1 Art. 2 CONCLUSIONE DEL PROCEDIMENTO (1) 1. Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso. 2. Nei casi in cui disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 non prevedono un termine diverso, i procedimenti amministrativi di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi entro il termine di trenta giorni. 3. Con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, adottati ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta dei Ministri competenti e di concerto con i Ministri per la pubblica amministrazione e l’innovazione e per la semplificazione normativa, sono individuati i termini non superiori a novanta giorni entro i quali devono concludersi i procedimenti di competenza delle amministrazioni statali. Gli enti pubblici nazionali stabiliscono, secondo i propri ordinamenti, i termini non superiori a novanta giorni entro i quali devono concludersi i procedimenti di propria competenza. 4. Nei casi in cui, tenendo conto della sostenibilità dei tempi sotto il profilo dell’organizzazione amministrativa, della natura degli interessi pubblici tutelati e della particolare complessità del procedimento, sono indispensabili termini superiori a novanta giorni per la conclusione dei procedimenti di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali, i decreti di cui al comma 3 sono adottati su proposta anche dei Ministri per la pubblica amministrazione e l’innovazione e per la semplificazione normativa e previa deliberazione del Consiglio dei ministri. I termini ivi previsti non possono comunque superare i centottanta giorni, con la sola esclusione dei procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti l’immigrazione. 5. Fatto salvo quanto previsto da specifiche disposizioni normative, le autorità di garanzia e di vigilanza disciplinano, in conformità ai propri ordinamenti, i termini di conclusione dei procedimenti di rispettiva competenza. 6. I termini per la conclusione del procedimento decorrono dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte. 8. Salvi i casi di silenzio assenso, decorsi i termini per la conclusione del procedimento, il ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione, ai sensi dell’articolo 21-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, può essere proposto anche senza necessità di diffida all’amministrazione inadempiente, fintanto che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai commi 2 o 3 del presente articolo. Il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell’istanza. È fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti. Art 239 7. Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 17, i termini di cui ai commi 2, 3, 4 e 5 del presente articolo possono essere sospesi, per una sola volta e per un periodo non superiore a trenta giorni, per l’acquisizione di informazioni o di certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni. Si applicano le disposizioni dell’articolo 14, comma 2. 2 9. La mancata emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale. (1) Articolo prima modificato dagli articoli 2 e 21, lettera b), della legge 11 febbraio 2005, n. 15, recante Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull'azione amministrativa (in Gazz. Uff. 21 febbraio 2005, n. 42), poi sostituito dall’articolo 3, comma 6-bis, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (in Gazz. Uff. 16 marzo 2005, n. 62), convertito dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, recante Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali (in Gazz. Uff. 14 maggio 2005, n. 111), e in ultimo sostituito dall’articolo 7, comma 1, lettera b), della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile (in Gazz. Uff. 19 giugno 2009, n. 140). SOMMARIO1 Bibliografia. 1 Il presente commento è stato concepito unitariamente ed è il frutto di un pensiero comune sviluppato dai suoi autori. Tuttavia, i parr. 1, 1.1, 1.2, 1.3, 4 e 5 della Sez. I e i parr. 1, 1.1, 1.2, 1.3, 1.4, 1.5, 1.6 e 1.7 della Sez. II sono stati scritti da Mauro Renna, mentre i parr. 2, 2.1, 2.2, 3, 3.1, 3.2 e 3.3 della Sez. I e i parr. 2.1, 2.2, 2.3 e 2.4 della Sez. II sono stari scritti da Fabrizio Figorilli. Art 239 Sez. I. L’inquadramento 1. L’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso ed entro un termine prestabilito. 1.1 La sfera di applicazione soggettiva dell’art. 2: i soggetti obbligati e i titolari della pretesa al rispetto del termine. 1.2 La sfera di applicazione oggettiva dell’art. 2: procedimenti a istanza di parte e procedimenti a iniziativa d’ufficio. 1.3 I rapporti con la disciplina del silenzio-assenso e con i casi in cui la legge qualifica il silenzio dell’amministrazione come rigetto dell’istanza. 2. L’individuazione dei termini per la conclusione dei procedimenti di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali: modalità, criteri e limiti. La disciplina transitoria introdotta dalla l. n. 69/09. 2.1 La natura del termine per la conclusione del procedimento e conseguenze della sua violazione sull’attività amministrativa successiva. 2.2 La decorrenza del termine per la conclusione del procedimento e sua eventuale sospensione. 3. La tutela avverso il silenzio fra art. 2 (l. 241/1990) e art. 21 bis (l. 1034/1971). 3.1 Rito speciale e motivi aggiunti. 3.2 L’ampliamento dell’oggetto del giudizio sul silenzio alla fondatezza della pretesa. 3.3 Rapporti tra rito speciale e azione risarcitoria. 4. Le conseguenze della mancata conclusione entro il termine prestabilito dei procedimenti a iniziativa d’ufficio diretti all’emanazione di provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati. 5. Termini del procedimento e responsabilità dirigenziale. 3 Sez. II. Le domande e le risposte 1. Casistica sulla sfera di operatività dell’obbligo di provvedere nel termine. 1.1 L’art. 2 si applica anche ai procedimenti diretti all’emanazione di atti amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione? 1.2 L’art. 2 è applicabile per definire i tempi di adempimento delle obbligazioni pecuniarie dell’amministrazione? 1.3 Sussiste l’obbligo di procedere e, quindi, di provvedere nel caso di istanze volte al rilascio di provvedimenti non previsti dall’ordinamento? 1.4 Sussiste l’obbligo di procedere e, quindi, di provvedere nel caso di istanze manifestamente assurde o totalmente infondate o illegali? 1.5 Sussiste l’obbligo di procedere e, quindi, di provvedere nel caso di istanze reiterate con lo stesso contenuto pur in difetto di mutamenti della situazione di fatto o di diritto? 1.6 Sussiste l’obbligo di dare seguito alle istanze di avvio di procedimenti di autotutela? 1.7 Sussiste l’obbligo di dare seguito alle istanze dirette all’ottenimento di provvedimenti sfavorevoli nei confronti di soggetti terzi? 2.1 Decorso infruttuosamente il termine per decidere sull’istanza di accesso ed avendo l’interessato proposto ricorso ai sensi del rito speciale, nelle more del giudizio è consentito all’amministrazione di pronunciarsi? 2.2 Un provvedimento emanato dopo la scadenza del termine di cui all’art. 2, l. n. 241/90, va considerato illegittimo? 2.3 I casi di sospensione del termine per la conclusione del procedimento devono ritenersi tassativi? 2.4 Una volta proposto il ricorso avverso il silenzio ai sensi dell’art. 21-bis, l. Tar, l’eventuale domanda proposta con motivi aggiunti al fine di censurare il provvedimento sopravvenuto deve ritenersi inammissibile? Indice analitico. PASTORI, Recent trends in Italian public administration, in Italian Journal of Public Law, n. 1/2009; FIGORILLI – FANTINI, Le modifiche alla disciplina generale sul procedimento amministrativo, in Urbanistica e appalti, 2009, 916 ss.; SCOCA, Rilievi critici sul trattamento processuale del silenzio, in Aa. Vv., La differenziazione dei riti processuali tra certezza ed effettività della tutela, a cura di Astone – Falzea – Morelli – F. Saitta – Ventura, Soveria Mannelli, 2009, 249 ss.; MONTEDORO, Il giudizio avverso il silenzio. Art. 21-bis l. TAR, in AA. VV., Codice della giustizia amministrativa, a cura di Morbidelli, Milano, 2008, 280 ss.; POLICE, Doverosità dell’azione amministrativa, tempo e garanzie giurisdizionali, in AA. VV., Il procedimento amministrativo, a cura di Cerulli Irelli, Napoli, 2007, 135 ss.; FANTINI, L’oggetto del giudizio speciale sul silenzio ed il problema dei motivi aggiunti, in Urbanistica e appalti, 2006, 1429 ss.; MORBIDELLI, Il tempo del procedimento, in AA. VV., La disciplina generale dell’azione amministrativa. Saggi ordinati in sistema, a cura di Cerulli Irelli, Napoli, 2006, 251 ss.; CIOFFI, Dovere di provvedere e silenzioassenso della pubblica amministrazione dopo la legge 14 maggio 2005 n. 80, in Dir. amm., 2006, 99 ss.; FIGORILLI – GIUSTI, Commento