il rito speciale avverso il silenzio della pubblica amministrazione

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IL RITO SPECIALE AVVERSO IL SILENZIO
DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
(Roberto Giovagnoli)
Sommario: 1. La tutela contro il silenzio-rifiuto della P.A.: osservazioni generali. - 2. Il presupposto per la formazione
del silenzio-rifiuto: l’esistenza di un obbligo di provvedere. - 2.1. L’obbligo di provvedere può nascere in assenza di una
norma espressa previsione legislativa che “tipizza” l’istanza del privato - 2.2. La tripartizione operata dalla
giurisprudenza - 2.2.1. Istanze dirette ad ottenere atti di contenuto favorevole - 2.2.2. Istanze di riesame di precedenti
atti non impugnati - 2.2.3. Istanze dirette ad ottenere l’esercizio di poteri repressivi verso terzi - 3. Il procedimento di
formazione del silenzio-rifiuto: il problema della necessità della diffida prima dell’art. 2 legge n. 15 del 2005 e dell’art.
3, comma 6-bis d.l. n. 35/2005 (convertito in legge n. 80/2005). – 3.1. La necessità della diffida dopo l'art. 2 legge n.
205/2000 – 3.2 Le novità introdotte dall’art. 2 legge n. 15/2005 e dall’art. 3, comma 6-bis, d.l. n. 35/2005 (convertito in
legge n. 80/2005): non è più necessaria la diffida.– 3.3. Gli argomenti a sostegno della scelta compiuta dal legislatore –
3.4. La diffida facoltativa e la diffida diretta a far valere la responsabilità del funzionario – 4. Il termine per ricorrere
prima della legge n. 15/2005 e della legge n. 80/2005: la giurisprudenza prevalente applica il termine di decadenza –
4.1. Un orientamento minoritario: il termine per impugnare si rinnova de die in diem finché dura l’inerzia – 4.2. La tesi
che applica il termine di prescrizione e le relative obiezioni – 5. Le novità in materia di termine per ricorrere contenute
nelle leggi n. 15/2005 e n. 80/2005 – 5.1. La riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento – 6. L'oggetto del
sindacato giurisdizionale nel ricorso contro il silenzio-rifiuto: l’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale fino alla legge
n. 80/2005 – 6.1. La I fase: la giurisprudenza nega il sindacato sulla fondatezza dell’istanza – 6.2 La II fase: la decisione
dell’Adunanza Plenaria n. 10 del 1978 e la successiva evoluzione giurisprudenziale fino alla legge n. 205/2000 – 6.3.
La III fase: l'oggetto della sindacato giurisdizionale nel ricorso contro il silenzio-rifiuto dopo l'art. 2 l. n. 205/2000. La
lettura restrittiva accolta dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 9 gennaio 2002, n. 1 – 6.3.1.
Osservazioni sulla soluzione accolta dall'Adunanza Plenaria n. 1 del 2002 – 6.3.2.La tendenza di una parte della
giurisprudenza ad ampliare l’oggetto del sindacato giurisdizionale. – 6.3.3. La lettura estensiva del rito previsto dall’art.
2 legge n. 205/2000: il ricorso contro il silenzio come nuova ipotesi di giurisdizione di merito – 6.3.4. Le tesi che
individuano due riti per i ricorsi contro il silenzio – 6.4. La IV fase: la riscrittura dell’art. 2 legge n. 241/1990 ad opera
dell’art. 3, comma 6-bis d.l. n. 35/2005 (convertito in legge n. 80/2005). – 6.4.1. Il giudice amministrativo <<può
conoscere della fondatezza dell’istanza>>: facoltà di scelta o potere-dovere? – 6.4.2. Una nuova ipotesi di giurisdizione
di merito? – 6.4.3. I limiti del potere del G.A. di conoscere il merito della pretesa. 6.4.4. La verifica della fondatezza
della pretesa solo in caso di attività vincolata – 6.4.5. Il Consiglio di Stato chiarisce i poteri del giudice amministrativo
nel rito del silenzio: la sentenza della Sez. IV, 10 ottobre 2007 n. 5311. - 7. L'ambito oggettivo di applicazione del rito
speciale contro il silenzio della P.A.: il problema del silenzio significativo, del silenzio-rigetto, del silenzio su istanze
volte a far valere diritti soggettivi – 8. Ricorso contro il silenzio e riparto di giurisdizione – 9. Diniego espresso
sopravvenuto nel corso del giudizio contro il silenzio-rifiuto. – 10. Natura giuridica del commissario ad acta nominato
nel ricorso avverso il silenzio
1.
La tutela contro il silenzio-rifiuto della P.A.: osservazioni generali.
Le questioni che tradizionalmente si pongono nel dibattito giurisprudenziale e dottrinale 1
relativo alla tutela del privato contro l’inerzia non qualificata della P.A. riguardano principalmente:
- il procedimento di formazione del silenzio: se, dopo l'espressa previsione di un termine per
provvedere da parte dell'art. 2 l. n. 241/1990, sia ancora necessario il complesso procedimento di
formazione del silenzio-rifiuto di cui all'art. 25 T.U. n. 3/1957 o se, invece, ne sia stato introdotto
uno più semplice, basato sul solo decorso del termine, senza necessità di presentare apposita diffida
formale;
- il termine d'impugnativa: se il privato sia soggetto all'ordinario termine di decadenza o,
invece, possa rivolgersi al G.A. fino a quando persista l'inadempimento della P.A., rimanendo in
capo a questa il potere-dovere di pronunciarsi sull'istanza;
1
Sul tema, per una rassegna della dottrina e della giurisprudenza, sia consentito rinviare a R. GIOVAGNOLI, I
silenzi della Pubblica Amministrazione dopo la legge n. 80/2005, Milano, 2005
1
- l’intensità del sindacato consentito al G.A.: se <<il giudice amministrativo debba decidere i
ricorsi avverso il silenzio-rifiuto, soltanto controllando il calendario, per dichiarare che scaduti i
termini, bisognava e bisognerà provvedere oppure se debba valutare, nei limiti consentiti, la
fondatezza della domanda>>2.
L’art. 2 l. n. 205/2000, nel prevedere un rito accelerato per i ricorsi contro il silenzio della
P.A., non ha affrontato direttamente nessuna di queste tematiche anche se, con particolare
riferimento all'ultima delle questioni indicate (quella concernente l’intensità del sindacato), ha avuto
l’effetto di riaprire un dibattito che sembrava aver trovato una soluzione definitiva dopo
l'accoglimento da parte della giurisprudenza del Consiglio di Stato dell'orientamento volto ad
estendere, almeno nei casi di attività vincolata, il sindacato del giudice fino all'accertamento della
pretesa sostanziale del ricorrente. Tale dibattito, come vedremo, è sfociato nell’adesione da parte
dell’Adunanza Plenaria (decisione n. 1 del 2002) alla tesi più restrittiva che esclude ogni sindacato
da parte del G.A. sulla fondatezza della pretesa, anche in caso di attività vincolata.
Di recente, tuttavia, il legislatore è tornato a disciplinare il silenzio non qualificato della
pubblica amministrazione dando una risposta definitiva a molte delle questioni sopra richiamate.
Si fa riferimento, in particolare, all’art. 2 legge 15 febbraio 2005, n. 15 e, soprattutto, all’art.
3, comma 6-bis, d.l. n. 35/2005 (convertito in legge 14 maggio 2005, n. 80) che ha riscritto ex novo
l’art. 2 legge n. 241/1990.
Il nuovo testo dell’art. 2 legge n. 241/1990, quale risultante dalle modifhce apportate dalla
legge n. 80/2005, chiarisce che ai fini della formazione del silenzio-rifiuto non è più necessaria la
diffida e che la il ricorso contro il silenzio-rifiuto può essere proposto finché dura l’inerzia della
P.A. e comunque non oltre un anno dalla scadenza del termine per provvedere. Inoltre,
disattendendo l’orientamento accolto dall’Adunanza Plenaria con la già citata decisione n. 1 del
2002, attribuisce espressamente al G.A. il potere di <<conoscere della fondatezza dell’istanza>>.
2. Il presupposto per la formazione del silenzio-rifiuto: l’esistenza di un obbligo di provvedere
Non vi è dubbio che è solo in presenza di un obbligo di provvedere che l’inerzia
dell’Amministrazione assume rilevanza giuridica sub specie di silenzio-rifiuto.
Occorre, pertanto, individuare preliminarmente le fattispecie dalle quali sorge in capo in
capo alla Pubblica Amministrazione un obbligo di pronunciarsi sulle istanze dei privati.
Sul punto si registra un recente arresto del Consiglio di Stato (sez. VI, 11 maggio 2007 n.
3
2318) che individua le ipotesi in cui dall’istanza del privato nasce un obbligo di provvedere in capo
alla p.a.
L’obbligo di provvedere, secondo il Collegio, sussiste, anzitutto, quando la legge
espressamente riconosca al privato il potere di presentare un’istanza, così riconoscendogli la
titolarità di una situazione qualificata e differenziata. Di fronte alle istanze dei privati vi è sempre
un obbligo di provvedere se l’iniziativa nasce da una situazione soggettiva protetta dalle norme, se
cioè è prevista dalla legge.
2.1. L’obbligo di provvedere può nascere in assenza di una norma espressa previsione legislativa
che “tipizza” l’istanza del privato
Ciò premesso, la sentenza (2318/2007) si chiede se l’obbligo di provvedere possa essere
configurato anche in assenza di una espressa previsione legislativa che "tipizzi" l’istanza del
privato.
2
E. CANNADA BARTOLI, Ricorso avverso il silenzio-rifiuto e mutamento della domanda, in Foro amm.,
1993, 310.
3
In www.lexitalia.it
2
Al quesito appena formulato la Sesta Sezione dà risposta positiva sulla base delle seguenti
considerazioni.
Ormai da tempo, infatti, la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, partendo dal principio
generale della doverosità dell’azione amministrativa, ed integrandolo con le regole di
ragionevolezza e buona fede, tendono ad ampliare l’ambito delle situazioni in cui vi è obbligo di
provvedere, al di là di quelle espressamente riconosciute dalla legge.
Si afferma, cosi, che esiste l’obbligo di provvedere, oltre che nei casi stabiliti dalla legge, in
fattispecie ulteriori nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongono l’adozione di un
provvedimento. Si tende, in tal modo, ad estendere le possibilità di protezione contro le inerzie della
Amministrazione pur in assenza di una norma ad hoc che imponga un dovere di provvedere.
Espressione di tale orientamento è, ad esempio, Cons. Stato, sez. IV, 14 dicembre 2004, n.
7975 secondo cui <<indipendentemente dall’esistenza di specifiche norme che impongano ai
pubblici uffici di pronunciarsi su ogni istanza non palesemente abnorme dei privati, non può
dubitarsi che, in regime di trasparenza e partecipazione, il relativo obbligo sussiste ogniqualvolta
esigenze di giustizia sostanziale impongano l’adozione di un provvedimento espresso, in ossequio
al dovere di correttezza e buona amministrazione (art. 97 Cost.), in rapporto al quale il privato vanta
una legittima e qualificata aspettativa ad un’esplicita pronuncia>>.
Appurato che l’obbligo di provvedere può nascere anche in assenza di una norma che
consenta espressamente al privato di presentare una istanza all’Amministrazione, occorre compiere
uno sforzo ricostruttivo ulteriore, per verificare se tra queste fattispecie non tipizzate da cui nasce
l’obbligo di provvedere vi sia anche quella oggetto del presente giudizio.
2.2. La tripartizione operata dalla giurisprudenza
Al riguardo, la Sesta Sezione, nella citata sentenza n. 2318/2007, distingue tre categorie di
atti amministrativi alla cui emanazione in cittadino può avere interesse, per poi verificare, in
relazione a ciascuna di esse, se esiste, a fronte dell’istanza del privato, il correlativo obbligo di
provvede in capo alla P.A.
Viene, in particolare, operata una distinzione tra istanza volte ad ottenere: 1) atti di
contenuto favorevole in quanto ampliano la sfera giuridica del richiedente; 2) il riesame di atti
sfavorevoli precedentemente emanati; 3) atti diretti a produrre effetti sfavorevoli nei confronti di
terzi, dall’adozione dei quali il richiedente possa trarre indirettamente vantaggi (c.d. interessi
strumentali).
2.2.1. Istanze dirette ad ottenere atti di contenuto favorevole
Quanto alla prima categoria, l’istanza diretta ad ottenere un provvedimento favorevole
determina un obbligo di provvedere quando chi la presenta sia titolare di un interesse legittimo
pretensivo. Non è seriamente dubitabile, infatti, che colui che ha un interesse differenziato e
qualificato ad un bene della vita per il cui conseguimento è necessario l’esercizio del potere
amministrativo sia titolare di una situazione giuridica che lo legittima, pur in assenza di una norma
specifica che gli attribuisca un autonomo diritto di iniziativa, a presentare un’istanza dalla quale
nasce in capo alla P.A. quantomeno un obbligo di pronunciarsi.
Anche in questi casi, tuttavia, l’obbligo di provvedere, pur sussistendo in astratto, può
risultare mancante in concreto. Ciò accade, ad esempio, secondo alcune pronunce, quando la
domanda inoltrata dal privato sia manifestamente infondata o esorbitante dall’ambito delle pretese
astrattamente riconducibili al rapporto amministrativo.
2.2.2. Istanze di riesame di precedenti atti non impugnati
3
Quanto alla seconda categoria di istanze (quelle di riesame di precedenti atti non impugnati),
secondo un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, l’istanza del privato mirante ad ottenere
il riesame da parte della Pubblica amministrazione di un atto autoritativo, non impugnato
tempestivamente dal medesimo, non comporta, di regola, la configurazione di un obbligo di
riesame, in quanto tale obbligo inficerebbe, tra l’altro, le ragioni di certezza delle situazioni
giuridiche e di efficienza gestionale che sono alla base dell’agire autoritativo della Pubblica
Amministrazione e della inoppugnabilità dopo il termine di decadenza dei relativi atti.
2.2.3. Istanze dirette ad ottenere l’esercizio di poteri repressivi verso terzi
Maggiormente problematica è proprio la terza categoria di istanze.
Laddove il privato sollecita l’esercizio di poteri sfavorevoli (repressivi, inibitori,
sanzionatori) nei confronti di terzi non è sempre agevole distinguere tra l’istanza che fa nascere
l’obbligo di provvedere e il semplice "esposto", che ha mero valore di denuncia inidonea a radicare
una posizione di interesse tutelata sia dall’apertura del procedimento conclusivo, sia dalla
conclusione dello stesso in modo conforme alle aspettative dell’istante.
Al riguardo, il criterio distintivo tra istanza (idonea a radicare il dovere di provvedere) e
mero esposto, deve essere ravvisato, secondo la citata decisione n. 2318/2007, nell’esistenza in capo
al privato di uno specifico e rilevante interesse che valga a differenziare la sua posizione da quella
della collettività.
Occorre, in altri termini, che il comportamento omissivo dell’Amministrazione sia
stigmatizzato da un soggetto qualificato, in quanto, per l’appunto, titolare di una situazione di
specifico e rilevante interesse che lo differenzia da quello generalizzato di per sé non
immediatamente tutelabile. Ove ciò accada, l’eventuale inerzia serbata dall’Amministrazione
sull’istanza, assume una connotazione negativa e censurabile dovendo l’Ente dar comunque seguito
(anche magari esplicitando l’erronea valutazione dei presupposti da parte dell’interessato)
all’istanza.
3.
Il procedimento di formazione del silenzio-rifiuto: il problema della necessità della
diffida prima dell’art. 2 legge n. 15 del 2005 e dell’art. 3, comma 6-bis d.l. n. 35/2005
(convertito in legge n. 80/2005).
Per quanto riguarda il procedimento di formazione del silenzio-rifiuto, l’orientamento
tradizionale, a partire dalla sentenza n. 10 del 1978 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato,
riteneva applicabile ad esso, per analogia, la normativa dettata dall'art. 25 T.U. sugli impiegati civili
dello Stato. Per poter proporre ricorso contro il silenzio-rifiuto occorreva, quindi, che all'originaria
istanza del privato seguisse una procedura di constatazione dell'omissione attraverso una diffida
giudizialmente notificata contenente l'espressa intimazione che, decorso il termine minimo di trenta
giorni, sarebbe stata adita l'autorità giudiziaria.
L'applicabilità della procedura imperniata sulla diffida è stata, tuttavia, messa in dubbio sin
dall’entrata in vigore dell'art. 2 legge n. 241/1990. Una parte della dottrina4 e della giurisprudenza5
4
Cfr. in tal senso V. CERULLI IRELLI, Corso di diritto amministrativo, Milano, 2000, 502; M. CLARICH,
Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, 1995, 145 ss.; F. CASTIELLO, Il nuovo modello
di amministrazione, Rimini, 1998, 376; G. MORBIDELLI, Il procedimento amministrativo, in AA. VV.,
Diritto amministrativo, vol. II, 1998, 1355; ID., Commento agli artt. 1, 2, 3 l. 241/1990, in Prime note, 1990,
20 ss.; S. PELILLO, Il ricorso avverso il silenzio dell'amministrazione, in www.lexitalia.it, 2001, n. 9; E.
SCHINAIA, Notazioni sulla nuova legge sul procedimento amministrativo e attività soggette ad
autorizzazione, in Dir. Proc. Amm., 1991, 196; F.G. SCOCA, M. D'ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, in
Dir. Proc. Amm., 1995, 410; B.E. TONOLETTI, Silenzio della Pubblica Amministrazione, in Dig. disc. pub.,
4
riteneva, infatti, che questa norma, introducendo un sistema di predeterminazione dei termini per la
conclusione del procedimento, avesse fatto venire meno la ragione principale della diffida,
consistente, appunto, nell'individuare con certezza un termine finale, decorso il quale l'omissione
diventa inadempimento sindacabile di fronte al G.A.
Si è affermato, allora, che scaduto il termine di cui all'art. 2 della legge n. 241/1990 (o
previsto nei regolamenti attuativi dell'articolo 2), il silenzio della P.A. dovesse considerarsi già
ontologicamente illecito, rendendo così superflua ogni ulteriore attività procedurale, e soprattutto la
diffida a provvedere.
L'orientamento in esame, che consentiva al privato di ricorrere senza la necessità della
previa notifica di un atto di diffida, è stato, tuttavia, respinto dalla giurisprudenza prevalente 6, la
quale era ferma nel ritenere che l'azione giurisdizionale contro il silenzio-rifiuto non potesse essere
esperita senza che prima fosse prospettata all'Amministrazione, mediante la notifica di un atto ad
hoc, la possibilità di essere convenuta in giudizio.
A sostegno di questo assunto, si osservava come la diffida, lungi dall'essere una mera
formalità, svolge sia una funzione deflattiva del contenzioso, in quanto fissa il termine entro cui
l'amministrazione può evitare l'insorgenza della lite provvedendo in senso conforme alla pretesa del
privato, sia, soprattutto, una funzione garantistica, in quanto, impedendo il decorso immediato del
termine di decadenza per l'impugnazione allo scadere del termine del procedimento, evita che il
silenzio-rifiuto diventi inoppugnabile senza che l'interessato fosse a conoscenza della sua
formazione7.
vol. XIV, Torino, 1995, 156; P.M. VIPIANA, Osservazioni sull'attuale disciplina del silenzio-inadempimento
della pubblica amministrazione, in Studi Benvenuti, vol. IV, Modena, 1996, 1719.
5
Cfr. T.a.r. Campania, Salerno, 13 marzo 2001, n. 247, in www.giustizia-amministrativa.it; T.a.r. Catania,
sez. II, 10 febbraio 2001, n. 293, in www.diritto.it; T.a.r. Reggio Calabria, 23 novembre 2000, n. 1596, in
Trib. amm. reg., 2001, 395; T.A.R. Reggio Calabria, 23 maggio 2000, n. 774, in Trib. amm. reg., 2000,
3448; T.a.r. Lazio, sez. II, 17 marzo 2000, n. 1970, in Trib. amm. reg., 2000, 1728; T.a.r. Marche, 25
settembre 1999, n. 1041, in Trib. amm. reg., 1999, 4413; T.a.r. L'Aquila, 16 marzo 1999, n. 138, in Trib.
amm. reg., 1999, 2009; T.a.r. Calabria, Catanzaro, 17 dicembre 1996, n. 899, in Trib. amm. reg., 1996, I,
572; T.a.r. Puglia, Lecce, sez. I, 25 giugno 1996, n. 574, in Foro amm., 1997, 586.
6
Cfr. Cons.Giust.Amm., 23 dicembre 1999, n. 665, in Cons. Stato, 1999, I, 2192; Cons. St., sez. IV, 2
giugno 1998, n. 113, in Cons. Stato, 1998, I, 1048; Cons. St., sez. V, 18 novembre 1997, n.1131, in Cons.
Stato, 1997, 1560; Cons. St., sez. V, 15 settembre 1997, n. 980, in Foro amm., 1997, 3044; Cons. St., 14
luglio 1997, n. 820, in Cons. Stato, 1997, 1041. In tal senso v. anche la circolare del Ministro della Funzione
Pubblica 8 gennaio 1991 n. 60397-7/463, secondo cui <<la legge n. 241 non dispone nel senso della
qualificazione dell'inerzia imputabile all'amministrazione, pertanto è necessario seguire la procedura per la
determinazione del silenzio-rifiuto imputabile all'amministrazione>>.
7
Emblematica in tal senso la sentenza n. 10 del 1978 dell'Adunanza Plenaria secondo cui eliminare la diffida
sarebbe dannoso non soltanto per >>l'amministrazione, che non sempre è tecnicamente in grado di
concludere il procedimento in novanta giorni, ma anche per il privato, che sarebbe esposto al continuo
pericolo di una scadenza automatica spesso ignota, ed infine per la collettività, che vedrebbe inevitabilmente
moltiplicasi il contenzioso>>. In dottrina, sottolineano la funzione garantistica della diffida P.G. LIGNANI,
Silenzio (dir. amm.), in Enc. dir., vol. XLII, Milano, 1990, 567, nota 26, il quale rileva come la mancanza
della diffida <<potrebbe risolversi in un trabocchetto per il privato, non tenuto a conoscere le sottigliezza del
diritto e dunque esposto al rischio di scoprirsi decaduto dalla possibilità di ricorrere al giudice, avendo la sola
colpa di aver atteso fiduciosamente un provvedimento che ritiene (magari a ragione) dovuto>>; G.B.
GARRONE, Silenzio della P.A. (ricorso giurisd. amm.), in Dig. disc. pub., vol. XIV, Torino, 1998, 197. In
senso difforme, cfr. S. PELILLO, Il ricorso avverso il silenzio dell'amministrazione, cit., 7, secondo il quale i
rischi connessi alla formazione automatica del silenzio potrebbero essere risolti valorizzando la
comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 l. n. 241/1990. Secondo l'Autore, in particolare,
<<dovrebbe non risultare estraneo agli incombente di cui all'art. 7 della stessa l. 241, far conoscere il tempo
di durata della sommatoria di tutte le fasi, a partire dalla iniziativa, istruttoria, decisoria e fors'anche della
integrazione dell'efficacia ed, in assenza riconoscere la scusabilità dell'errore>>. Sul punto v. anche F.
CASTIELLO, Il nuovo modello di amministrazione, cit., 382, per il quale il rischio di una scadenza automatica,
5
Il mantenimento in vita del tradizionale sistema di formazione del silenzio incentrato sulla
notifica della diffida, inoltre, era ritenuto anche idoneo ad assicurare un equilibrato coordinamento
dell'art. 2 della legge n. 241/1990 con la disposizione dell'art. 328 del codice penale, in tema di
omissione di atti d'ufficio: <<se non si vuole che il termine fissato per la conclusione del
procedimento dall'art. 2 della legge 241 o dai regolamenti delle singole amministrazioni venga a
sovrapporsi, coincidendovi perfettamente, con il termine di pari durata stabilito dalla norma penale
quale momento costitutivo per la realizzazione della condotta antigiuridihca qualificata come
omissione di atti d'ufficio>>, è, infatti, necessario <<che questo secondo termine sia identificabile
proprio con quello che l'interessato ha assegnato all'Amministrazione attraverso l'atto di diffida
ritualmente notificato alla medesima>>8.
In senso favorevole al mantenimento della diffida anche dopo l’art. 2 della legge n.
241/1990 si era espresso poi il Ministero della Funzione Pubblica, con circolare 8 gennaio 1991, n.
60397/7493, in cui si specificava che l’art. 2 non incideva sull’applicabilità del procedimento di cui
all’art. 25 T.U. n. 3 del 1957, in quanto non <<dispone nel senso della qualificazione dell’inerzia
imputabile all’amministrazione>>
Nel tentativo di conciliare le esigenze sottese ai due opposti indirizzi interpretativi, una parte
della dottrina9 aveva prospettato una soluzione intermedia, non accolta tuttavia dalla
giurisprudenza, in forza della quale la diffida sarebbe stata necessaria soltanto nei casi in cui, in
assenza di una predeterminazione legislativa o regolamentare del tempo del procedimento, dovesse
trovare applicazione il termine di trenta giorni previsto in via residuale dall'art. 2 legge n. 241/1990.
In questo caso, infatti, <<attraverso il meccanismo della diffida si porrebbe l'Amministrazione nelle
condizioni di rappresentare le proprie esigenze di tempo; sicché si otterrebbe una maggiore
flessibilità dell'istituto ed una maggiore adattabilità del silenzio alle caratteristiche del procedimento
in itinere>>10.
3.1.
La necessità della diffida dopo l'art. 2 legge n. 205/2000.
La tesi della non necessità della diffida è stata riproposta traendo spunto dalla disciplina del
rito speciale per il ricorso avverso il silenzio introdotta dall'art. 2 legge n. 205/200011.
spesso ignota del termine per provvedere <<scema di importanza nel nuovo quadro normativo
contrassegnato dall'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento (obbligatoria nei procedimenti
d'ufficio, salvo particolari esigenze di celerità) e dalla certezza del tempo nella condotta amministrativa
affidata alle fonte legislativa o a quella regolamentare, entrambe oggetto di pubblicazione e di (sia pur
presunta) conoscenza da parte del privato>>.
8
Così G.B. GARRONE, Silenzio della P.A. (ricorso giurisd. amm.), cit., 198, cui appartengono le frasi citate
nel testo.
