Figlie della Carità - Parrocchia S. Lucia di Prata di Pordenone

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Il figlio
“Figlie della Carità”
Il nome d’un istituto ne dice l’identità profonda. Tale identità non è mai qualcosa di privato ed
esclusivo dei membri di quell’istituto, ma appartiene a tutta la chiesa e va condiviso. È quello che
hanno fatto le Madri canossiane in questi 150 anni di presenza qui a Pavia. È giusto, allora, che
celebriamo questa memoria facendo …la stessa cosa, condividendo con voi il dono dello Spirito che
ci rende “Figlie/i della Carità, serve/i dei poveri”. A me tocca dire qualcosa sul senso dell’esser
Figlie/i della carità.
1- Figlia/o
Esser figli è un dato di fatto così evidente che normalmente non è nemmeno oggetto di riflessione e
attenzione mentale. Non è una verità, nel senso speculativo del termine, tanto è ovvia la cosa. Tanto
meno è qualcosa che ci commuove e sorprende, di cui esser grati e riconoscenti. Siamo un po’ tutti
dei figli ingrati, da questo punto di vista. Nella cultura odierna, poi, il termine sembra avvolto da
una certa ambiguità. Siamo passati dalla stagione dell’uccisione del padre, di qualche decennio fa, a
quella della paura del figlio, vedi la progressiva denatalità, in contrasto con la pretesa opposta di
desiderarlo1 o addirittura volerlo a tutti i costi e in tutti i modi, ma programmandolo secondo i
propri gusti; oppure c’è una sorta di culto del figlio, spesso figliounico e reuccio incontrastato, con
una specie d’inversione dei ruoli, per cui i genitori odierni sembrano essere l’ultima generazione di
figli che –a suo tempo- hanno obbedito ai loro padri, e la prima generazione di padri, oggi, che
obbediscono ai loro figli, sempre attenti e protesi come sono a soddisfarne i desideri e ucciderne la
capacità di desiderare2.
Se poi passiamo al piano della fede e ci ritroviamo dinanzi alla verità d’esser figli di Dio, la musica
in sostanza non cambia. È la verità primordiale e radicale, che abbiamo tutti appreso sulle ginocchia
di nostra madre, ed è senz’altro la verità più decisiva e densa di spessore teologico e antropologico,
apparentemente è la verità più semplice da credere eppure è forse anche quella meno scontata,
spesso in pratica disattesa, quasi …diffidata, molte volte inconsciamente cercata mentre di fatto ci è
già stata donata, da sempre e per sempre3.
Ma cosa vuol dire, allora chiediamoci, essere figli?
Vuol dire anzitutto recuperare lo stupore dinanzi alla verità delle nostre origini.
1.1- “Cogitor ergo sum”
"Io ...ho ricevuto me stesso. Al principio della mia esistenza… non sta una decisione d'essere,
presa da me stesso. Tanto meno semplicemente ci sono, senza che necessiti d'alcuna decisione
d'essere. Tutto ciò è così soltanto in Dio. Bensì al principio della mia esistenza sta un'iniziativa,
un Qualcuno, che ha dato me a me stesso.
In ogni caso sono stato dato, e dato come quest'individuo determinato"4.
Non è insomma il cogito ergo sum di Cartesio l’atto originario, non è la presunzione di essere in
quanto si pensa, l’atto originario è il “cogitor ergo sum” di K.Barth, “sono perché altri mi
1 Secondo una ricerca del CNR di tre anni fa l’Italia ha un indice tra i più elevati d’Europa nell’apprezzamento del
“valore dei figli”; mentre l’ultima indagine dell’Associazione demografi italiani conferma che ogni coppia desidera in
media 2.2 figli (anche se il 2° figlio è poi una rarità in questa nostra società ove l’infanzia è sempre più “senza fratelli”,
cf Anzani G., La clessidra della felicità, in “Avvenire” 8/XII/1).