all’art. 2, in AA. VV., La pubblica amministrazione e la sua azione. Saggi critici sulla legge n. 241/1990 riformata dalle leggi n. 15/2005 e n. 80/2005, a cura di Paolantonio – Police – Zito, Torino, 2005, 127 ss.; FANTINI, Considerazioni sull’obbligo di provvedere alla (ri)pianificazione urbanistica e sulla discrezionalità nel «quid», in Urbanistica e appalti, 2005, 963 ss.; OCCHIENA, Riforma della l. 241/1990 e “nuovo” silenzio-rifiuto: del diritto v’è certezza, in GiustAmm.it, n. 4/2005; RENNA, Obblighi procedimentali e responsabilità dell’amministrazione, in Aa. Vv., Verso un’amministrazione responsabile, Milano, 2005, 287 ss., e in Dir. amm., 2005, 557 ss.; CIOFFI, Dovere di provvedere e pubblica amministrazione, Milano, 2005; VOLPE, Norme di relazione, norme di azione e sistema italiano di giustizia amministrativa, Padova, 2004; FIGORILLI, I motivi aggiunti, in AA. VV., Il processo Art 239 BIBLIOGRAFIA 4 davanti al giudice amministrativo. Commento sistematico alla legge n. 205/2000, a cura di Sassani – Villata, Torino, 2004, 169 ss.; GOISIS, La violazione dei termini previsti dall’art. 2 l. n. 241 del 1990: conseguenze sul provvedimento tardivo e funzione del giudizio ex art. 21-bis l. Tar, in Dir. proc. amm., 2004, 571 ss.; FRACCHIA, Riti speciali a rilevanza endoprocedimentale, Torino, 2003; LIPARI, I tempi del procedimento amministrativo. Certezza dei rapporti, interesse pubblico e tutela dei cittadini, in Dir. amm., 2003, 291 ss.; M. D’ORSOGNA, La tutela “avverso” il silenzio della P.A., in AA. 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VV., Legge 7 agosto 1990 n. 241 e ordinamenti regionali, a cura di Pastori, Padova, 1995, 51 ss.; TRAVI, Commento all’art. 2, in Commentario alla legge 7 agosto 1990, n. 241, a cura di Travi, in Le nuove leggi civili commentate, 1995, 8 ss.. Sez. I. L’inquadramento Ciò che si è appena esposto corrisponde, invero, a quel nucleo originario dell’articolo in oggetto che, fatta eccezione per il termine suppletivo di cui all’attuale comma 2 (termine originariamente di trenta giorni, portato a novanta giorni dal decreto-legge n. 35/2005 e ora riportato a trenta giorni dalla legge n. 69/2009), non ha mai subito alterazioni ad opera degli interventi di riforma Art 239 1. L’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso ed entro un termine prestabilito. L’articolo in commento, già modificato e poi sostituito nel 2005, è stato in ultimo nuovamente sostituito dall’art. 7, comma 1, lettera b), della legge 18 giugno 2009, n. 69. Esso sancisce il dovere o, meglio, l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di concludere tutti i procedimenti amministrativi, sia quelli iniziati a istanza di parte che quelli iniziati d’ufficio, mediante un provvedimento espresso ed entro un termine prestabilito: termine che a sua volta, come si spiegherà più avanti, deve essere individuato per ciascuna specie di procedimento da apposite disposizioni legislative o regolamentari, o comunque contenute in atti amministrativi generali, e che in difetto di specifica individuazione, ad ogni modo, è quello stabilito in via suppletiva dal comma 2 dell’articolo in esame ovvero, per quanto di rispettiva competenza, dalle leggi regionali sul procedimento amministrativo. 5 della legge n. 241/1990. È dall’entrata in vigore della medesima legge, dunque, che, diversamente da quanto accadeva in precedenza, non esistono più procedimenti amministrativi senza un termine certo fissato per la loro conclusione e le pubbliche amministrazioni, pertanto, sono tenute a concludere ogni tipo di procedimento tramite l’adozione di un provvedimento espresso entro un termine prestabilito. Più precisamente, ove l’amministrazione è obbligata ad aprire un procedimento, su istanza di parte o d’ufficio, essa è obbligata anche a chiuderlo provvedendo espressamente nel termine fissato: all’obbligo di procedere si è quindi congiunto l’obbligo di provvedere nei tempi previsti e il secondo, in sostanza, ha assorbito e preso il posto del primo. È opportuno rilevare, a questo punto, che le modifiche dell’art. 29 della legge n. 241, unitamente all’inserimento nella stessa dell’art. 2-bis, ad opera della legge n. 69/2009, appaiono confermare una volta di più che le disposizioni sull’obbligo di provvedere non si devono considerare alla stregua di mere “norme di azione”, ma si devono ritenere vere e proprie “norme di relazione” – per usare una vecchia terminologia ancora cara a diversi autori. Come si è anticipato in apertura del presente commento, in effetti, è più corretto parlare di “obbligo” anziché di “dovere” di provvedere nel termine, nonostante il comma 1 dell’articolo in esame si riferisca testualmente a un “dovere”. A questa conclusione si è giunti in dottrina attraverso vari e approfonditi percorsi argomentativi, che qui non è possibile nemmeno riassumere. Tali percorsi, peraltro, hanno già potuto giovarsi di importanti modifiche apportate alla legge n. 241, come in particolare quella, introdotta dalla legge n. 15 del 2005, relativa alla proposizione del ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione: le disposizioni dell’art. 2 concernenti il ricorso contro il silenzio, su cui si indugerà più avanti, qualificano infatti come “inadempimento” l’inosservanza del termine per la conclusione del procedimento, mostrando quindi chiaramente di presupporre che in capo all’amministrazione, quantomeno con riferimento ai procedimenti ad istanza di parte, sussista un obbligo o, meglio, un’obbligazione di provvedere nel termine, fronteggiata da un corrispondente diritto di credito del cittadino interessato. Non si può fare a meno di ricordare, inoltre, che l’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, firmata a Nizza il 7 dicembre 2000, si cura di esplicitare che il diritto a una buona amministrazione comprende, tra l’altro, il diritto di ogni individuo «a che le questioni che lo riguardano siano trattate» dall’amministrazione «entro un termine ragionevole» (nel medesimo senso, v. anche l’art. II-101 del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, firmato a Roma il 29 ottobre 2004). Art 239 Va poi soggiunto che l’obbligo di concludere il procedimento entro un termine certo e prefissato non si identifica soltanto in un principio generale dell’attività amministrativa che è diretta derivazione del principio costituzionale del buon andamento (v. amplius supra, I, art. 97 Cost.) e rappresenta, altresì, una fondamentale declinazione dei criteri di economicità e di efficacia, nonché del criterio di trasparenza, di cui all’art. 1 della stessa legge n. 241/1990 (v. amplius supra, II, art. 1, co. 1 e co. 2). Tale obbligo, in seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione operata nel 2001, si identifica pure in una garanzia essenziale che le pubbliche amministrazioni devono assicurare ai cittadini su tutto il territorio nazionale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. m), Cost.; e in proposito è importante evidenziare come l’art. 29 della legge n. 241/1990, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dalla legge n. 69/2009 (v. amplius infra, II, art. 29), si curi di esplicitare, al comma 2-bis, che «attengono ai livelli essenziali delle prestazioni» di cui al menzionato art. 117 non solo le disposizioni della medesima legge n. 241 concernenti l’obbligo di concludere il procedimento entro il termine prestabilito, ma anche quelle «relative alla durata massima dei procedimenti», cioè specificamente le disposizioni dei commi 3 e 4 dell’articolo in commento. 