9
F.G. SCOCA, La tutela processuale del silenzio della pubblica amministrazione, cit., 90; S. PELILLO, Il
ricorso avverso il silenzio, cit., 8; I. FRANCO, Trasparenza, motivazione e responsabilità; partecipazione e
diritto all'accesso nella l. n. 241/1990. Rapporti con preesistenti normative, in Foro amm., 1992, 1291.
10
Cfr. F.G. SCOCA, La tutela processuale del silenzio della pubblica amministrazione, cit., 89.
In questi termini cfr. C. CRISCENTI, Il rito del silenzio nel nuovo processo amministrativo, in Urbanistica e
appalti, 2001, n. 6, 653, secondo cui è il nuovo rito la risposta immediata dell'ordinamento alla violazione
dell'obbligo di provvedere in un dato termine: <<il rito avverso il silenzio, come oggi disciplinato,
diverrebbe un inutile doppione del sub-procedimento attivato con la diffida e l'obiettivo di fondo, comune a
quelle espresso più di dieci anni or sono dall'art. 2 l. 241/90, che è appunto quello di dare al privato una
risposta alla propria domanda in tempi ragionevoli, verrebbe vanificato se si ritenesse ancora che, dopo il
maturarsi del termine fissato dal regolamento o dalla legge per l'adozione dell'atto, il privato debba notificare
all'amministrazione un atto di messa in mora in cui le assegni un ulteriore termine non inferiore a trenta
giorni per provvedere, scaduto il quale potrà adire l'autorità giudiziaria, la quale esaminato favorevolmente il
ricorso, dovrà a sua volta assegnare all'amministrazione un ulteriore termine, di norma non superiore a trenta
11
6
A questa conclusione si è giunti sulla base di considerazioni di carattere funzionale,
sistematico e teleologico12
Sul piano funzionale si è rilevato che la nuova legge, nel sancire formalmente la rilevanza
puramente comportamentale del silenzio (come inerzia e/o inadempimento), consente di portare
ancora più innanzi quel processo di superamento del formalismo legato alla visione tradizionale
dell'atto presunto o tacito, facendo così venire meno la necessità di rendere significativo - con la
diffida - il silenzio, altrimenti "muto", dell'amministrazione.
Sul piano sistematico e dei principi, è stato poi osservato che la previsione di cause di
inammissibilità dell'azione deve di regola essere espressa nella legge di disciplina dell'azione
medesima. Nel caso in esame, invece, il nuovo art. 21-bis legge n. 1034 del 1971- che pure è il
luogo normativo dove l'azione contro il silenzio trova la propria piena e diretta disciplina - nulla
dice in ordine a una siffatta condizione dell'azione. Pertanto, questa troverebbe quindi il suo unico
fondamento in una tradizione giurisprudenziale formatasi prima e al di fuori della legge e in un
contesto del tutto diverso e incompatibile con quello attuale. Ora la nuova azione contro il silenzio è
volta a sanzionare l'inadempimento dell'obbligo di provvedere e prescinde da qualsivoglia
significato implicito che possa attribuirsi all'atteggiamento passivo dell'amministrazione13.
Sul piano teleologico, infine, si è evidenziato come, una volta accolta l'interpretazione
secondo cui il ricorso ex art. 2 legge n. 205/2000 comporta, in caso di esito positivo, solo la
declaratoria dell'obbligo di provvedere, non vi sarebbe più alcuno scopo pratico attuale della previa
diffida e messa in mora che possa a giustificare il permanere di tale appesantimento degli oneri
incombenti sul soggetto leso dall'inadempimento dell'amministrazione all'obbligo di provvedere.
Secondo l'insegnamento dell'Adunanza Plenaria n. 10 del 1978, infatti, la diffida serviva, da
un lato, a scongiurare il pericolo di una inoppugnabilità incolpevole, dall'altro, a dare
all'Amministrazione un'ultima possibilità di provvedere prima di essere spogliata dall'intervento del
giudice (nell'ottica, molto diffusa nella giurisprudenza amministrativa, dell'estensione dell'oggetto
del giudizio, almeno nei casi di attività vincolata, all'accertamento della fondatezza della pretesa).
Alla luce del nuovo articola 21-bis, incentrato, secondo l'interpretazione prevalente, sulla
mera declaratoria dell'obbligo di provvedere, non vi sarebbe più né il rischio di inoppugnabilità,
perché l'azione non è di impugnazione di un tacito diniego, ma dichiarativa e di condanna, né la
possibilità una convalescenza del comportamento inerte della P.A. che è e resta di per sé
illegittimo14.
A sostegno della diffida, quindi, non può essere invocata la necessità di offrire alla P.A.
un’ultima occasione per provvedere prima di trasferire l’esercizio del potere ad un altro soggetto. Il
rispetto di tale esigenza è garantito, infatti, dal dettato del comma 2, dell’art. 21-bis legge n. 1034
del 1971 secondo cui <<il giudice amministrativo ordina all’amministrazione di provvedere di
norma entro un termine non superiore a trenta giorni. Qualora l’amministrazione resti inadempiente
oltre il detto termine il giudice amministrativo, su richiesta di parte nomina un commissario, che
provvede in luogo dell’amministrazione>>. Come è stato rilevato, è questa la diffida che consente
all’amministrazione di non vedersi spogliata senz’altro avviso del potere di provvedere.
In altri termini, secondo l’impostazione in esame, è nella fase processuale, e non in quella
procedimentale, che si riaprono i termini per provvedere: in caso di accoglimento del ricorso,
infatti, l’ente può fruire di un nuovo periodo per provvedere, che si aggiunge a quello (gia spirato)
giorni per provvedere, ciò dovrà condannarla a fare niente di più di ciò che la legge le imponeva ab initio di
fare>>. In giurisprudenza cfr. T.a.r. Campania, sez. I, 22 novembre 2001, n. 4497, in www.lexitalia.it., n.
11/2001, con nota di G. SARTORIO, Ricorsi in materia di silenzio della P.A.; T.a.r. Catania, sez. II, 10
febbraio 2001, n. 293, cit.; T.A.R. Reggio Calabria, 23 novembre 2000, n. 1596.
12
V. in particolare, T.a.r. Campania, sez. I, 22 novembre 2001, n. 4497, cit.
13
Così T.a.r. Campania, sez. I, 22 novembre 2001, n. 4497, cit
14
Così ancora T.a.r. Campania, sez. I, 22 novembre 2001, n. 4497, cit.
7
previsto dalle norme sostanziali; periodo che va dall’ordine del giudice sino al momento
dell’insediamento del commissario. Stante questa riapertura dei termini procedimentali si è, quindi,
ritenuto inutile – oltre che dannoso – consentire all’amministrazione l’ulteriore divaricazione dei
tempi del procedimento conseguente all’applicazione del meccanismo della diffida ex art. 25 t.u. n
3/1957.
Anche questa tesi non è stata recepita dalla giurisprudenza amministrativa, la quale, pure
dopo l’entrata in vigore dell’art. 2 legge n. 205/2000, ha continuato a ritenere necessaria la diffida15.
Nel senso che il privato abbia l’onere di seguire il rigoroso iter previsto dall’art. 25 T.U. n. 3
del 1957 si segnala, da ultimo, la sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 6 luglio 2004, n. 502016.
Secondo i Magistrati di Palazzo Spada, la necessità della diffida sussiste <<anche dopo
l’entrata in vigore della legge n. 241/1990, giacché la ragione del ricorso allo strumento dell’art.
25 citato va individuata nella necessità di “qualificare” l’inerzia della P.A., situazione per la quale
risulta insufficiente il mero decorso del termine di durata del procedimento […] e pur dopo la
nuova disciplina del procedimento giurisdizionale sul silenzio, risultante dalla configurazione
acceleratoria stabilita dall’art. 21-bis legge n. 1034 del 1971 (come introdotto dall’art. 2 legge n.
205/2000), che è diretto semplicemente ad accertare se il silenzio serbato da una pubblica
amministrazione sull’istanza del privato violi o meno l’obbligo di adottare il provvedimento
esplicito richiesto con l’istanza stessa (v. Cons. Stato, Ad. Plen., n.1 del 9 gennaio 2002) e dunque
esclusivamente ad accertare se il silenzio sia illegittimo o no, senza incidere in alcun modo sui
presupposti di formazione e qualificazione del silenzio>>.
3.2.
Le novità introdotte dall’art. 2 legge n. 15/2005 e dall’art. 3, comma 6-bis, d.l. n. 35/2005
(convertito in legge n. 80/2005): non è più necessaria la diffida.
Importanti novità sul procedimento di formazione del silenzio-rifiuto sono state introdotte
dalla legge n. 15 del 2005 recante "Modifiche e integrazioni della legge 7 agosto 1990, n. 241.
Norme generali sull'azione amministrativa".
L'art. 2 della legge n. 15 ha previsto, infatti, l'inserimento, dopo il comma 4, dell'art. 2 l. n.
241/1990, di un comma 4-bis, così formulato: <<Decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3, il ricorso
avverso il silenzio, ai sensi dell'art. 21-bis legge 6 dicembre 1971, n. 1034, può essere proposto
anche senza necessità di diffida all'amministrazione inadempiente fin tanto che perdura
l'inadempimento e, in ogni caso, entro un anno dalla scadenza dei termini di cui ai commi 2 e 3. E'
fatta salva la riproponibilità dell'istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrono i
presupposti>>.
Prendendo atto che il ricorso avverso il silenzio-rifiuto non costituisce una azione
impugnatoria, ma una azione dichiarativa e di condanna, il testo di riforma ha disposto, quindi, che
la relativa domanda giudiziale non sia più sottoposta all'onere della previa diffida (che diviene ora
facoltativa), e, in luogo dello stringente termine decadenziale di 60 giorni, ha introdotto termine
"lungo" di un anno, decorso il quale, tuttavia, il privato non perde ogni possibilità di tutela.
Ai sensi del nuovo comma 4-bis dell’art. 2 legge n. 241/1990, dunque, la presentazione del
ricorso al Tar avverso il silenzio-rifiuto può avvenire immediatamente alla scadenza del “termine
del procedimento”, stabilito ex art. 2, commi 2 e 3, legge n. 241/199017.
15
Cfr. Cons. St., sez. IV, 27 dicembre 2001, n. 6415, in Foro Amm., 2001, 3148; Cons. St., sez. V, 10 aprile
2002, n. 1870, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., Sez. IV, 11 giugno 2002, n. 3256, in Foro
amm.- Cons. Stato, 2002, 2037, con nota di LAMBERTI; Cons. St., Sez. IV, 10 febbraio 2003, n. 672; Cons.
St., sez. V, 21 ottobre 2003, n. 6537; Cons. St., sez. V, 4 febbraio 2004, n. 376
16
In Urbanistica e appalti, 2004, 1421, con nota critica di L. TARANTINO, Il coefficiente di elasticità e la
diffida.
17
Per un primo commento sul nuovo comma 4°-bis della legge n. 241/1990 cfr. M. OCCHIENA, Riforma
della l. 241/1990 e “nuovo” silenzio-rifiuto: del diritto v’è certezza, in www.giustamm.it, 2005
8
Alla luce di questa norma, pertanto, la giurisprudenza non potrà più chiedere l’obbligatorio
esperimento della procedura sopra descritta da parte del cittadino.
L’art. 3, comma 6-bis d.l. n. 35/2005 (convertito in legge n. 80/2005) ha riscritto ex novo
l’art. 2 della legge n. 241/1990: in tale operazione, ha, tuttavia, confermato la regola secondo cui il
ricorso contro il silenzio-rifiuto può essere proposto, finché dura l’inerzia, senza necessità della
previa diffida. La relativa norma non è più contenuta, tuttavia, nel comma 4-bis, ma nel comma 5
del nuovo art. 2 legge n. 241/1990 interamente riscritto dalla legge n. 80/2005
Quanto ai termini per provvedere, l’art. 3 decreto legge n. 35 del 2005, convertito in legge n.
80/2005, ha demandato al Governo (e non più alle singole Amministrazioni) l’individuazione, con
uno o più regolamenti emanati ai sensi dell’art. 17, comma 2, legge n. 400 del 1988, dei termini
entro i quali debbono concludersi i procedimenti di competenza delle Amministrazioni statali.
Si riconosce, invece, agli enti pubblici nazionali il potere di fissare autonomamente, secondo
i propri ordinamenti, i termini di conclusione del procedimento.
Nel caso in cui il Governo o gli enti pubblici nazionali non provvedano a fissare il termine si
applica, in via sussidiaria, il termine di 90 giorni (che sostituisce il termine di 30 giorni previsto
dalla precedente versione della legge n. 241/1990).
3.3.
Gli argomenti a sostegno della scelta compiuta dal legislatore.
Numerosi gli argomenti che depongono a favore della scelta compiuta dal legislatore di
eliminare l’onere della previa diffida.
Anzitutto, non si può non rilevare come, in un sistema in cui è l'amministrazione che valuta
a priori l'adeguatezza dei termini dell'azione in relazione a ciascun procedimento, l'istituto della
diffida sembra ormai costituire un elemento che contraddice la logica del principio generale della
certezza del tempo dell'agire amministrativo, finendo per eluderne la portata innovativa 18. La
violazione del termine rappresenta, infatti, di per sé inadempimento dell'obbligo di provvedere,
facendo così venire meno la necessità che il privato si sobbarchi l'onere della messa in mora, al fine
di rendere univoca la condotta inerte dell'Amministrazione.
Per altro verso, la diffida rappresenta un pesante aggravio procedurale per il cittadino,
perché limita il diritto costituzionalmente tutelato di adire il giudice amministrativo, producendo
delle conseguenze che, secondo parte della dottrina, potrebbero ritenersi assimilabili a quelle
derivanti dall'applicazione del principio del solve et repete 19. Il privato, infatti, per ottenere la
protezione che gli è dovuta, è costretto ad offrire all'Amministrazione la possibilità di sanare
l'illegittimità con un provvedimento tardivo, per l'emanazione del quale non è approntato nel
frattempo alcuno strumento di tutela.
L'autorità, quindi, potrebbe persistere nel contegno omissivo, lasciando insoddisfatte le
aspettative del cittadino e solo allora costui potrebbe ottenere una tutela giurisdizionale che, però,
18
Cfr., in tal senso, F.G. SCOCA, La tutela processuale del silenzio della pubblica amministrazione, in G.
MORBIDELLI (a cura di), Funzione ed oggetto della giurisdizione amministrativa, Torino, 2000, 90; S.
PELILLO, Il ricorso avverso il silenzio inadempimento, cit., 8; V. TODARO, Spunti innovativi in materia di
tutela contro il silenzio, in Dir. Proc. Amm., 1992, 553; G. PALEOLOGO, La legge 1990 n. 241: procedimenti
amministrativi ed accesso ai documenti dell'amministrazione, in Dir. Proc. Amm., 1991, 16 ss.; B. Cavallo,
Provvedimenti e atti amministrativi, Padova, 1993, 234 ss.; F. PATRONI GRIFFi, La l. 7 agosto 1990 n. 241 a
due anni dall'entrata in vigore della legge. Termine e responsabile del procedimento: partecipazione
procedimentale, in Foro it., 1993, III; 65; B.G. MATTARELLA, Il provvedimento, in S. CASSESE (a cura di),
Trattato di diritto amministrativo, I, Milano, 2000, 813, g. GUCCIONE, Il ricorso avverso il silenzioinadempimento del’Amministrazione: breve ricostruzione storica dell’istituto ed applicazioni
giurisprudenziali del rito ex art. 2 della legge 21 luglio 2000, n. 205, in Dir. Proc. Amm., 2004, 1093 ss.
19
Cfr. P.M. VIPIANA, Osservazioni sull'attuale disciplina del silenzio inadempimento della Pubblica
Amministrazione, cit., 1722. Sul punto v. anche F.G. SCOCA, La tutela processuale del silenzio della
pubblica amministrazione, cit., 90.
9
potrebbe non dargli tutti i vantaggi che avrebbero potuto scaturire dal ricorso ove questo fosse stato
proposto subito dopo la scadenza del termine stabilito20.
Sotto un diverso profilo, discutibile appare la possibilità stessa di applicare per analogia
l’art. 25 T.U. n. 3 del 1957 al silenzio-rifiuto della P.A. Ciò in quanto, come è stato osservato, pur
in presenza di un identico fatto omissivo, <<mutano i soggetti su cui le differenti discipline
concentrano la loro attenzione (istante-pubblico impiegato da una parte; istante-amministrazione
dell’altra) e muta anche il fine che la diffida è chiamata a soddisfare. Nel corpo dell’art. 25, la
diffida rappresenta una condizione di ammissibilità per l’azione risarcitoria nei confronti
dell’impiegato statale che abbia omesso di svolgere operazioni o compiere atti, cui era tenuto,
secondo uno schema che riecheggia quello della diffida ad adempiere disciplinata dall’art. 1454 c.c.
[…] Attraverso la trasposizione della disciplina in questione sul piano dei rapporti tra cittadino e
amministrazione non si rinviene la medesima ratio, in quanto il fondamento della diffida va in
questo caso ricercato nel rispetto del tendenziale principio di conservazione delle competenze
fissate dall’ordinamento. La diffida, in definitiva serva per evitare che altro soggetto si pronunci
sulla materia assegnata dalla legge in prima battuta ad un certo organo amministrativo, ed è per
questo che, scaduto il termine per provvedere , la diffida oggi non ha alcun senso se si continua a
ritenere che l’esito del giudizio ex art. 21-bis legge n. 1034 del 1971 sia la declaratoria di un
generico dovere di provvedere in capo all’amministrazione soccombente>>.21
Non va poi dimenticato che la tesi giurisprudenziale che richiedeva la previa diffida ai fini
della formazione del silenzio-rifiuto, finiva, inevitabilmente, per dare luogo ad una dilatazione dei
tempi procedimentali e, di conseguenza, ad una surrettizia dilatazione di una regola sulle modalità
di esercizio del potere22. L’art. 25, cit., prevede, infatti, l’inefficacia della diffida se non siano
trascorsi almeno sessanta giorni dall’istanza dell’interessato o dall’ultimo atto procedimentale,
nonché che tale diffida conceda all’amministrazione un ulteriore spatium deliberandi di almeno
trenta giorni.
Mediante l’applicazione della diffida, dunque, i termini del procedimento siccome stabiliti
dall’amministrazione o quelli sussidiari di trenta giorni finivano con il perdere qualsiasi rilevanza
pratica. In ipotesi di procedimento ad istanza di parte, il termine sarebbe stato, comunque, di
almeno novanta giorni (sessanta dall’istanza e trenta previsti nella diffida ad adempiere); in caso di
procedimento ad iniziativa d’ufficio, il termine sarebbe dipeso dall’ultimo atto endoprocedimentale
o da quando il privato notificava la diffida (il che poteva avvenire anche immediatamente dopo
l’inizio del procedimento), da cui sarebbero decorsi i sessanta giorni + trenta.
Questi termini, propri del procedimento di diffida, diventavano in buona sostanza i “veri”
termini procedimentali e ciò a prescindere da quelli fissati dall’amministrazione con atto generale
(o, in mancanza, da quello di trenta giorni, che però non avrebbe mai trovato applicazione per chi
avesse volesse reagire contro il suo inutile spirare).
Richiedendo l’applicazione dell’art. 25, cit., la giurisprudenza finiva, dunque, con il
modificare il termine del procedimento amministrativo, stabilito dalla fonte secondaria o da quella
primaria, determinando uno spazio temporale entro cui le amministrazioni dovevano adempiere al
dovere di provvedere diverso da quello stabilito dall’art. 2, l. n. 241/1990.
Con il nuovo comma 5° della norma in ultimo citata, i problemi appena illustrati appaiono
del tutto superati: grazie all’intervento del legislatore, il silenzio-rifiuto è ancorato alla disciplina dei
termini procedurali, a tutto vantaggio della certezza dei tempi del procedimento23.
Né vale affermare, per sostenere la necessità della diffida, che la stessa sarebbe necessaria
per consentire al privato di acquisire la piena conoscenza del dies a quo per il computo dei termini
decadenziali, così evitando l’inconsapevole formarsi dell’inoppugnabilità.
20
In tal senso cfr.. V. TODARO, Spunti innovativi in materia di tutela contro il silenzio, cit., 553.
L. TARANTINO, Il coefficiente di elasticità e la diffida, cit., 1426
22
Cfr., in tal senso, i rilievi di M. OCCHIENA, Riforma della legge n. 241/1990, cit.,6.
23
In questi termini M. OCCHIENA, op. loc. ult. cit.
21
10
Come è stato correttamente rilevato, <<a tale scopo risponde pienamente la
predeterminazione dei termini procedimentali, la cui conoscenza da parte del privato nella
disciplina ante riforma era assicurata dalla pubblicità delle relative disposizioni (cfr. art. 4, comma
2), cui si aggiunge, nella disciplina post riforma, anche la specifica indicazione nella comunicazione
di avvio del procedimento, ai sensi della nuova lettera c-bis dell’art. 8>>24.
In base a tale norma, invero, la comunicazione dell’avvio del procedimento deve indicare
anche <<la data entro la quale, secondo i termini previsti dall’articolo 2, comma 2 o 3, deve
concludersi il procedimento e i rimedi esperibili in caso di inerzia dell’amministrazione>>. In tal
modo, il legislatore ha voluto consentire al privato di conoscere con precisione i tempi
dell’esercizio del potere, così scongiurando il rischio, da taluni paventato prima della riforma,
dell’inconsapevole decorso del termine per impugnare il silenzio-rifiuto.
Al fine di ridmensionare il rischio che, eliminato l’onere della diffida, il silenzio-rifiuto
possa divenire inoppugnabile dopo appena sessanta giorni dalla scadenza del termine per
provvedere, senza che il privato se ne sia effettivamente reso conto, il legislatore della novella,
comunque, ha “allungato” fino ad un anno il termine per esercitare l’azione tendente ad accertare
l’illegittimità dell’inerzia.
In ogni caso, inoltre, anche una volta scaduto tale termine annuale, l’interessato non vede
sfumare definitivamente la possibilità di tutela, potendo presentare un’ulteriore istanza volta ad
ottenere il provvedimento agognato, sempre che naturalmente ne sussistano i presupposti.
3.4.
La diffida facoltativa e la diffida diretta a far valere la responsabilità del funzionario.
Il nuovo comma 5° dell’art. 2 legge n. 241/1990 ha, quindi, eliminato la necessità della
diffida per ricorrere contro l’inerzia non qualificata della P.A. Alla luce della nuova formulazione
della norma, la diffida è comunque suscettibile di volontaria applicazione da parte del cittadino: la
riforma, quindi, più che eliminare la diffida, segna il passaggio da un sistema a diffida necessaria ad
uno a diffida facoltativa.
Come è stato rilevato, invece, la diffida sembra ancora necessaria per la contestazione della
responsabilità dei pubblici dipendenti: <<in materia, infatti, l’art. 25 t.u. n. 3 del 1957 costituisce
regola speciale (e non di semplice applicazione in via analogica come accade per l’emersione del
“rifiuto di provvedere”), essendo strumentale ai fini dell’accertamento e determinazione
dell’elemento aggravato del dolo e della colpa grave, da cui dipende, stante la disposizione dell’art.
23 t.u. n.3/957, la configurabilità della responsabilità civile dei dipendenti pubblici>>25.
4.
Il termine per ricorrere prima delle leggi n. 15/2005 e 80/2005: la giurisprudenza
prevalente applica il termine di decadenza.
Come si è già accennato, prima che il legislatore prendesse espressamente posizione sul
punto con l’art. 2 legge n. 15 del 2005 e, da ultimo, con l’art. 3, comma 6-bis d.l. n. 35/2005,
questione molto dibattuta tanto in giurisprudenza quanto, e soprattutto, in dottrina, era quella
concernente la natura del termine per ricorrere contro il silenzio-rifiuto della P.A.
Anteriormente alla riforma, la giurisprudenza prevalente26, pur ammettendo a volte la
reiterabilità della diffida27, riteneva che il ricorso giurisdizionale contro il silenzio-rifiuto dovesse
24
M. OCCHIENA, op. loc. ult. cit.
M. OCCHIENA, op. cit., 2.
26
Cfr., fra le altre, Cons. St., 17 ottobre 2000, n. 5565, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., sez. VI,
19 marzo 1998, n. 315, in Foro amm., 1998, 761; Cons. St., sez. V, 18 novembre 1997, n. 1331, in Cons.
Stato, 1997, I, 1560; Cons. St., sez. IV, 14 luglio 1997, n. 821, in Cons. Stato, 1997, 1041.
25
27
Cfr. Cons. St., sez IV, 2 ottobre 1989, n. 658, in Cons. Stato, 1989, I, 1134.
11
essere proposto entro l'ordinario termine di decadenza di sessanta giorni. Questo indirizzo, che pure
riconosceva che il silenzio non è un atto ma un mero presupposto processuale alternativo al
provvedimento formale28, si fondava essenzialmente sulla considerazione secondo la quale, quando
viene dedotto in giudizio un interesse legittimo, l'azione, a prescindere dal suo contenuto
dichiarativo o costitutivo, è soggetta, per una esigenza di certezza dei rapporti amministrativi, alla
rigorosa disciplina temporale che il legislatore ha espressamente previsto per l’azione di
annullamento del provvedimento.
4.1.
Un orientamento minoritario: il termine per impugnare si rinnova de die in diem finché
dura l’inerzia.
La tesi dell'applicabilità al ricorso contro il silenzio-rifiuto dell'ordinario termine di
decadenza era, però, respinta da una parte minoritaria della giurisprudenza29, la quale, recependo le
posizioni espresse da un'autorevole parte della dottrina30, sosteneva che l'interessato potesse
rivolgersi al G.A. fino a quando persistesse l'inadempimento dell'amministrazione, permanendo in
capo a questa il potere-dovere di provvedere. Il maturarsi della decadenza processuale era esclusa,
secondo questa impostazione, proprio dal fatto che il perdurare dell'inadempienza determinava la
rinnovazione del termine di impugnazione de die in diem, evitando così la consumazione del diritto
all'azione davanti al giudice amministrativo.
Questo orientamento si fondava su argomenti di carattere teorico e sistematico difficilmente
superabili.
