovo rito, come quelli che fanno leva sulla succinta motivazione della sentenza o sulla brevità dei termini per ricorrere in appello. La succinta motivazione della sentenza, infatti, lungi dall'essere un indice della maggiore semplicità del thema decidendum, può trovare la sua giustificazione proprio nella puntualità del contenuto ordinatorio della decisione giurisdizionale, che, potendo accertare la spettanza del bene della vita, non richiede più quell'ampia motivazione, attraverso la quale il privato, in passato, sfruttandone l'effetto conformativo, avrebbe potuto ottenere l'effettivo soddisfacimento del proprio interesse. 78 Sul tema v. F. CARINGELLA, F. DELLA VALLE, I processi amministrativi speciali, Milano, 1999, passim; S. MENCHINI, Processo amministrativo e tutele giurisdizionali differenziate, in Dir. Proc. Amm., 1999, 696 ss. 79 F. CARINGELLA, F. DELLA VALLE, I processi amministrativi speciali, cit., 343. 80 F. CARINGELLA, F. DELLA VALLE,, I processi amministrativi speciali, cit., XI. 81 In tal senso cfr. B. SASSANI, Il regime del silenzio e l'esecuzione della sentenza, cit., 296. 82 In questi termini v. ancora B. SASSANI, Il regime del silenzio e l'esecuzione della sentenza, cit., 296. Nello stesso senso v. A. LAMBERTI, Il ricorso avverso il silenzio, in V. CERULLI IRELLI (a cura di), Verso il nuovo processo amministrativo, Torino, 2001, 239, il quale rileva come il silenzio, spesso inevitabile conseguenza della incapacità della P.A. di esercitare la funzione in tempi ragionevoli, <<non raramente integra una condotta solo formalmente omissiva, ma in realtà, nella sostanza intesa a conseguire un obiettivo di amministrazione. In tali casi, il silenzio diviene il subdolo strumento per evitare, o almeno ritardare, l'adozione dei provvedimenti che l'ordinamento impone o consente di adottare nel momento considerato, per propiziare soluzioni amministrative non attuabili in maniera espressa>>. L'Autore fa l'esempio della pratica non infrequente del mancato esame di concessioni edilizie dopo la scadenza del termine di applicazione delle misure di salvaguardia, rilevando come, con l'assunzione di un comportamento formalmente omissivo, la P.A. impedisce l'applicazione della disciplina urbanistica vigente e determina, attraverso una salvaguardia di fatto, l'anticipata applicazione della disciplina in itinere. 83 Come è stato rilevato (G. ABBAMONTE, R. LASCHENA, Giustizia amministrativa, cit., 220-221) <<nella gestione della funzione pubblica manca la coincidenza, normale nei rapporti privati, tra soggetto dell'interesse e soggetto della volontà: nei rapporti privati, ognuno può volere per sé ed il primo problema è, quindi, quello di sapere, se ha voluto o non voluto (principio dell'autonomia); il funzionario, invece, regolando le vicende dell'interesse generale, vuole per altri e la sua autorità lo porta non solo a poter volere ma anche a dover volere, con certi margini di scelta più o meno ampi, ma sempre opportunamente indirizzati>>. 27 Allo stesso modo può ritenersi che la previsione normativa di termini abbreviati per proporre appello, termini ancor più esigui di quelli previsti in materia di ordinanze cautelari, sia dovuta al contenuto particolarmente pregnante che può assumere la sentenza di primo grado, attraverso la quale l'amministrazione può essere condannata ad assumere un provvedimento con un determinato contenuto. 6.3.2. La tendenza di una parte della giurisprudenza ad ampliare l’oggetto del sindacato giurisdizionale. La tesi secondo cui anche dopo l'art. 21-bis legge n. 1034/1971, il G.A. può, almeno nei casi di attività vincolata, spingersi ad accertare la fondatezza della pretesa, è stata accolta, pochi giorni prima che venisse pubblicata la decisione della Plenaria, dalla V sezione del Consiglio di Stato con la sentenza 28 dicembre 2001, n. 6465. La sentenza della V sezione, dopo aver ricordato i principali argomenti addotti a sostegno della tesi restrittiva – il carattere sommario del giudizio; la succinta motivazione della sentenza che lo definisce; il ruolo centrale attribuito al commissario ad acta – afferma che nessuno di essi appare decisivo. In senso opposto, per l'accoglimento della tesi favorevole alla massima estensione del sindacato giurisdizionale sul silenzio e sul sottostante rapporto amministrativo vengono invece valorizzati i seguenti profili: I) Anzitutto, l'art. 21-bis fa riferimento alla sentenza di parziale accoglimento. La giustificazione di una siffatta previsione sarebbe alquanto dubbia e problematica nella prospettiva di un accertamento limitato alla rigida alternativa tra la sussistenza o la mancanza dell'obbligo di provvedere. II) In secondo luogo, la norma prevede l'adozione di pronunce istruttorie. Anche tali tipi di decisione dovrebbero connettersi ad un accertamento dotato di una adeguata profondità, direttamente riferito al rapporto giuridico controverso. III) In termini più generali, la legge n. 205/2000 avalla la tendenza dell'ordinamento a trasformare il processo amministrativo, anche nel giudizio di legittimità, in un giudizio sul rapporto sostanziale. IV) Il commissario ad acta non è un diaframma tra il giudice e l'amministrazione, ma, al contrario, costituisce proprio lo strumento esecutivo della pronuncia del giudice. Detta figura rafforza i poteri di cognizione e di esecuzione del giudice e non può essere intesa come espressiva di una sorta di riserva di amministrazione. V) La celerità del rito non è affatto incompatibile con la profondità del sindacato, come dimostra l'esperienza dell'accesso ai documenti e quella del rito speciale in materia di opere pubbliche e del processo speciale ex articolo 23-bis. La sentenza quindi conclude nel senso che la legge n. 205/2000 ha inteso modulare la concreta operatività della tutela sul paradigma della tutela "minimale" (il giudice deve limitarsi ad accertare l'obbligo di provvedere dell'amministrazione, rimettendo a questa ogni ulteriore determinazione in ordine al contenuto del futuro provvedimento da adottare), ma non esclude affatto che, in presenza di determinate circostanze, il giudice possa (e debba) esercitare un sindacato più intenso sulla pretesa sostanziale fatta valere dall'interessato. In altri termini, secondo la V sezione, la formula legislativa prevede il livello minimo di protezione della pretesa sostanziale dell'interessato e non certo il limite massimo della tutela ottenibile dal giudice. Ne deriva che, se la parte ricorrente lo richiede, il giudice deve vagliare la fondatezza sostanziale della pretesa azionata, con l'unico limite costituito dal divieto di sostituzione agli apprezzamenti discrezionali riservati all'amministrazione Una tendenza ad ampliare i confini del sindacato giurisdizionale in sede di ricorso contro il silenzio-rifuto si riscontra, peraltro, in altre decisioni che, pur aderendo formalmente all’impostazione fatta propria dal Supremo Collegio, si discostano poi da essa nel momento in cui 28 ammettono la possibilità <<che il Giudice del “silenzio” valuti la sussistenza di ipotesi di inaccoglibilità della pretesa sostanziale, che finiscono con l’impedire di dare un esito positivo al ricorso, anche laddove sia in astratto ipotizzabile l’inadempimento formale dell’Amministrazione all’obbligo di provvedere>>84. Secondo tale impostazione, la necessità di valutare l’effettivo rapporto sostanziale sottostante si giustifica in tal caso in relazione all’esigenza che comunque deve sussistere un interesse alla decisione, che viene evidentemente a mancare se è sicuro che la pretesa del ricorrente non potrebbe essere soddisfatta. 6.3.3. La lettura estensiva del rito previsto dall’art. 2 legge n. 205/2000: il ricorso contro il silenzio come nuova ipotesi di giurisdizione di merito. Un orientamento radicalmente opposto a quello accolto dalla Plenaria, ha sostenuto, infine, che con l'art. 21-bis l. n. 1034/1971, non solo fosse stata legittimata per tabulas la verifica giurisdizionale della spettanza del bene della vita, ma fosse stata attribuito al G.A. il potere di sindacare la fondatezza della pretesa anche nelle ipotesi di silenzio-inadempimento serbato dalla P.A. avverso un'istanza del privato volta ad ottenere un provvedimento connotato da discrezionalità amministrativa. La norma, quindi, avrebbe introdotto una nuova ipotesi di giurisdizione piena, estesa anche al merito, consentendo al giudice di sostituire le proprie valutazioni a quelle dell'Amministrazione rimasta inerte. Tale tesi – escluso che esista una riserva costituzionale di valutazione discrezionale a favore della P.A. – traeva principalmente spunto dagli sviluppi intervenuti in tema di risarcibilità dei danni da lesione di interesse legittimo. Venivano valorizzati, in particolare, due momenti di questo cambiamento: da un lato, la sentenza della Cassazione n. 500 del 1999 che ha provocato il crollo del muro di irrisarcibilità delle lesioni di interessi legittimi, dall'altro l'introduzione del risarcimento in forma specifica come rimedio di carattere generale destinato ad operare senza limiti di materia grazie alla modifica introdotta all'art. 7, comma 3, l. n. 1034 del 1971. La sentenza n. 500 del 1999, invero, esclusa l'esistenza di un automatismo tra la rilevazione dell'illegittimità amministrativa e il risarcimento del danno, ha collegato tale eventualità alla lesione dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiamento del suo contenuto, effettivamente si collega e che risulta meritevole di tutela alla stregua dell'ordinamento. In particolare, la tesi in esame, al fine di dedurne il riconoscimento di una giurisdizione piena, fa riferimento a quella parte della sentenza in cui Corte di Cassazione, con riguardo agli interessi pretensivi, asserisce che l'indagine giurisdizionale tesa ad accertare la spettanza del bene della vita dovrà essere condotta sulla base di una valutazione prognostica sul positivo accoglimento dell'istanza del privato, da condurre in riferimento alla normativa di settore, secondo un criterio di normalità. Orbene, proprio questo giudizio prognostico orientato verso il futuro, che non può più essere pensato alla stregua di un controllo estrinseco sull'uso avvenuto in passato del potere e cristallizzatosi in un'attività provvedimentale alla quale ci si oppone, avrebbe l'effetto di rompere i confini del giudizio di cognizione limitato alla legittimità dell'azione amministrativa e di consentire un sindacato giurisdizionale sulla spettanza del bene della vita anche quando il provvedimento amministrativo richiesto dal privato sia espressione di discrezionalità amministrativa. A sua volta, la generalizzazione del rimedio del risarcimento in forma specifica, rappresenterebbe un ulteriore elemento da cui dedurre la giurisdizione piena in quanto tale 84 Cons. St., sez. IV, 10 