6 1.1 La sfera di applicazione soggettiva dell’art. 2: i soggetti obbligati e i titolari della pretesa al rispetto del termine. Venendo ai profili di maggiore dettaglio della disciplina dell’obbligo di provvedere, si devono innanzitutto formulare alcune osservazioni sulla sfera di applicazione soggettiva e oggettiva delle disposizioni in esame, prima di concentrare l’attenzione sulle questioni relative all’individuazione del termine per la conclusione del procedimento, alla sua decorrenza, ai casi di sua possibile sospensione, all’individuazione del momento in cui il procedimento possa dirsi effettivamente concluso, e così via. Iniziando dalla sfera di applicazione soggettiva dell’articolo 2, si deve quindi osservare, in primo luogo, che non sembra sussistere alcun dubbio sul fatto che l’obbligo di provvedere entro un termine prefissato gravi non solo su tutte le pubbliche amministrazioni – comprese le autorità di garanzia e di vigilanza di cui al comma 5 del medesimo articolo – ma anche sui soggetti privati – a cominciare dalle società con totale o prevalente capitale pubblico – nella misura in cui, ovviamente, questi esercitino funzioni pubbliche che implichino l’adozione di provvedimenti amministrativi da parte degli stessi. Quanto appena affermato poteva già ricavarsi, invero, dalle norme dell’art. 29, comma 2 (v. amplius infra, II, art. 29), e dell’art. 1, comma 1-ter (v. amplius supra, II, art. 1, co. 1-ter), della legge n. 241/1990, come modificata e integrata dalla legge n. 15/2005. Con la legge n. 69/2009, tuttavia, è stata fatta maggiore chiarezza sull’argomento. Infatti, il nuovo comma 1 del menzionato art. 29 (v. amplius infra, II, art. 29) include tra le disposizioni della legge n. 241 Art 239 Le nuove disposizioni dell’art. 29 della legge n. 241 valgono dunque a consolidare la configurabilità, in capo ai cittadini interessati, di un vero e proprio diritto soggettivo – anziché di un interesse legittimo – all’osservanza del termine per provvedere da parte dell’amministrazione. Il comma 2-bis di questo articolo, infatti, prende in considerazione gli «obblighi per la pubblica amministrazione di garantire la partecipazione dell’interessato al procedimento, di individuarne un responsabile, di concluderlo entro il termine prefissato e di assicurare l’accesso alla documentazione amministrativa»; e, riconducendoli ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili da garantire su tutto il territorio nazionale, esso presuppone, con ogni evidenza, che tali obblighi abbiano per oggetto prestazioni corrispondenti ad altrettanti diritti soggettivi dei cittadini. Alla luce di queste nuove esplicitazioni legislative, insomma, sembra difficile continuare a negare, come sinora hanno fatto una parte della dottrina e la prevalente giurisprudenza amministrativa (ex multis, oltre a Cons. St., A. P., 9 gennaio 2002, n. 1, e Cons. St., A. P., 15 settembre 2005, n. 7, v. soprattutto Tar Bari, sez. II, 13 gennaio 2005, n. 56, nonché Cons. St., sez. IV, 22 maggio 2006, n. 3009, Tar Lecce, sez. I, 6 dicembre 2006, n. 5716, Tar Torino, sez. II, 19 febbraio 2007, n. 709, e Tar Roma, sez. III-quater, 31 marzo 2008, n. 2704), che l’obbligo di provvedere nel termine, al pari di altri obblighi fondamentali imposti all’amministrazione dalla legge n. 241 – quali segnatamente l’obbligo di assicurare la partecipazione procedimentale (v. amplius infra, II, art. 10) e quello di garantire l’accesso ai documenti amministrativi (v. amplius infra, II, art. 22) – consista in una vera e propria obbligazione legale, fronteggiata da un autentico diritto soggettivo degli interessati. La titolarità, in capo agli interessati, di un vero e proprio diritto al rispetto del termine da parte dell’amministrazione appare confermata, del resto, come si accennava, anche dalle nuove disposizioni di cui all’art. 2bis della medesima legge, relative al risarcimento del cd. danno da ritardo (v. amplius infra, II, art. 2-bis): in particolare, l’attribuzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie risarcitorie per i danni derivanti dall’inosservanza del termine per provvedere non sembra potersi fondare che sul presupposto della natura di diritto soggettivo della posizione giuridica vantata dal cittadino nei confronti dell’amministrazione in ordine al rispetto dello stesso termine. 7 applicabili a tutte le amministrazioni pubbliche anche quelle dell’art. 2-bis, le quali a loro volta presuppongono, naturalmente, l’operatività di quelle del precedente art. 2; mentre, come si è visto, il comma 2-bis dello stesso articolo 29 esplicita che l’obbligo per la pubblica amministrazione di provvedere nel termine rientra fra le prestazioni essenziali che devono essere garantite ai cittadini su tutto il territorio nazionale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. m), della Costituzione. Il comma 1 del medesimo art. 29 si cura altresì di precisare che le disposizioni della legge n. 241 si applicano pure «alle società con totale o prevalente capitale pubblico, limitatamente all’esercizio delle funzioni amministrative»; mentre l’art. 2-bis – il quale, come si è detto, non può che presupporre a monte l’operatività dell’art. 2 – nel disciplinare il risarcimento del danno da ritardo considera espressamente, al comma 1, sia «le pubbliche amministrazioni» che «i soggetti di cui all’articolo 1, comma 1-ter». 1.2 La sfera di applicazione oggettiva dell’art. 2: procedimenti a istanza di parte e procedimenti a iniziativa d’ufficio. Passando alla sfera di applicazione oggettiva dell’articolo in commento, si deve innanzitutto osservare che il medesimo articolo non esclude alcun tipo di procedimento dalla previsione dell’obbligo per l’amministrazione di provvedere nel termine. Si deve dunque ritenere pacifica l’operatività di tale obbligo per qualsiasi specie di procedimento rientrante nella sfera di applicazione generale della legge n. 241, compresi, in particolare, i procedimenti diretti all’emanazione di atti amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, pur essendo questi esclusi dalla sfera di applicazione specifica delle norme della legge n. 241 sulla partecipazione procedimentale (v. amplius infra, II, art. 13). Viceversa, è del tutto ovvio che la disciplina dell’obbligo di provvedere non possa assumere alcun rilievo laddove l’amministrazione non eserciti una funzione amministrativa in senso proprio, implicante l’adozione di un provvedimento o di un atto amministrativo. Così, mentre l’obbligo in questione deve reputarsi senz’altro vigente con riguardo alle procedure di evidenza pubblica per l’affidamento dei contratti della pubblica amministrazione (a proposito delle quali occorre menzionare anche l’art. 2, comma 3, del codice dei contratti pubblici approvato con il decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, secondo cui, per quanto non espressamente previsto nello Art 239 Spostando poi l’attenzione dal versante dei soggetti obbligati a quello dei titolari della pretesa all’adempimento dell’obbligo in questione, è normale che il pensiero corra, in prima battuta, ai soggetti che abbiano presentato l’istanza, con riguardo ai procedimenti a iniziativa di parte, nonché ai soggetti che, con riguardo a qualsiasi tipo di procedimento, risultino comunque essere i destinatari diretti del provvedimento – vuoi ampliativo, vuoi limitativo della sfera giuridica degli stessi – alla cui adozione è rivolto il procedimento medesimo. Si noti, peraltro, che può ben spettare anche a pubbliche amministrazioni la legittimazione ad attivare procedimenti a iniziativa di parte (si pensi per esempio alla possibilità, per determinati enti pubblici, di richiedere contributi ad altri enti pubblici). Oltre ai soggetti testé indicati, tuttavia, si dovrebbero ritenere titolari della pretesa al rispetto del termine da parte dell’amministrazione procedente pure i soggetti, diversi dai diretti destinatari del provvedimento da adottare, che possano comunque subire un pregiudizio dallo stesso, ossia i cd. controinteressati; e ciò dovrebbe valere non solo per i controinteressati individuati o facilmente individuabili, che sono parti necessarie del procedimento a norma dell’art. 7 della legge n. 241 (v. amplius infra, II, art. 7), ma altresì per quelli intervenuti nel procedimento ai sensi del successivo art. 9 (v. amplius infra, II, art. 9), giacché, una volta che questi siano intervenuti, pure ad essi dovrebbe essere riconosciuta a tutti gli effetti la dignità di parti del rapporto procedimentale. 8 stesso codice, «le procedure di affidamento e le altre attività amministrative in materia di contratti pubblici si espletano nel rispetto delle disposizioni sul procedimento amministrativo» della legge n. 241/1990), le previsioni dell’art. 2 non possono rivestire la benché minima rilevanza in riferimento alla fase di esecuzione dei medesimi contratti, la quale non implica l’esercizio di alcuna funzione amministrativa da parte dell’amministrazione ed è pertanto sottoposta all’applicazione di regole civilistiche. La sfera di operatività dell’obbligo di provvedere nel termine non risulta quindi circoscrivibile, come si è visto, né tramite l’esclusione dalla stessa di determinate pubbliche amministrazioni, né mediante l’esclusione di determinate tipologie o specie di procedimenti dal campo applicativo dell’articolo in esame. Detta sfera risulta invece circoscritta per via dell’individuazione – compiuta dalla giurisprudenza in parte anche prima dell’entrata in vigore della legge n. 241 – di casi in cui si deve ritenere che l’amministrazione, in concreto, non sia nemmeno tenuta, a monte, ad aprire il procedimento; giacché l’obbligo di concludere il procedimento con un provvedimento espresso si ha soltanto qualora il medesimo procedimento «consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio», come recita testualmente l’art. 2, comma 1. La giurisprudenza amministrativa ha