Quando si forma il silenzio-rifiuto, infatti, non vi è un vero provvedimento assistito da
presunzione di legittimità e suscettibile di acquisire definitività nel breve termine decadenziale,
nell'interesse comune alla certezza del diritto; vi è, invece, un inadempimento che si rinnova di
momento in momento e che pertanto si potrebbe ritenere denunciabile in qualsiasi tempo, sino a che
non venga sostituto da un provvedimento esplicito31.
Né, per giustificare l'applicazione del termine di decadenza, sembra possa invocarsi una
esigenza di certezza dei rapporti amministrativi. In primo luogo, infatti, in caso di silenzio, è
proprio l'amministrazione ad aver dato luogo ad una situazione di incertezza, che il privato,
attraverso il ricorso, intende rimuovere.
28
Cfr. Cons. St., Ad. Plen. 24 novembre 1989, n. 16, in Cons. Stato, 1989, I, 1305; Cons. St., Ad. Plen. 4
dicembre 1989, n. 17, in Cons. Stato, 1989, I, 1477.
29
Cfr. T.a.r. Lazio, sez. II, 3 marzo 1995, n. 327, in Trib. amm. reg., 1995, I, 1509; T.a.r. Lazio, sez. Latina,
11 febbraio 1993, n. 138, ivi, 1993, I, 867; T.a.r. Calabria, Catanzaro, 9 settembre 1993, n. 786, ivi, 1993, I,
3967; T.a.r. Lazio, sez. II, 29 ottobre 1992, n. 1388, ivi, 1992, I, 4236; T.a.r. Lombardia, sez. Brescia, 18
gennaio 1992, n. 7, ivi, I, 1053; T.a.r. Lombardia, sez. II, ivi, 1992, I, 1947.
30
E' la tesi di A.M. SANDULLI, Il silenzio della pubblica amministrazione oggi: aspetti sostanziali e
processuali, in AA.VV., Il silenzio della pubblica amministrazione. Aspetti sostanziali e processuali (Atti del
XXVIII Convegno di studi di scienza dell'amministrazione, Varenna, 23-25 settembre 1982), Milano, 1985,
67; ID., Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, 673 ss.; ID., Riflessioni sulla tutela del cittadino
contro il silenzio della pubblica amministrazione, in Giust. civ., 1994, II, 485. In senso conforme v. anche A.
DE ROBERTO, Presentazione del tema del convegno, in AA. VV. Il silenzio della pubblica amministrazione,
cit., 19; P.G. LIGNANI, Silenzio (dir. amm.), cit., 567, nota 26; F.G. SCOCA, M. D'ORSOGNA, Silenzio, clamori
di novità, cit., 412-413; V. TODARO, Spunti innovativi in materia di tutela contro il silenzio, cit., 555.
31
A.M. SANDULLI, Il silenzio della pubblica amministrazione oggi: aspetti sostanziali e processuali, cit. 67.
Sul punto v. anche A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2000, 204, il quale rileva come
l'azione contro il silenzio dell'Amministrazione <<ha, per certi profili, un carattere 'preventivo': non viene
impugnato un provvedimento e non è intervenuto alcun provvedimento che possa ledere l'interesse del
cittadino>>.
12
In secondo luogo, inoltre, quella stessa esigenza di certezza, sottesa alla regola della
inoppugnabilità delle situazioni giuridiche amministrative non tempestivamente contestate,
dovrebbe escludere anche per la P.A. la possibilità di provvedere tardivamente e, quindi, la
situazione giuridica del privato dovrebbe ritenersi cristallizzata fino alla conclusione del giudizio
sul silenzio32. Al contrario, secondo la giurisprudenza33, il formarsi del silenzio non esclude che la
P.A. si pronunci successivamente in maniera espressa; di conseguenza anche il privato deve essere
posto nelle condizioni di attendere senza preclusioni di sorta la decisione dell'Amministrazione e di
adire il giudice se e quando lo riterrà opportuno.
Rispetto ad un giudizio che non gli garantisce risultati immediati e concreti, infatti, è
probabile che egli possa preferire, almeno in un pimo momento, una "soluzione" nella sede
amministrativa per i maggiori vantaggi che essa offre, soprattutto per via della motivazione
espressa, che in caso di provvedimento negativo gli assicura una tutela più incisiva nei confronti
della pubblica amministrazione34.
4.2.
La tesi che applica il termine di prescrizione e le relative obiezioni.
Nel senso dell’inappplicabilità del termine di decadenza si muove anche la tesi, sostenuta da
una parte della dottrina, secondo la quale il ricorso contro il silenzio-rifiuto sarebbe soggetto al
termine di prescrizione decennale perché con esso non si fa valere non un interesse legittimo, ma un
diritto soggettivo35.
Secondo questo orientamento, il termine di cui all'art. 2 l. n. 241/1990 può essere assimilato,
limitatamente ai procedimenti ad istanza di parte36, al termine di adempimento delle obbligazioni.
In entrambe le fattispecie, infatti, vi è una pretesa in capo al soggetto attivo del rapporto (creditore o
istante) nei confronti del soggetto passivo (debitore o pubblica amministrazione competente a
emanare l'atto) che ha per oggetto una particolare prestazione (per esempio, pagamento di una
somma di danaro o consegna di un bene, da un lato; emanazione di un provvedimento sia esso di
accoglimento o di rigetto dell'istanza, dall'altro). L'unica differenza sarebbe nel fatto che, mentre nel
rapporto obbligatorio l'adempimento ha per oggetto un bene della vita che procura al creditore
un'utilità finale, nel procedimento ad istanza di parte l'adempimento può consistere anche in un
provvedimento di rigetto dell'istanza legittimo, che dunque non attribuisce il bene della vita o
l'utilità finale al quale aspirava il privato37.
32
Cfr. F.G. SCOCA, M. D'ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, cit., 413, nota 28.
33
Cfr. Cons. St., sez. V, 13 febbraio 1997, n. 153, in Giur. it., 1997, III; 382; Cons. St., sez. IV, 25 settembre
1992, n. 810, in Giur. it., 1993, III, 254.
34
F.G. SCOCA, M. D'ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, cit., 413, nota 28. Sul tema vedi anche G.
ABBAMONTE, Silenzio-rifiuto e processo amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 1985, 43, secondo il quale
trasformare <<per effetto della perentorietà del termine, una situazione di pendenza in paralisi
significherebbe incidere significativamente su quello che è il buon andamento dell'amministrazione>>.
35
E' la nota tesi di M. CLARICH, Termine del procedimento e potere amministrativo, cit., 146. Sulla necessità
di passare da un regime di decadenza a un regime di prescrizione nella fattispecie dell'inerzia della P.A. cfr.
F. MERUSI, G. SANVITI, L'ingiustizia amministrativa, Bologna, 1986, 21 ss.
36
Nei procedimenti d'ufficio, invece, il termine previsto dall'art. 2 l. n. 241/1990 svolgerebbe una funzione
analoga a quella del termine previsto per l'esercizio dei diritti potestativi: una volta scaduto pertanto
l'Amministrazione dovrebbe considerarsi decaduta dal potere di emanare l'atto. Cfr. M. CLARICH, Termine
del procedimento e potere amministrativo, cit., 42 ss., in particolare 51.
37
M. CLARICH, Termine del procedimento e potere amministrativo, cit., 32
13
Partendo da questo parallelismo, si giunge allora ad affermare che in capo
all'Amministrazione che riceve un'istanza dal privato sono configurabili due diverse situazioni
giuridiche: da un lato, il potere-dovere di esercitare la funzione amministrativa al quale è correlata
una posizione giuridica di interesse legittimo pretensivo; dall'altro, e prima ancora, un <<obbligo di
natura formale di provvedere entro il termine>> a cui corrisponde in capo al privato che ha
presentato l'istanza una situazione giuridica attiva che ha il rango di vero e proprio diritto soggettivo
(<<diritto a una risposta>>)38.
La presentazione dell'istanza, quindi, secondo questa tesi, instaura un rapporto
procedimentale tra privato e pubblica amministrazione all'interno del quale trovano svolgimento le
situazioni giuridiche ora individuate: il diritto, che riceve piena soddisfazione con l'emanazione di
un provvedimento espresso che accolga o rigetti l'istanza, l'interesse legittimo pretensivo, che riceve
piena soddisfazione con l'emanazione di un provvedimento che. accogliendo l'istanza, determina un
ampliamento della sfera giuridica del privato39.
Il silenzio dell'Amministrazione si porrebbe allora quale inadempimento di tale obbligo
formale di provvedere nel termine e contro di esso il privato potrebbe proporre ricorso non più nello
stringente termine di decadenza ma, facendo valere un diritto soggettivo, nel termine ordinario di
prescrizione.
L'indirizzo in esame si presta ad alcune considerazioni critiche. Anche ammettendo che l'art.
2 legge n. 241/1990 abbia attribuito al privato un diritto soggettivo a che un provvedimento, quale
che ne sia il contenuto, venga emanato nel termine, non pare tuttavia che questo diritto soggettivo
costituisca l'oggetto del ricorso giurisdizionale40: secondo la tesi prevalente in dottrina e in
giurisprudenza (almeno fino all'entrata in vigore dell'art. 2 legge n. 205/2000), l'interesse che il
privato fa valere nel ricorso contro il silenzio non riguarda la mera emanazione di un atto
amministrativo, ma è volto ad ottenere un bene della vita, sia pure per il tramite del potere
amministrativo.
38
Cfr. F. LEDDA, Il rifiuto di provvedimento amministrativo, Torino, 1964, 111-112, secondo il quale il
contenuto della situazione di obbligo è <<l'emissione di una pronuncia idonea a rendere possibile quel
giudizio di legittimità che costituisce il fulcro del sistema di tutela. [...] L'autorità, si dice spesso, può
pronunciarsi positivamente o negativamente, ma deve pronunciarsi in un senso o nell'altro>>; F.G. SCOCA,
Considerazioni sull'inerzia amministrativa, in Foro amm., 1962, I, 494, secondo il quale <<l'obbligo di
rispondere ha un contenuto comprensivo ma determinato: esso comprende la possibilità provvedere
positivamente o negativamente. Si specifica ossia in obbligo a provvedere (a seconda del pubblico
interesse)>>.
39
Così M. CLARICH, Termine del procedimento e potere amministrativo, cit., 29.
In tal senso v. F.G. SCOCA, M. D'ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, cit., 403, secondo cui
l'inadempimento dell'obbligo di provvedere non rappresenta l'oggetto di ricorso al giudice amministrativo, in
quanto resta estraneo alla tutela dell'interesse legittimo di cui è titolare il privato che ricorre contro (o meglio,
sulla base del) silenzio. Gli Autori esprimo anche perplessità sull'uso della formula silenzio-inadempimento
in quanto <<evoca un giudizio di valore, in termini di legittimità/illegittimità, ovvero, più esattamente di
liceità/illiceità; giudizio senz'altro riferibile all'inerzia quale omissione di provvedimento che regoli (in modo
soddisfacente) l'interesse del privato, ma non anche al silenzio amministrativo in senso tecnico che
rappresenta soltanto un meccanismo procedurale per adire il giudice e, in quanto tale, insuscettibile di un
indagine del genere>>. Nello stesso senso v. anche F.G. SCOCA, Il silenzio della pubblica amministrazione,
Milano, 1971, 48, nota 55, secondo cui la qualificazione del silenzio de quo come inadempimento <<non
significa che il silenzio sia sempre illegittimo (per usare la vecchia formula del Consiglio di Stato). In realtà
il silenzio non è né legittimo né illegittimo, appunto perché non è un provvedimento e non è, sotto nessun
aspetto, atto di svolgimento della funzione amministrativa. E' forse preferibile precisare i termini della
figura: l'inadempimento dell'obbligo di pronunciarsi è da individuare nell'inerzia della P.A. e non nel
silenzio. La prima può essere lesiva dell'interesse (strumentale) del privato ad ottenere che l'Amministrazione
provveda sulla domanda [...]. Il secondo resta, invece, un meccanismo che consente al privato di rivolgersi al
giudice in mancanza di un provvedimento formale>>.
40
14
Il ricorso contro il silenzio-rifiuto pertanto è teso a stigmatizzare l'inerzia della P.A. non
rispetto semplicemente ad un astratto dovere di provvedere, ma rispetto ad uno specifico dovere di
provvedere favorevolmente: ciò che il privato fa valere, pertanto, non è il diritto soggettivo ad
ottenere una risposta dall'Amministrazione indipendentemente dal suo contenuto, ma l'interesse
legittimo a che l'Amministrazione provveda favorevolmente.
Sostenere l'applicazione del termine di prescrizione presuppone, al contrario, che l'oggetto
del giudizio sia non la pretesa del cittadino al bene della vita, ma l'accertamento del mero obbligo di
provvedere da parte della P.A. Tale tesi, che pure è stata e accolta dall'Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato, con la sentenza 9 gennaio 2002, n. 1 41, non pare tuttavia condivisibile: essa,
infatti, oltre a rappresentare un sicuro "passo indietro" rispetto all'evoluzione giurisprudenziale in
materia di silenzio come consolidatasi prima dell'entrata in vigore dell'art. 2 l. n. 205/2000,
ridurrebbe il giudizio contro il silenzio ad uno strumento sostanzialmente inutile, destinato
risolversi in un invito all'Amministrazione a provvedere, ancorché mediante l'adozione di un atto
illegittimo, con grave vulnus ai principi di economia dei mezzi processuali e di effettività della
tutela giurisdizionale. In tal senso, del resto, sembra ormai orienato anche il legislatore:
significativo, sotto tale profilo, l’art. 3, comma 6-bis del d.l. n. 35/2005, converito nella legge n.
80/2005, che riformula l’art. 2 legge n. 241/1990 attribuiendo espressamente al G.A. il potere di
conoscere, nei giudizi aventi ad oggetto il silenzio-rifiuto, il merito dell’istanza.
Inoltre, anche ad ammettere che l’oggetto del giudizio sia la verifica dell’obbligo di
provvedere, la tesi del diritto di credito non è comunque sostenibile. Essa, come è stato
recentemente evidenziato in giurisprudenza, si scontra con l’analisi del lato passivo del rapporto
obbligatorio: nel sistema della funzione amministrativa non è ravvisabile un’obbligazione in senso
tecnico che abbia ad oggetto la conclusione del procedimento, trattandosi di una tipica attività
autoritativa, per quanto regolata da fonti normative puntuali. Il baricentro dell'accertamento
giurisdizionale è l'obbligo di provvedere in senso pubblicistico (rinveniente dall'essere il potere
amministrativo potestà, cioè potere per la cura di interessi altrui e, dunque, potere-dovere o, se si
preferisce, potere funzionalizzato). Ad esso si contrappone l'interesse legittimo, la cui tutela passa
per la declaratoria di illegittimità dell'inerzia tenuta dall'amministrazione42.
In ogni caso, anche a voler ammettere che la situazione giuridica soggettiva fatta valere dal
privato nel ricorso contro il silenzio sia un diritto soggettivo, ciò non pare di per sé argomento
sufficiente per escludere l'applicazione del termine di decadenza. Nell'ordinamento giuridico non
mancano, infatti, casi in cui la tutela giurisdizionale di un diritto soggettivo viene sottoposta, per
motivi di certezza, ad uno sbarramento decadenziale, il quale non è certo in gradi di modificare la
natura sostanziale della posizione (si pensi al termine di decadenza per contestare gli accertamenti
tributari o al termine di decadenza previsto ai fini dell'esperimento del ricorso giurisdizionale contro
il diniego o il silenzio in materia di accesso per chi ritiene trattarsi di un diritto soggettivo).
Recentemente l’esistenza di un diritto soggettivo al rispetto dei tempi procedimentali è stata
affermata sulla base di un diverso percorso ermeneutico che, applicando al procedimento
amministrativo il modello di tutela pensato per il diritto alla ragionevole durata del processo,
ravvisa il fondamento di tale diritto nell’art. 111 Cost., a sua volta espressione di un valore
riconducibile all’art. 2 Cost.
Anche questa impostazione non convince. Giova evidenziare, a tal proposito, che
l’equiparazione tra procedimento e processo non trova alcun aggancio nel teso della citata
disposizione costituzionale.
Né il collegamento potrebbe essere ravvisato in una certa comunanza di disciplina tra
procedimento e processo (il principio del contraddittorio, l'obbligo di motivazione, etc.) posto che,
41
In Dir. proc. amm., 2002, 932, con nota di F. GIGLIONI, Il ricorso avverso il silenzio tra tutela oggettiva e
soggettiva.
42
T.a.r.Puglia, Bari, sez. II, 13 gennaio 2005, n. 56, in Guida al dir., 2005, n. 7, 77, con nota di G. CARUSO,
nonché in Corr. Giur., 2005, 628, con nota di A. DI MAJO, Le tutele a confronto: la Cassazione prende atto
della legge n. 205/2000.
15
altrimenti, invece di ricostruire gli effetti di una fattispecie sulla base della sua sussunzione nella
norma si opererebbe la sussunzione in virtù di una (parziale) identità di effetti aliunde comminati,
con evidente inversione logica43.
D'altronde non è superfluo osservare che l'art. 111 Cost. è collocato in apertura della Sezione
dedicata alle "norme sulla giurisdizione", sicché un'estensione interpretativa delle garanzie ivi
contenute alla amministrazione sarebbe del tutto arbitraria. Inoltre, la natura della posizione che
vanta il cittadino dinanzi ai tempi del processo è sigillata in più fattispecie legali tipiche, di diritto
nazionale ed internazionale, che valgono a conferirle consistenza di diritto soggettivo,
autonomamente risarcibile, in ragione degli interessi primari collegati all'esercizio della funzione
giurisdizionale ed alle conseguenze esistenziali ontologicamente collegate alla durata del processo,
quale oggi non possono certo riscontrarsi nella durata del procedimento ove slegata dall'interesse al
bene della vita inciso44.
5.
Le novità in materia di termine per ricorrere contenute nella leggi n. 15/2005 e n.
80/2005
Importanti novità sul termine per ricorrere contro il silenzio-rifiuto sono state introdotte
dall’art. 2 legge n. 15/2005 e ribadite, dall’art. 3, comma 6-bis d.l. n. 35/200545 che, solo dopo pochi
mesi dalla legge n. 15, ha riscritto in toto l’art. 2 della legge n. 241/1990.
Ma procediamo con ordine.
L'art. 2 della legge n. 15 ha previsto l'inserimento, dopo il comma 4, dell'art. 2 l. n.
241/1990, di un comma 4-bis, in base al quale, il ricorso avverso il silenzio, ai sensi dell'art. 21-bis
legge 6 dicembre 1971, n. 1034, può essere proposto anche senza necessità di diffida
all'amministrazione inadempiente fin tanto che perdura l'inadempimento e, in ogni caso, entro un
anno dalla scadenza dei termini di cui ai commi 2 e 3.
In un frenetico susseguirsi di interventi legislativi, l’art. 2 della legge n. 241/1990 è stato, da
ultimo, nuovamente riscritto dall’art. 3, comma 6-bis, d.l. n. 35/2005 (nella versione risultante dalla
legge di conversione n. 80/2005): la norma introdotta dalla legge n. 15 mediante l’inserimento di un
comma 4-bis nel corpo dell’art 2 legge n. 241 è stata riprodotta senza variazioni, ma è ora contenuta
nel comma 5 dell’art. 2 della nuova legge n. 241.
Prendendo atto che il ricorso avverso il silenzio-rifiuto non costituisce una azione
impugnatoria, ma una azione dichiarativa e di condanna, il testo di riforma prevede, quindi, che la
relativa domanda giudiziale non sia più sottoposta all'onere della previa diffida (che diviene ora
facoltativa), e, in luogo dello stringente termine decadenziale di 60 giorni, introduce termine
“lungo” di un anno, decorso il quale, tuttavia, il privato non perde ogni possibilità di tutela.
Scaduto il termine annuale, egli, pur non potendo più "impugnare" il silenzio formatosi sulla
sua prima istanza e ormai consolidato, potrà, tuttavia, sollecitare nuovamente l'esercizio dl potere
amministrativo, con una nuova istanza.
La previsione di un termine finale oltre il quale l’azione non è più proponibile ha la funzione
di tutelare l’amministrazione onde evitare che la situazione di incertezza si protragga all’infinito:
dopo un anno di inerzia, il privato non può più “disturbare” il soggetto pubblico con un’azione
giudiziaria, ma deve attivare un nuovo procedimento46.
Se la P.A. mantiene il proprio atteggiamento inerte anche sulla nuova istanza si formerà un
altro silenzio-rifiuto censurabile davanti al G.A. entro un nuovo termine annuale.
Le novità introdotte dalla legge in esame devono essere valutate positivamente.
43
T.a.r.Puglia, Bari, sez. II, 13 gennaio 2005, n. 56,cit.
T.a.r.Puglia, Bari, sez. II, 13 gennaio 2005, n. 56, cit.
45
Per un primo commento v. M. OCCHIENA, op. cit.; O. FORLENZA, Se c’è silenzio della P.A. ricorso al Tar
senza diffida, in Guida al dir., 2005, n. 10, 52 ss.
46
Sul tema v., con riferimento al disegno di legge di riforma della 241, M. LIPARI, I tempi del procedimento,
cit., 313.
44
16
Da un lato, infatti, il legislatore, accogliendo le istanze della dottrina più avvertita, elimina
l’onere della previa diffida consentendo al privato di agire direttamente per far accertare
l’illegittimità del silenzio serbato dalla P.A.
Dall’altro lato, tuttavia, al fine di attenuare il rischio che, eliminato l’onere della diffida, il
silenzio-rifiuto possa divenire inoppugnabile dopo appena sessanta giorni dalla scadenza del
termine per provvedere, senza che il privato se ne sia effettivamente reso conto, il legislatore della
novella ha “allungato” fino ad un anno il termine per esercitare l’azione tendente ad accertare
l’illegittimità dell’inerzia.
In ogni caso, inoltre, anche una volta scaduto tale termine annuale, l’interessato non vede
sfumare definitivamente la possibilità di tutela, potendo presentare un’ulteriore istanza volta ad
ottenere il provvedimento agognato, sempre che naturalmente ne sussistano i presupposti.
La scelta di spezzare il legame tra l’azione contro il silenzio e il termine di sessanta giorni
appare, inoltre, coerente con la ratio della decadenza ordinaria, che è quella di assicura la certezza
dell’azione amministrativa rendendo incontestabile l’assetto di interessi determinato dal
provvedimento amministrativo in vista del perseguimento dell’interesse pubblico.
Ebbene, è evidente, che tale esigenza di certezza e di stabilità degli effetti dell’azione
amministrativa è del tutto insussistente nel rito contro il silenzio, atteso che non è stato emanato un
provvedimento e che il giudice non è chiamato a governare gli effetti di un atto già emanato, ma a
<<regolare […] l’esercizio della futura azione da parte dell’amministrazione>>47.
Sulla base di tali considerazioni appare allora senz’altro più coerente l’applicazione
all’azione contro il silenzio di un termine di prescriptio brevis, quale è quello ora previsto dall’art.
2, comma 5, legge n. 241/1990.
Ciò detto a favore della nuova norma, deve, tuttavia, evidenziarsi come sul piano sistematico
la scelta del legislatore della novella possa suscitare qualche perplessità: stride, infatti, contrasto tra
il termine “lungo”, di un anno, entro il quale può essere proposto il ricorso contro il silenzio e l’iter
sincopato del giudizio speciale previsto dall’art. 21-bis legge n. 1034 del 1971 destinato a
concludersi in termini brevissimi.
5.1.
La riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento
Il comma 5 del nuovo art. 2 legge n. 241/1990, inoltre, fa espressamente salva la
riproponibilità dell'istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrono i presupposti.
Si tratterebbe, secondo alcuni, di una previsione superflua: <<è noto, infatti, che l’inerzia
dell’Amministrazione su un procedimento avviato ad istanza di parte non costituisce esercizio del
potere, ma semplice fatto di inadempimento (a differenza di quanto avviene in caso di silenzioassenso). E perciò successivamente il potere può essere sempre esercitato, anche in pendenza di
giudizio sul silenzio, anche sulla base della nuova istanza di parte>>48.
In realtà, tuttavia, la previsione pare avere una sua “utilità” laddove chiarisce, e non era
scontato , che anche dopo lo scadere di un anno, l’inerzia dell’amministrazione non vale come
provvedimento implicito di rigetto dell’istanza, ma conserva la propria valenza comportamentale,
ancorché la situazione di antigiuridicità non sia più denunciabile dall’interessato49.
47
G. ABBAMONTE, Silenzio-rifiuto e processo amministrativo, in La disciplina generale del procedimento
amministrativo, Atti del XXXII Convegno di studi di scienza dell’Amministrazione di Varenna, 18-2
settembre 1986, Milano, 1987, 162. Sul tema v. anche M. OCCHIENA, op. cit., 10.
48
V. CERULLI IRELLI, Osservazioni generali sulla legge di modifica della l. n. 241/90 – II parte, in
www.Giustamm.it, 2005, n. 2.
49
V. sul tema M. LIPARI, I tempi del procedimento, cit., 313, secondo il quale <<si potrebbe pensare ad una
sorta di “perenzione” del procedimento per inattività delle parti, ma la legge considera essenzialmente gli
effetti processuali del decorso del tempo, senza qualificare le conseguenze sostanziali: il silenzio non pare
configurabile come una sorte di esito tipizzato del procedimento>>.
17
Più complesso è stabilire se l’inerzia prodotta dopo l’anno, senza iniziative dell’interessato,
vada considerata, o meno, come un fatto privo di illiceità e, quindi, inidoneo a determinare la
responsabilità risarcitoria dell’amministrazione.
La risposta a tale quesito presuppone che sia risolo a monte il problema del rapporto tra
azione contro il silenzio-rifiuto e azione di risarcimento del danno da ritardo.
Ed invero, muovendosi in un’ottica di pregiudizialità tra le due azioni (sulla falsariga di
quanto la giurisprudenza amministrativa ha affermato in ordine alla domanda di annullamento del
provvedimento) si dovrebbe ritenere che decorso l’anno, l’inerzia sino a quel momento tenuta
dall’amministrazione non possa essere più censurata neanche ai fini del risarcimento del danno.
Al contrario, in un’ottica di autonomia tra le due azioni non pare vi possano seri ostacoli ad
ammettere una domanda risarcitoria anche oltre il termine annuale. Sul tema si rinvia al capitolo IV.