giugno 2004, n. 3729, in www.giustizia-amministrativa.it 29 strumento consentirebbe ora al G.A. di impartire all'Amministrazione l'ordine di emanare un certo provvedimento con un certo contenuto anche nei casi di attività discrezionale85. Si è affermato, quindi, che il risarcimento in forma specifica, pur sottoposto ad un diverso regime giuridico, presenterebbe, quanto agli effetti, profili di perfetta coincidenza con l'azione di cui all'art. 21-bis legge n. 1034 del 1971, dato che, in entrambi i casi, al G.A. sarebbe consentito di sostituirsi alle valutazioni, anche discrezionali, della P.A.86. Questa tesi, per quanto oggi possa sembrare avvalorata, dalla nuova formulazione dell’art. 2 legge n. 241/1990 (che consente espressamente al G.A. di conoscere della “fondatezza dell’istanza”), non risulta, tuttavia, pienamente condivisibile. Giova rilevare, infatti, che <<le valutazioni discrezionali con cui l'Amministrazione decide ciò che è più opportuno per l'interesse pubblico sono per definizione riservate all'Amministrazione, costituiscono l'essenza dell'attività amministrativa funzionale, riservata all'Amministrazione in ossequio al principio di separazione dei poteri>>87. In definitiva, allora, in caso di discrezionalità amministrativa, in assenza di una disposizione di legge che espressamente deroghi al principio della riserva delle valutazioni discrezionali in capo alla P.A. istituendo una giurisdizione di merito, il G.A. non potrà compiere nessuna indagine sulla spettanza del bene della vita. Di conseguenza, l’ordine cui fa riferimento l'art. 21-bis, comma 2°, l. n. 1034/1971, non potrà che avere carattere procedimentale senza predeterminazione dell'esito rimesso alla valutazione della P.A.88 D'altra parte, se si ritenesse che l’art. 2 legge n. 241/1990 e l'art. 21-bis l. n. 1034/1971 consentano al G.A. una verifica sulla fondatezza della pretesa anche a fronte di attività connotata da un alto tasso di discrezionalità, si finirebbe per ammettere una giurisdizione di merito del tutto anomala per la particolare intensità del sindacato consentito all'autorità giudiziaria89. Invero, a differenza delle altre ipotesi di giurisdizione di merito nelle quali c'è già una determinazione amministrativa che il giudice è chiamato a verificare anche sotto il profilo dell'opportunità, nel ricorso contro il silenzio non c'è alcun provvedimento e quindi il G.A. interviene su un terreno ancora vergine, agendo direttamente come amministratore e dettando per la prima volta la disciplina di un concreto rapporto di diritto pubblico. 6.3.4. Le tesi che individuano due riti per i ricorsi contro il silenzio. 85 In dottrina, nel senso che il risarcimento in forma specifica, consenta al giudice di sostituirsi alla P.A. anche in valutazioni di carattere discrezionale, cfr. L.V. MOSCARINI, Risarcibilità da lesione di interessi legittimi e nuovo riparto di giurisdizione, in Dir. Proc. Amm., 1998, 803 ss. 86 Proprio argomentando dall'art. 24 Cost., che riconosce pari dignità alla effettiva tutela giurisdizionale delle posizioni giuridiche, siano esse diritti soggettivi o interessi legittimi, un'autorevole dottrina (M.S. GIANNINI, A. PIRAS, Giurisdizione amministrativa, in Enc. dir., vol. XIX, Milano, 1970, 263) aveva sollevato il dubbio <<se la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi non richieda sempre [...] la predisposizione di strumenti giurisdizionali di merito>>. 87 F. CARINGELLA, Giudice amministrativo e risarcimento del danno, in F. Caringella, M. Protto (a cura di) Il nuovo processo amministrativo, cit., 682. 88 Parallelamente il rimedio del risarcimento in forma specifica non potrà essere utilizzato per condannare l'amministrazione ad adottare l'atto, e il risarcimento per equivalente potrà a sua volta essere negato solo dopo che l'amministrazione rieserciti il proprio potere e riconosca all'istante il bene della vita in origine negato (il danno in questo caso non potrà, però, che essere da ritardo). Sul tema v. amplius, F. CARINGELLA, Giudice amministrativo e risarcimento del danno, cit., 682 e 714. 89 Nel senso che la valutazione sulla fondatezza della pretesa è esclusa quando venga richiesta l'emanazione di un atto implicante valutazioni discrezionali cfr. T.a.r. Piemonte, sez. II, 2001, n. 1318. 30 Accanto alle tesi sinora esaminate che, pur giungendo a conclusioni diverse sull'intensità del sindacato consentito al g.a., non mettono in discussione l'unicità del rito, va segnalato un orientamento propenso ad individuare due riti contro il silenzio. Secondo una parte della dottrina90 e della giurisprudenza91, infatti, si avrebbero dopo la legge n. 205/2000 due diversi riti contro il silenzio: il primo, quello previsto dall'art. 2 legge n. 205/2000, connotato in termini di semplicità e celerità, ma contraddistinto da poteri cognitori e decisori circoscritti alla mera declaratoria dell'obbligo di provvedere; il secondo, quello ordinario, più lungo e complesso, ma che rende possibile accertare anche la fondatezza della pretesa. Nell'ambito delle tesi che individuano due riti contro il silenzio, deve essere menzionata anche una soluzione che si potrebbe compromissoria: da un lato, infatti, si ammette che il giudice nel nuovo rito speciale possa andare al di là della mera declaratoria dell'obbligo di provvedere valutando la spettanza del bene della vita, ma, dall'altro, si circoscrive questa possibilità alle sole ipotesi - sempre relative ad attività amministrativa vincolata o comunque priva di apprezzabili margini di discrezionalità - in cui sia manifesta la fondatezza o l'infondatezza della domanda. In questo modo, senza azzerare i poteri decisori e cognitori del G.A., verrebbe scongiurato il rischio che con una procedura speciale, che impone al giudice ed alle parti tempi ristretti, debbano essere necessariamente trattate anche questioni particolarmente complesse. Un significativo argomento a sostegno di questa tesi potrebbe trarsi dall'art. 9 legge n. 205/2000 che ha previsto proprio per i casi di manifesta fondatezza o infondatezza della domanda una sorta di giudizio immediato in cui si ritrovano alcuni dei caratteri salienti del rito speciale di cui all'art. 21-bis legge n. 1034/1971, ovvero la cameralità e la succinta motivazione della sentenza. Da questa norma emergerebbe che il legislatore ammette sì la possibilità di definire il merito con un rito che si svolge in camera di consiglio e si conclude con una sentenza breve, purché, però, le questioni da decidere siano semplici e di immediata soluzione. Allo stesso modo, allora, anche nel rito speciale contro il silenzio la possibilità di un accertamento della spettanza del bene della vita potrebbe essere compiuto solo nei casi di manifesta fondatezza o infondatezza della domanda. Anche in questo caso, quindi, si avrebbe una duplicazione di riti contro il silenzio anche se l'applicabilità o meno del rito speciale verrebbe a dipendere non più dal contenuto della domanda presentata dal ricorrente – limitata alla dichiarazione dell'obbligo di provvedere o estesa ad ottenere una determinazione giudiziale del provvedimento da adottare – ma da un requisito ulteriore, rappresentato appunto dalla manifesta fondatezza o infondatezza della pretesa. 6.4. La IV fase: la riscrittura dell’art. 2 legge n. 241/1990 ad opera dell’art. 3, comma 6°-bis d.l. n. 35/2005 (convertito nella legge n. 80/2005). Su tale dibattito è, da ultimo, intervenuto il legislatore con l’art. 3, comma 6-bis (introdotto in sede di conversione), del decreto legge n. 35/2005, il quale, nel riformulare l’art. 2 della legge n. 241/1990, introduce al quinto comma di tale disposizione, la previsione secondo la quale il G.A., nei giudizi contro il silenzio-rifiuto, <<può conoscere della fondatezza dell’istanza>>. Si deve evidenziare come la nuova disposizione, che recepisce gli insegnamenti della migliore dottrina, abbia una portata dirompente, determinando, per tabulas, il superamento di quell’indirizzo giurisprudenziale, recepito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la 90 Sul tema v. F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, II, cit., 1175, il quale rileva che <<oltre al tipo di sindacato consentito al giudice, si pone anche il problema del tipo di rito con il quale eccitare tale sindacato. Ammesso, infatti, che al giudice amministrativo si possa anche chiedere l'accertamento della fondatezza delle pretesa (ad es. per le attività non significativamente discrezionali) in caso di silenzio della P.A, viene da chiedersi se l'accertamento possa essere invocato con la procedura di cui all'art. 2, ovvero se a tal uopo l'interessato debba seguire la via ordinaria del giudizio di cognizione>>. Sul tema cfr. anche N. SAITTA, Ricorsi contro il silenzio della P.A.: quale silenzio?, cit. 91 Cfr. T.a.r. Veneto, sez. II, 2 marzo 2001, 467. 31 pronuncia n. 1 del 2002, volto a circoscrivere l’oggetto del sindacato del G.A. negli angusti limiti della verifica della scadenza del termine per provvedere. La nuova norma, tuttavia, se, per un verso, sancisce il superamento della tesi volta ad escludere la possibilità per il G.A. di accertare, nel giudizio ex art. 21-bis legge n. 1034 del 1971, la fondatezza dell’istanza presentata dal privato, per un altro laddove riconosce al giudice amministrativo il potere di <<conoscere la fondatezza dell’istanza>> è destinata a sollevare delicate questioni interpretative. 6.4.1. Il giudice amministrativo <<può conoscere la fondatezza dell’istanza>> Anzitutto, pare necessario spendere qualche parola sulla formula impiegata dal legislatore: <<il giudice amministrativo può conoscere il merito dell’istanza>>. La locuzione <<può conoscere>>, anziché di quella <<conosce>>, solleva alcuni dubbi interpretativi, soprattutto in considerazione del fatto che, di regola, il legislatore, nel delimitare i poteri decisori del giudice amministrativo, utilizza l’indicativo presente92. Un’interpretazione letterale del testo legislativo, in particolare, potrebbe indurre alla conclusione che la nuova norma voglia attribuire al G.A. la facoltà di scegliere, di volta in volta, se valutare, o meno, la fondatezza della pretesa. In altre parole, secondo questa lettura, il Giudice, dopo aver accertato l’illegittimità dell’inerzia, avrebbe la possibilità di optare per una sentenza meramente dichiarativa dell’obbligo di provvedere o per una sentenza di condanna che, valutata la fondatezza della pretesa, ordini all’amministrazione di emanare un determinato provvedimento. Tale esegesi, sebbene possibile alla luce della non chiarissima formulazione letterale della norma, non appare, tuttavia, persuasiva. E’ evidente, infatti, l’irrazionalità di un sistema in cui il tipo di tutela da erogare non sia fissato ex ante e in generale dalla legge, ma venga rimesso alle valutazioni discrezionali del Giudice. Non si comprenderebbe, del resto, in base a quali criteri il G.A. possa decidere se limitarsi a verificare che il termine è scaduto o spingersi sino ad accertare la fondatezza della pretesa. Né appare del tutto persuasiva la tesi secondo cui il legislatore, utilizzando la locuzione in esame, ha fatto riferimento all’eventualità nella in cui ciò che emerge dal fascicolo processuale non consente una valutazione sulla fondatezza della pretesa. Tale situazione può essere superata, infatti, ordinando adempimenti istruttori, così come espressamente prevede l’art. 21-bis, finalizzati ad acquisire tutti gli elementi necessari per formulare il giudizio sulla spettanza. Non va poi dimenticato che, vi sono altre norme che, per quanto non molto frequenti, utilizzano formule analoghe a quella prevista dall’art. 3, comma 6-bis, del decreto legge n. 35/2005 e rispetto alle quali non si è mai dubitato che si trattasse di un potere-dovere e non di una mera facoltà di scelta: si pensi, per dirne una, all’art. 26, comma 3°, legge Tar a tenore del quale <<il Tribunale amministrativo regionale, nella materia relativa a diritti attribuiti alla sua competenza esclusiva e di merito può condannare l’amministrazione al pagamento delle somme di cui risulti debitrice>>. Si pensi, ad esempio, all’art. 7, comma 3°, legge T.a.r.