elaborato, in particolare, una significativa casistica – di cui si darà conto nella Sezione II di questo commento – di fattispecie nelle quali ragionevolmente si esclude (anche «per ineludibili esigenze di economicità ed efficacia dell’azione amministrativa»: così Cons. St., sez. IV, 20 novembre 2000, n. 6181, e Cons. St., sez. IV, 11 giugno 2002, n. 3256) che l’amministrazione abbia l’obbligo di dare seguito alle istanze di parte: si pensi, per esempio, alle ipotesi di istanze manifestamente assurde o totalmente infondate o illegali, o di istanze reiterate con lo stesso contenuto pur in difetto di mutamenti della situazione di fatto o di diritto. Orbene, in tutti questi casi, per quanto le pronunce dei giudici non siano sempre attente a distinguere tra obbligo di procedere e obbligo di provvedere, si deve comunque intendere che l’insussistenza del secondo sia fatta derivare dalla ritenuta insussistenza del primo. Art 239 Se, da un lato, la giurisprudenza testé ricordata vale a circoscrivere la sfera di operatività dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere nel termine, deve essere però evidenziato come, d’altro canto, tale sfera risulti ampliata per effetto di un ulteriore filone giurisprudenziale che si sta consolidando. Si tratta, in sintesi, di una condivisibile giurisprudenza – anch’essa in parte elaborata prima dell’entrata in vigore della legge n. 241 e della quale si darà altresì conto nella Sezione II di questo commento – che, in presenza di particolari circostanze e in diretta attuazione dei principi generali dell’azione amministrativa (v. amplius supra, I, art. 97 Cost.; II, art. 1, co. 1 e co. 2), ai fini dell’insorgenza dell’obbligo di procedere e, dunque, di provvedere attribuisce autonomo e decisivo rilievo alle istanze di determinati soggetti pure con riguardo a procedimenti che le norme vigenti tipizzano come procedimenti ad iniziativa d’ufficio e non di parte. Un caso di scuola, in proposito, è rappresentato dai procedimenti di autotutela, che ordinariamente l’amministrazione non è tenuta ad avviare su istanza delle parti interessate, ma che, in situazioni specifiche ed eccezionali, essa può trovarsi obbligata ad aprire per ragioni di giustizia ed equità e in ossequio ai principi di correttezza e buona fede, e cioè, nella sostanza, in applicazione dei principi di imparzialità e buon andamento; la giurisprudenza, inoltre, ritiene che, per le stesse ragioni e in ossequio ai medesimi principi, l’amministrazione in diversi casi sia obbligata a dare seguito alle istanze dei privati anche ove queste siano rivolte all’ottenimento non già di provvedimenti ampliativi a vantaggio degli istanti, bensì di provvedimenti sfavorevoli (ad esempio sanzionatori) nei confronti di soggetti terzi. 9 1.3 I rapporti con la disciplina del silenzio-assenso e con i casi in cui la legge qualifica il silenzio dell’amministrazione come rigetto dell’istanza. Sempre riguardo alla sfera di applicazione oggettiva dell’articolo in esame, è opportuno infine precisare come dovrebbero essere correttamente intesi i rapporti fra la previsione dell’obbligo per l’amministrazione di provvedere espressamente e le ben note ipotesi di silenzio significativo previste dall’ordinamento (v. amplius infra, II, art. 20). Le disposizioni della legge n. 69/2009, infatti, nel consolidare, come si è spiegato sopra, la configurabilità di un autentico diritto soggettivo dei privati all’adempimento di detto obbligo, sembrano avere dato nuova linfa alla tesi, invero convincente, secondo cui la previsione che il silenzio su un’istanza, alla scadenza del termine per concludere il procedimento, equivalga all’accoglimento o al rigetto della medesima istanza non fa venire meno l’obbligo per l’amministrazione di pronunciarsi in modo espresso sull’istanza stessa. Si tratta, in altri termini, della tesi – formulata per primo da Aldo Travi con riferimento all’istituto del silenzio-assenso – secondo cui le ipotesi di silenzio significativo non devono essere considerate alla stregua di deroghe all’obbligo in questione, dovendosi invece ritenere, in base a un’interpretazione sistematica dell’ordinamento, che in tali ipotesi l’operatività del medesimo obbligo conviva con la possibilità che si formino i silenzi significativi. Questi, del resto, consistono in conclusioni procedimentali fittizie: la legge, di fronte all’inerzia dell’amministrazione, finge che alla scadenza del termine previsto la stessa abbia provveduto silenziosamente; ma nella realtà non esiste alcun provvedimento silenzioso. Nei casi di silenzio significativo, quindi, l’obbligo del clare loqui rimane inadempiuto, salvo che la legge riconnette al silenzio dell’amministrazione gli effetti di un accoglimento o di un rigetto delle istanze presentate dai privati. L’impostazione qui accolta si sta invece facendo largo anche nella giurisprudenza amministrativa (almeno in quella di primo grado) con riferimento ai casi di silenzio-rigetto, evidentemente perché in questi casi, a differenza che in quelli di silenzio-assenso, la formazione del silenzio significativo si risolve in un grave e intollerabile pregiudizio per i soggetti che hanno attivato il procedimento. Art 239 Seguendo la tesi appena indicata, si dovrebbe dunque ammettere che il silenzio significativo, pur qualificato dalla legge come assenso o come rigetto, a determinati effetti possa rilevare anche per quello che esso è nella realtà, e cioè quale mero inadempimento di un obbligo. Con riferimento ai casi di silenzio-assenso, però, è ben difficile rinvenire traccia di questa impostazione nella giurisprudenza amministrativa (per un’eccezione, v. tuttavia Tar Bari, sez. II, 18 gennaio 2002, n. 335), poiché tale istituto è riguardato esclusivamente dal punto di vista dei benefici che derivano dalla formazione del silenzio significativo ai privati che hanno attivato il procedimento. La legge, nell’introdurre le ipotesi di silenzio-assenso, intende proprio evitare che l’inerzia amministrativa ricada negativamente su chi ha presentato un’istanza all’amministrazione e, perciò, in queste ipotesi, l’obbligo di provvedere espressamente resta, per così dire, oscurato dal beneficio dell’accoglimento dell’istanza che è comunque conseguito, pur fittiziamente, dai soggetti istanti. Tant’è che, forse superficialmente (e trascurando peraltro del tutto la posizione di eventuali controinteressati), sul ritenuto presupposto che i soggetti istanti, in dette ipotesi, non possano mai trovarsi ad avere alcun interesse a ricorrere contro il silenzio dell’amministrazione, il comma 8 dell’articolo in commento, come si vedrà, esclude i casi di silenzio-assenso dall’ambito di applicazione del giudizio avverso il silenzio disciplinato dall’art. 21-bis della legge n. 1034/1971. Aderendo alla tesi poc’anzi riferita, tuttavia, nei medesimi casi non si dovrebbe escludere quantomeno la possibile rilevanza dell’inadempimento dell’obbligo del clare loqui ai fini delle responsabilità personali (segnatamente quella disciplinare ed eventualmente anche quella penale) dei funzionari amministrativi ai quali risultino imputabili gli inadempimenti, nonché della responsabilità dirigenziale di cui all’art. 2, comma 9, della legge n. 241, sulla quale si tornerà più avanti. 10 Disporre che all’inadempimento dell’obbligo di provvedere espressamente e motivatamente da parte dell’amministrazione consegua, in capo ai privati, addirittura l’effetto negativo di un provvedimento di rigetto delle istanze presentate appare, infatti, davvero in palese e profonda contraddizione con le disposizioni dell’articolo 2. Così, al fine di porre rimedio a una frattura dell’ordinamento altrimenti irriducibile, la giurisprudenza più sensibile alle esigenze di garantire i diritti dei cittadini nei confronti delle pubbliche amministrazioni, muovendo proprio dalla tesi qui condivisa, estende l’applicabilità dello speciale giudizio avverso il silenzio anche alle ipotesi di silenzio-rigetto, come si vedrà meglio più avanti, venendo quindi, in un certo qual modo, a sanare sul piano processuale un’incoerenza intrinseca alle norme di diritto sostanziale (v., tra le altre, Tar Cagliari, sez. I, 6 maggio 2003, n. 544; Tar Napoli, sez. II, 29 marzo 2006, n. 3262; Tar Cagliari, sez. II, 20 febbraio 2007, n. 167; Tar Roma, sez. II-bis, 17 settembre 2007, n. 8992; Tar Roma, sez. II-bis, 5 ottobre 2007, n. 9819; Tar Roma, sez. II-bis, 3 gennaio 2008, n. 8; Tar Roma, sez. IIbis, 16 marzo 2009, n. 2689; Tar Napoli, sez. VIII, 11 giugno 2009, n. 3207). Va poi da sé che pure in queste ipotesi, e a maggior ragione rispetto a quelle di silenzio-assenso, l’inadempimento dell’obbligo del clare loqui dovrebbe rilevare sia con riguardo alle possibili responsabilità personali dei funzionari che con riguardo alla responsabilità dei dirigenti per i risultati dell’attività delle strutture cui gli stessi sono preposti. 