2 Così l’attore Pino Caruso: “Quand’ero figlio io comandavano i padri. Ora che sono padre comandano i figli. La
mia è una generazione che non ha mai contato nulla”.
3 Chissà se anche questo è il senso di questa affermazione: “Se siamo tutti figli di Dio, io sono adottato”.
4 R.Guardini, Accettare se stessi, Brescia 1970, p.13.
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pensano”, “sono perché vengo da altrove, perché c’è un indicibile, un irriducibile altrove da cui
sono generato”, perché una Volontà buona mi ha preferito alla non esistenza.
Fa eco a queste analisi il pensiero di Von Balthasar.
"Se prendo sul serio il mio 'essere io', allora è chiaro che con la mia introspezione non potrò mai
raggiungere la mia origine. Ed ora, se non si vuole che tutto sprofondi nell'abisso della causalità
senza senso, vi è un'unica conclusione possibile:
da qualche parte provengo, sono donato a me stesso.
Non solo prestato temporaneamente ..., ma donato. Affidato a me. Nessuna filosofia, nessuna
visione del mondo che prenda sul serio, senza distorsioni, l'esperienza di sé del singolo uomo può
confutare questa comprensione (Einsicht). Ma allora si giunge all'atto che tutte le forme di
autonomismo, fino a Marx e a Nietzsche, vorrebbero evitare ad ogni costo: l'autogratitudine
(Selbstverdakung). In modo elementare, eppure ancora superficiale, noi 'siamo grati' ai nostri
genitori, ed ogni civiltà incorrotta conosce il quarto comandamento: 'Onora il padre e la madre...',
specialmente quando non ci danno soltanto la nuda esistenza ma si prendono cura di noi e
provvedono a nutrirci, vestirci, educarci ecc. Ma ... i genitori non sono il principio ultimo: loro
stessi sono grati, a loro volta, ad altri genitori. La mia libertà, il mio indipendente 'essere io' non
hanno potuto crearli loro: dietro di essi era all'opera un principio molto più profondo e
fondamentale, ed è ad esso che devo essere grato ... In questo atto primario solo una cosa è esclusa:
che io consideri la mia esistenza, per la quale ringrazio, come una cosa ovvia, dovuta, necessaria
...; ora importa soltanto che il mio intimo venga compenetrato dalla consapevolezza che nulla di ciò
che sono e che mi viene continuamente donato mi è dovuto, né la vista della luce, né il sorriso di un
altro uomo, né il poter amare situazioni, cose, amici, ecc.; in tutto questo vi è un momento di dono,
che esige e suscita uno spontaneo ringraziamento5. ... Infine: l'atto che mi dà a me non è accaduto
all'inizio per poi interrompersi ed abbandonarmi a me stesso: esso continua ad accadere,
accompagnandomi (mitfolgend), così come da una fonte zampilla nuova acqua e tuttavia sempre la
stessa. Io vengo essenzialmente accompagnato dall'origine, che mi porta in modo tale che posso
rivolgermi a lei in ogni momento. In questo 'essere-portati' vi è cura verso di me"6.
Possiamo trarre alcune conclusioni da quanto visto.
1.2- Ogni uomo è figlio
:
“Ogni uomo è anzitutto figlio, nel senso che egli non è proprietario della sua origine, è dato a se
stesso, ma non detiene l’origine del suo esserci… Siamo materialmente chiamati alla vita tramite un
atto non nostro e per un’intenzione altrui. Per questo ogni uomo si ritrova rinviato ad altro da sé” 7,
capace di rapporto con l’alterità, essere essenzialmente relazionale e non autoreferenziale,
esposto all’altro e da lui riconoscibile (non si possiede),
vulnerabile e bisognoso dell’altro, ma anche aperto, disponibile all’incontro
fino a sapersi fare carico dell’altro, di sentirsene responsabile8.