(<<il Tribunale amministrativo regionale, nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni risarcitorie>>; all’art. 21-bis, comma 2°, legge T.a.r.(<<il giudice amministrativo ordina all’amministrazione di provvedere>>; <<qualora l’amministrazione resti inadempiente…il giudice amministrativo, su richiesta di parte, nomina un commissario che provvede in luogo dell’amministrazione>> ); all’art. 26 legge T.a.r.(comma 1°: <<il tribunale amministrativo regionale, ove ritenga irrecevibile o inammissibile il ricorso, lo dichiara con sentenza; se riconosce che il ricorso è infondato, lo rigetta con sentenza>>; comma 2°: <<se accoglie il ricorso per motivi di incompetenza annulla l’atto e lo rimette all’autorità competente>>); all’art. 35, comma 1°, d.lgs. n. 80 del 1998 (<<il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto>>). 92 32 In base al principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, deve, quindi, ritenersi che, quando il privato ne fa richiesta, il G.A. non può esimersi dal valutare la fondatezza della pretesa, ovviamente nei limiti in cui tale sindacato è consentito dal tipo di giurisdizione che il giudice esercita in sede di ricorso avverso il silenzio (su cui v. infra par. 6.4.5.). 6.4.2. L’ipotesi in cui il ricorrente chiede solo la dichiarazione dell’obbligo di provvedere Escluso che il G.A., di fronte ad una domanda del privato che gli chieda di valutare la fondatezza della pretesa, possa limitarsi a dichiarare l’esistenza dell’obbligo di provvedere, occorre verificare se sia possibile per il ricorrente circoscrivere la sua domanda alla sola esistenza dell’obbligo di provvedere. Si pone, in altri termini, la questione se il privato possa escludere la decisione sulla fondatezza della pretesa attraverso la proposizione di una domanda giudiziale diretta ad ottenere una sentenza dichiarativa del solo obbligo di provvedere. Al riguardo, pare opportuno distinguere a seconda che l’istanza presentata all’Amministrazione per ottenere il provvedimento sia o meno fondata. Nel primo caso, a fronte di un ricorso con cui si invoca solo la declaratoria dell’obbligo di provvedere, il principio ne eat iudex extra petita partium dovrebbe impedire al G.A. di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa e di ordinare alla P.A. di accogliere l’istanza: una decisione di tale contenuto, infatti, attribuirebbe al ricorrente un’utilità superiore a quelle che egli non ha chiesto con conseguente violazione dei limiti della domanda. Nel caso di istanza infondata, invece, pare preferibile la tesi secondo cui il G.A. debba rigettare il ricorso o, meglio, dichiararlo inammissibile per difetto di interesse. In questa ipotesi, non pare esservi, interesse in capo al privato ad ottenere una sentenza che condanni l’amministrazione a provvedere su un’istanza infondata. In sede di esecuzione del dictum giudiziale, invero, la P.A. non potrebbe che rigettare l’istanza del ricorrente: l’esigenza di evitare che il giudizio contro il silenzio rappresenti l’onerosa anticamera di una nuova lite porta a prediligere la conclusione secondo cui il G.A. dovrebbe rigettare (o dichiarare inammissibile del ricorso, anche se il privato ha limitato la sua domanda al solo obbligo di provvedere. Né a tale soluzione si oppone il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, atteso che il G.A. anrebbe a valutare la fondatezza dell’istanza non per dare al ricorrente più di quanto egli ha chiesto, ma per rigettare la domanda. 6.4.3. Una nuova ipotesi di giurisdizione di merito? L’espresso riferimento al potere di valutare la fondatezza dell’istanza, contenuto nel nuovo art. 2, comma 5°, legge n. 241/1990, impone di verificare se il legislatore voglia introdurre, nei giudizi contro l’inerzia non qualificata della P.A., una vera e propria giurisdizione di merito, nell’ambito della quale il G.A. può verificare la spettanza del bene della vita anche quanto viene in considerazione la discrezionalità amministrativa della pubblica amministrazione. Come sopra si è evidenziato, questa tesi era stata già sostenuta subito dopo l’entrata in vigore dell’art. 2 della legge n. 205/2000, da una parte della dottrina, secondo la quale il nuovo art. 21-bis l. n. 1034 del 1971 doveva essere interpretato nel senso di riconoscere al G.A. il potere di sindacare la fondatezza della pretesa anche nelle ipotesi di silenzio-inadempimento serbato dalla P.A. avverso un'istanza del privato volta ad ottenere un provvedimento connotato da discrezionalità amministrativa. Una simile interpretazione potrebbe risultare ora corroborata dalla legge n. 80/2005 che, facendo espresso riferimento alla “fondatezza dell’istanza”, sembra evocare una nuova ipotesi di giurisdizione di merito, nel cui ambito il G.A. può sostituire le proprie valutazioni a quelle dell'Amministrazione rimasta inerte. 33 Intesa in questi termini, la norma rivelerebbe l’intenzione del legislatore di anticipare l’ottemperanza nei confronti dell’amministrazione inerte alla scadenza del termine per provvedere: tale conclusione risulterebbe anche avvalorata dalla possibilità, prevista dal comma 2° dell’art. 21bis legge n. 1034 cit., di nominare, già nell’ambito del giudizio contro il silenzio, un commissario ad acta, destinato a sostituirsi all’amministrazione nel caso in cui questa non esegua lo iussum giurisdizionale. Il commissario ad acta, in particolare, avrà il compito di appurare la corretta esecuzione da parte dell’amministrazione delle indicazioni cristallizzate nella sentenza, salvo provvedervi egli stesso se l’amministrazione continua a rimanere chiusa nel suo silenzio. In tal senso, del resto, si è espressa anche una parte, sia pure minoritaria, della giurisprudenza amministrativa. Si segnala, ad esempio, Cons. Giust. Amm., 4 novembre 2005 n. 72693 in cui si afferma a chiare lettere: “La nuova norma, recependo sia gli orientamenti giurisprudenziali minoritari che alcune posizioni dottrinarie, realizza una tutela piena. La nuova disciplina stabilisce che il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell’istanza, e tale espressione non può essere interpretata se non come attribuzione al giudice di provvedere sull’oggetto del giudizio che non può essere ridotto al silenzio, ma comprende anche la fondatezza della domanda. Si tratta quindi di una giurisdizione di merito. La disposizione, che si rivolge al giudice ed è di immediata applicazione, così ricostruita, prevede l’obbligo del giudice di provvedere sostituendosi alla amministrazione inadempiente su istanza della parte”. Tale opzione ermeneutica, per quanto animata dalla esigenza di assicurare una tutela effettiva all'interesse legittimo anche alla luce degli artt. 24 e 113, comma 2°, Cost.94., suscita, tuttavia, alcune perplessità. Come si è già rilevato, invero, <<le valutazioni discrezionali con cui l'Amministrazione decide ciò che è più opportuno per l'interesse pubblico sono per definizione riservate all'Amministrazione, costituiscono l'essenza dell'attività amministrativa funzionale, riservata all'Amministrazione in ossequio al principio di separazione dei poteri>>95. Ciò significa che in caso di discrezionalità amministrativa, il G.A. non può compiere nessuna indagine sulla spettanza del bene della vita, a meno che non vi sia una norma che, in deroga al fondamentale principio che riserva alla P.A. la valutazione dell’interesse pubblico, gli attribuisca tale potere istituendo espressamente una ipotesi di giurisdizione di merito. In altri termini, atteso il carattere eccezionale, quasi “eversivo”, delle ipotesi di giurisdizione di merito, esse possono essere introdotte soltanto in forza di una norma che expressis verbis mostri l’intenzione del legislatore di derogare al principio di separazione dei poteri e di riserva alla P.A. della cura dell’interesse pubblico Tale deroga espressa non può, tuttavia, essere rinvenuta nel nuovo art. 2, comma 5°, legge n. 241 cit.: la norma, infatti, ad avviso di chi scrive, pur menzionando la possibilità per il Giudice di conoscere la fondatezza dell’istanza, ha semplicemente voluto chiarire – anche alla luce della contraria posizione assunta sul punto dalla giurisprudenza amministrativa dopo la legge n. 205/2000 – che il G.A. nei ricorsi contro il silenzio-rifuto, non si deve limitare a verificare che il termine per provvedere scaduto, ma può spingersi sino alla verifica della fondatezza della pretesa, sempre però 93 In www.lexitalia.it Secondo G. VERDE, Ma che cos'è questa giustizia amministrativa?, in Dir. Proc. Amm., 1993, 611, anche se l'art. 113 Cost. è concepito in funzione di una tutela di tipo impugnatorio, esso non può condurre al <<paradossale e ingiusto risultato, per effetto del quale i soggetti avrebbero tutela solamente quando l'amministrazione emani provvedimenti e solamente per ottenerne l'annullamento. Pienezza di tutela significa e non può non significare possibilità di un intervento giudiziario in base al quale non solo si elimina l'atto illegittimo, ma si imponga all'amministrazione di provvedere>>. 94 95 F. CARINGELLA, Giudice amministrativo e risarcimento del danno, in F. CARINGELLA, M. PROTTO (a cura di) Il nuovo processo amministrativo, cit., 682. 