L'oggetto del sindacato giurisdizionale nel ricorso contro il silenzio-rifiuto: l’evoluzione
dottrinale e giurisprudenziale fino alla legge n. 80/2005.
6.
La delimitazione dell'ambito della cognizione consentita al giudice amministrativo nel
giudizio instaurato sulla base dell'inerzia dell'Amministrazione riflette - come è stato
autorevolmente rilevato - <<da un lato, l'evoluzione subita dal concetto stesso di inerzia nel corso
dei decenni e, dall'altro, la crisi generale e la trasformazione del processo d'impugnazione>>50.
Al riguardo, è da registrare un’interessante evoluzione dottrinale, giurisprudenziale, sulla
quale, da ultimo, è intervenuto anche il legislatore con l’art. 3, comma 6-bis, del decreto di legge n.
35/2005, nel terso risultante dall’emendamento governativo approvato in sede di conversione,
avvenuta con la legge n. 80/2005.
Volendo schematizzare, il tema in esame può essere affrontato distinguendo, in chiave
diacronica, quattro diverse fasi:
I) la prima va dalla “nascita” dell’istituto del silenzio-rifiuto sino alla decisione
dell’Adunanza plenaria n. 10 del 1978;
II) la seconda inizia con la pronuncia della Plenaria n. 10 del 1978 ed arriva sino alla legge
n. 205/2000;
III) la terza fase è iniziata dopo l’introduzione da parte dell’art. 2 della legge n. 205/2000 di
un rito speciale contro il silenzio-rifiuto della P.A. ed è terminata con la conversione del d.l. n.
35/2005 ad opera dalla legge n. 80/2005;
IV) la quarta fase, infine, è stata appena inaugurata con la riscrittura dell’art 2 legge n.
241/1990 ad opera dell’art. 3 comma 6-bis d.l. n. 35/2005 (nella versione risultante dalla legge di
conversione n. 80/2005) che espressamente attribuisce al G.A. il potere di conoscere, nei giudizi
contro il silenzio-rifiuto della P.A., <<la fondatezza dell’istanza>>.
6.1.
La I fase: la giurisprudenza nega il sindacato sulla fondatezza dell’istanza.
Secondo l'orientamento tradizionale, l’esame del giudice deve consistere nell'accertare,
calendario alla mano, l'esistenza di un obbligo dell'Amministrazione di provvedere e l'inosservanza
ingiustificata di tale obbligo da parte della stessa. In quest'ottica, quindi, la sentenza emessa avverso
il silenzio-rifiuto è di mero accertamento perché: o ribadisce l'obbligo della P.A. di provvedere,
oppure lo dichiara inesistente.
50
Così F.G. SCOCA, M. D'ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, in Dir. Proc. Amm., 1995, 415.
18
A sostegno di questa posizione, vengono addotte sia ragioni di salvaguardia delle
prerogative della P.A., sia esigenze di tutela del privato51. In alcune pronunce, infatti, si rileva, in
ossequio al principio di esclusività del potere amministrativo52, che il giudice non può sostituirsi
all'Amministrazione nel determinare il preteso contenuto del provvedimento, in quanto gli effetti
costitutivi cui mira l'istanza proposta dal privato avverso il silenzio-rifiuto non possono essere
prodotti in via giurisdizionale, ma solo attraverso l'adozione di atti formali da parte della P.A.53.
In altre pronunce, invece, a sostegno di questo indirizzo restrittivo, vengono poste esigenze
di tutela del privato. Così, nel respingere l'eccezione di inammissibilità del ricorso avanzato
dall'Amministrazione resistente che faccia valere l'insussistenza dell'obbligo di provvedere su
un'istanza infondata, la giurisprudenza ha affermato che l'obbligo di provvedere che il giudice è
chiamato ad accertare <<ha carattere meramente preliminare e procedimentale, e viene in gioco
prima e indipendentemente da ogni indagine sulle rispettive posizioni sostanziali che leghino la
parte pubblica e quella privata>>54. L'Amministrazione, quindi, in virtù dei doveri di buona
amministrazione e correttezza, avrebbe l'obbligo di soddisfare la "legittima aspettativa" del privato
a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni che la parte pubblica intende adottare nei
suoi confronti a prescindere dalla fondatezza dell'istanza.
6.2.
La II fase: la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 10 del 1978 e la successiva evoluzione
giurisprudenziale fino alla legge n. 205/2000.
A partire dalla fine degli anni ’70, tuttavia, si è andato affermando, con riferimento al
ricorso avverso il silenzio-rifiuto su atti vincolati, un orientamento innovativo volto a superare la
tradizionale concezione che configura il processo amministrativo esclusivamente come
impugnatorio.
Già con la sentenza 10 marzo 1978 n. 10 dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 55, si
è ammessa per la prima volta la possibilità per il giudice amministrativo, limitatamente agli atti
vincolati, di andare oltre il mero accertamento dell'illegittimità del silenzio-rifiuto e di pronunciarsi
anche sulla fondatezza dell'istanza presentata dal ricorrente.
51
Cfr. B.E. TONOLETTI, Oggetto del giudizio contro il silenzio-rifiuto della pubblica amministrazione:
orientamenti giurisprudenziali, in Studium iuris, 1996, 613.
52
A.M. SANDULLI, Il silenzio della pubblica amministrazione oggi: aspetti sostanziali e processuali (1982),
ora in Scritti giuridici, V, Napoli, 1990, 595 ss.
53
L'intento del giudice di pregiudicare il meno possibile le ulteriori scelte dell'amministrazione traspare fra
l'altro in Cons. St., Ad. Plen., 3 maggio 1960, n. 8 (in Giur. it., 1960, III, 257, con nota di GUICCIARDI,
Silenzio e pronuncia sullo stesso ricorso gerarchico) secondo cui nel caso di silenzio-rifiuto <<il Consiglio
di Stato può bensì accertare l'illegittimità dell'omissione, ma non può anche sostituirsi all'Amministrazione
nel determinare il contenuto dell'atto>> in quanto <<l'illegittimità consiste non nell'aver rigettato l'istanza
(poiché appunto il Consiglio di Stato non è in grado di stabilire se nel merito l'eventuale rigetto sarebbe o no
illegittimo) ma nell'aver rifiutato di emettere su di essa un qualsiasi provvedimento>>; Cons. St., sez. V, 14
ottobre 1961, n. 529, in Foro it., 1962, III; 82, secondo cui <<il giudice amministrativo, investito del ricorso
avverso il silenzio-rifiuto, può accertare l'illegittimità del comportamento negativo soltanto sotto il profilo
del suo contrasto con l'obbligo di provvedere, ma non può sostituirsi all'Amministrazione del determinare il
preteso contenuto di siffatto comportamento>>.
54
Cons. St., sez. V, 9 marzo 1984, n. 230, in Cons. Stato, 1984, I, 264; T.a.r. Trentino Alto-Adige, sez.
Trento, 26 maggio 1989, n. 161, in Trib. amm. reg., 1989, I, 2372; T.a.r. Lazio, sez. I, 24 ottobre 1990, n.
954, in Trib. amm. reg., 1990, I, 3752; T.a.r. Lazio, sez. I, 21 febbraio 1995, n. 325, in Trib. amm. reg., 1995,
I, 992.
55
In Cons. Stato, 1978, I, 335
19
Tale posizione, inizialmente accolta con molta cautela, è stata poi recepita, anteriormente
all’entrata in vigore dell’art. 2 legge n. 205/2000, dalla giurisprudenza prevalente, secondo la quale
oggetto del giudizio di impugnazione del silenzio-rifiuto non è il silenzio in sé, bensì la fondatezza
della pretesa del ricorrente. Il giudice amministrativo, quindi, non è chiamato a pronunciarsi solo
sull'obbligo di provvedere in capo all'Amministrazione, ma è altresì abilitato, sia pure nel solo caso
di atti vincolati, a verificare la fondatezza della pretesa stessa e a definire il contenuto del
provvedimento che (avrebbe dovuto e) deve essere adottato56.
La tesi volta ad estendere l'ambito di cognizione del G.A. è stata, inoltre, sostenuta, già
prima della legge n. 205/2000, dalla dottrina prevalente57. A sostegno di questa posizione, in
particolare, vengono invocati due principi, quello di economia dei mezzi processuali e quello di
effettività della tutela giurisdizionale.
Quanto al primo, si afferma che un principio generale di economia processuale impone di
evitare la necessità di un nuovo giudizio che rimetta in discussione lo stesso bene della vita.
Sarebbe, quindi, in contrasto con tale principio una pronuncia del G.A. volta a rilevare il mero
obbligo di provvedere, senza alcun ulteriore vincolo nascente dal giudicato per quel che riguarda il
quid e il quomodo. Seguendo l'impostazione criticata, infatti, come è stato autorevolmente
rilevato58, per avere una tutela piena contro il comportamento omissivo della Amministrazione si
renderebbe necessario un triplice giro di attività giurisdizionale:
a) un giudizio di legittimità che si limita a dichiarare l'obbligo di provvedere senza alcun
risultato ricostruttivo del rapporto amministrativo;
b) un primo giudizio di ottemperanza - esperibile soltanto nel caso di persistente inerzia –
che consente per la prima volta l'accertamento del rapporto controverso e che si conclude – in caso
di esito favorevole al ricorrente - con una pronuncia impositiva dell'obbligo di emettere il
provvedimento richiesto;
c) un secondo giudizio di ottemperanza, che consente finalmente al giudice - in caso di
violazione dell'obbligo imposto dalla precedente pronuncia - l'esercizio di poteri sostitutivi e,
dunque, l'emissione del provvedimento richiesto. Del resto, dopo l'art. 2 l. n. 241/1990, l'obbligo di
56
Cfr., ex pluribus, Cons. St., sez. IV, 7 luglio 1986, n. 483, in Foro amm., 1986, 1361; Cons. St., sez. VI, 19
febbraio 1993, n. 170, in Cons. Stato, 1993, I, 233; Cons. St., sez. V, 7 aprile 1994, n. 418, ivi 1990, I, 852;
Cons. St., sez. V, 12 marzo 1996, n. 251, in Foro amm. 1996, 869; Cons. St., sez. VI, 29 febbraio 1997, n.
162, in Cons. Stato, 1997, I, 133; Cons. St., sez. VI, 1° febbraio 1999, n. 201, ivi, 1999, I, 242; C.G.A. 25
maggio 2000, n. 264, in Cons. Stato, 2000, I, 1544; Cons. St.. Tra le decisioni dei T.a.r. si segnalano T.a.r.
Piemonte, sez. I, 7 dicembre 1994, n. 682, in Foro amm., 1995, 102; T.a.r. Campania, sez. IV Napoli, 30
luglio 1998, n. 2702, in Ragiusan, 1999, f. 178-9, 51.
57
Cfr. G. ABBAMONTE, Silenzio-rifiuto e processo amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 1985, 20 ss.; E.
CANNADA BARTOLI, Inerzia a provvedere della pubblica amministrazione e tutela del cittadino, in Foro
padano, 1956, n.2; F. CASTIELLO, Il nuovo modello di amministrazione, cit., 383; E. FOLLIERI, Silenzio della
P.A. e tutela degli interessi diretti all'acquisizione di un vantaggio (c.d. interessi pretermessi), in Foro amm.,
1987, I, 2195 ss.; G. GRECO, Silenzio della Pubblica Amministrazione e oggetto del giudizio amministrativo,
in Giur. it., 1983, III, 137 ss.; G. SALA, Oggetto del giudizio e silenzio dell'amministrazione, in Dir. Proc.
Amm., 1984, 147 ss.; F.G. SCOCA, Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, 1971, 26 ss.; F.G.
SCOCA, M. D'ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, cit., 451; P. STELLA RICHTER, L'aspettativa di
provvedimento, in Riv. trim. dir. pubb., 1981, 1; V. TODARO, Spunti innovativi in materia di tutela contro il
silenzio, in Dir. Proc. Amm., 1992, 552-3.
58
Cfr. M. NIGRO, Le linee di una riforma necessaria e possibile del processo amministrativo, in Riv. dir.
proc., 1978, 254 ss.; G. GRECO, L'accertamento autonomo del rapporto nel giudizio amministrativo, Milano
1980, 19. Sul punto v. anche V. CAIANIELLO, Diritto processuale amministrativo, Torino, 1994, 483.
20
provvedere è già sancito in tutto e per tutto dalla legge, sicché quale la sentenza dichiarativa non
aggiungerebbe nulla di nuovo59.
Con riferimento al principio di effettività della tutela giurisdizionale60, si osserva, invece,
che la sentenza deve essere realmente satisfattiva dell'interesse fatto valere in giudizio e che questo
interesse non è mai relativo alla mera emanazione di un atto amministrativo, ma è volto ad ottenere
un bene della vita, sia pure per il tramite del legittimo esercizio del potere amministrativo61. In
quest'ottica, il ricorso avverso il silenzio-rifiuto sarebbe teso a stigmatizzare l'inerzia della P.A.
rispetto non semplicemente ad un astratto dovere di provvedere, ma ad uno specifico dovere di
provvedere favorevolmente62. A fondamento della domanda, in definitiva, il ricorrente pone quella
stessa situazione sostanziale che, esistendo già prima del processo, contribuisce a qualificare come
illegittimo il silenzio serbato dalla P.A.63.
D'altra parte, l'art. 23 della legge n. 1034 del 1971, prevedendo l'estinzione del processo per
cessata materia del contendere soltanto qualora l'amministrazione proceda all'annullamento o alla
riforma dell'atto impugnato in modo conforme all'istanza del ricorrente, dimostrerebbe chiaramente
che il fine ultimo del processo amministrativo è di appagare le pretese sostanziali dell'interessato 64.
Per queste ragioni, qui sinteticamente riportate, si è sostenuto che la tutela contro il silenziorifiuto della P.A. (e più in generale la tutela degli interessi legittimi pretensivi) possa essere effettiva
solo in un giudizio di accertamento autonomo del rapporto <<che consenta di colmare le lacune del
mero annullamento, per giungere all'accertamento della disciplina giuridica del caso concreto, nei
limiti in cui questa scaturisce dalla normativa vigente (e salvi, dunque, solo i margini di
discrezionalità)>>65.
Si arriva così ad introdurre uno strumento di tutela per molti versi simile alla
Verpflichtungsklage e cioè a quella speciale azione di adempimento prevista dall'art. 42 della legge
tedesca sul processo amministrativo (VWGO)66 tramite la quale si può chiedere al giudice la
condanna all'emanazione di un atto rifiutato o omesso67.
59
In questi termini v. G. MORBIDELLI, Il procedimento amministrativo, in AA.VV., Diritto amministrativo,
Bologna, 1998, 1356; G. GRECO, Silenzio della P.A. ed oggetto del giudizio amministrativo, cit., 139; E.
FOLLIERI, Silenzio della P.A. e tutela degli interessi diretti all'acquisizione di un vantaggio (c.d. interessi
pretermessi), cit., 2195; V. TODARO, Spunti innovativi in materia di tutela contro il silenzio, cit., 552-3.
60
Sul punto v. le osservazioni di G. GRECO, Per un giudizio di accertamento compatibile con la mentalità
del giudice amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 1992, 485.
61
In questi termini, B.E. TONOLETTI, Silenzio della pubblica amministrazione, in Dig. disc. pubb., vol. XIV,
Torino, 1998, 165.
62
Cfr. G. GRECO, Per un giudizio di accertamento compatibile con la mentalità del giudice amministrativo,
cit., 485, il quale rileva che il giudizio sul silenzio-rifiuto, così come congegnato in quelle applicazioni
giurisprudenziali che lo circoscrivono all'accertamento del mero obbligo di provvedere, <<risulta ad un
tempo il più scontato quanto a risultato e il più inutile quanto ad effettività della tutela>>.
63
E. CANNADA BARTOLI, Inerzia a provvedere da parte della pubblica amministrazione e tutela del
cittadino, cit.
64
Cfr. F.G. SCOCA, M. D'ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, cit., 420, nota 44.
65
Così G. GRECO, Per un giudizio di accertamento compatibile con la mentalità del giudice amministrativo,
cit., 486
66
Il testo della VwGO può leggersi in A. MASUCCI, La legge tedesca sul processo amministrativo, in
Quaderni Dir. proc. Amm., 1991, 71 ss.
21
6.3.
La III fase: l'oggetto della sindacato giurisdizionale nel ricorso contro il silenzio-rifiuto
dopo l'art. 2 l. n. 205/2000. La lettura restrittiva accolta dall'Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato con la sentenza 9 gennaio 2002, n. 1.
Delineato il quadro esistente prima della riforma del processo amministrativo, si tratta ora di
stabilire se, ed eventualmente in che misura, l’art. 21-bis l. n. 1034/1971, introdotto dall'art. 2 l. n.
205/2000, abbia inciso sull'oggetto della cognizione del G.A. nel ricorso avverso il silenzio-rifiuto.
Diverse sono le letture che si possono dare della norma. Questa, infatti, contiene indicazioni
che possono apparire di segno contraddittorio. Da un lato, la previsione di un rito accelerato
destinato a concludersi con sentenza succintamente motivata entro trenta giorni dalla scadenza del
termine per il deposito del ricorso ed il ruolo centrale attribuito al commissario ad acta, farebbero
propendere per una lettura restrittiva. Dall'altro però, il riferimento testuale ad un accoglimento
parziale del ricorso, nonché la possibilità di porre in essere adempimenti istruttori, sembrerebbero
legittimare una verifica giurisdizionale della spettanza del bene della vita.
Secondo un primo indirizzo interpretativo, l'art. 2. l. n. 205/2000 avrebbe circoscritto la
cognizione del G.A. esclusivamente alla verifica dell'esistenza di un obbligo di provvedere della
Amministrazione, precludendogli l'esame del merito dell'istanza anche nei casi di attività
vincolata68.
Questa tesi è stata accolta dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 9
gennaio 2002, n. 169 sulla base di argomenti di natura letterale, teleologica e sistematica.
67
Cfr. G. GRECO, Per un giudizio di accertamento compatibile con la mentalità del giudice amministrativo,
cit., 485; ID., Accertamento autonomo del rapporto nel giudizio amministrativo, Milano, 1980; I. FRANCO,
Annotazioni sul regime delle azioni nel processo amministrativo e sulle posizioni giuridiche tutelabili in sede
di giurisdizione esclusiva, in Dir. Proc. Amm., 1990, 96; Sulla Verpflichtungsklage v. L. TARANTINO,
Giudizio amministrativo e silenzio della pubblica amministrazione, cit., 31 ss.; ID., L’azione di condanna nel
processo amministrativo, cit.
68
Emblematico in tal senso T.a.r. Catania, sez. II, 10 febbraio 2001, n. 293, cit., secondo cui <<nel caso di
ricorso volto a censurare il silenzio amministrativo, il G.A. deve limitarsi ad operare due valutazioni
fondamentali: che sia decorso il termine previsto dalla legge o dagli atti di autoregolamentazione per
l'adozione del provvedimento senza che questa sia intervenuta; che il ricorrente abbia un interesse (anche
oppositivo) all'adozione dell'atto. Dopo l'intervento dell'art. 2 della l. 205/2000, è infatti da ritenere che il
Giudice non si possa sostituire all'Amministrazione stessa, indicando il contenuto che il provvedimento
debba assumere anche nell'ipotesi di attività vincolata. I termini acceleratori del processo concernente il
silenzio dell'Amministrazione sono stati concepiti al solo fine di obbligare l'Amministrazione ad una
risposta, qualunque essa sia, contro la quale azionare l'eventuale processo nelle forme ordinarie>>. In senso
analogo cfr. T.a.r. Campania, Salerno, sez. I, 2001, n. 1035, in www.giustizia-amministrativa.it; T.a.r.
Veneto, sez. II, 2 marzo 2001, n. 467, in www.giustizia-amministrativa.it; T.a.r. Piemonte, sez. II, 13 gennaio
2001, n. 34, in www.giustizia-amministrativa.it; T.a.r. Pescara, 26 gennaio 2001, n. 57, in Urbanistica e
appalti, 2001, n. 6, 649; con nota di C. CRISCENTI, Il rito del silenzio nel nuovo processo amministrativo.
Una variante a tale orientamento è fatta propria da alcune pronunce in cui si afferma il G.A., adito in sede di
impugnazione del silenzio serbato dalla P.A. deve limitarsi ad accertare l'illegittimità dell'omissione, a meno
che il provvedimenti da emanare abbia natura vincolata e la palese infondatezza del ricorso risulti ictu oculi
dagli atti di causa: cfr. T.a.r. Lazio, sez. II, 23 marzo 2001, n. 2372, in Urbanistica e appalti, 2001, n. 10, con
nota di R. GIOVAGNOLI, L'oggetto del sindacato giurisdizionale nel ricorso contro il silenzio-rifiuto della
P.A.; T.a.r. Lazio, sez. I-bis, 30 novembre 2000, n. 10704, in Trib. amm. reg., 2000, 5112; T.a.r. Lazio, sez.
II bis, 9 maggio 2001, n. 4021.
69
La questione relativa all'intensità del sindacato che il g.a. può esercitare in sede di ricorso contro il
silenzio-rifiuto era stata sottoposta all'Adunanza Plenaria dalla VI sezione del Consiglio di Stato con
l'ordinanza 10 luglio 2001, n. 3803 (in Diritto&Formazione, 2001, 726 con nota di R. GIOVAGNOLI,
22
Sotto il profilo letterale le considerazioni svolte nella sentenza possono essere così
sintetizzate:
- l'art. 21-bis, al comma 1°, identifica l'oggetto del ricorso nel "silenzio", senza fare alcun
riferimento alla pretesa sostanziale del ricorrente e, poiché, in linea di principio, i poteri del giudice
sono delimitati dal ricorso (art. 112 c.p.c.), se ne deve dedurre che il legislatore ha inteso
circoscrivere il giudizio alla inattività dell'amministrazione;
- la stessa norma, al comma 2°, prevede che, in caso di accoglimento del ricorso, il giudice
<<ordina all'amministrazione di provvedere>> e se <<l'amministrazione resti inadempiente [...] su
richiesta di parte, nomina un commissario che provveda in luogo della stessa>>. L'espressione
>>resti inadempiente>> lascia intendere che l'inadempimento dell'amministrazione non ha
contenuto diverso prima della sentenza, quando è condizione per l'accoglimento del <<ricorso
avverso il silenzio>>, e dopo la sentenza, quando è condizione perché provveda il commissario;
- la terminologia usata dal legislatore (<<ordina ... di provvedere>>; <<un commissario che
provveda>>; <<provvedimento da adottare in via sostitutiva>>) definisce nell'accezione comune in
dottrina e in giurisprudenza, l'esercizio di una potestà amministrativa, sicché sarebbe inappropriata
se il giudice dovesse spingersi a stabilire il concreto contenuto del provvedimento, poiché in tal
caso all'amministrazione e al commissario non residuerebbero altri spazi se non per un'attività
avente contenuto e funzione di mera esecuzione. Inoltre, anche l'indeterminatezza circa il contenuto
(positivo o negativo) dell'eventuale provvedimento tardivo dell'amministrazione, avvalora la tesi
che l'organo competente in via ordinari conservi, pur dopo la sentenza e fino all'insediamento del
commissario, pur dopo la sentenza e fino all'insediamento de commissario, de commissario, il
potere di provvedere in senso pieno.
Sotto il profilo teleologico, la sentenza rileva come l'intento del legislatore fosse solo quello
di indurre l'amministrazione ad esprimersi sollecitamente sull'istanza del privato. Ciò emerge,
secondo la Plenaria, sia dai lavori preparatori - nei quali si legge che la trasformazione del ricorso in
un procedimento d'urgenza è rivolta ad evitare che <<la dichiarazione dell'obbligo di provvedere
(che di per sé non soddisfa l'interesse sostanziale al ricorso) sopraggiunga dopo i lunghi tempi del
processo ordinario>> - sia dalla caratteristiche acceleratorie del nuovo rito (brevità dei termini,
snellezza delle formalità), la cui configurazione è congrua se il giudizio si incentra sul "silenzio",
non anche se il giudice dovesse estendere la propria cognizione ad altri profili.
Sul piano sistematico, infine, l'Adunanza Plenaria rileva come la lettura restrittiva dell'art.
21-bis legge n. 1034/71 si allinea al principio generale che assegna la cura dell'interesse pubblico
all'amministrazione e al giudice amministrativo, nelle aree in cui l'amministrazione è titolare di
potestà pubbliche, il solo controllo sulla legittimità dell'esercizio della potestà. Pertanto, rileva il
Supremo Collegio, se nulla impedisce, in linea astratta, di individuare in via interpretativa ipotesi di
L’accertamento del rapporto nel rito speciale per il silenzio della P.A.). L'ordinanza sottolinea come in
seguito all'entrata in vigore della norma si sono profilate due possibili interpretazioni circa la natura del
giudizio speciale per i ricorsi avverso il silenzio dell'Amministrazione. Un orientamento più restrittivo,
traendo spunto dalla semplificazione dell'iter processuale prevista dal citato art. 21-bis (trattazione dei ricorsi
in camera di consiglio, imposizione di un termine breve per la pronuncia, sentenza resa in forma
succintamente motivata, termini abbreviati per l'appello), esclude che il giudice possa accertare il
fondamento della pretesa del ricorrente e determinare il contenuto del provvedimento da adottare. Un'altra
tesi, invece - sul rilievo che la riforma del processo amministrativo ha introdotto altre ipotesi di definizione
del merito tramite riti “accelerati" (cfr. art. 3, comma 1°, e art. 9, comma 1°, della legge n. 205/2000) e
valorizzando il riferimento contenuto nel citato art. 21-bis alla possibile istruttoria disposta dal collegio giunge alla conclusione che, almeno nei casi di attività vincolata, il giudice può anche determinare il
contenuto dell'atto che l'Amministrazione deve adottare. La VI sezione, quindi - ricostruite in tal modo le due
possibili interpretazioni relative al nuovo art. 21-bis - ritiene, pur in assenza di un contrasto di
giurisprudenza, di dover provocare l'intervento dell'Adunanza Plenaria, considerata l'importanza della
questione e la possibilità che la stessa dia vita a contrasti di giurisprudenza.
23
ingerenza del giudice nella sfera dell'attività pubblicistica, l'art. 21-bis legge n. 1034/1971, anziché
fornire elementi persuasivi in tal senso, accredita la soluzione opposta.