Al punto che potremmo dire che “essere uomo è sinonimo di figlio”9, consapevolezza d’aver
ricevuto tutto quello che uno ha ed è, il contrario del tipo che-s’è-fatto-da-sé, esperienza d’essere
stato accolto da un grembo materno che comunque lo ha accolto, e lo supera, lo trascende e
“Statisticamente, la probabilità per ognuno di noi di essere al mondo è così piccola da far pensare che il semplice
fatto di esistere dovrebbe mantenerci tutti in una condizione di stupore sorpreso e appagato” (Lewis T., The lives of a
Cell. Notes of a Biology watcher, New Yok 1987.
6 Von Balthasar H.U., Pregare, Casale Monferrato 1989, pp.8-13.
7 Cf Laiti G., «Chiunque segue Gesù Cristo, uomo perfetto, si fa lui stesso più uomo” (GS 41), in “Esperienza e
teologia”, 3(1996), 61.
8 Se è vero che Caino ha ucciso Abele quando ha negato, dinanzi a JHWH, d’esserne responsabile (più ancora di
quando lo ha fisicamente aggredito ed eliminato), chi non si carica responsabilmente del fratello lo uccide.
9 Cei, Messaggio in occasione della 22a Giornata della vita, in “Avvenire” 7/II/2000, 16.
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trascende le eventuali situazioni umane di limite nel quale può essersi trovato, grembo nel quale gli
è dato riconoscersi ma che non gli è dato spiegare, grembo che dice una benevolenza più forte
d’ogni avversità della vita:
“Non siamo a caso nel mondo… La considerazione più approfondita, la meditazione più serena sul
nostro essere al mondo ci rinvia a una genesi personale che, anche se infranta dalla morte dei
genitori o da una loro separazione o da un loro abbandono o da un loro rifiuto, ha, in se stessa,
ontologicamente, metafisicamente la forza dell’affermazione, della positività amorosa e espressiva
di tale amore. Anche se le disgrazie dell’esperienza sono di segno contrario, una paternità è inscritta
in re nel nostro stesso esistere, ci richiama a un senso positivo e personale della “condizione
umana” che è in noi, al di là di qualunque situazione in cui di fatto ci troviamo”10.
1.3- L’esperienza d’esser figlia in Maddalena
Abbiamo fatto questa citazione, forse non subito chiara, perché proprio questa è stata la situazione
della nostra Fondatrice nella sua infanzia, quando in giovanissima età perde in pratica entrambi i
genitori, il padre muore e la madre la lascia sola e si rifà altrove una nuova vita. Maddalena ha
vissuto in maniera drammatica la propria negativa esperienza filiale, che avrebbe potuto
condizionare in maniera molto pesante il suo sviluppo psicologico, specie sul piano affettivo e
relazionale.
Ma non è così; anzi, è esattamente il contrario. Non è questo il momento per indicare cosa abbia
aiutato Maddalena a superare questo condizionamento e integrare la sua infanzia coi suoi limiti, ma
diciamo solo, anche partendo dalla sua esperienza, che è possibile in ogni caso e qualsiasi sia stata
la propria esperienza infantile scoprire e riscoprire con sorpresa e gratitudine quella radice positiva
da cui ognuno di noi proviene, quella volontà buona che ci ha preferiti alla non esistenza, quel
messaggio di positività radicale nascosto nel mistero del proprio esser figli, quel bene della vita o
quel bene che è la vita comunque preferibile al suo contrario. E tutto ciò, sappiamo bene, non è così
scontato nella cultura di oggi, nella cultura che dimentica che la vita è semmai un debito, cultura del
diritto alla vita perfetta, del figlio che non viene allenato a integrare le asperità e imperfezioni della
vita ed è sempre più pretenzioso e inappagato, e a volte complessato, o del narciso che non sa
lasciarsi amare nella propria non amabilità, perennemente ingrato e pervicacemente convinto di
dover tutto meritare e conquistare.
È certa una cosa, che tale esperienza negativa poi risolta e integrata ha giocato un ruolo importante
nella vicenda di Maddalena fondatrice, che addirittura giunge a fondare un istituto religioso che
chiama delle “figlie e dei figli della carità”.