34 che, conformemente ai principi generali, tale sindacato non invada sfere riservate alla discrezionalità amministrativa della P.A. e non richieda, quindi, la valutazione comparativa degli interessi in gioco. D’altra parte, come sopra si evidenziava, se si ritenesse che l'art. 21-bis l. n. 1034/1971 consenta al G.A. una verifica sulla fondatezza della pretesa anche a fronte di attività connotata da un alto tasso di discrezionalità, si finirebbe per ammettere una giurisdizione di merito del tutto anomala per la particolare intensità del sindacato consentito all'autorità giudiziaria96. A differenza delle altre ipotesi di giurisdizione di merito nelle quali c'è già una determinazione amministrativa che il giudice è chiamato a verificare anche sotto il profilo dell'opportunità, nel ricorso contro il silenzio non c'è alcun provvedimento e quindi il G.A. interviene su un terreno ancora vergine, agendo direttamente come amministratore e dettando per la prima volta la disciplina di un concreto rapporto di diritto pubblico. Si tratterebbe, inoltre, di una giurisdizione di merito che non avrebbe ad oggetto non una materia determinata, individuata ex ante dal legislatore, ma sarebbe destinata a tagliare trasversalmente qualsiasi settore nel quale l’amministrazione rimanga inerte. In particolare, dopo la riscrittura dell’art. 20 legge n. 241/1990, i settori in cui può venire in considerazione il silenziorifiuto della P.A. sono quelli esclusi dall’applicazione del silenzio-assenso: si tratta, come è noto, di materie particolarmente delicati, in cui vengono in considerazione interessi pubblici di particolare pregnanza (il patrimonio culturale e paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza e l'immigrazione, la salute e la pubblica incolumità) tant’è che il legislatore li ha sottratti, una volta per tutte, dal campoo di applicazione del silenzio assenso. Appare allora poco plausibile che proprio in tali settori “nevralgici”, il legislatrore abbia voluto attribuire al G.A., per i casi di inerzia dell’Amministrazione, il potere di impingere al merito della scelte discrezionali. Inoltre, seguendo la tesi in esame, avremmo due tipi di sindacato radicalmente diversi a seconda che ci sia un atto di diniego espresso o un silenzio, potendo il G.A. esercitare una giurisdizione di merito solo nel secondo caso, col paradosso che il privato dovrà sperare che l'Amministrazione non risponda per avere una tutela più penetrante. Né, per escludere questa anomala disparità, può opporsi che in caso di diniego espresso il privato potrebbe comunque agire con l'azione di risarcimento del danno in forma specifica per ottenere il provvedimento richiesto. Infatti, anche ad ammettere – ma la questione è tutt'altro che pacifica97 - che il risarcimento del danno in forma specifica consenta al G.A. di sostituirsi all'Amministrazione anche in caso di discrezionalità pura, rimane comunque il fatto che tale rimedio è sottoposto condizioni più stringenti di quelle previste per l'azione di condanna ex art. 21bis l. n. 1034 /1971. Mentre, infatti, in questo caso è sufficiente che il privato dimostri la scadenza del termine e la fondatezza della pretesa, per il risarcimento in forma specifica devono sussistere tutti gli elementi dell'illecito aquiliano di cui all'art. 2043 c.c. e, quindi, il privato dovrebbe dimostrare, oltre alla fondatezza della pretesa, la colpa o il dolo della P.A., il danno e il nesso di causalità. Inoltre, se a fronte di un diniego espresso, l'azione di risarcimento in forma specifica andrebbe proposta, essendo diretta alla rimozione di un atto amministrativo, entro il termine di decadenza di 60 giorni98, al contrario, con riguardo al ricorso avverso il silenzio-rifiuto della P.A., 96 Nel senso che la valutazione sulla fondatezza della pretesa è esclusa quando venga richiesta l'emanazione di un atto implicante valutazioni discrezionali cfr. T.a.r. Piemonte, sez. II, 2001, n. 1318. 97 Sul tema si rinvia a F. CARINGELLA, Giudice amministrativo e risarcimento del danno, cit., 712 ss. 98 Così F. CARINGELLA, Giudice amministrativo e risarcimento del danno, cit., 720. Secondo l'Autore, invece, lo sbarramento temporale dei 60 giorni non rileva quando si chiede il risarcimento per equivalente che non mette in discussione la vita del provvedimento. Quest'ultimo aspetto è tuttavia controverso in dottrina. Sul tema v., da ultimo, L.V. MOSCARINI, Risarcibilità degli interessi legittimi e termine di 35 alla luce del nuovo comma 5° dell’art. 2 della legge n. 241/1990, la relativa impugnativa non deve essere proposta entro il termine di 60 gg., ma può aversi, entro un anno dala scadenza del termine per provvedere, fino a quando persista l'atteggiamento inerte della P.A., dal momento che il perdurare dell'inadempienza consente, nei limiti di un anno, il rinnovo del termine de die in diem, consentendone l'accertamento in ogni momento. A sostegno della tesi “restrittiva” va, infine, rilevato che, a differenza delle precedenti versioni del disegno di legge che menzionavano espressamente il potere del G.A. di conoscere il “merito dell’istanza”, nella versione approvata in via definitiva, il riferimento al “merito” è stato sostituito con quello alla “fondatezza” dell’istanza. Tale modifica denota, a parere di chi scrive, proprio l’intenzione del legislatore di escludere l’introduzione di una nuova ipotesi di giurisdizione di merito. 6.4.4. I limiti del potere del G.A. di conoscere il merito della pretesa. La verifica della fondatezza della pretesa in caso di attività vincolata. Alla luce delle considerazioni svolte nel paragrafo precedente, deve, quindi, ritenersi che, nonostante le ambiguità del nuovo arrt. 2 legge n. 241/1990, il G.A., in sede di ricorso contro il silenzio-rifiuto, possa sostituirsi agli apprezzamenti discrezionali della P.A Deve, invece, ritenersi che la nuova norma, facendo riferimento al potere del G.A. di conoscere il merito dell’istanza abbia voluto, in maniera meno dirompente, soltanto superare l’indirizzo restrittivo inaugurato dalla decisione n. 1 del 2002 dell’Adunanza Plenaria e suggellare definitivamente la possibilità, già sostenuta, peraltro, dalla giurisprudenza prevalente prima della legge n. 205 del 2000, di valutare la fondatezza della pretesa a fronte di istanze di istanze dirette ad ottenere provvedimenti vincolati. 6.4.5. Il Consiglio di Stato chiarisce i poteri del giudice amministrativo nel rito del silenzio: la sentenza della Sez. IV, 10 ottobre 2007 n. 5311 Recentemente, il Consiglio di Stato, con una importante decisione (Sez. IV, 10 ottobre 2007, n. 531199 ha chiarito che la nuova versione dell’art. 2 l. n. 241/1990 non ha inteso istituire una ipotesi senza confini di giurisdizione di merito ma, più limitatamente, ha attribuito al giudice, nei limiti della propria preesistente giurisdizione di legittimità o esclusiva, uno strumento processuale ulteriore nella stessa logica acceleratoria del contenzioso che ha ispirato l’intervento riformatore del 2000; dal punto di vista sistematico si è previsto un meccanismo che ricorda il giudizio c.d. immediato (art. 26, l. n. 1034 del 1971). Pertanto, precisa la IV sezione, nell’ambito del giudizio sul silenzio, il giudice potrà conoscere della accoglibilità dell’istanza: a) nelle ipotesi di manifesta fondatezza, allorché siano richiesti provvedimenti amministrativi dovuti o vincolati in cui non c’è da compiere alcuna scelta discrezionale che potrebbe sfociare in diverse soluzioni100, e fermo restando il limite della impossibilità di sostituirsi all’amministrazione (in altri termini si potrà condannare l’amministrazione ad adottare un provvedimento favorevole dopo aver valutato positivamente l’an della pretesa ma nulla di più); b) nell’ipotesi in cui l’istanza è manifestamente infondata, sicché risulti del tutto diseconomico obbligare la p.a. a provvedere laddove l’atto espresso non potrà che essere di rigetto. decadenza: riflessioni a margine dell'ordinanza dell'Ad. plen. del Consiglio di Stato 2 gennaio 2000, in Dir. proc. amm., 2001, 1 ss. 99 In Foro it., 2007, III, Cfr. sul punto, dopo la l. n. 80 del 2005, Cons. Stato, sez. VI, 11 maggio 2007, n. 2318, in www.giustiziaamministrativa.it 100 36 In base a questo importante arresto, quindi, la nuova formulazione dell’art. 2, l. n. 241 cit., non scalfisce l’approdo cui era giunto l’orientamento giurisprudenziale formatosi in precedenza che, nel caso di sopravvenienza del provvedimento negativo nel corso del giudizio, optava per la declaratoria di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse. Invero, ogni qualvolta l’amministrazione eserciti la funzione pubblica con un provvedimento espresso, viene meno l’esigenza di certezza sottesa alla ratio della norma sancita dall’art. 21 bis, sicché il giudice amministrativo, ante omnia, dovrà limitarsi a prenderne atto, con le consequenziali statuizioni processuali a seconda del contenuto del provvedimento esplicito; in questo frangente, infatti, sarà inibita ogni valutazione circa la fondatezza della pretesa sostanziale, che troverà la naturale sede di scrutinio nell’eventuale giudizio di legittimità che il richiedente insoddisfatto vorrà intraprendere. Appare interessante riportare le considerazioni che hanno indotto la IV sezione ad escludere la tesi secondo cui la l. n. . 80/2005 avrebbe istituito una nuova ipotesi di giurisdizione di merito. Un primo ordine di obiezioni a questa tesi viene rinvenuta sul piano costituzionale. Osserva in particolare il Consiglio che, interpretata nel senso della giurisdizione di merito, “la norma non si sottrarrebbe a censure di incostituzionalità, per aver previsto surrettiziamente una giurisdizione di merito senza confini, in cui sussiste in termini generali il potere del giudice di sostituirsi alla p.a. Al contrario la giurisdizione di merito, al pari di quella esclusiva, ponendosi come derogatoria rispetto a quella di legittimità nella trama costituzionale improntata al principio di separazione dei poteri, necessita di una puntuale e tassativa previsione normativa”101. Ulteriori critiche vengono mosse muoversi, sul piano logico, sotto il profilo che: a) sarebbe contraddittorio con il rito del silenzio che si consegua un risultato maggiore di quello ottenibile in un ordinario giudizio di legittimità finalizzato all’annullamento di un provvedimento illegittimo; b) l’accertamento della fondatezza della pretesa nei casi di maggiore complessità sarebbe incompatibile con la struttura snella e celere del giudizio in base al più volte menzionato art. 21 bis, l. 1034 cit.. Per attribuire alla norma un significato utile e legittimo occorre, allora, secondo la IV sezione, muovere dai seguenti dati ermeneutici: a) si attribuisce al giudice un potere da esercitarsi nell’ambito di un rito speciale improntato ad esigenze di snellezza; b) non si obbliga ma si facoltizza il giudice a conoscere della fondatezza della pretesa, senza autorizzarlo a sostituirsi in via diretta alla p.a. adottando il provvedimento richiesto; c) la cognizione sulla fondatezza dell’istanza può sfociare in un accertamento negativo per il richiedente. Da qui la conclusione che la norma in commento non abbia inteso istituire una ipotesi senza confini di giurisdizione di merito ma, più limitatamente, abbia attribuito al giudice, nei limiti della propria preesistente giurisdizione di legittimità o esclusiva, uno strumento processuale ulteriore nella stessa logica acceleratoria del contenzioso che ha ispirato l’intervento riformatore del 2000. 