D'altro canto, conclude la sentenza, sarebbe irrazionale ammettere che nel caso di inerzia il
privato possa ottenere, mediante il ricorso avverso il silenzio, l'accertamento immediato da parte del
giudice, della fondatezza della sua pretesa sostanziale, mentre, nella medesima situazione, se
l'amministrazione avesse adottato un provvedimenti esplicito di diniego, la tutela giurisdizionale
sarebbe stata soggetta alle forme ed ai limiti, oltre ai tempi, del giudizio ordinario.
Accolta, sulla base di queste argomentazioni, la lettura restrittiva della nuova norma, la
Plenaria respinge anche la tesi che, al fine di evitare un "arretramento" rispetto all'indirizzo
giurisprudenziale formatosi anteriormente alla legge n. 205/2000, individuava due riti contro il
silenzio: il primo, quello previsto dall'art. 21-bis legge n. 1034/1971, connotato in termini di
semplicità e celerità, ma contraddistinto da poteri cognitori e decisori circoscritti alla mera
declaratoria dell'obbligo di provvedere; il secondo, quello ordinario, più lungo e complesso, ma che
rende possibile accertare, almeno nei casi di attività vincolata, la fondatezza della pretesa.
Il precedente indirizzo giurisprudenziale, si legge nella motivazione, <<non può che cedere
di fronte alla normativa sopravvenuta che definisce in modo compiuto la tutela giurisdizionale
accordata al privato nei confronti del comportamento omissivo dell'amministrazione>>. Ciò, però,
continua la sentenza, non determinerebbe nessun <<arretramento>> rispetto al passato in quanto, il
nuovo rito, grazie all'abbreviazione dei termini e alla possibilità di ottenere la nomina del
commissario ad acta, nel corso dello stesso giudizio, senza necessità di promuovere un giudizio di
ottemperanza, assicura pur sempre al privato un significativo vantaggio anche rispetto all'indirizzo
giurisprudenziale anzidetto.
6.3.1. Osservazioni sulla soluzione accolta dall'Adunanza Plenaria n. 1 del 2002.
La decisione della Plenaria, senz'altro apprezzabile per lo sforzo ricostruttivo e l'analiticità
della motivazione, suscita, tuttavia, alcune considerazioni critiche.
Essa, infatti, riduce il ricorso contro il silenzio ad un giudizio sostanzialmente inutile,
destinato a risolversi con un invito all'Amministrazione a provvedere in qualche modo, ancorché
con l'adozione di un atto illegittimo. Sotto questo profilo, è difficile non scorgere un arretramento
rispetto alle posizioni cui erano giunte prima della riforma sia la dottrina, sia, pur se in maniera più
faticosa, la giurisprudenza.
Tale arretramento, che non risulta "compensato" né dalla maggiore celerità del rito né dalla
possibilità di nominare il commissario ad acta senza necessità di promuovere un giudizio di
ottemperanza, non sembra neanche coerente con la tendenza, che emerge a più riprese dagli ultimi
interventi legislativi in materia di processo amministrativo, e in particolare dalla l. n. 205/2000, di
ampliare i poteri cognitori e decisori del G.A., al fine di assicurare l'effettività della tutela
giurisdizionale.
Basti pensare alla nuova tutela cautelare, non più vincolata nei ristretti limiti della
sospensione del provvedimento impugnato, ma estesa all'adozione di tutte le misure che appaiono
idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso; all'introduzione della
consulenza tecnica d'ufficio e ai riflessi che questa scelta potrà avere sul delicato tema della
sindacabilità della discrezionalità tecnica dell'Amministrazione; alla generalizzazione del rimedio
risarcitorio e, in particolare, del risarcimento in forma specifica che, come emerge dalle prime
letture, potrà consentire al giudice di sostituirsi all'Amministrazione nell'emanazione del
provvedimento, almeno nei casi di attività vincolata; alla nuova disciplina dei motivi aggiunti la
quale, consentendo l'impugnazione mediante proposizione di motivi aggiunti di <<tutti i
provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all'oggetto del ricorso
stesso>>, rivela che, pur essendo il giudizio occasionato dalla impugnativa di un atto
amministrativo, il fine per cui il potere giurisdizionale viene sollecitato è la tutela di una pretesa
24
sostanziale, cioè il fine di soddisfare l'interesse al conseguimento di un determinato bene della
vita70.
Tali innovazioni sembrano allora il segnale dell'avvenuta evoluzione del processo
amministrativo, <<sempre più orientato verso il modello del giudizio di cognizione sul rapporto
controverso, anziché sulla mera illegittimità dell'atto, e capace di rivelare la pretesa nella sua
identità sostanziale; qualificato da un giudicato avente effetto conformativo e non più circoscritto
alla mera eliminazione del provvedimento illegittimo>>71.
In questo contesto risulta, pertanto, difficile pensare che, con riferimento al ricorso verso il
silenzio-inadempimento, il legislatore abbia voluto fare una scelta opposta, circoscrivendo l'ambito
di cognizione del G.A. negli angusti limiti della verifica della scadenza del termine per provvedere.
L'oggetto del giudizio avverso il silenzio, a nostro avviso, dovrebbe allora essere definito
sulla base dei risultati cui erano approdate, già prima della riforma del processo amministrativo, la
dottrina e la giurisprudenza prevalenti. Ciò significa che il G.A. potrà spingersi oltre la mera
dichiarazione dell'obbligo a provvedere, andando ad accertare la spettanza del bene della vita ogni
qualvolta l'attività della P.A. si presenti come vincolata. E questa verifica, lungi dall'essere limitata
alle sole ipotesi in cui l’infondatezza della domanda risulti ictu oculi anche da una delibazione
sommaria, dovrà essere condotta anche nei casi di maggiore complessità di giudizio, eventualmente
con l'ausilio di quei mezzi istruttori cui l'art. 21-bis legge n. 1034/1971 fa esplicito riferimento72.
A sostegno di questa conclusione sembrano, infatti, deporre le seguenti considerazioni. In
primo luogo, c'è da rilevare che, nella maggior parte dei casi, il ricorrente contro il silenzioinadempimento chiede non solo che venga dichiarato l'obbligo di provvedere, ma che, accertata la
fondatezza della pretesa, si ordini alla P.A. di accogliere l'istanza. Il privato, infatti, è interessato
non ad una pronuncia qualsiasi, ma ad una pronuncia positiva, satisfattiva dell'interesse fatto valere.
Seguendo l'interpretazione restrittiva, il giudizio speciale contro il silenzio si risolverebbe,
quindi, in un nulla di fatto ovvero, come è stato osservato, nella <<onerosa anticamera di una nuova
lite>>73, con ciò vanificando la scelta compiuta dal legislatore verso una tutela più rapida ed
effettiva degli interessi legittimi pretensivi frustrati dall'inerzia della P.A. In altri termini, la tanto
attesa azione di adempimento finirebbe per diventare un'arma spuntata, sostanzialmente inutile,
70
Cfr., in questi termini, B. MAMELI, Atto introduttivo e attività istruttoria, in F. CARINGELLA, M. PROTTO,
(a cura di), Il nuovo processo amministrativo, cit., 7.
71
Così F. CINTIOLI, Osservazioni sul nuovo processo cautelare, in Urbanistica e appalti, 2001, 237.
In tal senso cfr. anche Cons. St., Commissione speciale, 17 gennaio 2001, in Urbanistica e appalti, 2001,
n. 6, 648, secondo cui con il nuovo rito previsto per i ricorsi proposti in costanza dell'inerzia tenuta
dall'Amministrazione nei riguardi dell'istanza dell'interessato, il legislatore si pone due obiettivi primari:
<<quello di accelerare tali processi e quello di concentrare in un unico rapporto processuale le due fasi che
spesso si rivelavano necessarie per costringere l'Amministrazione ad ottemperare. La sequenza tra giudizio di
cognizione per la dichiarazione di illegittimità del silenzio e giudizio di ottemperanza per la pronuncia
positiva è assorbita in un giudizio unitario. Esso ha un duplice oggetto, misto di accertamento e di condanna,
che assorbe in via definitiva l'interpretazione che affidava alla decisione del giudizio una mera efficacia
demolitoria del silenzio dichiarato illegittimo, Il nuovo modello, invero, consente non solo di pronunciare
sull'inadempimento dell'Amministrazione, ma anche di ordinarle di provvedere sull'istanza e di nominare un
commissario ad acta alla scadenza del termine all'uopo assegnatole>>.
72
73
F. MARIUZZO, Commento all'art. 2, in V. ITALIA (a cura di), La giustizia amministrativa. Commento alla l.
21 luglio 200, n. 205, Milano, 2000, 24, il quale rileva come aderendo all'interpretazione restrittiva, <<ne
discenderebbe, non solo un'ipocrita elusione di un rito soltanto fittiziamente accelerato con finale
frustrazione delle finalità anche per questo aspetto perseguite dal legislatore, ma la scontata conclusione che
il nuovo istituto, pur formalmente delineato come potente mezzo di effettiva tutela nei confronti dell'inerzia,
diverrebbe nell'immediato assai scarsamente credibile e comunque contraddittorio con l'esigenza che sia fatta
piena luce sull'esistenza in concreto di un obbligo per l'amministrazione di provvedere>>.
25
destinata a risolversi in un invito all'Amministrazione a provvedere in qualche modo, ancorché
illegittimo74.
Verrebbero in tal modo tradite le finalità acceleratorie e di economia processuale perseguite
con la riforma del processo amministrativo: da un lato, infatti, il privato sarebbe costretto anche nei
casi di attività priva di discrezionalità e di manifesta fondatezza della sua pretesa, a due gradi di
giudizio, seppur con procedura accelerata, per la mera declaratoria dell'obbligo di provvedere;
dall'altro, l'Amministrazione sarebbe gravata dall'obbligo di una decisione espressa, anche nelle
ipotesi di pretesa manifestamente infondata.
Oltre a queste considerazioni, volte soprattutto ad evidenziare le conseguenze negative che
sarebbero determinate dalla tesi restrittiva, ci sono poi importanti elementi testuali e sistematici che
fanno propendere per una interpretazione estensiva dell'art. 21-bis della legge n. 1034/1971. In
primo luogo, il comma 2 della norma in esame usa la locuzione <<in caso di totale o parziale
accoglimento del ricorso>>, mentre se la condanna dovesse essere limitata all'attuazione del mero
obbligo di provvedere il ricorso potrebbe essere solo accolto o respinto e non resterebbero margini
per ipotesi intermedie.
Inoltre, è prevista la possibilità di porre in essere adempimenti istruttori che non sarebbero
necessari – eccezion fatta per la mera acquisizione documentale dell'istanza dalla quale nasce
l'obbligo di provvedere –qualora il giudice dovesse limitarsi a stabilire se il termine è scaduto.
Deve, infine, rilevarsi che non sempre alla "celerità" del rito corrisponde la semplicità del
giudizio. Emblematico, in tal senso è il rito in materia di accesso agli atti amministrativi che, pur
essendo modellato secondo una logica di forte celerità e presentando, sotto questo profilo, molte
analogie con l'azione introdotta dall'art. 2 legge n. 205/2000, non è per questo contraddistinto dalla
semplicità del giudizio.
D'altra parte, diverse ipotesi di definizione del merito del ricorso con rito "accelerato" sono
previste dalla stessa legge n. 205/2000. Innanzitutto, l'art. 9, comma 1°, ha introdotto l'istituto delle
"decisioni semplificate", tra le quali rientrano le c.d. <<sentenze brevi>> che il giudice può adottare
non solo nei casi di manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità del ricorso (sentenze
brevi di rito), ma anche nei casi di manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso stesso (sentenze
brevi di merito). Questo tipo di sentenza, analogamente a quella pronunciata in materia di inerzia
della P.A. sensi dell'art. 21-bis, è motivata succintamente – ovvero con un sintetico riferimento al
punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo, o in relazione a un precedente conforme – ed è adottata
in camera di consiglio, nell'udienza fissata per l'esame dell'istanza cautelare o fissata d'ufficio per
l'esame istruttorio ex art. 44, comma 2, R.D. 1054/192475.
L'art. 23-bis legge n. 1034/1971, introdotto dall’art. 4 della legge n. 205/2000, inoltre, al fine
di dare una risposta alle istanze di rapidità fortemente avvertite in taluni settori, introduce una
disciplina speciale di carattere acceleratorio del processo in determinate materie 76. La ratio
acceleratoria prevista dalla nuova normativa si è realizzata, in particolare, attraverso la netta
riduzione dei termini processuali ordinari (dimezzati, con l'eccezione di quello per il ricorso); la
creazione di un rito speciale eventuale (subordinato alla sussistenza di ulteriori requisiti particolari);
la rapida pubblicazione del dispositivo; l'accelerazione dei termini per l'appello; la previsione di
particolari misure cautelari77.
74
Sul tema v. anche S. FANTINI, Il rito speciale in materia di silenzio della pubblica amministrazione, in
Giust. civ., 2001, III, 191.
75
Sulle decisioni in forma semplificata v. F.F. TUCCARI, Le decisioni in forma semplificata, in F.
CARINGELLA, M. PROTTO, Il nuovo processo amministrativo, cit., 775 ss.
76
Sui riti abbreviati ex art. 4 l. n. 205/2000 v. M. LIPARI, I riti abbreviati, in F. CARINGELLA, M. PROTTO, Il
nuovo processo amministrativo, cit., 262 ss.; G. GIOVANNINI, I procedimenti speciali, in V. CERULLI IRELLI
(a cura di), Verso il nuovo processo amministrativo, Torino, 2001, 293 ss.
77
Sul punto cfr. F. CARINGELLA, Il diritto amministrativo, cit., 1225.
26
Da questo rapido excursus di riti "abbreviati"78 emerge, dunque, che la rapidità della
decisione non è necessariamente espressione di un'esigenza antagonistica rispetto all'intensità del
sindacato giurisdizionale, ma, anzi, a volte è proprio la peculiarità di determinate materie,
caratterizzate da un <<tasso particolarmente significativo di obsolescenza delle posizioni
soggettive>>79, che induce il legislatore a creare una sorta di corsia preferenziale, introducendo
strumenti di accelerazione e snellimento finalizzati ad evitare che <<la definizione giudiziaria
intervenga quando ormai è esaurita la vitalità della materia del contendere>>80.
Anche la semplificazione dell'iter processuale per i ricorsi avverso il silenzio, allora, pare
inquadrarsi nella linea delle procedure speciali, cui il legislatore ha fatto frequente ricorso negli
ultimi anni81. La scelta acceleratoria compiuta con l'art. 21-bis, pertanto, più che rappresentare un
elemento da cui dedurre una limitazione del sindacato giurisdizionale, sembra invece espressione
dell'esigenza fortemente avvertita di fornire al privato una tutela rapida ed effettiva verso un
fenomeno, qual è quello del silenzio, che da sempre costituisce una delle forme più temibili di
comportamento illegittimo della P.A. e che spesso non è <<mera inerzia>>, ma <<scelta strategica,
ambigua riserva di potere di un'amministrazione che vuol decidere ma è conscia della debolezza
della scelta presa e della possibile motivazione>>82. La celerità che impronta il giudizio sembra così
rispondere ad un preciso interesse la cui cura in prima battuta dovrebbe essere assicurata proprio
dall'amministrazione rispettando i termini di legge nell'evadere le procedure amministrative83.
Alla luce delle considerazioni sinora svolte, perdono gran parte della loro consistenza anche
gli argomenti generalmente assunti a favore di una interpretazione restrittiva del nuovo rito, come
quelli che fanno leva sulla succinta motivazione della sentenza o sulla brevità dei termini per
ricorrere in appello.
La succinta motivazione della sentenza, infatti, lungi dall'essere un indice della maggiore
semplicità del thema decidendum, può trovare la sua giustificazione proprio nella puntualità del
contenuto ordinatorio della decisione giurisdizionale, che, potendo accertare la spettanza del bene
della vita, non richiede più quell'ampia motivazione, attraverso la quale il privato, in passato,
sfruttandone l'effetto conformativo, avrebbe potuto ottenere l'effettivo soddisfacimento del proprio
interesse.
78
Sul tema v. F. CARINGELLA, F. DELLA VALLE, I processi amministrativi speciali, Milano, 1999, passim; S.
MENCHINI, Processo amministrativo e tutele giurisdizionali differenziate, in Dir. Proc. Amm., 1999, 696 ss.
79
F. CARINGELLA, F. DELLA VALLE, I processi amministrativi speciali, cit., 343.
80
F. CARINGELLA, F. DELLA VALLE,, I processi amministrativi speciali, cit., XI.
81
In tal senso cfr. B. SASSANI, Il regime del silenzio e l'esecuzione della sentenza, cit., 296.
82
In questi termini v. ancora B. SASSANI, Il regime del silenzio e l'esecuzione della sentenza, cit., 296. Nello
stesso senso v. A. LAMBERTI, Il ricorso avverso il silenzio, in V. CERULLI IRELLI (a cura di), Verso il nuovo
processo amministrativo, Torino, 2001, 239, il quale rileva come il silenzio, spesso inevitabile conseguenza
della incapacità della P.A. di esercitare la funzione in tempi ragionevoli, <<non raramente integra una
condotta solo formalmente omissiva, ma in realtà, nella sostanza intesa a conseguire un obiettivo di
amministrazione. In tali casi, il silenzio diviene il subdolo strumento per evitare, o almeno ritardare,
l'adozione dei provvedimenti che l'ordinamento impone o consente di adottare nel momento considerato, per
propiziare soluzioni amministrative non attuabili in maniera espressa>>. L'Autore fa l'esempio della pratica
non infrequente del mancato esame di concessioni edilizie dopo la scadenza del termine di applicazione delle
misure di salvaguardia, rilevando come, con l'assunzione di un comportamento formalmente omissivo, la
P.A. impedisce l'applicazione della disciplina urbanistica vigente e determina, attraverso una salvaguardia di
fatto, l'anticipata applicazione della disciplina in itinere.
83
Come è stato rilevato (G. ABBAMONTE, R. LASCHENA, Giustizia amministrativa, cit., 220-221) <<nella
gestione della funzione pubblica manca la coincidenza, normale nei rapporti privati, tra soggetto
dell'interesse e soggetto della volontà: nei rapporti privati, ognuno può volere per sé ed il primo problema è,
quindi, quello di sapere, se ha voluto o non voluto (principio dell'autonomia); il funzionario, invece,
regolando le vicende dell'interesse generale, vuole per altri e la sua autorità lo porta non solo a poter volere
ma anche a dover volere, con certi margini di scelta più o meno ampi, ma sempre opportunamente
indirizzati>>.
27
Allo stesso modo può ritenersi che la previsione normativa di termini abbreviati per proporre
appello, termini ancor più esigui di quelli previsti in materia di ordinanze cautelari, sia dovuta al
contenuto particolarmente pregnante che può assumere la sentenza di primo grado, attraverso la
quale l'amministrazione può essere condannata ad assumere un provvedimento con un determinato
contenuto.
6.3.2. La tendenza di una parte della giurisprudenza ad ampliare l’oggetto del sindacato
giurisdizionale.
La tesi secondo cui anche dopo l'art. 21-bis legge n. 1034/1971, il G.A. può, almeno nei casi
di attività vincolata, spingersi ad accertare la fondatezza della pretesa, è stata accolta, pochi giorni
prima che venisse pubblicata la decisione della Plenaria, dalla V sezione del Consiglio di Stato con
la sentenza 28 dicembre 2001, n. 6465.
La sentenza della V sezione, dopo aver ricordato i principali argomenti addotti a sostegno
della tesi restrittiva – il carattere sommario del giudizio; la succinta motivazione della sentenza che
lo definisce; il ruolo centrale attribuito al commissario ad acta – afferma che nessuno di essi appare
decisivo. In senso opposto, per l'accoglimento della tesi favorevole alla massima estensione del
sindacato giurisdizionale sul silenzio e sul sottostante rapporto amministrativo vengono invece
valorizzati i seguenti profili:
I) Anzitutto, l'art. 21-bis fa riferimento alla sentenza di parziale accoglimento. La
giustificazione di una siffatta previsione sarebbe alquanto dubbia e problematica nella prospettiva di
un accertamento limitato alla rigida alternativa tra la sussistenza o la mancanza dell'obbligo di
provvedere.
II) In secondo luogo, la norma prevede l'adozione di pronunce istruttorie. Anche tali tipi di
decisione dovrebbero connettersi ad un accertamento dotato di una adeguata profondità,
direttamente riferito al rapporto giuridico controverso.
III) In termini più generali, la legge n. 205/2000 avalla la tendenza dell'ordinamento a
trasformare il processo amministrativo, anche nel giudizio di legittimità, in un giudizio sul rapporto
sostanziale.
IV) Il commissario ad acta non è un diaframma tra il giudice e l'amministrazione, ma, al
contrario, costituisce proprio lo strumento esecutivo della pronuncia del giudice. Detta figura
rafforza i poteri di cognizione e di esecuzione del giudice e non può essere intesa come espressiva
di una sorta di riserva di amministrazione.
V) La celerità del rito non è affatto incompatibile con la profondità del sindacato, come
dimostra l'esperienza dell'accesso ai documenti e quella del rito speciale in materia di opere
pubbliche e del processo speciale ex articolo 23-bis.
La sentenza quindi conclude nel senso che la legge n. 205/2000 ha inteso modulare la
concreta operatività della tutela sul paradigma della tutela "minimale" (il giudice deve limitarsi ad
accertare l'obbligo di provvedere dell'amministrazione, rimettendo a questa ogni ulteriore
determinazione in ordine al contenuto del futuro provvedimento da adottare), ma non esclude
affatto che, in presenza di determinate circostanze, il giudice possa (e debba) esercitare un
sindacato più intenso sulla pretesa sostanziale fatta valere dall'interessato.
In altri termini, secondo la V sezione, la formula legislativa prevede il livello minimo di
protezione della pretesa sostanziale dell'interessato e non certo il limite massimo della tutela
ottenibile dal giudice.
Ne deriva che, se la parte ricorrente lo richiede, il giudice deve vagliare la fondatezza
sostanziale della pretesa azionata, con l'unico limite costituito dal divieto di sostituzione agli
apprezzamenti discrezionali riservati all'amministrazione
Una tendenza ad ampliare i confini del sindacato giurisdizionale in sede di ricorso contro il
silenzio-rifuto si riscontra, peraltro, in altre decisioni che, pur aderendo formalmente
all’impostazione fatta propria dal Supremo Collegio, si discostano poi da essa nel momento in cui
28
ammettono la possibilità <<che il Giudice del “silenzio” valuti la sussistenza di ipotesi di
inaccoglibilità della pretesa sostanziale, che finiscono con l’impedire di dare un esito positivo al
ricorso, anche laddove sia in astratto ipotizzabile l’inadempimento formale dell’Amministrazione
all’obbligo di provvedere>>84.
Secondo tale impostazione, la necessità di valutare l’effettivo rapporto sostanziale
sottostante si giustifica in tal caso in relazione all’esigenza che comunque deve sussistere un
interesse alla decisione, che viene evidentemente a mancare se è sicuro che la pretesa del ricorrente
non potrebbe essere soddisfatta.
6.3.3. La lettura estensiva del rito previsto dall’art. 2 legge n. 205/2000: il ricorso contro il
silenzio come nuova ipotesi di giurisdizione di merito.
Un orientamento radicalmente opposto a quello accolto dalla Plenaria, ha sostenuto, infine,
che con l'art. 21-bis l. n. 1034/1971, non solo fosse stata legittimata per tabulas la verifica
giurisdizionale della spettanza del bene della vita, ma fosse stata attribuito al G.A. il potere di
sindacare la fondatezza della pretesa anche nelle ipotesi di silenzio-inadempimento serbato dalla
P.A. avverso un'istanza del privato volta ad ottenere un provvedimento connotato da discrezionalità
amministrativa. La norma, quindi, avrebbe introdotto una nuova ipotesi di giurisdizione piena,
estesa anche al merito, consentendo al giudice di sostituire le proprie valutazioni a quelle
dell'Amministrazione rimasta inerte.
Tale tesi – escluso che esista una riserva costituzionale di valutazione discrezionale a favore
della P.A. – traeva principalmente spunto dagli sviluppi intervenuti in tema di risarcibilità dei danni
da lesione di interesse legittimo.
Venivano valorizzati, in particolare, due momenti di questo cambiamento: da un lato, la
sentenza della Cassazione n. 500 del 1999 che ha provocato il crollo del muro di irrisarcibilità delle
lesioni di interessi legittimi, dall'altro l'introduzione del risarcimento in forma specifica come
rimedio di carattere generale destinato ad operare senza limiti di materia grazie alla modifica
introdotta all'art. 7, comma 3, l. n. 1034 del 1971.
La sentenza n. 500 del 1999, invero, esclusa l'esistenza di un automatismo tra la rilevazione
dell'illegittimità amministrativa e il risarcimento del danno, ha collegato tale eventualità alla lesione
dell'interesse al bene della vita al quale l'interesse legittimo, secondo il concreto atteggiamento del
suo contenuto, effettivamente si collega e che risulta meritevole di tutela alla stregua
dell'ordinamento. In particolare, la tesi in esame, al fine di dedurne il riconoscimento di una
giurisdizione piena, fa riferimento a quella parte della sentenza in cui Corte di Cassazione, con
riguardo agli interessi pretensivi, asserisce che l'indagine giurisdizionale tesa ad accertare la
spettanza del bene della vita dovrà essere condotta sulla base di una valutazione prognostica sul
positivo accoglimento dell'istanza del privato, da condurre in riferimento alla normativa di settore,
secondo un criterio di normalità.
Orbene, proprio questo giudizio prognostico orientato verso il futuro, che non può più essere
pensato alla stregua di un controllo estrinseco sull'uso avvenuto in passato del potere e
cristallizzatosi in un'attività provvedimentale alla quale ci si oppone, avrebbe l'effetto di rompere i
confini del giudizio di cognizione limitato alla legittimità dell'azione amministrativa e di consentire
un sindacato giurisdizionale sulla spettanza del bene della vita anche quando il provvedimento
amministrativo richiesto dal privato sia espressione di discrezionalità amministrativa.
A sua volta, la generalizzazione del rimedio del risarcimento in forma specifica,
rappresenterebbe un ulteriore elemento da cui dedurre la giurisdizione piena in quanto tale
84
Cons. St., sez. IV, 10 giugno 2004, n. 3729, in www.giustizia-amministrativa.it
29
strumento consentirebbe ora al G.A. di impartire all'Amministrazione l'ordine di emanare un certo
provvedimento con un certo contenuto anche nei casi di attività discrezionale85.