2- Figlia/o della Carità
Quella Volontà Buona che ci ha preferiti alla non esistenza può essere solo Dio, la fonte
dell’esistenza, ma non un Dio qualsiasi, bensì il Dio-Trinità, il Dio-Padre che genera il Figlio nello
Spirito, ovvero il Dio-relazione. Solo la Trinità fa spazio veramente all’altro, perché la Trinità è
questo spazio, è lo spazio abitabile dall’altro; solo un Dio che non sia monolitico né pura
onnipotenza autosufficiente (e dunque chiusa in se stessa), ma che sia relazione, esodo da se stesso,
evento d’una eterna relazione di dialogo, di dono, di amore ricevuto e restituito, dà anche lo spazio
e la possibilità all’altro di esistere in sé. Noi esistiamo perché Dio è Trinità, spazio relazionale,
dimora accogliente, grembo materno.
2.1- “Amor ergo sum”
Si tratta allora di passare dal “cogitor ego sum” all’“amor ego sum”: esisto perché sono amato, lo
sono stato dall’inizio, da quell’indicibile inizio abitato dal Dio-Tinità, sono stato amato da sempre e
10 Rigobello A., “La condizione filiale”, in Il mistero del Padre, Atti del 2° convegno internazionale sulla Dives in
Misericordia, Collevalenza 1983, p.152.
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per sempre; solo se l’Altro è relazione c’è spazio perché io esista, o perché io, altro, esista
nell’Altro11. Solo un Dio trinitario, che vive in sé la relazione vera con l’altro e che continuamente
si autolimita perché l’altro sia (e in questo autolimitarsi è se stesso) solo un Dio creatore, cioè, che
si contrae per fare spazio all’altro e renderlo attivo e responsabile (respons-abile), è un Dio che
rende possibile l’avventura umana, in quanto Dio amante. Esisto solo perché un Altro si è destinato
a me, e in questo destinarsi mi ha reso capace di corrispondergli, cioè mi ha amato fino a rendermi
capace di amare, di amarlo. Dio, “l’alterità originaria in relazione”12. Esser figlia/o della carità vuol
dire non solo essere stato pensato e creato dall’amore divino, ma essere stato reso da lui capace
d’amare alla maniera divina.
È l’esperienza di Maddalena, un’esperienza che la nostra fondatrice vive soprattutto dinanzi al
Crocifisso, icona per eccellenza di tutto ciò (cioè della verità della vita): della paternità/maternità
divine, dell’esser figlio, della Trinità come spazio vitale e grembo accogliente, dell’Eterno come
Volontà buona che vuole ostinatamente la salvezza dell’uomo, che l’uomo viva, della dignità
dell’uomo, in particolare, per il quale Dio non ha risparmiato il proprio Figlio… Nulla come la
croce dice il valore misterioso dell’essere umano, d’ogni essere umano, specie in un tempo come il
nostro in cui sembriamo tutti prigionieri dell’antropologia dell’homo oeconomicus, antropologia
negativa, dell’autoaffermazione esclusiva, dell’antifraternità, dell’accumulo dei beni e dei poteri
come garanzia di dominio sull’altro… L’homo oeconomicus soffre del “complesso di Dio”13, e
finisce per esser sazio e disperato perché non conosce l’amore14.
Più in particolare Gesù in croce, nella contemplazione di Maddalena, riunisce in sé due aspetti
fondamentali dell’esperienza amante.
2.2- Il Crocifisso: agàpe e agòne
Sappiamo bene la centralità del Crocifisso nella spiritualità di Maddalena: il suo istituto nasce ai
piedi della croce. Che significa che da un lato ella contempla nel mistero della croce l’effettivo
autolimitarsi divino per fare spazio all’altro, il punto estremo della kenosi divina con tutta la
sofferenza che questo comporta; dall’altro la croce la chiama ad amare, la rende capace di voler
bene come Gesù, “con lo stesso suo cuore”, dice Maddalena, che probabilmente proprio attraverso
questa contemplazione supera definitivamente le angosce dell’infanzia e le fissazioni d’una
malintesa aspirazione perfezionista. Ovvero legge nella croce l’agone e l’agape.