7. L'ambito oggettivo di applicazione del rito speciale contro il silenzio della P.A.: il problema del silenzio significativo, del silenzio-rigetto, del silenzio su istanze volte a far valere diritti soggettivi Individuato l’oggetto del sindacato giurisdizionale nel giudizio contro il silenzio della P.A., appare ora opportuno svolgere delimitare il campo di applicazione del rito speciale disciplinato dall’art. 21-bis legge n. 1034 del 1971. 101 Cfr. in tema di giurisdizione esclusiva Cons. St., ad plen., 30 luglio 2007, n. 10, in Foro it., III, ; in tema di giurisdizione di merito, Cons. St., sez. IV, 31 maggio 2007, n. 2830, in Foro amm.-Cons. Stato, 2007,1481; Cons. St., sez. IV, 14 aprile 2006, n. 2133, in Foro amm. Cons-Stato, 2006, 1143. 37 Secondo l'orientamento prevalente sia in dottrina102 che in giurisprudenza103, il rito speciale introdotto dall'art. 2 l. n. 205/2000 riguarda solamente il silenzio-rifiuto o silenzio-inadempimento, ad esclusione, quindi, sia del silenzio significativo (silenzio-assenso, silenzio-diniego), in cui l'omissione è legalmente equiparata ad un provvedimento, sia del silenzio-rigetto conseguente al decorso dei novanta giorni per la decisione del ricorso gerarchico. Questa tesi appare condivisibile. Come è stato rilevato, infatti, <<sebbene l'art. 2 legge n. 205/2000 non indichi testualmente avverso quale tipo di silenzio il ricorso sia proponibile, il nuovo rimedio processuale, funzionale ad una condanna dell'Amministrazione a provvedere, non si attaglia all'ipotesi del silenzio significativo, in cui il problema dell'inerzia è risolto a monte dal legislatore con l'attribuzione di una valenza attizia, favorevole o contraria agli interessi del privato, ed avverso cui sono comunque proponibili gli ordinari strumenti di impugnazione, oltre che i poteri di ritiro in autotutela comuni a tutti gli atti amministrativi>>104. Nel caso di silenzio equiparato per legge ad un provvedimento amministrativo non si pone, quindi, un problema di inerzia, dato che appunto la legge rende quest'ultima espressiva di provvedimenti; in quelle ipotesi vi sarà, pertanto, un provvedimento positivo o negativo, a seconda della previsione legislativa, ma non vi sarà silenzio105. Tale conclusione, d'altra parte, trova conferma sia nella struttura complessiva della norma – che, soprattutto nella previsione finale di un intervento sostitutivo dell'Amministrazione, sembra fare riferimento proprio a situazioni nelle quali all'inerzia non possano ricondursi effetti sostanziali 102 Tale posizione è sostenuta pressoché unanimemente in dottrina: cfr. F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, II, cit., 1184; C. CRISCENTI, Il rito del silenzio nel nuovo processo amministrativo, cit., 652; L. COSSU, Osservazioni a prima lettura sulla l. 21 luglio 2000, n. 205, in Cons. Stato, 2000, II, 1512; S. FANTINI, Il rito speciale in materia di silenzio della pubblica amministrazione, cit., 184; S. GIACCHETTI, Il ricorso avverso il silenzio dell'Amministrazione e le macchine di Munari, in Cons. Stato, 2001, II, 640; G. GIOVANNINI, Note di commento alla legge 21 luglio 2000, n. 205, in www.giustizia-amministrativa.it; D. IARIA, Il ricorso e la tutela contro il silenzio, in Giorn. dir. amm., 2000, 1077; S. PELILLO, Il ricorso avverso il silenzio dell'amministrazione, cit.; B. SASSANI, Il regime del silenzio e l'esecuzione della sentenza, cit., 304; Saitta, Ricorsi contro il silenzio della P.A.: quale silenzio?, cit., 4. 103 Cfr. Cons. St., Commissione speciale, 17 gennaio, 2001, in Urbanistica e appalti, 2001, n. 6, 650; T.a.r. Campania, Napoli, sez. II, 16 dicembre 2000, n. 4720, in www.lexitalia.it; T.a.r. Abruzzo, Pescara, 26 gennaio 2001, n. 57, cit.; implicitamente: T.a.r. Lazio, sez. I, ord. 12 gennaio 2001, n. 125, in Trib. amm. reg., 2001, I, 506; T.a.r. Lazio, sez. II ter, 28 febbraio 2001, n. 1597, in www.lexitalia.it, n. 3/2001. In senso contrario v., però. T.a.r. Campania, Salerno, sez. II, 20 giugno 2001, n. 932, che, pur riconoscendo valore significativo al silenzio formatosi sull'istanza di accertamento di conformità ex art. 13 l. 47/1985, presentata al Comune per conseguire la sanatoria degli interventi difformi rispetto alle concessioni edilizie, ritiene applicabile al relativo ricorso l'art. 2 l. n. 205/00, nonché, da ultimo, T.a.r. Campania, Napoli, sez. IV, 20 novembre 2001, n. 4875 (in www. lexitalia.it, 2001/11, con nota di G. Sartorio, Ricorsi in materia di silenzio della P.A.), secondo cui <<la speciale procedura in materia di silenzio-rifiuto prevista dall'art. 2 l. n. 205/00 è da ritenere applicabile anche alle ipotesi in cui il silenzio-rifiuto sia in realtà un provvedimento di carattere negativo piuttosto che una mera omissione a decidere da parte dell'Amministrazione; tale procedura pertanto è in particolare applicabile anche nel caso di silenzio previsto dall'art. 13 della legge n. 47 del 1985, che si forma dopo 60 giorni dalla data di presentazione dell'istanza di accertamento di conformità>>. Va segnalata infine una pronuncia del T.a.r. Brescia, 1° giugno 2001, n. 397, in www.lexitalia.it, secondo la quale il rito abbreviato è applicabile anche al caso di contestazione da parte di un terzo, del silenzio serbato dalla P.A., sull'altrui denunzia di inizio di attività edilizia ex art. 4 d.l. n. 398/1993, conv. dalla l. n. 493/1993. Questa sentenza è stata criticata da una parte della dottrina (cfr. F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, II, cit., 1185, nota 48), sulla base della considerazione che <<in tal caso non viene in rilievo un silenzio-rifiuto su istanza del terzo ma è oggetto di contestazione un silenzio-assenso, ovvero l'autorizzazione a costruire implicita nel mancato riscontro negativo dell'istanza>>. 104 Così C. CRISCENTI, Il rito del silenzio nel nuovo processo amministrativo, cit., 652. 105 In tal senso cfr. F.G. SCOCA, Il silenzio della pubblica amministrazione, cit., 3. 38 o processuali specifici106 – sia nella ratio del nuovo rito che, fondandosi sull'esigenza di definire in tempi brevi il procedimento iniziato dal privato con la sua istanza, non ricorre nell'ipotesi di silenzio significativo, in cui la conclusione del procedimento è sancita dalla qualificazione dell'inerzia fatta dalla legge107. Fondata risulta anche l'esclusione dal campo di applicazione del nuovo rito del silenziorigetto. In tal caso, infatti, anche se a differenza del silenzio significativo l'inerzia dell'Amministrazione non è qualificata, esiste pur sempre un provvedimento amministrativo, quello di base avverso il quale il ricorso gerarchico è stato proposto, che può essere impugnato davanti al giudice. L'art. 2 legge n. 205/2000 non potrà quindi trovare applicazione perché il ricorso ha ad oggetto non il comportamento omissivo, che funge da mero presupposto processuale, ma il provvedimento di primo grado impugnato col ricorso gerarchico108. Sul punto appare tuttavia necessaria una precisazione ulteriore che tenga conto della ricostruzione dell'istituto del silenzio-rigetto accolta dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nelle due note decisioni n. 16 e n. 17 del 1989 109. In queste pronunce la Plenaria, respinta la tesi che configurava il decorso del termine come provvedimento legalmente tipizzato, afferma che la formazione del silenzio-rigetto non priva l'Amministrazione del potere di decidere il ricorso gerarchico (e quindi le decisioni tardive non sono di per sé illegittime) ma consente al ricorrente di scegliere fra la possibilità di ricorrere immediatamente in sede giurisdizionale contro l'atto impugnato e la possibilità di attendere la pronuncia tardiva sul ricorso gerarchico. In questo secondo caso, però, alla scadenza del termine di novanta giorni si verifica una situazione analoga a quella del silenzio-rifiuto: il cittadino può infatti mettere in mora l'Amministrazione notificandole una diffida per ottenere la formazione di un silenzio-rifiuto contro il quale poi ricorrere in sede giurisdizionale avvalendosi del rito abbreviato di cui all'art. 2 l. n. 205/2000110. In tal modo, il privato può ottenere una decisione giurisdizionale che condanni l'autorità sovraordinata a pronunciarsi sul ricorso gerarchico, risultato questo che può essere particolarmente interessante ove il ricorso gerarchico sia stato proposto per vizi di merito, dato che in questo caso le censure non sarebbero riproponibili nel ricorso giurisdizionale contro il provvedimento amministrativo di primo grado111. Va infine rilevato - come la giurisprudenza ha correttamente puntualizzato - che il nuovo rito abbreviato riguarda solo il silenzio-rifiuto in senso tecnico, ossia il comportamento omissivo che maturi a fronte di un'istanza diretta a far valere una posizione di interesse legittimo, e non anche l'inerzia della P.A. a fronte di un'istanza diretta a far valere un diritto soggettivo (nella giurisdizione esclusiva del G.A.)112. 106 107 Così D. IARIA, Il ricorso e la tutela contro il silenzio, cit., 1077. C. CRISCENTI, Il rito del silenzio nel nuovo processo amministrativo, cit., 652. 108 In tal senso cfr. Cons. St., Commissione speciale 17 gennaio 2001, cit., 651. 109 Cfr. Cons. St., Ad. Plen. 24 novembre 1989, n. 16, cit.; Cons. St., Ad. Plen. 4 dicembre 1989, n. 17, cit. Cfr. in tal senso, A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2000, 154; B. SASSANI, Il regime del silenzio e l'esecuzione della sentenza, cit., 305. 