Si è affermato, quindi, che il risarcimento in forma specifica, pur sottoposto ad un diverso
regime giuridico, presenterebbe, quanto agli effetti, profili di perfetta coincidenza con l'azione di
cui all'art. 21-bis legge n. 1034 del 1971, dato che, in entrambi i casi, al G.A. sarebbe consentito di
sostituirsi alle valutazioni, anche discrezionali, della P.A.86.
Questa tesi, per quanto oggi possa sembrare avvalorata, dalla nuova formulazione dell’art. 2
legge n. 241/1990 (che consente espressamente al G.A. di conoscere della “fondatezza
dell’istanza”), non risulta, tuttavia, pienamente condivisibile.
Giova rilevare, infatti, che <<le valutazioni discrezionali con cui l'Amministrazione decide
ciò che è più opportuno per l'interesse pubblico sono per definizione riservate all'Amministrazione,
costituiscono l'essenza dell'attività amministrativa funzionale, riservata all'Amministrazione in
ossequio al principio di separazione dei poteri>>87.
In definitiva, allora, in caso di discrezionalità amministrativa, in assenza di una disposizione
di legge che espressamente deroghi al principio della riserva delle valutazioni discrezionali in capo
alla P.A. istituendo una giurisdizione di merito, il G.A. non potrà compiere nessuna indagine sulla
spettanza del bene della vita. Di conseguenza, l’ordine cui fa riferimento l'art. 21-bis, comma 2°, l.
n. 1034/1971, non potrà che avere carattere procedimentale senza predeterminazione dell'esito
rimesso alla valutazione della P.A.88
D'altra parte, se si ritenesse che l’art. 2 legge n. 241/1990 e l'art. 21-bis l. n. 1034/1971
consentano al G.A. una verifica sulla fondatezza della pretesa anche a fronte di attività connotata da
un alto tasso di discrezionalità, si finirebbe per ammettere una giurisdizione di merito del tutto
anomala per la particolare intensità del sindacato consentito all'autorità giudiziaria89.
Invero, a differenza delle altre ipotesi di giurisdizione di merito nelle quali c'è già una
determinazione amministrativa che il giudice è chiamato a verificare anche sotto il profilo
dell'opportunità, nel ricorso contro il silenzio non c'è alcun provvedimento e quindi il G.A.
interviene su un terreno ancora vergine, agendo direttamente come amministratore e dettando per la
prima volta la disciplina di un concreto rapporto di diritto pubblico.
6.3.4. Le tesi che individuano due riti per i ricorsi contro il silenzio.
85
In dottrina, nel senso che il risarcimento in forma specifica, consenta al giudice di sostituirsi alla P.A.
anche in valutazioni di carattere discrezionale, cfr. L.V. MOSCARINI, Risarcibilità da lesione di interessi
legittimi e nuovo riparto di giurisdizione, in Dir. Proc. Amm., 1998, 803 ss.
86
Proprio argomentando dall'art. 24 Cost., che riconosce pari dignità alla effettiva tutela giurisdizionale delle
posizioni giuridiche, siano esse diritti soggettivi o interessi legittimi, un'autorevole dottrina (M.S. GIANNINI,
A. PIRAS, Giurisdizione amministrativa, in Enc. dir., vol. XIX, Milano, 1970, 263) aveva sollevato il dubbio
<<se la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi non richieda sempre [...] la predisposizione di strumenti
giurisdizionali di merito>>.
87
F. CARINGELLA, Giudice amministrativo e risarcimento del danno, in F. Caringella, M. Protto (a cura di) Il
nuovo processo amministrativo, cit., 682.
88
Parallelamente il rimedio del risarcimento in forma specifica non potrà essere utilizzato per condannare
l'amministrazione ad adottare l'atto, e il risarcimento per equivalente potrà a sua volta essere negato solo
dopo che l'amministrazione rieserciti il proprio potere e riconosca all'istante il bene della vita in origine
negato (il danno in questo caso non potrà, però, che essere da ritardo). Sul tema v. amplius, F. CARINGELLA,
Giudice amministrativo e risarcimento del danno, cit., 682 e 714.
89
Nel senso che la valutazione sulla fondatezza della pretesa è esclusa quando venga richiesta l'emanazione
di un atto implicante valutazioni discrezionali cfr. T.a.r. Piemonte, sez. II, 2001, n. 1318.
30
Accanto alle tesi sinora esaminate che, pur giungendo a conclusioni diverse sull'intensità del
sindacato consentito al g.a., non mettono in discussione l'unicità del rito, va segnalato un
orientamento propenso ad individuare due riti contro il silenzio.
Secondo una parte della dottrina90 e della giurisprudenza91, infatti, si avrebbero dopo la
legge n. 205/2000 due diversi riti contro il silenzio: il primo, quello previsto dall'art. 2 legge n.
205/2000, connotato in termini di semplicità e celerità, ma contraddistinto da poteri cognitori e
decisori circoscritti alla mera declaratoria dell'obbligo di provvedere; il secondo, quello ordinario,
più lungo e complesso, ma che rende possibile accertare anche la fondatezza della pretesa.
Nell'ambito delle tesi che individuano due riti contro il silenzio, deve essere menzionata
anche una soluzione che si potrebbe compromissoria: da un lato, infatti, si ammette che il giudice
nel nuovo rito speciale possa andare al di là della mera declaratoria dell'obbligo di provvedere
valutando la spettanza del bene della vita, ma, dall'altro, si circoscrive questa possibilità alle sole
ipotesi - sempre relative ad attività amministrativa vincolata o comunque priva di apprezzabili
margini di discrezionalità - in cui sia manifesta la fondatezza o l'infondatezza della domanda.
In questo modo, senza azzerare i poteri decisori e cognitori del G.A., verrebbe scongiurato il
rischio che con una procedura speciale, che impone al giudice ed alle parti tempi ristretti, debbano
essere necessariamente trattate anche questioni particolarmente complesse.
Un significativo argomento a sostegno di questa tesi potrebbe trarsi dall'art. 9 legge n.
205/2000 che ha previsto proprio per i casi di manifesta fondatezza o infondatezza della domanda
una sorta di giudizio immediato in cui si ritrovano alcuni dei caratteri salienti del rito speciale di cui
all'art. 21-bis legge n. 1034/1971, ovvero la cameralità e la succinta motivazione della sentenza. Da
questa norma emergerebbe che il legislatore ammette sì la possibilità di definire il merito con un
rito che si svolge in camera di consiglio e si conclude con una sentenza breve, purché, però, le
questioni da decidere siano semplici e di immediata soluzione. Allo stesso modo, allora, anche nel
rito speciale contro il silenzio la possibilità di un accertamento della spettanza del bene della vita
potrebbe essere compiuto solo nei casi di manifesta fondatezza o infondatezza della domanda.
Anche in questo caso, quindi, si avrebbe una duplicazione di riti contro il silenzio anche se
l'applicabilità o meno del rito speciale verrebbe a dipendere non più dal contenuto della domanda
presentata dal ricorrente – limitata alla dichiarazione dell'obbligo di provvedere o estesa ad ottenere
una determinazione giudiziale del provvedimento da adottare – ma da un requisito ulteriore,
rappresentato appunto dalla manifesta fondatezza o infondatezza della pretesa.
6.4.
La IV fase: la riscrittura dell’art. 2 legge n. 241/1990 ad opera dell’art. 3, comma 6°-bis
d.l. n. 35/2005 (convertito nella legge n. 80/2005).
Su tale dibattito è, da ultimo, intervenuto il legislatore con l’art. 3, comma 6-bis (introdotto
in sede di conversione), del decreto legge n. 35/2005, il quale, nel riformulare l’art. 2 della legge n.
241/1990, introduce al quinto comma di tale disposizione, la previsione secondo la quale il G.A.,
nei giudizi contro il silenzio-rifiuto, <<può conoscere della fondatezza dell’istanza>>.
Si deve evidenziare come la nuova disposizione, che recepisce gli insegnamenti della
migliore dottrina, abbia una portata dirompente, determinando, per tabulas, il superamento di
quell’indirizzo giurisprudenziale, recepito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la
90
Sul tema v. F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, II, cit., 1175, il quale rileva che <<oltre al
tipo di sindacato consentito al giudice, si pone anche il problema del tipo di rito con il quale eccitare tale
sindacato. Ammesso, infatti, che al giudice amministrativo si possa anche chiedere l'accertamento della
fondatezza delle pretesa (ad es. per le attività non significativamente discrezionali) in caso di silenzio della
P.A, viene da chiedersi se l'accertamento possa essere invocato con la procedura di cui all'art. 2, ovvero se a
tal uopo l'interessato debba seguire la via ordinaria del giudizio di cognizione>>. Sul tema cfr. anche N.
SAITTA, Ricorsi contro il silenzio della P.A.: quale silenzio?, cit.
91
Cfr. T.a.r. Veneto, sez. II, 2 marzo 2001, 467.
31
pronuncia n. 1 del 2002, volto a circoscrivere l’oggetto del sindacato del G.A. negli angusti limiti
della verifica della scadenza del termine per provvedere.
La nuova norma, tuttavia, se, per un verso, sancisce il superamento della tesi volta ad
escludere la possibilità per il G.A. di accertare, nel giudizio ex art. 21-bis legge n. 1034 del 1971, la
fondatezza dell’istanza presentata dal privato, per un altro laddove riconosce al giudice
amministrativo il potere di <<conoscere la fondatezza dell’istanza>> è destinata a sollevare delicate
questioni interpretative.
6.4.1. Il giudice amministrativo <<può conoscere la fondatezza dell’istanza>>
Anzitutto, pare necessario spendere qualche parola sulla formula impiegata dal legislatore:
<<il giudice amministrativo può conoscere il merito dell’istanza>>.
La locuzione <<può conoscere>>, anziché di quella <<conosce>>, solleva alcuni dubbi
interpretativi, soprattutto in considerazione del fatto che, di regola, il legislatore, nel delimitare i
poteri decisori del giudice amministrativo, utilizza l’indicativo presente92.
Un’interpretazione letterale del testo legislativo, in particolare, potrebbe indurre alla
conclusione che la nuova norma voglia attribuire al G.A. la facoltà di scegliere, di volta in volta, se
valutare, o meno, la fondatezza della pretesa. In altre parole, secondo questa lettura, il Giudice,
dopo aver accertato l’illegittimità dell’inerzia, avrebbe la possibilità di optare per una sentenza
meramente dichiarativa dell’obbligo di provvedere o per una sentenza di condanna che, valutata la
fondatezza della pretesa, ordini all’amministrazione di emanare un determinato provvedimento.
Tale esegesi, sebbene possibile alla luce della non chiarissima formulazione letterale della
norma, non appare, tuttavia, persuasiva. E’ evidente, infatti, l’irrazionalità di un sistema in cui il
tipo di tutela da erogare non sia fissato ex ante e in generale dalla legge, ma venga rimesso alle
valutazioni discrezionali del Giudice.
Non si comprenderebbe, del resto, in base a quali criteri il G.A. possa decidere se limitarsi a
verificare che il termine è scaduto o spingersi sino ad accertare la fondatezza della pretesa.
Né appare del tutto persuasiva la tesi secondo cui il legislatore, utilizzando la locuzione in
esame, ha fatto riferimento all’eventualità nella in cui ciò che emerge dal fascicolo processuale non
consente una valutazione sulla fondatezza della pretesa. Tale situazione può essere superata, infatti,
ordinando adempimenti istruttori, così come espressamente prevede l’art. 21-bis, finalizzati ad
acquisire tutti gli elementi necessari per formulare il giudizio sulla spettanza.
Non va poi dimenticato che, vi sono altre norme che, per quanto non molto frequenti,
utilizzano formule analoghe a quella prevista dall’art. 3, comma 6-bis, del decreto legge n. 35/2005
e rispetto alle quali non si è mai dubitato che si trattasse di un potere-dovere e non di una mera
facoltà di scelta: si pensi, per dirne una, all’art. 26, comma 3°, legge Tar a tenore del quale <<il
Tribunale amministrativo regionale, nella materia relativa a diritti attribuiti alla sua competenza
esclusiva e di merito può condannare l’amministrazione al pagamento delle somme di cui risulti
debitrice>>.
Si pensi, ad esempio, all’art. 7, comma 3°, legge T.a.r.(<<il Tribunale amministrativo regionale,
nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni risarcitorie>>; all’art. 21-bis, comma
2°, legge T.a.r.(<<il giudice amministrativo ordina all’amministrazione di provvedere>>; <<qualora
l’amministrazione resti inadempiente…il giudice amministrativo, su richiesta di parte, nomina un
commissario che provvede in luogo dell’amministrazione>> ); all’art. 26 legge T.a.r.(comma 1°: <<il
tribunale amministrativo regionale, ove ritenga irrecevibile o inammissibile il ricorso, lo dichiara con
sentenza; se riconosce che il ricorso è infondato, lo rigetta con sentenza>>; comma 2°: <<se accoglie il
ricorso per motivi di incompetenza annulla l’atto e lo rimette all’autorità competente>>); all’art. 35, comma
1°, d.lgs. n. 80 del 1998 (<<il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione
esclusiva dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno
ingiusto>>).
92
32
In base al principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, deve, quindi, ritenersi
che, quando il privato ne fa richiesta, il G.A. non può esimersi dal valutare la fondatezza della
pretesa, ovviamente nei limiti in cui tale sindacato è consentito dal tipo di giurisdizione che il
giudice esercita in sede di ricorso avverso il silenzio (su cui v. infra par. 6.4.5.).
6.4.2. L’ipotesi in cui il ricorrente chiede solo la dichiarazione dell’obbligo di provvedere
Escluso che il G.A., di fronte ad una domanda del privato che gli chieda di valutare la
fondatezza della pretesa, possa limitarsi a dichiarare l’esistenza dell’obbligo di provvedere, occorre
verificare se sia possibile per il ricorrente circoscrivere la sua domanda alla sola esistenza
dell’obbligo di provvedere.
Si pone, in altri termini, la questione se il privato possa escludere la decisione sulla
fondatezza della pretesa attraverso la proposizione di una domanda giudiziale diretta ad ottenere
una sentenza dichiarativa del solo obbligo di provvedere.
Al riguardo, pare opportuno distinguere a seconda che l’istanza presentata
all’Amministrazione per ottenere il provvedimento sia o meno fondata.
Nel primo caso, a fronte di un ricorso con cui si invoca solo la declaratoria dell’obbligo di
provvedere, il principio ne eat iudex extra petita partium dovrebbe impedire al G.A. di pronunciarsi
sulla fondatezza della pretesa e di ordinare alla P.A. di accogliere l’istanza: una decisione di tale
contenuto, infatti, attribuirebbe al ricorrente un’utilità superiore a quelle che egli non ha chiesto con
conseguente violazione dei limiti della domanda.
Nel caso di istanza infondata, invece, pare preferibile la tesi secondo cui il G.A. debba
rigettare il ricorso o, meglio, dichiararlo inammissibile per difetto di interesse. In questa ipotesi, non
pare esservi, interesse in capo al privato ad ottenere una sentenza che condanni l’amministrazione a
provvedere su un’istanza infondata. In sede di esecuzione del dictum giudiziale, invero, la P.A. non
potrebbe che rigettare l’istanza del ricorrente: l’esigenza di evitare che il giudizio contro il silenzio
rappresenti l’onerosa anticamera di una nuova lite porta a prediligere la conclusione secondo cui il
G.A. dovrebbe rigettare (o dichiarare inammissibile del ricorso, anche se il privato ha limitato la sua
domanda al solo obbligo di provvedere.
Né a tale soluzione si oppone il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, atteso
che il G.A. anrebbe a valutare la fondatezza dell’istanza non per dare al ricorrente più di quanto egli
ha chiesto, ma per rigettare la domanda.
6.4.3. Una nuova ipotesi di giurisdizione di merito?
L’espresso riferimento al potere di valutare la fondatezza dell’istanza, contenuto nel nuovo
art. 2, comma 5°, legge n. 241/1990, impone di verificare se il legislatore voglia introdurre, nei
giudizi contro l’inerzia non qualificata della P.A., una vera e propria giurisdizione di merito,
nell’ambito della quale il G.A. può verificare la spettanza del bene della vita anche quanto viene in
considerazione la discrezionalità amministrativa della pubblica amministrazione.
Come sopra si è evidenziato, questa tesi era stata già sostenuta subito dopo l’entrata in
vigore dell’art. 2 della legge n. 205/2000, da una parte della dottrina, secondo la quale il nuovo art.
21-bis l. n. 1034 del 1971 doveva essere interpretato nel senso di riconoscere al G.A. il potere di
sindacare la fondatezza della pretesa anche nelle ipotesi di silenzio-inadempimento serbato dalla
P.A. avverso un'istanza del privato volta ad ottenere un provvedimento connotato da discrezionalità
amministrativa.
Una simile interpretazione potrebbe risultare ora corroborata dalla legge n. 80/2005 che,
facendo espresso riferimento alla “fondatezza dell’istanza”, sembra evocare una nuova ipotesi di
giurisdizione di merito, nel cui ambito il G.A. può sostituire le proprie valutazioni a quelle
dell'Amministrazione rimasta inerte.
33
Intesa in questi termini, la norma rivelerebbe l’intenzione del legislatore di anticipare
l’ottemperanza nei confronti dell’amministrazione inerte alla scadenza del termine per provvedere:
tale conclusione risulterebbe anche avvalorata dalla possibilità, prevista dal comma 2° dell’art. 21bis legge n. 1034 cit., di nominare, già nell’ambito del giudizio contro il silenzio, un commissario
ad acta, destinato a sostituirsi all’amministrazione nel caso in cui questa non esegua lo iussum
giurisdizionale. Il commissario ad acta, in particolare, avrà il compito di appurare la corretta
esecuzione da parte dell’amministrazione delle indicazioni cristallizzate nella sentenza, salvo
provvedervi egli stesso se l’amministrazione continua a rimanere chiusa nel suo silenzio.
In tal senso, del resto, si è espressa anche una parte, sia pure minoritaria, della
giurisprudenza amministrativa. Si segnala, ad esempio, Cons. Giust. Amm., 4 novembre 2005 n.
72693 in cui si afferma a chiare lettere: “La nuova norma, recependo sia gli orientamenti
giurisprudenziali minoritari che alcune posizioni dottrinarie, realizza una tutela piena. La nuova
disciplina stabilisce che il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell’istanza, e tale
espressione non può essere interpretata se non come attribuzione al giudice di provvedere
sull’oggetto del giudizio che non può essere ridotto al silenzio, ma comprende anche la fondatezza
della domanda. Si tratta quindi di una giurisdizione di merito.
La disposizione, che si rivolge al giudice ed è di immediata applicazione, così ricostruita,
prevede l’obbligo del giudice di provvedere sostituendosi alla amministrazione inadempiente su
istanza della parte”.
Tale opzione ermeneutica, per quanto animata dalla esigenza di assicurare una tutela
effettiva all'interesse legittimo anche alla luce degli artt. 24 e 113, comma 2°, Cost.94., suscita,
tuttavia, alcune perplessità.
Come si è già rilevato, invero, <<le valutazioni discrezionali con cui l'Amministrazione
decide ciò che è più opportuno per l'interesse pubblico sono per definizione riservate
all'Amministrazione, costituiscono l'essenza dell'attività amministrativa funzionale, riservata
all'Amministrazione in ossequio al principio di separazione dei poteri>>95.
Ciò significa che in caso di discrezionalità amministrativa, il G.A. non può compiere
nessuna indagine sulla spettanza del bene della vita, a meno che non vi sia una norma che, in deroga
al fondamentale principio che riserva alla P.A. la valutazione dell’interesse pubblico, gli attribuisca
tale potere istituendo espressamente una ipotesi di giurisdizione di merito.
In altri termini, atteso il carattere eccezionale, quasi “eversivo”, delle ipotesi di giurisdizione
di merito, esse possono essere introdotte soltanto in forza di una norma che expressis verbis mostri
l’intenzione del legislatore di derogare al principio di separazione dei poteri e di riserva alla P.A.
della cura dell’interesse pubblico
Tale deroga espressa non può, tuttavia, essere rinvenuta nel nuovo art. 2, comma 5°, legge n.
241 cit.: la norma, infatti, ad avviso di chi scrive, pur menzionando la possibilità per il Giudice di
conoscere la fondatezza dell’istanza, ha semplicemente voluto chiarire – anche alla luce della
contraria posizione assunta sul punto dalla giurisprudenza amministrativa dopo la legge n. 205/2000
– che il G.A. nei ricorsi contro il silenzio-rifuto, non si deve limitare a verificare che il termine per
provvedere scaduto, ma può spingersi sino alla verifica della fondatezza della pretesa, sempre però
93
In www.lexitalia.it
Secondo G. VERDE, Ma che cos'è questa giustizia amministrativa?, in Dir. Proc. Amm., 1993, 611, anche
se l'art. 113 Cost. è concepito in funzione di una tutela di tipo impugnatorio, esso non può condurre al
<<paradossale e ingiusto risultato, per effetto del quale i soggetti avrebbero tutela solamente quando
l'amministrazione emani provvedimenti e solamente per ottenerne l'annullamento. Pienezza di tutela significa
e non può non significare possibilità di un intervento giudiziario in base al quale non solo si elimina l'atto
illegittimo, ma si imponga all'amministrazione di provvedere>>.
94
95
F. CARINGELLA, Giudice amministrativo e risarcimento del danno, in F. CARINGELLA, M. PROTTO (a cura
di) Il nuovo processo amministrativo, cit., 682.
34
che, conformemente ai principi generali, tale sindacato non invada sfere riservate alla
discrezionalità amministrativa della P.A. e non richieda, quindi, la valutazione comparativa degli
interessi in gioco.
D’altra parte, come sopra si evidenziava, se si ritenesse che l'art. 21-bis l. n. 1034/1971
consenta al G.A. una verifica sulla fondatezza della pretesa anche a fronte di attività connotata da
un alto tasso di discrezionalità, si finirebbe per ammettere una giurisdizione di merito del tutto
anomala per la particolare intensità del sindacato consentito all'autorità giudiziaria96.
A differenza delle altre ipotesi di giurisdizione di merito nelle quali c'è già una
determinazione amministrativa che il giudice è chiamato a verificare anche sotto il profilo
dell'opportunità, nel ricorso contro il silenzio non c'è alcun provvedimento e quindi il G.A.
interviene su un terreno ancora vergine, agendo direttamente come amministratore e dettando per la
prima volta la disciplina di un concreto rapporto di diritto pubblico.
Si tratterebbe, inoltre, di una giurisdizione di merito che non avrebbe ad oggetto non una
materia determinata, individuata ex ante dal legislatore, ma sarebbe destinata a tagliare
trasversalmente qualsiasi settore nel quale l’amministrazione rimanga inerte. In particolare, dopo la
riscrittura dell’art. 20 legge n. 241/1990, i settori in cui può venire in considerazione il silenziorifiuto della P.A. sono quelli esclusi dall’applicazione del silenzio-assenso: si tratta, come è noto, di
materie particolarmente delicati, in cui vengono in considerazione interessi pubblici di particolare
pregnanza (il patrimonio culturale e paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale, la pubblica
sicurezza e l'immigrazione, la salute e la pubblica incolumità) tant’è che il legislatore li ha sottratti,
una volta per tutte, dal campoo di applicazione del silenzio assenso. Appare allora poco plausibile
che proprio in tali settori “nevralgici”, il legislatrore abbia voluto attribuire al G.A., per i casi di
inerzia dell’Amministrazione, il potere di impingere al merito della scelte discrezionali.
Inoltre, seguendo la tesi in esame, avremmo due tipi di sindacato radicalmente diversi a
seconda che ci sia un atto di diniego espresso o un silenzio, potendo il G.A. esercitare una
giurisdizione di merito solo nel secondo caso, col paradosso che il privato dovrà sperare che
l'Amministrazione non risponda per avere una tutela più penetrante.
Né, per escludere questa anomala disparità, può opporsi che in caso di diniego espresso il
privato potrebbe comunque agire con l'azione di risarcimento del danno in forma specifica per
ottenere il provvedimento richiesto. Infatti, anche ad ammettere – ma la questione è tutt'altro che
pacifica97 - che il risarcimento del danno in forma specifica consenta al G.A. di sostituirsi
all'Amministrazione anche in caso di discrezionalità pura, rimane comunque il fatto che tale
rimedio è sottoposto condizioni più stringenti di quelle previste per l'azione di condanna ex art. 21bis l. n. 1034 /1971. Mentre, infatti, in questo caso è sufficiente che il privato dimostri la scadenza
del termine e la fondatezza della pretesa, per il risarcimento in forma specifica devono sussistere
tutti gli elementi dell'illecito aquiliano di cui all'art. 2043 c.c. e, quindi, il privato dovrebbe
dimostrare, oltre alla fondatezza della pretesa, la colpa o il dolo della P.A., il danno e il nesso di
causalità.
Inoltre, se a fronte di un diniego espresso, l'azione di risarcimento in forma specifica
andrebbe proposta, essendo diretta alla rimozione di un atto amministrativo, entro il termine di
decadenza di 60 giorni98, al contrario, con riguardo al ricorso avverso il silenzio-rifiuto della P.A.,
96
Nel senso che la valutazione sulla fondatezza della pretesa è esclusa quando venga richiesta l'emanazione
di un atto implicante valutazioni discrezionali cfr. T.a.r. Piemonte, sez. II, 2001, n. 1318.
97
Sul tema si rinvia a F. CARINGELLA, Giudice amministrativo e risarcimento del danno, cit., 712 ss.
98
Così F. CARINGELLA, Giudice amministrativo e risarcimento del danno, cit., 720. Secondo l'Autore,
invece, lo sbarramento temporale dei 60 giorni non rileva quando si chiede il risarcimento per equivalente
che non mette in discussione la vita del provvedimento. Quest'ultimo aspetto è tuttavia controverso in
dottrina. Sul tema v., da ultimo, L.V. MOSCARINI, Risarcibilità degli interessi legittimi e termine di
35
alla luce del nuovo comma 5° dell’art. 2 della legge n. 241/1990, la relativa impugnativa non deve
essere proposta entro il termine di 60 gg., ma può aversi, entro un anno dala scadenza del termine
per provvedere, fino a quando persista l'atteggiamento inerte della P.A., dal momento che il
perdurare dell'inadempienza consente, nei limiti di un anno, il rinnovo del termine de die in diem,
consentendone l'accertamento in ogni momento.