Per Maddalena, infatti, la croce è il segno più grande dell’amore più grande, dell’agape, come
amore che è all’origine di tutto e tutto invade in più direzioni. È l’amore
- del Padre per il Figlio e del Figlio per il Padre
- del Dio-Trinità per l’umanità
- dell’uomo per Dio
- dell’uomo col suo simile
- dell’uomo col suo simile peccatore o sofferente
E in questa linea, e solo in questa linea, la nostra Madre legge la sofferenza, come segno
dell’amore, segno più grande, estremo, che giunge fino al dono della vita. Perché questa è la natura
dell’amore, dell’amore vero: di fare spazio all’altro fino al punto di ritirarsi del tutto per farlo
essere, fino a morire per l’uomo15. L’amore ha le stigmate. È l’aspetto agonico, che è
complementare all’agape, agòn è agonia, e ha la stessa radice etimologica di agàpe, cioè amore.
Maddalena intuisce dinanzi alla croce una verità fondamentale che spesso non vogliamo riconoscere
e accettare, che non c’è agape senza agone e viceversa, ogni agone nasconde un’agape, ma ogni
Cf Forte B., La sfida di Dio. Filosofia e teologia a confronto, in “Note mazziane”, luglio-settembre 2002, p.156.
157.
13 Cf Mancini R., Esistenza e gratuità. Antropologia della condivisione, Assisi 1996, p.13.
14 Come dice il Salmo: “L’uomo nella prosperità non comprende”.
15 “Senza amore non si vive. Senza dolore non si ama” (N.Salvaneschi ).
11
12 Ibidem,
5
agape, se è vera, nasconde un agone. Maddalena, in altre parole, legge l’agone in Dio, e intuisce
che Dio stesso è agone, Dio stesso è lotta e passione. Proprio perché è padre amorosissimo.
L’agonia di Dio è l’altro volto del suo amore per noi.
E decide di fare compagnia al dolore di Dio, quella compagnia che significa la “condivisione del
pane”, del pane dell’amore e della sofferenza (che sono il pane della vita), ovvero la piena
identificazione con il Crocifisso, quell’esser figli come Gesù, che è così sicuro della paternità del
Padre da affrontare la solitudine più radicale sulla croce, così sicuro della vita ricevuta dal Padre da
dare la sua vita per la salvezza degli uomini. E così esser pure padri e madri, generatori di vita,
come il Padre sul calvario, d’una vita che non muore grazie al gesto sacrificale del Figlio amato dal
Padre. Accade così, per uno scambio inedito di ruoli o per una condivisione paradossale che
se sul calvario un Padre immortale offre un Figlio immortale che muore,
sul monte delle tante sofferenze umane
un padre mortale può offrire un figlio mortale che non muore
(come Abramo con Isacco).
Ecco il senso della nostra congregazione delle figlie e dei figli della carità che oggi vogliono attuare
questo disegno di Maddalena: fare compagnia al dolore di Dio, quel dolore che nasce dal suo
amore, o entrare nel suo agòn per partecipare della sua agàpe. Ovvero: essere presenti nelle
sofferenze della storia perché nessuna sofferenza umana sia vana e maledetta, ma unita alla croce
del Figlio diventi salvezza e redenzione, vita che non muore!
Padre Amedeo Cencini
“Figlie della Carità” ........................................................................................................................... 1
1- Figlia/o ........................................................................................................................................ 1
1.1- “Cogitor ergo sum” .................................................................................................................. 1
1.2- Ogni uomo è figlio ................................................................................................................... 2
1.3- L’esperienza d’esser figlia in Maddalena ................................................................................ 3
2- Figlia/o della Carità .................................................................................................................... 3
2.1- “Amor ergo sum” ..................................................................................................................... 3
2.2- Il Crocifisso: agàpe e agòne ..................................................................................................... 4
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