2. L’individuazione dei termini per la conclusione dei procedimenti di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali: modalità, criteri e limiti. La disciplina transitoria introdotta dalla l. n. 69/09. La disposizione in commento ribadisce e ripropone, di fatto, lo schema già inaugurato fin dalla prima formulazione del principio volto ad assicurare con certezza il termine entro il quale deve concludersi un procedimento amministrativo. E ciò con particolare riferimento al co. 2, allorché il legislatore del 2009, ha reintrodotto a livello di regola generale (in assenza di specifiche previsioni di legge o di provvedimenti di cui ai successivi commi 3 e 4 su cui v. infra) il limite massimo di trenta giorni, superando così la precedente correzione realizzata con la legge n. 80/2005 che aveva previsto fino a novanta giorni di tempo alle amministrazioni per adempiere i propri doveri/obblighi. Detta inversione di tendenza può pertanto rappresentare un primo inequivocabile segnale della predilezione, da parte della recentissima novella, per un modello che, a prima vista, privilegi le esigenze di celerità rispetto a tutti gli altri possibili profili connessi all’esercizio della funzione amministrativa nell’arco di tempi sufficientemente ampi per consentire, forse, una più accurata e proficua attività istruttoria. In questa prospettiva sono mantenute le modalità con cui raggiungere tali obiettivi. Viene infatti conservata la procedura già presente nella precedente versione dell’art. 2, in base alla quale è Art 239 Allo stesso tempo, però, trovano conferma tutte quelle garanzie volte ad assicurare un corretto svolgimento, da parte delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali, i quali necessitano di un tempo maggiore per addivenire alla conclusione dei rispettivi procedimenti. In altre parole, se la predeterminazione di tempi ristretti entro i quali circoscrivere l’attività provvedimentale sta a significare una precisa manifestazione di intenti a sostegno della celerità delle decisioni dei pubblici poteri, sotto altro profilo è lo stesso legislatore a mantenere in vita quelle clausole di salvaguardia del sistema in grado di superare quelle difficoltà oggettive che possono comunque manifestarsi in determinate fattispecie in cui non è possibile osservare la regola dei trenta giorni. 11 demandato al Presidente del Consiglio dei Ministri la possibilità di adottare dei decreti, ai sensi dell’art. 17, co. 3, L. n. 400/88 (secondo il percorso già suggerito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la decisione del 21 novembre 1991, n. 141 che ha sottolineato il carattere sostanzialmente normativo di detti regolamenti), su proposta dei Ministri competenti e di concerto con il Ministri per la pubblica amministrazione e l’innovazione e la semplificazione normativa, nei quali possono prevedersi termini diversi rispetto a quello indicato nel comma 2, sebbene non più ad libitum, come viceversa era possibile ipotizzare sulla scorta della precedente formulazione del 2, art. 2.. Al riguardo, preme sottolineare l’intervento correttivo della L. n. 69/09, che comunque circoscrive il potere di deroga nell’arco dei novanta giorni sopra richiamati per gli enti pubblici nazionali , in grado di autoregolarsi “secondo i propri ordinamentei”. E’evidente la finalità che ha ispirato la recente integrazione, avente ad oggetto la preclusione nei confronti di comportamenti e tesi ad eludere la ratio dell’intera disposizione in commento ( in questo senso si rinvia alle puntuali considerazioni svolte da Cons. Stato, Ad. Generale, 27 gennaio 1994, n. 12). Quanto poi ai criteri che devono guidare la scelta derogatoria viene fatto esplicito riferimento alla “sostenibilità dei tempi sotto il profilo dell’organizzazione amministrativa”, alla natura degli interessi pubblici tutelati” ed alla particolare complessità del procedimento”. Anche da questi parametri si evince con forza la necessità di tenere presente la concreta possibilità che le amministrazioni non riescano a concludere il proprio iter decisionale nell’ambito di novanta giorni. In tutti questi casi, pertanto, è ammessa una disciplina diversa che permetta, in linea e secondo le modalità indicate dal co. 3, di prevedere tempi più lunghi. Rimane tuttavia il limite di centottanta giorni, ad eccezione dei procedimenti in materia di riconoscimento della cittadinanza italiana e quelli di immigrazione; in tale evenienza, però, il relativo regolamento deve essere preceduto da una specifica deliberazione del Consiglio dei Ministri. Non rientrano nel prospetto fin qui passato in rassegna i procedimenti di competenza della autorità di garanzia e di vigilanza alle quali è rimessa la potestà di regolare la materia qui presa in considerazione “in conformità ai propri ordinamenti” (così, testualmente, il co. 5, art. 2, L. n. 241/90; per un approfondimento a tali aspetti si rimanda a quanto bene illustrato da M ALTONI…. , il quale ha affrontato la problematica nell’ambito del commento al’art. 23, …) Ed ancora, l’art. 7, co. 4, L. n. 69/09 prevede una deroga espressa, rispetto a quanto disciplinato in via generale dall’art. 2 in commento, per i “procedimenti di verifica o autorizzativi concernenti i beni storici, architettonici, culturali, archeologici, artistici e paesaggistici, così come per la materai ambientale. Ed, infatti, rimangono inalterati i termini individuati dalle singole discipline di settore: più in particolare nella prima ipotesi, si applicheranno i termini individuati dal D.Lgs. n. 42/2004, mentre per la seconda dovrà farsi riferimento alle indicazioni contenute in sede di disciplina legislativa e regolamentare aventi ad oggetto l’ambiente. Art 239 Ne deriva un sostanziale ammorbidimento della rigidità del principio enunciato al co. 2, ammettendo forme di flessibilità che, se utilizzate in maniera consapevole e motivata, consentono alle amministrazioni di assicurare il rispetto dei principi solennemente enunciati all’art. 1 della l. n. 241/90, tanto nel caso di adozione di un provvedimento espresso, quanto in vista della valutazione dei presupposti che possano determinare la formazione del silenzio assenso (su tali specifici profili si rinvia alle puntuali considerazioni di GIUSTI, Art. 2, in PAOLANTONIO-POLICEZITO, La pubblica amministrazione e la sua azione, Torino, 2005, 130). 12 L’obiettivo che in definitiva sembra volersi affermare, a corollario dei singoli interventi riformatori introdotti con la recente novella del giugno 2009 – con cui sono state riformulate parti non marginali della disposizione in commento - è quello di contemperare al massimo le situazioni coinvolte nell’esercizio della funzione amministrativa, in linea con quanto da tempo segnalato da Autorevole dottrina (sul punto il rinvio è d’obbligo è a F.G.SCOCA, Il silenzio della pubblica amministrazione alla luce del nuovo trattamento processuale, in Dir. Proc. Amm., 2002, 245 ss. che sottolinea come l’arresto dell’attività amministrazione “a prescindere dal momento del suo verificarsi, acquista rilevanza giuridica per il suo essere contraria all’interesse pubblico, che attende appunto di essere attuato, ed essere altresì lesiva dell’interesse del privato, che attende di essere valutato”). Da ultimo, merita evidenziare come le modifiche apportate alla disciplina generale dei termini contenuta nell’art. 2 dalla riforma del giugno scorso, necessitano di un certo periodo di tempo per poter essere recepite. Di qui la previsione di un regime transitorio, introdotto dall’art. 7, co. 3, L. n. 69/09, nel quale si concede il termine di un anno a tutte le amministrazioni, ivi comprese quelle regionali e locali, per adeguarsi alle novità sopra descritte. In buona sostanza, anche in tale occasione si riafferma il principio che nei primi dodici mesi dall’entrata in vigore della novella i nuovi termini non potranno essere rispettati. Ed invero le amministrazioni interessate dovranno rivedere i propri regolamenti per poterli adeguare. Qualora tutto questo non avvenisse, decorso l’anno in parola, le nuove regole dovranno ritenersi cogenti, con conseguente non applicazione delle fonti che dovessero mantenere termini di conclusione dei rispettivi procedimenti oltre i novanta giorni. Ed invero un consistente filone di Autori ritiene di poter giungere alla conclusione in base alla quale, pur in assenza di una specifica indicazione in tal senso, il termine per la conclusione del procedimento assume le caratteristiche della perentorietà (per una ricostruzione della problematica sotto questo profilo