A sostegno della tesi “restrittiva” va, infine, rilevato che, a differenza delle precedenti
versioni del disegno di legge che menzionavano espressamente il potere del G.A. di conoscere il
“merito dell’istanza”, nella versione approvata in via definitiva, il riferimento al “merito” è stato
sostituito con quello alla “fondatezza” dell’istanza. Tale modifica denota, a parere di chi scrive,
proprio l’intenzione del legislatore di escludere l’introduzione di una nuova ipotesi di giurisdizione
di merito.
6.4.4. I limiti del potere del G.A. di conoscere il merito della pretesa. La verifica della fondatezza
della pretesa in caso di attività vincolata.
Alla luce delle considerazioni svolte nel paragrafo precedente, deve, quindi, ritenersi che,
nonostante le ambiguità del nuovo arrt. 2 legge n. 241/1990, il G.A., in sede di ricorso contro il
silenzio-rifiuto, possa sostituirsi agli apprezzamenti discrezionali della P.A
Deve, invece, ritenersi che la nuova norma, facendo riferimento al potere del G.A. di
conoscere il merito dell’istanza abbia voluto, in maniera meno dirompente, soltanto superare
l’indirizzo restrittivo inaugurato dalla decisione n. 1 del 2002 dell’Adunanza Plenaria e suggellare
definitivamente la possibilità, già sostenuta, peraltro, dalla giurisprudenza prevalente prima della
legge n. 205 del 2000, di valutare la fondatezza della pretesa a fronte di istanze di istanze dirette ad
ottenere provvedimenti vincolati.
6.4.5. Il Consiglio di Stato chiarisce i poteri del giudice amministrativo nel rito del silenzio: la
sentenza della Sez. IV, 10 ottobre 2007 n. 5311
Recentemente, il Consiglio di Stato, con una importante decisione (Sez. IV, 10 ottobre 2007,
n. 531199 ha chiarito che la nuova versione dell’art. 2 l. n. 241/1990 non ha inteso istituire una
ipotesi senza confini di giurisdizione di merito ma, più limitatamente, ha attribuito al giudice, nei
limiti della propria preesistente giurisdizione di legittimità o esclusiva, uno strumento processuale
ulteriore nella stessa logica acceleratoria del contenzioso che ha ispirato l’intervento riformatore del
2000; dal punto di vista sistematico si è previsto un meccanismo che ricorda il giudizio c.d.
immediato (art. 26, l. n. 1034 del 1971).
Pertanto, precisa la IV sezione, nell’ambito del giudizio sul silenzio, il giudice potrà
conoscere della accoglibilità dell’istanza:
a) nelle ipotesi di manifesta fondatezza, allorché siano richiesti provvedimenti
amministrativi dovuti o vincolati in cui non c’è da compiere alcuna scelta discrezionale che
potrebbe sfociare in diverse soluzioni100, e fermo restando il limite della impossibilità di sostituirsi
all’amministrazione (in altri termini si potrà condannare l’amministrazione ad adottare un
provvedimento favorevole dopo aver valutato positivamente l’an della pretesa ma nulla di più);
b) nell’ipotesi in cui l’istanza è manifestamente infondata, sicché risulti del tutto
diseconomico obbligare la p.a. a provvedere laddove l’atto espresso non potrà che essere di rigetto.
decadenza: riflessioni a margine dell'ordinanza dell'Ad. plen. del Consiglio di Stato 2 gennaio 2000, in Dir.
proc. amm., 2001, 1 ss.
99
In Foro it., 2007, III,
Cfr. sul punto, dopo la l. n. 80 del 2005, Cons. Stato, sez. VI, 11 maggio 2007, n. 2318, in www.giustiziaamministrativa.it
100
36
In base a questo importante arresto, quindi, la nuova formulazione dell’art. 2, l. n. 241 cit., non
scalfisce l’approdo cui era giunto l’orientamento giurisprudenziale formatosi in precedenza che, nel
caso di sopravvenienza del provvedimento negativo nel corso del giudizio, optava per la
declaratoria di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse.
Invero, ogni qualvolta l’amministrazione eserciti la funzione pubblica con un provvedimento
espresso, viene meno l’esigenza di certezza sottesa alla ratio della norma sancita dall’art. 21 bis,
sicché il giudice amministrativo, ante omnia, dovrà limitarsi a prenderne atto, con le consequenziali
statuizioni processuali a seconda del contenuto del provvedimento esplicito; in questo frangente,
infatti, sarà inibita ogni valutazione circa la fondatezza della pretesa sostanziale, che troverà la
naturale sede di scrutinio nell’eventuale giudizio di legittimità che il richiedente insoddisfatto vorrà
intraprendere.
Appare interessante riportare le considerazioni che hanno indotto la IV sezione ad escludere
la tesi secondo cui la l. n. . 80/2005 avrebbe istituito una nuova ipotesi di giurisdizione di merito.
Un primo ordine di obiezioni a questa tesi viene rinvenuta sul piano costituzionale.
Osserva in particolare il Consiglio che, interpretata nel senso della giurisdizione di merito,
“la norma non si sottrarrebbe a censure di incostituzionalità, per aver previsto surrettiziamente una
giurisdizione di merito senza confini, in cui sussiste in termini generali il potere del giudice di
sostituirsi alla p.a. Al contrario la giurisdizione di merito, al pari di quella esclusiva, ponendosi
come derogatoria rispetto a quella di legittimità nella trama costituzionale improntata al principio di
separazione dei poteri, necessita di una puntuale e tassativa previsione normativa”101.
Ulteriori critiche vengono mosse muoversi, sul piano logico, sotto il profilo che:
a) sarebbe contraddittorio con il rito del silenzio che si consegua un risultato maggiore di
quello ottenibile in un ordinario giudizio di legittimità finalizzato all’annullamento di un
provvedimento illegittimo;
b) l’accertamento della fondatezza della pretesa nei casi di maggiore complessità sarebbe
incompatibile con la struttura snella e celere del giudizio in base al più volte menzionato art. 21 bis,
l. 1034 cit..
Per attribuire alla norma un significato utile e legittimo occorre, allora, secondo la IV
sezione, muovere dai seguenti dati ermeneutici:
a) si attribuisce al giudice un potere da esercitarsi nell’ambito di un rito speciale improntato
ad esigenze di snellezza;
b) non si obbliga ma si facoltizza il giudice a conoscere della fondatezza della pretesa, senza
autorizzarlo a sostituirsi in via diretta alla p.a. adottando il provvedimento richiesto;
c) la cognizione sulla fondatezza dell’istanza può sfociare in un accertamento negativo per il
richiedente.
Da qui la conclusione che la norma in commento non abbia inteso istituire una ipotesi senza
confini di giurisdizione di merito ma, più limitatamente, abbia attribuito al giudice, nei limiti della
propria preesistente giurisdizione di legittimità o esclusiva, uno strumento processuale ulteriore
nella stessa logica acceleratoria del contenzioso che ha ispirato l’intervento riformatore del 2000.
7.
L'ambito oggettivo di applicazione del rito speciale contro il silenzio della P.A.: il
problema del silenzio significativo, del silenzio-rigetto, del silenzio su istanze volte a far
valere diritti soggettivi
Individuato l’oggetto del sindacato giurisdizionale nel giudizio contro il silenzio della P.A.,
appare ora opportuno svolgere delimitare il campo di applicazione del rito speciale disciplinato
dall’art. 21-bis legge n. 1034 del 1971.
101
Cfr. in tema di giurisdizione esclusiva Cons. St., ad plen., 30 luglio 2007, n. 10, in Foro it., III, ; in tema
di giurisdizione di merito, Cons. St., sez. IV, 31 maggio 2007, n. 2830, in Foro amm.-Cons. Stato,
2007,1481; Cons. St., sez. IV, 14 aprile 2006, n. 2133, in Foro amm. Cons-Stato, 2006, 1143.
37
Secondo l'orientamento prevalente sia in dottrina102 che in giurisprudenza103, il rito speciale
introdotto dall'art. 2 l. n. 205/2000 riguarda solamente il silenzio-rifiuto o silenzio-inadempimento,
ad esclusione, quindi, sia del silenzio significativo (silenzio-assenso, silenzio-diniego), in cui
l'omissione è legalmente equiparata ad un provvedimento, sia del silenzio-rigetto conseguente al
decorso dei novanta giorni per la decisione del ricorso gerarchico.
Questa tesi appare condivisibile. Come è stato rilevato, infatti, <<sebbene l'art. 2 legge n.
205/2000 non indichi testualmente avverso quale tipo di silenzio il ricorso sia proponibile, il nuovo
rimedio processuale, funzionale ad una condanna dell'Amministrazione a provvedere, non si attaglia
all'ipotesi del silenzio significativo, in cui il problema dell'inerzia è risolto a monte dal legislatore
con l'attribuzione di una valenza attizia, favorevole o contraria agli interessi del privato, ed avverso
cui sono comunque proponibili gli ordinari strumenti di impugnazione, oltre che i poteri di ritiro in
autotutela comuni a tutti gli atti amministrativi>>104. Nel caso di silenzio equiparato per legge ad un
provvedimento amministrativo non si pone, quindi, un problema di inerzia, dato che appunto la
legge rende quest'ultima espressiva di provvedimenti; in quelle ipotesi vi sarà, pertanto, un
provvedimento positivo o negativo, a seconda della previsione legislativa, ma non vi sarà
silenzio105.
Tale conclusione, d'altra parte, trova conferma sia nella struttura complessiva della norma –
che, soprattutto nella previsione finale di un intervento sostitutivo dell'Amministrazione, sembra
fare riferimento proprio a situazioni nelle quali all'inerzia non possano ricondursi effetti sostanziali
102
Tale posizione è sostenuta pressoché unanimemente in dottrina: cfr. F. CARINGELLA, Corso di diritto
amministrativo, II, cit., 1184; C. CRISCENTI, Il rito del silenzio nel nuovo processo amministrativo, cit., 652;
L. COSSU, Osservazioni a prima lettura sulla l. 21 luglio 2000, n. 205, in Cons. Stato, 2000, II, 1512; S.
FANTINI, Il rito speciale in materia di silenzio della pubblica amministrazione, cit., 184; S. GIACCHETTI, Il
ricorso avverso il silenzio dell'Amministrazione e le macchine di Munari, in Cons. Stato, 2001, II, 640; G.
GIOVANNINI, Note di commento alla legge 21 luglio 2000, n. 205, in www.giustizia-amministrativa.it; D.
IARIA, Il ricorso e la tutela contro il silenzio, in Giorn. dir. amm., 2000, 1077; S. PELILLO, Il ricorso avverso
il silenzio dell'amministrazione, cit.; B. SASSANI, Il regime del silenzio e l'esecuzione della sentenza, cit.,
304; Saitta, Ricorsi contro il silenzio della P.A.: quale silenzio?, cit., 4.
103
Cfr. Cons. St., Commissione speciale, 17 gennaio, 2001, in Urbanistica e appalti, 2001, n. 6, 650; T.a.r.
Campania, Napoli, sez. II, 16 dicembre 2000, n. 4720, in www.lexitalia.it; T.a.r. Abruzzo, Pescara, 26
gennaio 2001, n. 57, cit.; implicitamente: T.a.r. Lazio, sez. I, ord. 12 gennaio 2001, n. 125, in Trib. amm.
reg., 2001, I, 506; T.a.r. Lazio, sez. II ter, 28 febbraio 2001, n. 1597, in www.lexitalia.it, n. 3/2001. In senso
contrario v., però. T.a.r. Campania, Salerno, sez. II, 20 giugno 2001, n. 932, che, pur riconoscendo valore
significativo al silenzio formatosi sull'istanza di accertamento di conformità ex art. 13 l. 47/1985, presentata
al Comune per conseguire la sanatoria degli interventi difformi rispetto alle concessioni edilizie, ritiene
applicabile al relativo ricorso l'art. 2 l. n. 205/00, nonché, da ultimo, T.a.r. Campania, Napoli, sez. IV, 20
novembre 2001, n. 4875 (in www. lexitalia.it, 2001/11, con nota di G. Sartorio, Ricorsi in materia di silenzio
della P.A.), secondo cui <<la speciale procedura in materia di silenzio-rifiuto prevista dall'art. 2 l. n. 205/00 è
da ritenere applicabile anche alle ipotesi in cui il silenzio-rifiuto sia in realtà un provvedimento di carattere
negativo piuttosto che una mera omissione a decidere da parte dell'Amministrazione; tale procedura pertanto
è in particolare applicabile anche nel caso di silenzio previsto dall'art. 13 della legge n. 47 del 1985, che si
forma dopo 60 giorni dalla data di presentazione dell'istanza di accertamento di conformità>>. Va segnalata
infine una pronuncia del T.a.r. Brescia, 1° giugno 2001, n. 397, in www.lexitalia.it, secondo la quale il rito
abbreviato è applicabile anche al caso di contestazione da parte di un terzo, del silenzio serbato dalla P.A.,
sull'altrui denunzia di inizio di attività edilizia ex art. 4 d.l. n. 398/1993, conv. dalla l. n. 493/1993. Questa
sentenza è stata criticata da una parte della dottrina (cfr. F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, II,
cit., 1185, nota 48), sulla base della considerazione che <<in tal caso non viene in rilievo un silenzio-rifiuto
su istanza del terzo ma è oggetto di contestazione un silenzio-assenso, ovvero l'autorizzazione a costruire
implicita nel mancato riscontro negativo dell'istanza>>.
104
Così C. CRISCENTI, Il rito del silenzio nel nuovo processo amministrativo, cit., 652.
105
In tal senso cfr. F.G. SCOCA, Il silenzio della pubblica amministrazione, cit., 3.
38
o processuali specifici106 – sia nella ratio del nuovo rito che, fondandosi sull'esigenza di definire in
tempi brevi il procedimento iniziato dal privato con la sua istanza, non ricorre nell'ipotesi di silenzio
significativo, in cui la conclusione del procedimento è sancita dalla qualificazione dell'inerzia fatta
dalla legge107.
Fondata risulta anche l'esclusione dal campo di applicazione del nuovo rito del silenziorigetto. In tal caso, infatti, anche se a differenza del silenzio significativo l'inerzia
dell'Amministrazione non è qualificata, esiste pur sempre un provvedimento amministrativo, quello
di base avverso il quale il ricorso gerarchico è stato proposto, che può essere impugnato davanti al
giudice. L'art. 2 legge n. 205/2000 non potrà quindi trovare applicazione perché il ricorso ha ad
oggetto non il comportamento omissivo, che funge da mero presupposto processuale, ma il
provvedimento di primo grado impugnato col ricorso gerarchico108.
Sul punto appare tuttavia necessaria una precisazione ulteriore che tenga conto della
ricostruzione dell'istituto del silenzio-rigetto accolta dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
nelle due note decisioni n. 16 e n. 17 del 1989 109. In queste pronunce la Plenaria, respinta la tesi che
configurava il decorso del termine come provvedimento legalmente tipizzato, afferma che la
formazione del silenzio-rigetto non priva l'Amministrazione del potere di decidere il ricorso
gerarchico (e quindi le decisioni tardive non sono di per sé illegittime) ma consente al ricorrente di
scegliere fra la possibilità di ricorrere immediatamente in sede giurisdizionale contro l'atto
impugnato e la possibilità di attendere la pronuncia tardiva sul ricorso gerarchico.
In questo secondo caso, però, alla scadenza del termine di novanta giorni si verifica una
situazione analoga a quella del silenzio-rifiuto: il cittadino può infatti mettere in mora
l'Amministrazione notificandole una diffida per ottenere la formazione di un silenzio-rifiuto contro
il quale poi ricorrere in sede giurisdizionale avvalendosi del rito abbreviato di cui all'art. 2 l. n.
205/2000110. In tal modo, il privato può ottenere una decisione giurisdizionale che condanni
l'autorità sovraordinata a pronunciarsi sul ricorso gerarchico, risultato questo che può essere
particolarmente interessante ove il ricorso gerarchico sia stato proposto per vizi di merito, dato che
in questo caso le censure non sarebbero riproponibili nel ricorso giurisdizionale contro il
provvedimento amministrativo di primo grado111.
Va infine rilevato - come la giurisprudenza ha correttamente puntualizzato - che il nuovo
rito abbreviato riguarda solo il silenzio-rifiuto in senso tecnico, ossia il comportamento omissivo
che maturi a fronte di un'istanza diretta a far valere una posizione di interesse legittimo, e non anche
l'inerzia della P.A. a fronte di un'istanza diretta a far valere un diritto soggettivo (nella giurisdizione
esclusiva del G.A.)112.
106
107
Così D. IARIA, Il ricorso e la tutela contro il silenzio, cit., 1077.
C. CRISCENTI, Il rito del silenzio nel nuovo processo amministrativo, cit., 652.
108
In tal senso cfr. Cons. St., Commissione speciale 17 gennaio 2001, cit., 651.
109
Cfr. Cons. St., Ad. Plen. 24 novembre 1989, n. 16, cit.; Cons. St., Ad. Plen. 4 dicembre 1989, n. 17, cit.
Cfr. in tal senso, A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2000, 154; B. SASSANI, Il regime
del silenzio e l'esecuzione della sentenza, cit., 305.
110
111
A. TRAVI, Lezioni di giustizia amministrativa, cit., 155
Cons. St., sez. V, 23 gennaio 2004 n. 208, in Cons. Stato., 2004, I, 107; Cons. St., sez. IV, 27 ottobre
2003 n. 5711, ivi, 2003, I, 2285; Cons. St., sez. VI, 13 maggio 2003 n. 2534, ivi, 2003, I, 1112; Cons. St.,
sez. IV, 4 febbraio 2003 n. 540, ivi, 2003, I, 234; Cons. St., sez. VI, 23 settembre 2002 n. 4824, in
Urbanistica e appalti, 2003, 205, con nota di L. TARANTINO, L'esegesi autoreferenziale del rito ex art. 21
bis e le pretese patrimoniali; Cons. St., sez. V, 16 luglio 2002 n. 3974, in Giust. amm., 2002, 923; Cons. St.,
sez. IV, 11 giugno 2002 n. 3256, in Foro amm., 2002, 1413; Cons. St., sez. V, 7 marzo 1997 n. 221, in Foro
amm., 1997, 777; Cons. St., sez. VI, 2 aprile 1996 n. 375, ivi, 1996, 1204; Cons. St., sez. IV, 27 settembre
1993 n. 797, in Cons. St., 1993, I, 1082; TAR Campania, Palermo, sez. II, 7 febbraio 2006 n. 332, in
www.lexitalia.it; TAR Campania, Salerno, 14 ottobre 2003 n. 1000, in Trib. amm. reg., 2003, I, 4750; TAR
112
39
L'istituto del silenzio-rifiuto, elaborato dalla giurisprudenza come espediente per consentire
l'accesso al giudice nell'ambito di una giurisdizione costruita essenzialmente come impugnazione
dell'atto amministrativo, trova, infatti, la sua giustificazione laddove la realizzazione dell'interesse
sostanziale del ricorrente sia subordinata alla valutazione della compatibilità con l'interesse
pubblico e di conseguenza richieda la collaborazione dell'Amministrazione cui, istituzionalmente,
compete tale valutazione. E' in tale situazione, invero, che il meccanismo del silenzio-rifiuto svolge
la sua funzione, facendo sì <<che la pausa anormale della funzione amministrativa abbia, quale
conseguenza, la insoddisfazione dell'interesse personale dell'istante sul piano sostanziale, ma non si
ripercuota anche sulla possibilità di chiedere tutela nella sede giurisdizionale>>113.
Quando invece il privato è titolare un diritto soggettivo, e quindi fa valere un interesse che
non è correlato al potere dell'Amministrazione, la procedura del silenzio appare del tutto inutile,
perché l'istante può ottenere una tutela più diretta ed immediata tramite un'azione di accertamento,
senza la necessaria intermediazione di un provvedimento formale114.
In tal senso si segnala, ad esempio, Consiglio di Stato, Sez. IV, 14 febbraio 2005 n. 419, secondo
cui <<il rito speciale previsto dall’art. 21-bis della l. 6 dicembre 1971 n. 1034, introdotto dall'art. 2
della L. 21 luglio 2000 n. 205, in materia di impugnazione del silenzio della P.A., non è esperibile a
tutela di posizioni aventi natura e consistenza di diritto soggettivo; è pertanto inammissibile un
ricorso avverso il silenzio-rifiuto formatosi su di un atto di diffida con il quale una società ha
chiesto ad un Comune di dichiararla decaduta dal titolo superficiario ai sensi di una convenzione
che era stata in precedenza stipulata, atteso che, nel momento in cui l’Amministrazione perviene –
una volta esperita la procedura di evidenza pubblica per la scelta del soggetto cui attribuire il diritto
di superficie – alla stipula di una convenzione col privato aggiudicatario, questi, allorchè invoca il
rispetto delle clausole contenute nella convenzione stessa, vanta una posizione di diritto
soggettivo>>.
Sulla stesse linea, fra i giudici di primo grado, si segnala, Tar Puglia, Lecce, Sez. II - 14
marzo 2005, n. 1358 ove si afferma che <<il rimedio del ricorso avverso il silenzio della P.A. ex
art. 21-bis della L. 6 dicembre 1971 n. 1034, introdotto dall’art. 2 della L. n. 205/2000, non è
esperibile quando il potere non esercitato dalla P.A. sia di natura paritetica>>. Muovendo da tale
premessa è stato, quindi, dichiarato inammissibile un ricorso proposto da un’impresa innanzi al
G.A., per l’annullamento di un silenzio-rifiuto della P.A. che si sarebbe formato su di una istanza
con la quale è stato chiesto il pagamento dell’importo dovuto a titolo di revisione del corrispettivo
del servizio pubblico di nettezza urbana espletato di virtù di contratto di appalto; in tal caso, infatti,
l’attività che il Comune dovrebbe esercitare non coinvolge un potere di natura autoritativa (con
conseguente posizione di interesse legittimo in capo all’istante), ma si sostanzia nell’adempimento
di un preciso obbligo discendente dal contratto stipulato fra le parti.
Di particolare interesse, anche per lo sforzo motivazionale, è la sentenza del T.a.r. Catania,
Sez. III - sentenza 3 novembre 2005 n. 1983115.
Secondo il T.ar., l’inammissibilità del ricorso ex art. 21 bis in materia di diritti soggettivi si
fonda sui seguenti argomenti:
1)
In primo luogo vi è un argomento di carattere testuale; invero, se il legislatore avesse
voluto estendere il rito sul silenzio anche alle istanze relative a diritti soggettivi, non si
spiegherebbe perché manca nella legge una esplicita previsione in tal senso. In altri
Lazio, sez. I ter, 13 ottobre 2003 n. 8331, ivi, 2003, I, 4122; TAR Molise, 1° settembre 2003 n. 664, ivi, 2003,
I, 4211; TAR Campania, sez. V, 13 marzo 2002 n. 1330, ivi, 2002, 2015; TAR Campania, sez. II, 16 dicembre
2000 n. 4726, ivi, 2001, 653; TAR Calabria, Catanzaro, 14 febbraio 1997 n. 142, in Foro amm.-TAR, 1997,
2871
113
F.G. SCOCA, M. D'ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, cit., 401.
114
Cfr., sul punto, F. CARINGELLA, Il diritto amministrativo, cit., 551; Id., Corso di diritto amministrativo,
II, cit., 1185; A. CIOFFI, Osservazioni sul dovere di provvedere e sul “silenzio” nell’art. 21-bisdella legge 6
dicembre 1971, n. 1034, in Dir. Amm., 2004, 642.
115
In Foro amm.-Cons. Stato, 2006, 1019, con nota di SCIRÈ
40
termini, sarebbe contraddittorio l'atteggiamento del legislatore che, per un verso,
espressamente supera la soluzione giurisprudenziale relativa alla valutazione della
fondatezza dell'istanza e, per altro verso, nulla stabilisce in ordine alla possibilità di
attivare il giudizio sul silenzio per controversie relative a diritti soggettivi.
2)
Va rilevato, inoltre, che il rito ex art. 21 bis l. TAR si riferisce, in ragione della storia
dell’istituto e della sua collocazione sistematica, al silenzio-rifiuto (o silenzioinadempimento) di carattere pubblicistico e non anche all’ipotesi di comportamento
omissivo dell’Amministrazione qualificabile come inadempimento di una obbligazione
con conseguente responsabilità di tipo contrattuale. In tale ultimo caso, il silenzio deve
essere trattato alla stregua di una qualunque pretesa creditoria rimasta insoddisfatta.
3)
Va oltre tutto ricordato che l’ordinamento appresta diversi strumenti processuali per la
tutela delle situazioni patrimoniali tenendo conto anche della necessità di arrivare ad una
celere pronuncia. L'articolo 21 legge Tar stabilisce espressamente che se il ricorrente,
allega un pregiudizio grave e separabile derivante dall’esecuzione dell’atto impugnato
ovvero dal comportamento inerte dell’amministrazione, può chiedere l’emanazione di
misure cautelari, compresa l’ingiunzione a pagare una somma, che appaiono, secondo le
circostanze, più idonee ad assicurare gli effetti della decisione sul ricorso.
4)
L’art. 8 l. 21 luglio 2000 n. 205, nelle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo, prevede la possibilità, al ricorrere dei presupposti richiesti
dalla legge, di utilizzare lo strumento dell’ingiunzione o delle ordinanze provvisoriamente
esecutive.
In direzione opposta va, tuttavia, segnalata una (non condivisibile) decisione del Tar Lazio,
Sez. I, Sentenza 6 maggio 2003 n. 3921116 secondo cui, <<non va condivisa l’eccezione formulata
in via subordinata dalla resistente difesa secondo la non sarebbe consentito il ricorso al rito
accelerato introdotto dall’art. 2 della legge n. 205/2000 per tutelare situazioni di diritto soggettivo
perfetto nei confronti della P.A. Il menzionato art. 2 individua l’oggetto del procedimento d’urgenza
ivi regolamentato con riferimento al "silenzio” dell’amministrazione. Si tratta di nozione che nella
sua ampia accezione è comprensiva di ogni condotta omissiva, in presenza dell’interesse del privato
ad una determinazione esplicita >>
8.