110 111 A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, cit., 155 Cons. St., sez. V, 23 gennaio 2004 n. 208, in Cons. Stato., 2004, I, 107; Cons. St., sez. IV, 27 ottobre 2003 n. 5711, ivi, 2003, I, 2285; Cons. St., sez. VI, 13 maggio 2003 n. 2534, ivi, 2003, I, 1112; Cons. St., sez. IV, 4 febbraio 2003 n. 540, ivi, 2003, I, 234; Cons. St., sez. VI, 23 settembre 2002 n. 4824, in Urbanistica e appalti, 2003, 205, con nota di L. TARANTINO, L'esegesi autoreferenziale del rito ex art. 21 bis e le pretese patrimoniali; Cons. St., sez. V, 16 luglio 2002 n. 3974, in Giust. amm., 2002, 923; Cons. St., sez. IV, 11 giugno 2002 n. 3256, in Foro amm., 2002, 1413; Cons. St., sez. V, 7 marzo 1997 n. 221, in Foro amm., 1997, 777; Cons. St., sez. VI, 2 aprile 1996 n. 375, ivi, 1996, 1204; Cons. St., sez. IV, 27 settembre 1993 n. 797, in Cons. St., 1993, I, 1082; TAR Campania, Palermo, sez. II, 7 febbraio 2006 n. 332, in www.lexitalia.it; TAR Campania, Salerno, 14 ottobre 2003 n. 1000, in Trib. amm. reg., 2003, I, 4750; TAR 112 39 L'istituto del silenzio-rifiuto, elaborato dalla giurisprudenza come espediente per consentire l'accesso al giudice nell'ambito di una giurisdizione costruita essenzialmente come impugnazione dell'atto amministrativo, trova, infatti, la sua giustificazione laddove la realizzazione dell'interesse sostanziale del ricorrente sia subordinata alla valutazione della compatibilità con l'interesse pubblico e di conseguenza richieda la collaborazione dell'Amministrazione cui, istituzionalmente, compete tale valutazione. E' in tale situazione, invero, che il meccanismo del silenzio-rifiuto svolge la sua funzione, facendo sì <<che la pausa anormale della funzione amministrativa abbia, quale conseguenza, la insoddisfazione dell'interesse personale dell'istante sul piano sostanziale, ma non si ripercuota anche sulla possibilità di chiedere tutela nella sede giurisdizionale>>113. Quando invece il privato è titolare un diritto soggettivo, e quindi fa valere un interesse che non è correlato al potere dell'Amministrazione, la procedura del silenzio appare del tutto inutile, perché l'istante può ottenere una tutela più diretta ed immediata tramite un'azione di accertamento, senza la necessaria intermediazione di un provvedimento formale114. In tal senso si segnala, ad esempio, Consiglio di Stato, Sez. IV, 14 febbraio 2005 n. 419, secondo cui <<il rito speciale previsto dall’art. 21-bis della l. 6 dicembre 1971 n. 1034, introdotto dall'art. 2 della L. 21 luglio 2000 n. 205, in materia di impugnazione del silenzio della P.A., non è esperibile a tutela di posizioni aventi natura e consistenza di diritto soggettivo; è pertanto inammissibile un ricorso avverso il silenzio-rifiuto formatosi su di un atto di diffida con il quale una società ha chiesto ad un Comune di dichiararla decaduta dal titolo superficiario ai sensi di una convenzione che era stata in precedenza stipulata, atteso che, nel momento in cui l’Amministrazione perviene – una volta esperita la procedura di evidenza pubblica per la scelta del soggetto cui attribuire il diritto di superficie – alla stipula di una convenzione col privato aggiudicatario, questi, allorchè invoca il rispetto delle clausole contenute nella convenzione stessa, vanta una posizione di diritto soggettivo>>. Sulla stesse linea, fra i giudici di primo grado, si segnala, Tar Puglia, Lecce, Sez. II - 14 marzo 2005, n. 1358 ove si afferma che <<il rimedio del ricorso avverso il silenzio della P.A. ex art. 21-bis della L. 6 dicembre 1971 n. 1034, introdotto dall’art. 2 della L. n. 205/2000, non è esperibile quando il potere non esercitato dalla P.A. sia di natura paritetica>>. Muovendo da tale premessa è stato, quindi, dichiarato inammissibile un ricorso proposto da un’impresa innanzi al G.A., per l’annullamento di un silenzio-rifiuto della P.A. che si sarebbe formato su di una istanza con la quale è stato chiesto il pagamento dell’importo dovuto a titolo di revisione del corrispettivo del servizio pubblico di nettezza urbana espletato di virtù di contratto di appalto; in tal caso, infatti, l’attività che il Comune dovrebbe esercitare non coinvolge un potere di natura autoritativa (con conseguente posizione di interesse legittimo in capo all’istante), ma si sostanzia nell’adempimento di un preciso obbligo discendente dal contratto stipulato fra le parti. Di particolare interesse, anche per lo sforzo motivazionale, è la sentenza del T.a.r. Catania, Sez. III - sentenza 3 novembre 2005 n. 1983115. Secondo il T.ar., l’inammissibilità del ricorso ex art. 21 bis in materia di diritti soggettivi si fonda sui seguenti argomenti: 1) In primo luogo vi è un argomento di carattere testuale; invero, se il legislatore avesse voluto estendere il rito sul silenzio anche alle istanze relative a diritti soggettivi, non si spiegherebbe perché manca nella legge una esplicita previsione in tal senso. In altri Lazio, sez. I ter, 13 ottobre 2003 n. 8331, ivi, 2003, I, 4122; TAR Molise, 1° settembre 2003 n. 664, ivi, 2003, I, 4211; TAR Campania, sez. V, 13 marzo 2002 n. 1330, ivi, 2002, 2015; TAR Campania, sez. II, 16 dicembre 2000 n. 4726, ivi, 2001, 653; TAR Calabria, Catanzaro, 14 febbraio 1997 n. 142, in Foro amm.-TAR, 1997, 2871 113 F.G. SCOCA, M. D'ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, cit., 401. 114 Cfr., sul punto, F. CARINGELLA, Il diritto amministrativo, cit., 551; Id., Corso di diritto amministrativo, II, cit., 1185; A. CIOFFI, Osservazioni sul dovere di provvedere e sul “silenzio” nell’art. 21-bisdella legge 6 dicembre 1971, n. 1034, in Dir. Amm., 2004, 642. 115 In Foro amm.-Cons. Stato, 2006, 1019, con nota di SCIRÈ 40 termini, sarebbe contraddittorio l'atteggiamento del legislatore che, per un verso, espressamente supera la soluzione giurisprudenziale relativa alla valutazione della fondatezza dell'istanza e, per altro verso, nulla stabilisce in ordine alla possibilità di attivare il giudizio sul silenzio per controversie relative a diritti soggettivi. 2) Va rilevato, inoltre, che il rito ex art. 21 bis l. TAR si riferisce, in ragione della storia dell’istituto e della sua collocazione sistematica, al silenzio-rifiuto (o silenzioinadempimento) di carattere pubblicistico e non anche all’ipotesi di comportamento omissivo dell’Amministrazione qualificabile come inadempimento di una obbligazione con conseguente responsabilità di tipo contrattuale. In tale ultimo caso, il silenzio deve essere trattato alla stregua di una qualunque pretesa creditoria rimasta insoddisfatta. 3) Va oltre tutto ricordato che l’ordinamento appresta diversi strumenti processuali per la tutela delle situazioni patrimoniali tenendo conto anche della necessità di arrivare ad una celere pronuncia. L'articolo 21 legge Tar stabilisce espressamente che se il ricorrente, allega un pregiudizio grave e separabile derivante dall’esecuzione dell’atto impugnato ovvero dal comportamento inerte dell’amministrazione, può chiedere l’emanazione di misure cautelari, compresa l’ingiunzione a pagare una somma, che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare gli effetti della decisione sul ricorso. 4) L’art. 8 l. 21 luglio 2000 n. 205, nelle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, prevede la possibilità, al ricorrere dei presupposti richiesti dalla legge, di utilizzare lo strumento dell’ingiunzione o delle ordinanze provvisoriamente esecutive. In direzione opposta va, tuttavia, segnalata una (non condivisibile) decisione del Tar Lazio, Sez. I, Sentenza 6 maggio 2003 n. 3921116 secondo cui, <<non va condivisa l’eccezione formulata in via subordinata dalla resistente difesa secondo la non sarebbe consentito il ricorso al rito accelerato introdotto dall’art. 2 della legge n. 205/2000 per tutelare situazioni di diritto soggettivo perfetto nei confronti della P.A. Il menzionato art. 2 individua l’oggetto del procedimento d’urgenza ivi regolamentato con riferimento al "silenzio” dell’amministrazione. Si tratta di nozione che nella sua ampia accezione è comprensiva di ogni condotta omissiva, in presenza dell’interesse del privato ad una determinazione esplicita >> 8. Ricorso contro il silenzio e riparto di giurisdizione. Individuate le tipologie di silenzio cui si applica il nuovo rito, si pone un ulteriore interrogativo: occorre stabilire se l'art. 2 l. n. 205/2000 sia soltanto una norma sul processo, che presuppone senza fondarla la giurisdizione del G.A., o se, al contrario tale disposizione faccia del silenzio una materia autonoma - distinta da quella materia su cui la domanda del privato verte nella quale il G.A. può esercitare sempre la propria giurisdizione. Questa seconda opzione ermeneutica era stata accolta da una non recentissima decisione del T.a.r. Abruzzo117, che ha definito un ricorso proposto da un soggetto il quale, utilmente collocato in una graduatoria di un concorso pubblico, aveva diffidato la P.A. ad adottare gli atti propedeutici alla costituzione del rapporto di lavoro. Nel respingere l'eccezione di giurisdizione sollevata dall'Amministrazione resistente, la quale aveva rilevato che la causa, riguardando la costituzione di un rapporto di lavoro, rientrava ormai nella giurisdizione del giudice ordinario, il T.a.r. ha affermato che la vera natura della controversia non riguardava la costituzione di un rapporto di lavoro, ma tendeva piuttosto ad accertare se l'Amministrazione avesse meno legittimamente omesso di provvedere sull'istanza di 116 117 In www.giustizia-amministrativa.it Cfr. T.a.r. Abruzzo, Pescara, 26 gennaio 2001, n. 57, cit. 41 assunzione, sicché essa doveva ritenersi attribuita dall'art. 2 legge n. 205/2000 alla giurisdizione del G.A.. Tale soluzione solleva non poche perplessità. Essa, infatti, finisce per reintrodurre surrettiziamente ai fini del riparto della giurisdizione il criterio c.d. del petitum formale. Nell'impostazione del giudice abruzzese, infatti, la giurisdizione cambia a seconda del tipo di pronuncia cui il privato aspira: se chiede che l'Amministrazione venga condannata a provvedere ex art. 2 l. n. 205/2000 la controversia andrà devoluta al G.A., se invece chiede la costituzione del rapporto la controversia sarà devoluta al giudice ordinario. Questo indirizzo ha quindi l'effetto di riproporre quello che è il principale inconveniente del criterio del petitum - e che portò nel 1930 le Sezioni Unite della Cassazione 118 e l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato119 a respingerlo a favore del diverso criterio della c.d. causa petendi - ovvero la possibilità di una doppia tutela della medesima posizione soggettiva del cittadino nei confronti dell'Amministrazione, nel senso che la stessa posizione soggettiva potrebbe essere fatta valere alternativamente o cumulativamente, a scelta del ricorrente, avanti a ciascuno dei due giudici. Per queste ragioni sembra allora preferibile ritenere che l'art. 2 l. n. 205/2000 operi esclusivamente sul piano processuale, presupponendo e non fondando la giurisdizione del G.A. L'applicazione del nuovo rito richiede, quindi, una verifica preliminare tendente ad accertare l'esistenza della giurisdizione del G.A. sulla materia nella quale l'Amministrazione è rimasta inerte di fronte all'istanza del privato. In tal senso è, del resto, orientata la giurisprudenza prevalente che ha in diverse occasioni affermato che il silenzio dell’amministrazione può configurarsi solo rispetto al mancato esercizio del potere, mentre, allorché si deduca la lesione di un diritto soggettivo, occorre proporre un’azione di accertamento volta ad ottenre il riconoscimento di quel diritto120.Si segnala, ad esempio, Consiglio Stato , sez. V, 09 ottobre 2006, n. 6003121, ove