cfr. CLARICH, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, 1995, passim e sp. 70 ss. e123, ss.). In sintesi, stante la sussistenza di un dovere, se non di un vero e proprio obbligo in capo all’amministrazione di concludere la propria azione con un provvedimento espresso emanato entro termini certi, ne discende l’ulteriore conseguenza che il decorso infruttifero di detto arco temporale comporterebbe la preclusione di emanare una decisione tardiva (in questa prospettiva cfr. M ERUSI, La certezza dell’azione amministrativa tra tempo e spazio, in Dir.amm., 2003, 536; TONOLETTI, Silenzio della pubblica amministrazione, (voce) in Dig. Disc. Pubbl., vol. XIV, 1999, 156 ss.; LAMBERTI, Silenzio: sempre più impervia la via dell’innovazione, in Foro amm. - Cds, 2002, 2053 ss.; per una opinione contraria alla natura perentoria del termine di cui all’art. 2, cit., si rinvia alle considerazioni di S.S. SCOCA, Il termine come garanzia nel procedimento, in www.giustamm.it, 2005, il quale prende atto dell’assenza di riferimenti specifici sul piano positivo, imprescindibili per l’attuazione delle finalità indicate dalla dottrina in precedenza ricghiamata), da Art 239 2.1 La natura del termine per la conclusione del procedimento e conseguenze della sua violazione sulla successiva attività amministrativa. Quanto appena affermato in ordine alla tempistica che la legge in commento vuole vedere rispettata per l’esercizio dei pubblici poteri introduce alla non secondaria questione concernente la natura dei termini previsti dal legislatore della disposizione in commento fin dalla sua originaria formulazione. In materia si registrano tuttora posizioni nettamente differenziate in dottrina, rispetto a quanto ripetutamente affermato in giurisprudenza. 13 intendersi a tutti gli effetti invalida. Detta conclusione si giustificherebbe, inoltre, nella riconduzione del rapporto che viene a crearsi già nell’ambito del procedimento tra amministrazione e destinatario della sua azione (sul punto v. RENNA, Obblighi procedimentali e responsabilità dell’amministrazione, in Dir. amm., 2005, 557 ss più in generale OCCHIENA Situazioni giuridiche soggettive e procedimento amministrativo, Milano, 2002, …) che ben difficilmente potrebbe ravvisarsi laddove la consumazione del potere non avvenisse in seguito al superamento del termine indicato dalla legge o dai singoli regolamenti (dando luogo in questo caso ad un preciso autolimite), di fatto degradando l’affidamento ingenerato in capo all’interessato in un mero suggerimento per l’amministrazione procedente (così CLARICH, Termine del procedimento…, cit., 132). Tale lettura ha inoltre ricevuto il definitivo avallo dei giudici della Consulta che hanno statuito come “il termine di trenta giorni per la conclusione del procedimento amministrativo, stabilito in Art 239 Di avviso nettamente contrario è invece l’orientamento della giurisprudenza la quale ha sempre manifestato la propria avversità rispetto all’interpretazione dei termini nel senso sopra ricordato. Ed infatti il giudice amministrativo ha ricondotto il termine assegnato ai pubblici poteri per concludere i rispettivi procedimenti tra quelli c.d. ordinatori (cfr., da ultimo, Tar Emilia Romagna – Parma, se. I, 24 marzo 2009, n. 87), la cui scadenza non determina la consumazione del potere (tra le tanti v. Tar Campania – Napoli, sez. VI, 20 maggio 2009, n. 2758; Id., 10 novembre 2008, n. 19418; Tar Piemomte – Torino, sez. I, 30 ottobre 2008, n. 2722; Tar lazio – Roma – sez. I, 3 settembre 2008, n. 8026, secondo il quale il decorso del termine in parola non comporta, in capo all’amministrazione, la perdita del potere di provvedere né, per ciò solo, l’illegittimità dello stesso, legittimando unicamente l’interessato a proporre ricorso giurisdizionale ai sensi dell’art. 21-bis, L. Tar per la declaratoria dell’illegittimità del silenzio inadempimento). Emblematica, in tal senso, l’interpretazione fornita dal Supremo Consesso amministrativo che così si è espresso in materia: “I termini divisati dall’art. 2, L. 7 agosto 1990 n. 241, hanno natura acceleratoria, non contenendo lo stesso alcuna prescrizione in ordine alla loro perentorietà, né alla decadenza della potestà amministrativa né alla illegittimità del provvedimento tardivamente adottato” (cfr., testualmente, Cons. Stato, sez. IV, 11 giugno 2002, n. 3256, ripresa in buona sostanza da Cons. Stato, sez. VI, 23 marzo 2009, n. 1711). Tale posizione, in buona sostanza, poggia sull’inscalfibile convinzione secondo cui può ammettersi decadenza per mancata osservanza di un termine solo in presenza di un’espressa previsione legislativa (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 5 febbraio 2009, n. 599 il quale, nel ribadire il consolidato orientamento sopra richiamato ha precisato che “i termini del procedimento amministrativo devono essere considerati ordinatori qualora non siano dichiarati perentori dalla legge”; tra le pochissime prese di posizione in senso contrario v. Cons. Stato, sez. VI, 7 maggio 2003, n. 2394), estendendo di fatto alla disciplina sostanziale di cui ci stiamo occupando un principio consacrato ex art. 152 cpc (interessanti, sul punto le considerazioni critiche svolte da GOISIS, La violazione dei termini previsti dall’art. 2, L. n. 241 del 1990: conseguenze sul provvedimento tardivo e funzione del giudizio ez art. 21-bis L. TAR, in Dir. proc. amm. 2004, 576, ss. che riporta degli interessanti obiter dicta contenuti in Cons. Stato, sez. VI, 19 dicembre 1997, n. 1869 e Tar Trentino Alto Adige – Bolzano, 10 giugno 2003, n. 240; Id., 28 maggio 2003, nn. 218-219-220, ivi, 574). Unica eccezione a tale impostazione è ravvisabile in quelle fattispecie aventi ad oggetto procedimenti sanzionatori nei quali al superamento del termine fissato in conformità ai parametri individuati dall’art. 2 in commento, consegue automaticamente l’estinzione del procedimento medesimo (per la configurabilità di termini perentori in virtù delle conseguenze indicate dal legislatore nell’eventualità del relativo superamento, cfr. Cons. Stato, sez. V, 7 ottobre 2002, n. 5275; Tar Lazio, sez. II, Roma, 17 marzo 2000, n. 1965). 14 via suppletiva dall’art. 2 l. 7 agosto 1990 n. 241 ed applicabile nel caso in cui le amministrazioni non abbiano stabilito termini diversi, riguarda ogni tipo di procedimento, sia ad iniziativa d’ufficio che di parte ed è applicabile in particolare ai procedimenti riguardanti atti amministrativi generali di pianificazione e di programmazione, a prescindere dall’efficacia ampliativa o restrittiva della sfera giuridica dei destinatari dell’atto; la mancata osservanza del termine a provvedere non comporta la decadenza dal potere, ma vale a connotare in termini di illegittimità il comportamento della p.a., nei confronti del quale i soggetti interessati alla conclusione del procedimento possono insorgere utilizzando, per la tutela della propria situazione soggettiva, tutti i rimedi che ’ordinamento appresta in via generale in simili ipotesi (dal risarcimento del danno, all’esecuzione del giudicato che abbia accertato l’inadempienza della p.a.)” (così, testualmente,, Corte Cost., 17 luglio 2002, n. 355). 2.2 La decorrenza del termine per la conclusione del procedimento e sua eventuale sospensione. Tra le integrazioni che hanno accompagnato il recente intervento del legislatore, merita una particolare attenzione la collocazione riservata al problema dell’individuazione esatta del momento in cui stabilire la decorrenza del termine in parola. Ed invero, il co. 6 della disposizione in commento, rielaborando la vecchia formulazione del co. 2 così come introdotta dalle riforme del 2005, stabilisce espressamente che per i procedimenti d’ufficio il computo va effettuato a partire dall’avvio dell’azione amministrativa mentre per quelli su istanza di parte dal momento in cui perviene all’autorità la relativa istanza del privato. In primo luogo va subito notata la correzione intervenuta rispetto alla non chiara espressione verbale utilizzata in precedenza allorchè veniva preso come punto di riferimento “l’inizio d’ufficio del procedimento” (attualmente, invece, il nuovo co. 6 così si esprime “I termini per la conclusione del procedimento decorrono dall’inizio del procedimento d’ufficio…”). Indicativa del trend riaffermato con la novella del 2009 (cfr § precedente), la previsione della possibilità, da parte dell’autorità competente, di sospendere il termine fissato dalla legge o dai regolamenti per concludere il procedimento. In realtà tale segmento dell’esercizio dei pubblici poteri aveva ricevuto un profondo rimaneggiamento già in occasione delle modifiche introdotte dalla L. n. 80/2005, allorché si era deciso di disciplinare le diverse ipotesi di sospensione