Ricorso contro il silenzio e riparto di giurisdizione.
Individuate le tipologie di silenzio cui si applica il nuovo rito, si pone un ulteriore
interrogativo: occorre stabilire se l'art. 2 l. n. 205/2000 sia soltanto una norma sul processo, che
presuppone senza fondarla la giurisdizione del G.A., o se, al contrario tale disposizione faccia del
silenzio una materia autonoma - distinta da quella materia su cui la domanda del privato verte nella quale il G.A. può esercitare sempre la propria giurisdizione.
Questa seconda opzione ermeneutica era stata accolta da una non recentissima decisione del
T.a.r. Abruzzo117, che ha definito un ricorso proposto da un soggetto il quale, utilmente collocato in
una graduatoria di un concorso pubblico, aveva diffidato la P.A. ad adottare gli atti propedeutici alla
costituzione del rapporto di lavoro.
Nel respingere l'eccezione di giurisdizione sollevata dall'Amministrazione resistente, la
quale aveva rilevato che la causa, riguardando la costituzione di un rapporto di lavoro, rientrava
ormai nella giurisdizione del giudice ordinario, il T.a.r. ha affermato che la vera natura della
controversia non riguardava la costituzione di un rapporto di lavoro, ma tendeva piuttosto ad
accertare se l'Amministrazione avesse meno legittimamente omesso di provvedere sull'istanza di
116
117
In www.giustizia-amministrativa.it
Cfr. T.a.r. Abruzzo, Pescara, 26 gennaio 2001, n. 57, cit.
41
assunzione, sicché essa doveva ritenersi attribuita dall'art. 2 legge n. 205/2000 alla giurisdizione del
G.A..
Tale soluzione solleva non poche perplessità. Essa, infatti, finisce per reintrodurre
surrettiziamente ai fini del riparto della giurisdizione il criterio c.d. del petitum formale.
Nell'impostazione del giudice abruzzese, infatti, la giurisdizione cambia a seconda del tipo di
pronuncia cui il privato aspira: se chiede che l'Amministrazione venga condannata a provvedere ex
art. 2 l. n. 205/2000 la controversia andrà devoluta al G.A., se invece chiede la costituzione del
rapporto la controversia sarà devoluta al giudice ordinario. Questo indirizzo ha quindi l'effetto di
riproporre quello che è il principale inconveniente del criterio del petitum - e che portò nel 1930 le
Sezioni Unite della Cassazione 118 e l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato119 a respingerlo a
favore del diverso criterio della c.d. causa petendi - ovvero la possibilità di una doppia tutela della
medesima posizione soggettiva del cittadino nei confronti dell'Amministrazione, nel senso che la
stessa posizione soggettiva potrebbe essere fatta valere alternativamente o cumulativamente, a
scelta del ricorrente, avanti a ciascuno dei due giudici.
Per queste ragioni sembra allora preferibile ritenere che l'art. 2 l. n. 205/2000 operi
esclusivamente sul piano processuale, presupponendo e non fondando la giurisdizione del G.A.
L'applicazione del nuovo rito richiede, quindi, una verifica preliminare tendente ad accertare
l'esistenza della giurisdizione del G.A. sulla materia nella quale l'Amministrazione è rimasta inerte
di fronte all'istanza del privato.
In tal senso è, del resto, orientata la giurisprudenza prevalente che ha in diverse occasioni
affermato che il silenzio dell’amministrazione può configurarsi solo rispetto al mancato esercizio
del potere, mentre, allorché si deduca la lesione di un diritto soggettivo, occorre proporre un’azione
di accertamento volta ad ottenre il riconoscimento di quel diritto120.Si segnala, ad esempio,
Consiglio Stato , sez. V, 09 ottobre 2006, n. 6003121, ove si afferma chiaramente che “lo speciale
ricorso previsto dall'art. 21 bis, l. Tar, introdotto dall'art. 2, l. 21 luglio 2000 n. 205, non determina
una nuova ipotesi di giurisdizione esclusiva o per materia del g.a., ma costituisce un particolare
strumento processuale volto a rendere più efficace la tutela dell'interessato nei confronti del
comportamento inerte dell'amministrazione. Questa specifica forma di tutela, pertanto, può
realizzarsi solo nell'ambito delle controversie che rientrano già nel perimetro della giurisdizione
amministrativa. Ne deriva che il rimedio del silenzio-rifiuto, regolato dall'art. 21 bis, l. Tar, non è
esperibile nel caso in cui il g.a. sia privo di giurisdizione in ordine al rapporto sostanziale. Infatti,
l'istituto del silenzio va configurato come strumento diretto a superare l'inerzia della p.a.
nell'emanazione di un provvedimento amministrativo, a fronte di una posizione di mero interesse
legittimo in capo al cittadino. Ne consegue che per le controversie relative ai rapporti di lavoro
privatizzato non ha più senso una giurisdizione del g.a. sul silenzio-rifiuto dell'amministrazione,
atteso che il g.o. può decidere direttamente la questione, avvalendosi dei poteri istruttori che gli
competono, a prescindere dagli atti adottati dall'amministrazione e quindi anche nel caso in cui non
sia stato emanato alcun atto nonostante il decorso dei termini prescritti per la conclusione del
118
119
Cass. Sez. Un., 15 luglio 1930, n. 2680, in Giur. it., I; 1, 964 ss.
Cfr. Cons. St. Ad. Plen. 14 giugno 1930, nn. 1 e 2, in Giur. it., 1930, III, 149 ss.
120
Cfr., oltre alle sentenze citate nel testo, Cons. St., sez. IV, 2 novembre 2004 n. 7088, in Urbanistica e
appalti, 2005, 170, con nota di C.E. GALLO, Silenzio e comportamento della p.a. tra g.a. e g.o.; Cons. St.,
sez. V, 10 febbraio 2004 n. 497, in Ragiusan, 2004, 1, 234; TAR Basilicata, 5 aprile 2004 n. 288, in Trib.
amm. reg., 2004, I, 2107; TAR Campania, sez. V, 22 febbraio 2003 n. 1369, in Ragiusan, 2003, 235, 580;
TAR Campania, 23 gennaio 2002 n. 418, in Trib. amm. reg., 2002, 1176; TAR Marche, 11 aprile 2002 n. 286,
ivi, 2002, 1979; TAR Puglia, sez. I, 28 gennaio 2002 n. 512, ivi, 2002, 1213; TAR Campania, sez. V, 24 aprile
2002 n. 2424, in Foro amm. -TAR, 2002, 1364.
121
Foro amm.-Cons. Stato, 2006, 2825, con nota di CREPALDI, Le posizioni giuridiche soggettive e il rito
speciale di cui all'art. 21 bis, l. TAR.
42
relativo procedimento. Detta conclusione, poi, non muta nemmeno per effetto delle modifiche
legislative del rito avverso il silenzio, derivanti dalla l. 11 febbraio 2005 n. 15 e dal d.l. 14 marzo
2005 n. 35, conv. nella l. 14 maggio 2005 n. 80. Infatti, il potere di conoscere della fondatezza
dell'istanza proposta dal ricorrente amplia senz'altro i poteri decisori del g.a., senza permettere,
tuttavia, di esorbitare dai limiti della giurisdizione spettatentegli”.
Tra i giudici di primo grado si segnalano, tra le più recenti sentenze, T.a.r. Basilicata, 23
aprile 2007, n. 334122 e T.A.R. Sardegna Cagliari, sez. II, 12 aprile 2007, n. 654123.
La tesi in esame risulta del resto avvalorata dalla sentenza della Corte costituzionale 6 luglio
2004, n. 204124: la Consulta, infatti, ha escluso, esplicitamente con riferimento all’art. 34 d.lgs. n. 80
del 1998, per il giudice amministrativo la possibilità di sindacare i comportamenti
dell’amministrazione, ritenendo sussistente in materia esclusivamente la giurisdizione del giudice
ordinario, ai sensi dell’art. 103 Cost.
Sotto questo profilo, la sentenza della Corte si presta a due diverse opzioni interpretative, le
quali conducono a conseguenze applicative molto difformi.
Secondo una prima tesi, dopo la sentenza della Corte, la giurisdizione del G.A. sui
comportamenti della P.A. sarebbe radicalmente venuta meno, a prescindere dal tipo di
comportamento posto in essere dal soggetto pubblico.
Secondo un’altra tesi, invece, anche dopo la sentenza della Corte costituzionale, appare
necessario distinguere, ai fini del riparto della giurisdizione tra “meri comportamenti materiali” e
“comportamenti c.d. amministrativi”, posti in essere cioè dalla P.A. nell’esercizio di una attività
caratterizzata dalla spendita di poteri pubblicistici nell’esercizio di una pubblica funzione
amministrativa125.
Mentre per i meri comportamenti materiali la giurisdizione è certamente del G.O., si
dovrebbe, invece, affermare la giurisdizione amministrativa per i comportamenti c.d.
amministrativi, funzionalmente collegati all’esercizio di potestà pubblicistiche126.
Questa seconda opzione ermeneutica appare preferibile in quanto certamente più aderente
all’apparato motivazionale della decisione n. 204 del 2004. In presenza di quelli che abbiamo
122
In Foro amm-Tar, 2004, 1458
Foro amm.-Tar, 2007, 1491
124
Su tale sentenza sia consentito rinviare a R. GIOVAGNOLI, Il contenzioso in materia di servizi pubblici
dopo la sentenza della Corte costituzionale 6 luglio 2004, n. 204, Milano, 2004.
125
Per tale distinzione, v., già prima della sentenza della Corte costituzionale, F. CARINGELLA, La
trasformazione del territorio al vaglio esclusivo del giudice amministrativo, Relazione al Convegno annuale
di studi amministrativo, Varenna, settembre 2003. In giurisprudenza cfr. Cons. St., sez. VI, 20 aprile 2004, n.
2221, secondo cui <<la nozione di controversie aventi ad oggetto i comportamenti delle amministrazioni
pubbliche in materia di urbanistica ed edilizia deve essere interpretata in senso restrittivo, rientrando nella
giurisdizione del giudice amministrativo solo i comportamenti in cui ricorra la sussistenza dei requisiti
dell’esercizio di un pubblico potere (esplicazione della funzione amministrativa) e della rilevanza,
legislativamente prevista, del potere dell’amministrazione: ad esempio, silenzio-rifiuto, D.I.A. e le altre
ipotesi di inerzia o di attività legislativamente qualificata>>; Cass. Sez. Un., 6 giugno 2003, n. 9139, in
Urbanistica e appalti, 2003, 1293 (con nota di R. CONTI), secondo cui <<nell’urbanistica (o nel edilizia)
anche un comportamento tenuto dalla P.A. (o da un soggetto a questa equiparato) può assumere rilevanza
giuridica come espressione di un potere amministrativo purché però sia ricollegabile ad un fine pubblico o di
pubblico interesse legalmente dichiarato>>; Cass., Sez. Un., ord., 9 giugno 2004, n. 10978, che, proprio
basandosi sulla distinzione tra comportamenti meramente materiali e “comportamenti amministrativi”, ha
riconosciuto, anche prima della parziale dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 34 d.lgs. n. 80/98 ad
opera della sentenza n. 204, la giurisdizione del G.O. per le azioni restitutorie a fronte di condotte realizzate
in assenza di dichiarazione di p.u., precedentemente annullata dal G.A.
126
Sul tema v., da ultimo, R. GIOVAGNOLI, La giurisdizione sulla responsabilità della P.A.: danno da
provvedimento e danno da comportamento, in Urbanistica e appalti, 2004, 1403 ss.; M.L. MADDALENA,
Comportamenti della P.A. in materia di urbanistica e riparto di giurisdizione dopo Corte cost. 204/2004,
ibidem, 2005, 81 ss.
123
43
definito “comportamenti amministrativi”, infatti, la decisione della controversia presuppone,
comunque, un accertamento sul modo in cui il potere pubblico è stato esercitato: si tratta, quindi, di
controversie, in cui, pur non essendo stato emanato un provvedimento amministrativo, viene in
considerazione, per dirla con la Corte costituzionale, la pubblica amministrazione-autorità.
Applicando tali principi in materia di silenzio della P.A. si deve, quindi, ritenere che
dovranno essere conosciuti dal G.O. i comportamenti inerti rispetto ai quali il ricorrente può vantare
una posizione di diritto soggettivo; andranno, invece, al G.A. i “silenzi” rispetto ai quali il ricorrente
può vantare una posizione di interesse legittimo127.
9.
Diniego espresso sopravvenuto nel corso del giudizio contro il silenzio-rifiuto
Può accadere che, impugnato il silenzio-rifuto ex art. 21-bis legge n. 1034 del 1971,
sopravvenga un diniego espresso da parte dell’amministrazione. Secondo una parte della dottrina,
tale evenienza non dovrebbe determinare la cessazione della materia del contendere atteso che, ai
sensi dell’art. 23, comma 7°, legge Tar, il Giudice può dichiarare cessata la materia del contendere
solo se l’amministrazione provvede <<in modo conforme all’istanza dell’interessato>>.
Alla luce di questa norma, si è allora sostenuto che l’emanazione, nel corso di un giudizio
contro il silenzio-rifuto della P.A., di un diniego esplicito dell’istanza non determinerebbe la
cessazione della materia del contendere, perché non soddisfa l’interesse fatto valere dal ricorrente.
In tal caso, il privato potrà proporre motivi aggiunti contro il provvedimento sopravvenuto,
previa conversione, però, del rito speciale di cui all’art. 21-bis legge n. 1034 del 1971 in rito
ordinario, dato che con l’emanazione del provvedimento sopravvenuto vengono meno le ragioni che
giustificano l’impiego del procedimento accelerato128.
La soluzione ora descritta è stata, tuttavia, considerata impercorribile dalla prevalente
giurisprudenza amministrativa, in relazione all’asserita autonomia del rito speciale sul silenziorifiuto che, perciò, non potrebbe essere convertito in un giudizio ordinario contro provvedimenti
espressi129. L’orientamento in esame è stato confermato dalla declaratoria di inammissibilità
dell’impugnazione proposta mediante motivi aggiunti, ai sensi dell’art. 21, legge n. 1034 del 1971,
come sostituito dall’art. 1 legge n. 205/2000, volta a censurare un provvedimento di cui era stata
acquisita la conoscenza in pendenza dello stesso ricorso avverso il silenzio a norma dell’art. 21-bis
legge n. 1034 del 1971130.
Pertanto, secondo tale indirizzo, instaurato il giudizio contro l’inerzia della pubblica
amministrazione, qualora questa decida di esercitare finalmente il proprio potere, il ricorso contro il
silenzio diventa improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (se l’istanza sia stata rigettata),
ovvero la cessazione della materia del contendere (se l’istanza sia stata accolta e sia stato
conseguito effettivamente il bene della vita al quale in concreto il ricorrente aspira). Infatti, ogni
qualvolta l’amministrazione eserciti la funzione pubblica con un provvedimento espresso, viene
meno l’esigenza di certezza sottesa alla ratio della norma di cui all’art. 21 bis l. Tar, sicché il
giudice amministrativo, ante omnia, dovrà limitarsi a prenderne atto, con le consequenziali
statuizioni processuali a seconda del contenuto del provvedimento esplicito; in questo frangente,
dunque, sarà inibita ogni valutazione circa la fondatezza della pretesa sostanziale, che troverà la
naturale sede di scrutinio nell’eventuale giudizio di legittimità che il richiedente insoddisfatto vorrà
intraprendere131.
127
In questi termini cfr. C.E. GALLO, op. ult. cit., 172.
In tal senso cfr. Cons. St., sez. V, 10 aprile 2002, n. 1974, in Dir. proc. amm., 2002, 1005 ss.
129
Cons. St., sez. V, 3 gennaio 2002, n. 12, in Foro amm.-Cons. St., 2002, 80, con nota di F. SATTA,
Impugnazione cumulativa del silenzio e del provvedimento esplicito: una anomala ipotesi di inammissibilità
derivata.
130
Cons. St., sez. V, 11 gennaio 2002, n. 144, in Dir. proc. amm., 2002, 1005 ss.
131
In tal senso v., da ultimo, Cons. St., sez. IV, 10 ottobre 2007 n. 5311, cit.
128
44
Sulla base di considerazioni analoghe a quella appena esaminate, la giurisprudenza
prevalente è orientata nel senso di ritenere inammissibile, escludendone la conversione in ricorso
ordinario, il ricorso ex art. 21-bis legge n. 1034 del 1971 che, sin dall’origine, proponga
cumulativamente la domanda di accertamento del silenzio della P.A. e la domanda di annullamento
di provvedimenti amministrativi connessi132.
L’orientamento contrario alla conversione del rito speciale in rito ordinario suscita alcune
perplessità133.
Come è stato ben evidenziato134, infatti, il rito camerale ben può essere convertito in un rito
ordinario, essendo ciò espressamente previsto, per esempio, con riferimento al giudizio di
ottemperanza, che, a richiesta di una delle parti, si converte da rito camerale in rito ordinario.
Ebbene, così come nel giudizio di ottemperanza la ragione della trasformazione consiste nella
emersione di profili più complessi per i quali è necessario seguire il rito della pubblica udienza
piuttosto che il rito della camera di consiglio, così, nel giudizio sul silenzio, la conversione può
essere proprio la conseguenza dell’emergere di questioni più complesse rispetto all’accertamento
del semplice silenzio, come accade, appunto, quando viene emanato un diniego espresso135.
Né, in senso contrario, vale affermare che la conversione dei riti è un istituto non previsto in
via generale nel processo amministrativo e, quindi, non può trovare applicazione laddove non
espressamente previsto: la conversione dei riti, infatti, così come la conversione degli atti, si fonda
sul principio di carattere generale della strumentalità delle forme, che è espresso come principio
generale nel codice di procedura civile agli art. 156 ss.
La forme dei riti, in altri termini, non sono un valore in sé ma sono un valore strumentale, in
quanto consentono al processo di svilupparsi secondo la connotazione più aderente alla funzione
sua propria, che è quella di risolvere le controversie.
Il principio di strumentalità delle forme, quindi, ben giustifica la trasformazione del giudizio
sul silenzio in un giudizio di impugnazione, allorché se ne verifichino i presupposti: trasformazione
che può avvenire sia con provvedimento collegiale, costituito da una sentenza parziale che decida
sul silenzio e da un’ordinanza che disponga la prosecuzione del giudizio secondo il rito ordinario,
oppure, alla luce del principio di economicità, costituito soltanto da una ordinanza che rimetta alla
decisione definitiva anche la pronunzia sul silenzio136.
Laddove, invece, il provvedimento di diniego sopravvenuto non venga impugnato la contesa
avrà termine, ma non, come a volte afferma la giurisprudenza, per cessazione della materia del
contendere, bensì, dato il mancato soddisfacimento dell’interesse sostanziale del ricorrente, per
improcedibilità dovuta a sopravvenuta carenza di interesse137.
10.
Natura giuridica del commissario ad acta nominato in sede di ricorso avverso il
silenzio-rifiuto
Dottrina e giurisprudenza sono state a lungo impegnate nella qualificazione giuridica del
commissario ad acta, incontrando in tale opera ricostruttiva notevoli difficoltà, in parte dovute alla
stessa duplicità di natura del giudizio di ottemperanza, ora ricondotto all’attività giurisdizionale ora
all’attività amministrativa.
132
Cfr., da ultimo, Cons. St., sez. IV, 23 aprile 2004, n. 2386, in Urbanistica e appalti, 2004,926, con nota di
C.E. GALLO.
133
Cfr. C.E. GALLO, Il giudizio avverso il silenzio della P.A., la cumulabilità delle azioni e la convertibilità
dei riti, in Urbanistica e appalti, 2004, n. 8, 926 ss..
134
C.E. GALLO, Il giudizio avverso il silenzio della P.A., cit., 928.
135
C.E. GALLO, op. ult. cit., 928.
136
C.E. GALLO, op. ult. cit., 928.
137
In questi termini cfr. P. NUMERICO, Cessazione della materia del contendere, cit., 5.
45
Sul tema si segnala un recente arresto della Sesta Sezione del Consiglio di Stato che, con la
decisione 25 giugno 2007, n. 3602138 , chiamata a stabilire se il commissario ad acta dovesse essere
destinatario della notifica dell’appello avverso il provvedimento giudiziale che ne dispone la
nomina, ha ricostruito il dibattito dottrinale e giurisprudenziale esistente sul tema
Come è noto, con riferimento alla natura giuridica del commissario ad acta sono state
prospettate tre tesi: organo straordinario ausiliario del giudice; organo straordinario
dell’amministrazione; organo misto, per alcuni aspetti ausiliario dell’amministrazione e per altri del
giudice.
Se per il commissario ad acta nominato in sede di ottemperanza per l’esecuzione del
giudicato, prevale la tesi secondo cui si tratta di un organo ausiliario del giudice (tesi che ha
ricevuto anche l’importante avallo dell’Adunanza plenaria n. 23 del 1978), il dibattito è, invece,
tutt’ora aperto per quella speciale figura di commissario ad acta nominato, ai sensi dell’art. 21 bis,
legge n. 1034 del 1971, per porre rimedio alla persistente inerzia dell’Amministrazione.
In questo caso, infatti, secondo la tesi preferibile, non si ha un vero e proprio giudizio di
ottemperanza, tant’è che l’art. 21 bis non rinvia alle norme sul giudizio di ottemperanza, ma si
limita a prevedere la nomina di un commissario ad acta. Si ha, più propriamente, una ottemperanza
"anomala" o "speciale", dove la specialità risiede nella circostanza che si prescinde dal passaggio in
giudicato della sentenza, e, soprattutto si ammette l’intervento del commissario nell’ambito del
medesimo processo, senza più bisogno di un ricorso ad hoc, essendo sufficiente una semplice
istanza al giudice che ha dichiarato l’illegittimità del silenzio.
Anzi, proprio prendendo atto della unitarietà che ormai lega la fase di cognizione
sull’inadempimento dell’amministrazione e la successiva fase esecutiva, la giurisprudenza
amministrativa ha riconosciuto la possibilità, se l’interessato ne fa richiesta, di disporre in via
contestuale l’ordine di provvedere e la nomina del commissario ad acta, il quale, in questi entrerà in
funzione non subito, ma solo quando si protragga l’inerzia dell’Amministrazione (Cons. Stato, sez.
V, n. 30/2002).
Ma la specialità di questa forma di ottemperanza deriva anche dal fatto che il commissario
ad acta nominato ai sensi dell’art. 21 bis, comma 2, legge n. 1034 del 1971, può assumere un ruolo
del tutto inedito, in quanto la sua attività può non essere volta al completamento ed all’attuazione
del dictum giudiziale recante direttive conformative dell’attività amministrativa, ma può atteggiarsi
come attività di pura sostituzione, in un ambito di piena discrezionalità, non collegata alla decisione
se non per quanto attiene al presupposto dell’accertamento della prolungata inerzia
dell’amministrazione.
Ed infatti, anche dopo le modifiche apportate dalla legge n. 80/2005 all’art. 2 della legge n.
241/1990, il giudice amministrativo, chiamato a giudicare sul ricorso contro il silenzio-rifiuto della
p.a., può limitarsi a dichiarare l’esistenza dell’obbligo di provvedere, senza svolgere però alcuna
valutazione in ordine alla fondatezza della pretesa sostanziale dell’istante. Questo può accadere o
perché il ricorrente non chiede il giudizio sulla fondatezza della pretesa, o perché il giudice ritiene,
a torto o a ragione, che non vi siano i presupposti per esercitare tale sindacato, perché il
provvedimento richiesto dal privato involge valutazioni discrezionali dell’Amministrazione.
Non a caso, l’art. 2 legge n. 241/1990 prevede che il giudice "può conoscere della
fondatezza dell’istanza", configurando, quindi, il sindacato sul rapporto come una eventualità, e non
come una componente necessaria della sentenza sul silenzio.
Ed allora, in tutti i casi in cui il giudice amministrativo si sia limitato soltanto a dichiarare
l’obbligo di provvedere, senza vincolare in alcun modo la successiva attività amministrativa, il
commissario ad acta, nominato in caso di persistente inerzia della p.a., viene a disporre di uno
spazio di libertà sicuramente sconosciuto all’analoga figura nominata in sede di esecuzione al
giudicato. Non vi è, infatti, una vera e propria sentenza di ottemperanza, ma un semplice atto di
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nomina, con cui il giudice non dice all’amministrazione come deve provvedere, ma demanda tutto
all’organo amministrativo straordinario che è il commissario.
Si ha qui, allora, un commissario che assomiglia più ad un organo dell’Amministrazione che
ad un ausiliario del giudice.
Quella appena prospettata è una plausibile ricostruzione del dato positivo. E’ tuttavia
senz’altro possibile, come la migliore dottrina non ha mancato di evidenziare, una diversa
ricostruzione, secondo cui l’art. 21 bis contemplerebbe un vero e proprio giudizio di ottemperanza:
il previsto atto di nomina sarebbe una vera e propria sentenza di ottemperanza in cui il giudice detta
anche le direttive per l’operato dell’Amministrazione. Ricostruita la norma, in questi termini, si
avrebbe almeno nella fase esecutiva del giudizio, un vero e proprio giudizio di merito e il
commissario dovrebbe essere qualificato come ausiliario del giudice, o, al più, come un organo
misto.
Quale che sia la tesi che si ritenga di accogliere, con le conseguenze evidenziate in ordine
alla natura giuridica del commissario ad acta, non vi può, comunque, essere dubbio sul fatto, coem
ha rilevato la citata decisione della VI Sezione n. 3602/2007, che quest’ultimo non rivesta la
qualifica di controinteressato nel giudizio di appello avverso il provvedimento giudiziale che lo
nomina.
Accogliendo la prima delle sopra riportate opzioni interpretative, infatti, il commissario
andrebbe qualificato come organo straordinario dell’Amministrazione e, quindi, l’appello non
dovrebbe essergli notificato per essere la sua attività riferibile alla stessa pubblica amministrazione
esecutata.
Accogliendo la seconda opzione, egli sarebbe, quale ausiliario del giudice, un organo
paragiurisdizionale, ed ugualmente l’atto di appello non gli andrebbe notificato, per le stesse ragioni
per le quali non si è mai dubitato che l’appello non debba essere notificato al giudice che ha emesso
la sentenza impugnata o agli ausiliari dallo stesso nominati.
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