si afferma chiaramente che “lo speciale ricorso previsto dall'art. 21 bis, l. Tar, introdotto dall'art. 2, l. 21 luglio 2000 n. 205, non determina una nuova ipotesi di giurisdizione esclusiva o per materia del g.a., ma costituisce un particolare strumento processuale volto a rendere più efficace la tutela dell'interessato nei confronti del comportamento inerte dell'amministrazione. Questa specifica forma di tutela, pertanto, può realizzarsi solo nell'ambito delle controversie che rientrano già nel perimetro della giurisdizione amministrativa. Ne deriva che il rimedio del silenzio-rifiuto, regolato dall'art. 21 bis, l. Tar, non è esperibile nel caso in cui il g.a. sia privo di giurisdizione in ordine al rapporto sostanziale. Infatti, l'istituto del silenzio va configurato come strumento diretto a superare l'inerzia della p.a. nell'emanazione di un provvedimento amministrativo, a fronte di una posizione di mero interesse legittimo in capo al cittadino. Ne consegue che per le controversie relative ai rapporti di lavoro privatizzato non ha più senso una giurisdizione del g.a. sul silenzio-rifiuto dell'amministrazione, atteso che il g.o. può decidere direttamente la questione, avvalendosi dei poteri istruttori che gli competono, a prescindere dagli atti adottati dall'amministrazione e quindi anche nel caso in cui non sia stato emanato alcun atto nonostante il decorso dei termini prescritti per la conclusione del 118 119 Cass. Sez. Un., 15 luglio 1930, n. 2680, in Giur. it., I; 1, 964 ss. Cfr. Cons. St. Ad. Plen. 14 giugno 1930, nn. 1 e 2, in Giur. it., 1930, III, 149 ss. 120 Cfr., oltre alle sentenze citate nel testo, Cons. St., sez. IV, 2 novembre 2004 n. 7088, in Urbanistica e appalti, 2005, 170, con nota di C.E. GALLO, Silenzio e comportamento della p.a. tra g.a. e g.o.; Cons. St., sez. V, 10 febbraio 2004 n. 497, in Ragiusan, 2004, 1, 234; TAR Basilicata, 5 aprile 2004 n. 288, in Trib. amm. reg., 2004, I, 2107; TAR Campania, sez. V, 22 febbraio 2003 n. 1369, in Ragiusan, 2003, 235, 580; TAR Campania, 23 gennaio 2002 n. 418, in Trib. amm. reg., 2002, 1176; TAR Marche, 11 aprile 2002 n. 286, ivi, 2002, 1979; TAR Puglia, sez. I, 28 gennaio 2002 n. 512, ivi, 2002, 1213; TAR Campania, sez. V, 24 aprile 2002 n. 2424, in Foro amm. -TAR, 2002, 1364. 121 Foro amm.-Cons. Stato, 2006, 2825, con nota di CREPALDI, Le posizioni giuridiche soggettive e il rito speciale di cui all'art. 21 bis, l. TAR. 42 relativo procedimento. Detta conclusione, poi, non muta nemmeno per effetto delle modifiche legislative del rito avverso il silenzio, derivanti dalla l. 11 febbraio 2005 n. 15 e dal d.l. 14 marzo 2005 n. 35, conv. nella l. 14 maggio 2005 n. 80. Infatti, il potere di conoscere della fondatezza dell'istanza proposta dal ricorrente amplia senz'altro i poteri decisori del g.a., senza permettere, tuttavia, di esorbitare dai limiti della giurisdizione spettatentegli”. Tra i giudici di primo grado si segnalano, tra le più recenti sentenze, T.a.r. Basilicata, 23 aprile 2007, n. 334122 e T.A.R. Sardegna Cagliari, sez. II, 12 aprile 2007, n. 654123. La tesi in esame risulta del resto avvalorata dalla sentenza della Corte costituzionale 6 luglio 2004, n. 204124: la Consulta, infatti, ha escluso, esplicitamente con riferimento all’art. 34 d.lgs. n. 80 del 1998, per il giudice amministrativo la possibilità di sindacare i comportamenti dell’amministrazione, ritenendo sussistente in materia esclusivamente la giurisdizione del giudice ordinario, ai sensi dell’art. 103 Cost. Sotto questo profilo, la sentenza della Corte si presta a due diverse opzioni interpretative, le quali conducono a conseguenze applicative molto difformi. Secondo una prima tesi, dopo la sentenza della Corte, la giurisdizione del G.A. sui comportamenti della P.A. sarebbe radicalmente venuta meno, a prescindere dal tipo di comportamento posto in essere dal soggetto pubblico. Secondo un’altra tesi, invece, anche dopo la sentenza della Corte costituzionale, appare necessario distinguere, ai fini del riparto della giurisdizione tra “meri comportamenti materiali” e “comportamenti c.d. amministrativi”, posti in essere cioè dalla P.A. nell’esercizio di una attività caratterizzata dalla spendita di poteri pubblicistici nell’esercizio di una pubblica funzione amministrativa125. Mentre per i meri comportamenti materiali la giurisdizione è certamente del G.O., si dovrebbe, invece, affermare la giurisdizione amministrativa per i comportamenti c.d. amministrativi, funzionalmente collegati all’esercizio di potestà pubblicistiche126. Questa seconda opzione ermeneutica appare preferibile in quanto certamente più aderente all’apparato motivazionale della decisione n. 204 del 2004. In presenza di quelli che abbiamo 122 In Foro amm-Tar, 2004, 1458 Foro amm.-Tar, 2007, 1491 124 Su tale sentenza sia consentito rinviare a R. GIOVAGNOLI, Il contenzioso in materia di servizi pubblici dopo la sentenza della Corte costituzionale 6 luglio 2004, n. 204, Milano, 2004. 125 Per tale distinzione, v., già prima della sentenza della Corte costituzionale, F. CARINGELLA, La trasformazione del territorio al vaglio esclusivo del giudice amministrativo, Relazione al Convegno annuale di studi amministrativo, Varenna, settembre 2003. In giurisprudenza cfr. Cons. St., sez. VI, 20 aprile 2004, n. 2221, secondo cui <<la nozione di controversie aventi ad oggetto i comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia di urbanistica ed edilizia deve essere interpretata in senso restrittivo, rientrando nella giurisdizione del giudice amministrativo solo i comportamenti in cui ricorra la sussistenza dei requisiti dell’esercizio di un pubblico potere (esplicazione della funzione amministrativa) e della rilevanza, legislativamente prevista, del potere dell’amministrazione: ad esempio, silenzio-rifiuto, D.I.A. e le altre ipotesi di inerzia o di attività legislativamente qualificata>>; Cass. Sez. Un., 6 giugno 2003, n. 9139, in Urbanistica e appalti, 2003, 1293 (con nota di R. CONTI), secondo cui <<nell’urbanistica (o nel edilizia) anche un comportamento tenuto dalla P.A. (o da un soggetto a questa equiparato) può assumere rilevanza giuridica come espressione di un potere amministrativo purché però sia ricollegabile ad un fine pubblico o di pubblico interesse legalmente dichiarato>>; Cass., Sez. Un., ord., 9 giugno 2004, n. 10978, che, proprio basandosi sulla distinzione tra comportamenti meramente materiali e “comportamenti amministrativi”, ha riconosciuto, anche prima della parziale dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 34 d.lgs. n. 80/98 ad opera della sentenza n. 204, la giurisdizione del G.O. per le azioni restitutorie a fronte di condotte realizzate in assenza di dichiarazione di p.u., precedentemente annullata dal G.A. 126 Sul tema v., da ultimo, R. GIOVAGNOLI, La giurisdizione sulla responsabilità della P.A.: danno da provvedimento e danno da comportamento, in Urbanistica e appalti, 2004, 1403 ss.; M.L. MADDALENA, Comportamenti della P.A. in materia di urbanistica e riparto di giurisdizione dopo Corte cost. 204/2004, ibidem, 2005, 81 ss. 123 43 definito “comportamenti amministrativi”, infatti, la decisione della controversia presuppone, comunque, un accertamento sul modo in cui il potere pubblico è stato esercitato: si tratta, quindi, di controversie, in cui, pur non essendo stato emanato un provvedimento amministrativo, viene in considerazione, per dirla con la Corte costituzionale, la pubblica amministrazione-autorità. Applicando tali principi in materia di silenzio della P.A. si deve, quindi, ritenere che dovranno essere conosciuti dal G.O. i comportamenti inerti rispetto ai quali il ricorrente può vantare una posizione di diritto soggettivo; andranno, invece, al G.A. i “silenzi” rispetto ai quali il ricorrente può vantare una posizione di interesse legittimo127. 9. Diniego espresso sopravvenuto nel corso del giudizio contro il silenzio-rifiuto Può accadere che, impugnato il silenzio-rifuto ex art. 21-bis legge n. 1034 del 1971, sopravvenga un diniego espresso da parte dell’amministrazione. Secondo una parte della dottrina, tale evenienza non dovrebbe determinare la cessazione della materia del contendere atteso che, ai sensi dell’art. 23, comma 7°, legge Tar, il Giudice può dichiarare cessata la materia del contendere solo se l’amministrazione provvede <<in modo conforme all’istanza dell’interessato>>. Alla luce di questa norma, si è allora sostenuto che l’emanazione, nel corso di un giudizio contro il silenzio-rifuto della P.A., di un diniego esplicito dell’istanza non determinerebbe la cessazione della materia del contendere, perché non soddisfa l’interesse fatto valere dal ricorrente. In tal caso, il privato potrà proporre motivi aggiunti contro il provvedimento sopravvenuto, previa conversione, però, del rito speciale di cui all’art. 21-bis legge n. 1034 del 1971 in rito ordinario, dato che con l’emanazione del provvedimento sopravvenuto vengono meno le ragioni che giustificano l’impiego del procedimento accelerato128. La soluzione ora descritta è stata, tuttavia, considerata impercorribile dalla prevalente giurisprudenza amministrativa, in relazione all’asserita autonomia del rito speciale sul silenziorifiuto che, perciò, non potrebbe essere convertito in un giudizio ordinario contro provvedimenti espressi129. L’orientamento in esame è stato confermato dalla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione proposta mediante motivi aggiunti, ai sensi dell’art. 21, legge n. 1034 del 1971, come sostituito dall’art. 1 legge n. 205/2000, volta a censurare un provvedimento di cui era stata acquisita la conoscenza in pendenza dello stesso ricorso avverso il silenzio a norma dell’art. 21-bis legge n. 1034 del 1971130. Pertanto, secondo tale indirizzo, instaurato il giudizio contro l’inerzia della pubblica amministrazione, qualora questa decida di esercitare finalmente il proprio potere, il ricorso contro il silenzio diventa improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (se l’istanza sia stata rigettata), ovvero la cessazione della materia del contendere (se l’istanza sia stata accolta e sia stato conseguito effettivamente il bene della vita al quale in concreto il ricorrente aspira). Infatti, ogni qualvolta l’amministrazione eserciti la funzione pubblica con un provvedimento espresso, viene meno l’esigenza di certezza sottesa alla ratio della norma di cui all’art. 21 bis l. Tar, sicché il giudice amministrativo, ante omnia, dovrà limitarsi a prenderne atto, con le consequenziali statuizioni processuali a seconda del contenuto del provvedimento esplicito; in questo frangente, dunque, sarà inibita ogni valutazione circa la fondatezza della pretesa sostanziale, che troverà la naturale sede di scrutinio nell’eventuale giudizio di legittimità che il richiedente insoddisfatto vorrà intraprendere131. 