dei termini qui presi in considerazione, sia con riferimento alle necessità di acquisire delle valutazioni tecniche, sia riguardo al “reperimento di informazioni, o certificazioni a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni”. Art 239 Secondariamente, detta prescrizione va letta in combinato disposto con i principi che regolano la partecipazione degli interessati al procedimento contenute nel Titolo III della presente legge. Ed infatti, sempre con riferimento all’azione amministrativa iniziata su iniziativa di quest’ultima, è noto che l’esercizio concreto della funzione deve avvenire solo all’esito della comunicazione di avvio del procedimento. Ne discende, pertanto, che con la formulazione impiegata al co. 6 debba essere così interpretata, pena la vanificazione di tutte le garanzie connesse al rispetto degli artt. 7 ss. L. n. 241/90 (su questi aspetti, sempre valide sono le considerazioni di CESARINI, I tempi del procedimento ed il silenzio in CAVALLO., Il procedimento amministrativo tra semplificazione partecipata e pubblica trasparenza , Torino, 2000, 29 ss.) 15 In sintesi, nella precedente versione dell’art. 2, il co. 4 consentiva alle amministrazioni che ne avessero fatto espressamente menzione nei propri regolamenti, di individuare un termine – comunque non superiore a 90 giorni – per consentire uno svolgimento più completo dell’istruttoria procedimentale Dalla nuova disciplina di tali aspetti è stato espunto il richiamo alla vicenda delle valutazioni tecniche (in relazione alla quale, peraltro, sussistevano non poche perplessità, come correttamente evidenziato dal GIUSTI, Art. 2, cit. 135-136), integralmente confluito nella disciplina dell’art. 17, espressamente esclusa dalla prescrizione ora inserita al co. 7, art. 2 in commento (per un approfondimento di detta problematica v. l’analisi svolta da GIUSTI, art. 17 ….), Quanto invece alle “informazioni, o certificazioni a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni”, detti elementi potranno essere acquisiti nel corso del procedimento in corso, sospeso per l’occasione “per una sola volta e per un periodo non superiore a trenta giorni”. E’dunque stata colmata la lacuna presente nella precedente stesura della disposizione, allorché non era stato preso in considerazione un termine massimo per tali specifici adempimenti conoscitivi. Stante la tipologia di integrazioni documentali indicata dal legislatore, appare ragionevole una riduzione dei tempi necessari (da novanta a trenta giorni) per far transitare in sede istruttoria tutto il materiale già esistente presso altre amministrazioni, senza ulteriore attività se non quella della trasmissione in tempo utile per la definizione dell’ azione amministrativa in corso. Rimane intatto il rimedio rappresentato dal ricorso alla conferenza di servizi regolata ex art. 14, co. 2 (c.d. conferenza istruttoria), in tutte quelle ipotesi in cui la sospensione dei termini procedimentali non permetta di pervenire al risultato ipotizzato entro i trenta giorni previsti dalla L. n. 69/09. In primo luogo merita porre in evidenza il superamento dei limiti tradizionalmente posti all’attivazione delle controversie in questo settore rappresentate dalla diffida, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza che aveva introdotto in via pretoria la necessità di tale adempimento ad opera del ricorrente, estendendo alla fattispecie qui presa in considerazione quanto imposto dall’art. 25 del T.U sugli impiegati civili dello Stato in materia di silenzio rigetto Art 239 3. La tutela avverso il silenzio fra art. 2 (l. 241/1990) e art. 21 bis (l. 1034/1971). Contestualmente alla disciplina sostanziale, la legge sul procedimento detta alcune regole che consentono ai soggetti lesi dall’inerzia dell’amministrazione di ottenere la tutela della propria situazione soggettiva avanti al giudice amministrativo. Per la prima volta, infatti, disposizioni di rango squisitamente processuale trovano una loro collocazione precisa nell’ambito di un provvedimento normativo volto a delineare i profili sostanziale dell’azione amministrativa. Ovviamente detta disciplina deve essere integrata con l’art.21 bis della L. n. 1034/1971, così come modificata dalla L. n. 205/00 che ha introdotto un rito speciale per le azioni esercitate avverso il silenzio inadempimento della pubblica amministrazione. In questa prospettiva è di qualche interesse passare in rassegna le novità che concorrono a delineare tale modello di tutela giurisdizionale. 16 (per una ricostruzione di tali passsaggi si rinvia a Cons. Stato, 10 marzo 1978, n. 10). Dopo anni di consolidato orientamento giurisprudenziale, il legislatore ha dunque deciso di intervenire, ponendo le premesse per il superamento di tale convincimento. Di conseguenza, a partire dal 2005 l’invio di una previa diffida ad adempiere non preclude più la formazione del di silenzio – rifiuto con tutto ciò che ne discende sul piano della tutela giurisdizionale. Se dunque il senso di tale modificazione è sufficientemente chiaro – facendo venire meno il ruolo della diffida quale vera e propria condizione dell’azione - non del tutto convincente appare la formulazione utilizzata dal vecchio co. 5, oggi trasfuso nel co. 8 della disposizione in commento, laddove si dice testualmente che il ricorso « può » e non «deve» essere proposto a prescindere dalla diffida. Ed infatti, sebbene le finalità da ultimo ribadite non sfuggano allo stesso giudice amministrativo, permane una sorta di ritrosia ad ammettere che una volta decorso il termine questo si intenda scaduto, potendosi, per l’effetto prescindere totalmente da qualsivoglia forma di sollecitazione dell’amministrazione inadempiente ed attingere a tutte le forme di tutela giurisdizionale messe a disposizione dall’ordinamento ai sensi del combinato disposto tra gli artt. 2 L. n. 241/90 e 21 bis, L. n. 1034/1971 (sintomatica di tali incertezze alcune pronunce che possono scegliersi tra le tante intervenute su questo specifico profilo v., da ultimo, TAR Campania – Salerno, sez. II, 25 giugno 2009, 3315 il quale – riprendendo testualmente Cons. Stato, sez. IV, 11 aprile 2007, n. 1594 - ribadisce che: “Ai fini della formazione del silenzio inadempimento, pur non occorrendo alcuna diffida ad adempiere, come stabilito dall'art. 2 comma 4 bis, l. 7 agosto 1990 n. 241, aggiunto dall'art. 2, l. 11 febbraio 2005 n. 15, resta comunque ferma la necessità di una formale istanza da parte dell'interessato, atteso che solo mediante un simile atto si possono individuare le ragioni da porre alla base dell'asserito obbligo di provvedere e risulta possibile circoscrivere, anche temporalmente, il lamentato comportamento inerte od inadeguato dell'amministrazione, rendendosi possibile, altresì, la concreta verifica delle possibili iniziative, ai fini del soddisfacimento della pretesa del richiedente, che siano state eventualmente intraprese dalla competente autorità, senza peraltro sortire alcun risultato, venendosi in tal modo a determinare uno stato d'incertezza in ordine all'esito della sua domanda; ed ancora, T.A.R. Milano Lombardia sez. III, 12 marzo 2009, n. 1883, per il quale, “… è rimasta ferma, pur dopo l'eliminazione della diffida, la necessità di stimolare l'Amministrazione all'esercizio del potere tramite apposita formale istanza)”. Collegato al tema della diffida, non meno degno di interesse appare quello del termine entro il quale proporre l’impugnazione avverso il silenzio, posto che la disposizione in commento individua un arco temporale preciso entro il quale azionare la pretesa (ed infatti ai sensi dell’odierno co. 8, la domanda giudiziale può essere proposta nei confronti dell’ “amministrazione inadempiente fintanto che perduri l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai commi 2 e 3 del presente articolo”). Di qui una duplice conseguenza in grado di fornire ulteriori dettagli tanto sul piano sostanziale che processuale. Art 239 Al di là delle oscillazioni giurisprudenziali appare sempre più evidente che la non obbligatorietà di inoltrare preventivamente la diffida, è un’ulteriore – ancorchè indiretta – conferma del superamento della natura impugnatoria del giudizio sull’inerzia dei pubblici poteri, assumendo il silenzio una sua autonoma rilevanza di per sé suscettibile di essere sottoposta al sindacato del giudice amministrativo (le premesse di tale evoluzione si rinvengono in F.G. SCOCA – M. D’ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, cit., … ; per una rivisitazione dell’intera problematica a seguito delle novità rappresentate dall’ art. 21 bis, L. Tar v. F.G. SCOCA, Il silenzio della p.a. alla luce del suo nuovo trattamento processuale, cit. 242.). 