127 In questi termini cfr. C.E. GALLO, op. ult. cit., 172. In tal senso cfr. Cons. St., sez. V, 10 aprile 2002, n. 1974, in Dir. proc. amm., 2002, 1005 ss. 129 Cons. St., sez. V, 3 gennaio 2002, n. 12, in Foro amm.-Cons. St., 2002, 80, con nota di F. SATTA, Impugnazione cumulativa del silenzio e del provvedimento esplicito: una anomala ipotesi di inammissibilità derivata. 130 Cons. St., sez. V, 11 gennaio 2002, n. 144, in Dir. proc. amm., 2002, 1005 ss. 131 In tal senso v., da ultimo, Cons. St., sez. IV, 10 ottobre 2007 n. 5311, cit. 128 44 Sulla base di considerazioni analoghe a quella appena esaminate, la giurisprudenza prevalente è orientata nel senso di ritenere inammissibile, escludendone la conversione in ricorso ordinario, il ricorso ex art. 21-bis legge n. 1034 del 1971 che, sin dall’origine, proponga cumulativamente la domanda di accertamento del silenzio della P.A. e la domanda di annullamento di provvedimenti amministrativi connessi132. L’orientamento contrario alla conversione del rito speciale in rito ordinario suscita alcune perplessità133. Come è stato ben evidenziato134, infatti, il rito camerale ben può essere convertito in un rito ordinario, essendo ciò espressamente previsto, per esempio, con riferimento al giudizio di ottemperanza, che, a richiesta di una delle parti, si converte da rito camerale in rito ordinario. Ebbene, così come nel giudizio di ottemperanza la ragione della trasformazione consiste nella emersione di profili più complessi per i quali è necessario seguire il rito della pubblica udienza piuttosto che il rito della camera di consiglio, così, nel giudizio sul silenzio, la conversione può essere proprio la conseguenza dell’emergere di questioni più complesse rispetto all’accertamento del semplice silenzio, come accade, appunto, quando viene emanato un diniego espresso135. Né, in senso contrario, vale affermare che la conversione dei riti è un istituto non previsto in via generale nel processo amministrativo e, quindi, non può trovare applicazione laddove non espressamente previsto: la conversione dei riti, infatti, così come la conversione degli atti, si fonda sul principio di carattere generale della strumentalità delle forme, che è espresso come principio generale nel codice di procedura civile agli art. 156 ss. La forme dei riti, in altri termini, non sono un valore in sé ma sono un valore strumentale, in quanto consentono al processo di svilupparsi secondo la connotazione più aderente alla funzione sua propria, che è quella di risolvere le controversie. Il principio di strumentalità delle forme, quindi, ben giustifica la trasformazione del giudizio sul silenzio in un giudizio di impugnazione, allorché se ne verifichino i presupposti: trasformazione che può avvenire sia con provvedimento collegiale, costituito da una sentenza parziale che decida sul silenzio e da un’ordinanza che disponga la prosecuzione del giudizio secondo il rito ordinario, oppure, alla luce del principio di economicità, costituito soltanto da una ordinanza che rimetta alla decisione definitiva anche la pronunzia sul silenzio136. Laddove, invece, il provvedimento di diniego sopravvenuto non venga impugnato la contesa avrà termine, ma non, come a volte afferma la giurisprudenza, per cessazione della materia del contendere, bensì, dato il mancato soddisfacimento dell’interesse sostanziale del ricorrente, per improcedibilità dovuta a sopravvenuta carenza di interesse137. 10. Natura giuridica del commissario ad acta nominato in sede di ricorso avverso il silenzio-rifiuto Dottrina e giurisprudenza sono state a lungo impegnate nella qualificazione giuridica del commissario ad acta, incontrando in tale opera ricostruttiva notevoli difficoltà, in parte dovute alla stessa duplicità di natura del giudizio di ottemperanza, ora ricondotto all’attività giurisdizionale ora all’attività amministrativa. 132 Cfr., da ultimo, Cons. St., sez. IV, 23 aprile 2004, n. 2386, in Urbanistica e appalti, 2004,926, con nota di C.E. GALLO. 133 Cfr. C.E. GALLO, Il giudizio avverso il silenzio della P.A., la cumulabilità delle azioni e la convertibilità dei riti, in Urbanistica e appalti, 2004, n. 8, 926 ss.. 134 C.E. GALLO, Il giudizio avverso il silenzio della P.A., cit., 928. 135 C.E. GALLO, op. ult. cit., 928. 136 C.E. GALLO, op. ult. cit., 928. 137 In questi termini cfr. P. NUMERICO, Cessazione della materia del contendere, cit., 5. 45 Sul tema si segnala un recente arresto della Sesta Sezione del Consiglio di Stato che, con la decisione 25 giugno 2007, n. 3602138 , chiamata a stabilire se il commissario ad acta dovesse essere destinatario della notifica dell’appello avverso il provvedimento giudiziale che ne dispone la nomina, ha ricostruito il dibattito dottrinale e giurisprudenziale esistente sul tema Come è noto, con riferimento alla natura giuridica del commissario ad acta sono state prospettate tre tesi: organo straordinario ausiliario del giudice; organo straordinario dell’amministrazione; organo misto, per alcuni aspetti ausiliario dell’amministrazione e per altri del giudice. Se per il commissario ad acta nominato in sede di ottemperanza per l’esecuzione del giudicato, prevale la tesi secondo cui si tratta di un organo ausiliario del giudice (tesi che ha ricevuto anche l’importante avallo dell’Adunanza plenaria n. 23 del 1978), il dibattito è, invece, tutt’ora aperto per quella speciale figura di commissario ad acta nominato, ai sensi dell’art. 21 bis, legge n. 1034 del 1971, per porre rimedio alla persistente inerzia dell’Amministrazione. In questo caso, infatti, secondo la tesi preferibile, non si ha un vero e proprio giudizio di ottemperanza, tant’è che l’art. 21 bis non rinvia alle norme sul giudizio di ottemperanza, ma si limita a prevedere la nomina di un commissario ad acta. Si ha, più propriamente, una ottemperanza "anomala" o "speciale", dove la specialità risiede nella circostanza che si prescinde dal passaggio in giudicato della sentenza, e, soprattutto si ammette l’intervento del commissario nell’ambito del medesimo processo, senza più bisogno di un ricorso ad hoc, essendo sufficiente una semplice istanza al giudice che ha dichiarato l’illegittimità del silenzio. Anzi, proprio prendendo atto della unitarietà che ormai lega la fase di cognizione sull’inadempimento dell’amministrazione e la successiva fase esecutiva, la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto la possibilità, se l’interessato ne fa richiesta, di disporre in via contestuale l’ordine di provvedere e la nomina del commissario ad acta, il quale, in questi entrerà in funzione non subito, ma solo quando si protragga l’inerzia dell’Amministrazione (Cons. Stato, sez. V, n. 30/2002). Ma la specialità di questa forma di ottemperanza deriva anche dal fatto che il commissario ad acta nominato ai sensi dell’art. 21 bis, comma 2, legge n. 1034 del 1971, può assumere un ruolo del tutto inedito, in quanto la sua attività può non essere volta al completamento ed all’attuazione del dictum giudiziale recante direttive conformative dell’attività amministrativa, ma può atteggiarsi come attività di pura sostituzione, in un ambito di piena discrezionalità, non collegata alla decisione se non per quanto attiene al presupposto dell’accertamento della prolungata inerzia dell’amministrazione. Ed infatti, anche dopo le modifiche apportate dalla legge n. 80/2005 all’art. 2 della legge n. 241/1990, il giudice amministrativo, chiamato a giudicare sul ricorso contro il silenzio-rifiuto della p.a., può limitarsi a dichiarare l’esistenza dell’obbligo di provvedere, senza svolgere però alcuna valutazione in ordine alla fondatezza della pretesa sostanziale dell’istante. Questo può accadere o perché il ricorrente non chiede il giudizio sulla fondatezza della pretesa, o perché il giudice ritiene, a torto o a ragione, che non vi siano i presupposti per esercitare tale sindacato, perché il provvedimento richiesto dal privato involge valutazioni discrezionali dell’Amministrazione. Non a caso, l’art. 2 legge n. 241/1990 prevede che il giudice "può conoscere della fondatezza dell’istanza", configurando, quindi, il sindacato sul rapporto come una eventualità, e non come una componente necessaria della sentenza sul silenzio. Ed allora, in tutti i casi in cui il giudice amministrativo si sia limitato soltanto a dichiarare l’obbligo di provvedere, senza vincolare in alcun modo la successiva attività amministrativa, il commissario ad acta, nominato in caso di persistente inerzia della p.a., viene a disporre di uno spazio di libertà sicuramente sconosciuto all’analoga figura nominata in sede di esecuzione al giudicato. Non vi è, infatti, una vera e propria sentenza di ottemperanza, ma un semplice atto di 138 In www.lexitalia.it 46 nomina, con cui il giudice non dice all’amministrazione come deve provvedere, ma demanda tutto all’organo amministrativo straordinario che è il commissario. Si ha qui, allora, un commissario che assomiglia più ad un organo dell’Amministrazione che ad un ausiliario del giudice. Quella appena prospettata è una plausibile ricostruzione del dato positivo. E’ tuttavia senz’altro possibile, come la migliore dottrina non ha mancato di evidenziare, una diversa ricostruzione, secondo cui l’art. 21 bis contemplerebbe un vero e proprio giudizio di ottemperanza: il previsto atto di nomina sarebbe una vera e propria sentenza di ottemperanza in cui il giudice detta anche le direttive per l’operato dell’Amministrazione. Ricostruita la norma, in questi termini, si avrebbe almeno nella fase esecutiva del giudizio, un vero e proprio giudizio di merito e il commissario dovrebbe essere qualificato come ausiliario del giudice, o, al più, come un organo misto. Quale che sia la tesi che si ritenga di accogliere, con le conseguenze evidenziate in ordine alla natura giuridica del commissario ad acta, non vi può, comunque, essere dubbio sul fatto, coem ha rilevato la citata decisione della VI Sezione n. 3602/2007, che quest’ultimo non rivesta la qualifica di controinteressato nel giudizio di appello avverso il provvedimento giudiziale che lo nomina. Accogliendo la prima delle sopra riportate opzioni interpretative, infatti, il commissario andrebbe qualificato come organo straordinario dell’Amministrazione e, quindi, l’appello non dovrebbe essergli notificato per essere la sua attività riferibile alla stessa pubblica amministrazione esecutata. Accogliendo la seconda opzione, egli sarebbe, quale ausiliario del giudice, un organo paragiurisdizionale, ed ugualmente l’atto di appello non gli andrebbe notificato, per le stesse ragioni per le quali non si è mai dubitato che l’appello non debba essere notificato al giudice che ha emesso la sentenza impugnata o agli ausiliari dallo stesso nominati. 47