17 In primo luogo, il congruo periodo di un anno lascia intendere una tacita conferma della tesi che vede nel decorso del tempo, successivo alla scadenza infruttuosa del termine per la conclusione del procedimento, una permanenza della potestas decidendi in capo all’amministrazione che ha violato l’art. 2 della l. n. 241/90. Tutto questo non può pertanto che confermare gli argomenti (precedentemente illustrati al § …) volti a dimostrare la natura non perentoria del termine in questione. Per altro verso, la qualificazione di detto inadempimento come un mero fatto, senza alcuna implicazione discendente dalla natura (pseudo)attizia del comportamento della p.a., ha permesso di allentare le maglie stringenti dei termini decadenziali tipici del modello impugnatorio. Il quadro d’insieme che sembra dunque affermarsi è quello di un obbligo generale di osservare i termini rigorosamente scanditi secondo le nuove prescrizioni introdotte con l’ultima novella del giugno 2009 rispetto al quale tuttavia, è sempre consentito all’amministrazione procedente di conservare la possibilità di esercitare, sia pure tardivamente, la potestà discrezionale, lasciando nel contempo all’iniziativa al soggetto leso dall’eventuale inadempienza dell’autorità, la possibilità di attivarsi in sede giurisdizionale nell’arco dei dodici mesi successivi allo spirare del termine stabilito dalla legge o dai regolamenti per la conclusione del procedimento. Sotto altro profilo, il mantenimento da parte dell’amministrazione procedente del potere di emanare la propria determinazione anche dopo la scadenza del termine per la conclusione del procedimento, stante la sua natura ordinatoria/acceleratoria, consente di delineare con maggiore precisione il ruolo del commissario ad acta chiamato eventualmente ad esercitare la propria funzione sostitutiva all’esito dell’accertamento dell’inadempimento dell’amministrazione in sede giurisdizionale. Diversamente, se l’accertamento compiuto dal giudice sulla fondatezza della pretesa, nelle ipotesi di attività integralmente vincolata, si traduce in una pronuncia giudiziaria che individua i presupposti e le caratteristiche che l’emanando provvedimento dovrà assumere, anche in sede di sostituzione dell’amministrazione rimasta inerte. In tale prospettiva, pertanto, è possibile affermare la riconduzione del ruolo e della natura del commissario nell’alveo tradizionale dell’ausiliario del giudice, incaricato, cioè, di svolgere una funzione meramente esecutiva, tenuto conto della completa predeterminazione della sua futura azione ad opera della norma o dell’avvenuta consumazione della potestà discrezionale in una fase antecedente rispetto a quella in cui è chiamato ad intervenire. Al contrario, laddove la fattispecie non permetta una puntuale Art 239 Senza voler ripercorrere gli itinerari già tracciati dalla riflessione teorica che specificamente ha affrontato tale problematica, in questa sede è sufficiente ricordare come, proprio in virtù delle caratteristiche del rito speciale regolato ex art. 21 bis, L. Tar, nonché delle precisazioni formulate dall’Adunanza plenaria (per un’analisi puntuale di Cons. Stato, Ad. Plen. 9 gennaio 2002, n. 1/2002 si rinvia al § che segue), al commissario incaricato dal giudice di sostituirsi all’amministrazione inadempiente sia stata riconosciuta una natura diversa rispetto a quella tradizionalmente ascritta al suo omologo, chiamato a dare esecuzione alle sentenze passate in giudicato ai sensi dell’art. 27, n. 4, T.U. sul Consiglio di Stato. In altre parole, mentre nel primo caso ci si troverebbe in presenza di un organo straordinario dell’amministrazione, nel secondo, il commissario, secondo un orientamento sufficientemente consolidato, svolgerebbe la propria attività quale “ausiliario del giudice” (per un riepilogo delle posizioni della giurisprudenza, si veda PATRONI GRIFFI Il giudicato amministrativo e la sua ottemperanza, in G.MORBIDELLI, Codice della giustizia amministrativa Torino, 2008, 987 ss.). 18 attuazione di quanto prefigurato dalla norma o dal dictum del giudice, rimarrà immutata la figura di organo straordinario dell’amministrazione (inadempiente) cui affidare la cura concreta degli interessi coinvolti dal procedimento, in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale che si limiti a rilevare il mero obbligo dell’amministrazione ad emanare il provvedimento finale. Infine, con riferimento al regime dell’impugnazione delle determinazioni frutto dell’intervento del commissario, questo non dovrebbe subire alcun cambiamento se ci troviamo di fronte a provvedimenti emanati dal sostituto dell’amministrazione inerte (pienamente condivisibili appaiono le considerazioni di FRACCHIA, op. cit., 93, per il quale l’operato del commissario quale sostituto straordinario dell’amministrazione deve necessariamente svolgersi nel pieno rispetto dei principi e delle regole sancite dalla L. n. 241/90). Ben diversa è la soluzione se i medesimi provvedimenti si pongono come mera esecuzione di pronunce giudiziali puntuali, contenenti espliciti riferimenti alla fondatezza della pretesa. In altre parole, mentre per la prima ipotesi si dovrebbe comunque consentire un sindacato ordinario di legittimità, laddove la sostituzione avvenga con finalità semplicemente esecutive, parrebbe non poter residuare alcun rimedio se non quello del reclamo allo stesso giudice che ha statuito i criteri cui deve ispirarsi il proprio ausiliario. Verrebbero così a riproporsi, anche in tale ultima circostanza, gli interrogativi tradizionalmente avanzati in ordine alle concrete garanzie che assistono l’interessato nella fase esecutiva dell’ottemperanza, con specifico riguardo ai rimedi offerti nei confronti degli atti illegittimi emanati dal commissario. Parimenti meritevoli di attenzione le vicende conseguenti all’emanazione di provvedimenti tardivi da parte dell’amministrazione che non ha rispettato il principio consacrato all’art. 2, L. 241/90 e nei cui confronti sia già stato attivato un giudizio ai sensi dell’art. 21 bis L. Tar. 3.1 Rito speciale e motivi aggiunti. Qualche breve riflessione merita, inoltre, alle conseguenze determinate dall’eventuale sopravvenienza del provvedimento emanato dall’amministrazione resistente in pendenza della controversia azionata ai sensi del rito speciale disciplinato ex art. 21bis L. Tar, soprattutto sulla scorta della giurisprudenza che ha affrontato specificamente il profilo della proponibilità dei motivi aggiunti nell’ambito di un rito speciale. In altre parole, occorre interrogarsi sulla concreta utilizzazione di tale istituto, le cui potenzialità sono state ampiamente allargate con la L. n. 205/00 Ed infatti, nell’arco di pochissimo tempo, la stessa sezione del Consiglio di Stato ha prima negato (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 11 gennaio 2002, n. 144, , 227, con nota adesiva di TRAVI, Giudizio sul silenzio e nuovo processo amministrativo, in Foro it., 2002, III 227, ss. ed in particolare 233) e poi ammesso l’esperibilità dei motivi aggiunti nel caso di una determinazione amministrativa di rigetto dell’istanza del privato in pendenza del processo da questi attivato avverso Art 239 (sul punto sia consentito rinviare a FIGORILLI, in SASSANI-VILLATA Il processo davanti al giudice amministrativo – Commentario sistematico alla legge n. 205/2000, Torino, 2004, 169 ss.), anche nelle controversie aventi ad oggetto il silenzio rifiuto della p.a. (per una prima lettura delle interrelazioni tra art. 2 L. n. 241/90 ed art. 21 bis, L. n. 1034/00, si rinvia alle considerazioni di TONOLETTI, Art. 2 della legge n. 205 del 2000, in Le nuove leggi civili commentate, 2001, 584 ss.; GRECO, L’art. 2 della legge 21 luglio 2000, n. 205, in Dir. proc.amm, 2002, 4 ss.) 19 l’inadempimento dei pubblici poteri (Cons. Stato, sez. V, 10 aprile 2002, n. 1974). Nel primo caso, la scelta dei giudici di Palazzo Spada è stata argomentata con la necessità di tenere rigorosamente distinti le due azioni, posto che il giudizio sul silenzio, essendo sottoposto ad una disciplina specifica, non ha natura impugnatoria, a differenza del giudizio sulla determinazione sopravvenuta, da ricondurre nell’ambito del giudizio ordinario ai sensi dell’ art. 21, L. Tar (Per una lettura diversa di tale pronuncia v. altresì MIGNONE, Il ricorso integrativo (ovvero i falsi motivi aggiunti) nel processo innanzi ai tribunali amministrativi, in Foro amm. – TAR, 2002, 4195 ss., il quale tuttavia condivide le affermazioni manifestate dal Consiglio di Stato in tale occasione; in argomento, a sostegno della non applicabilità alle vicende qui prese in considerazione della nuova disciplina in tema di motivi aggiunti contenuta nell’art. 1, L. n. 205/2000, v. le considerazioni di M. D’ORSOGNA, La tutela “avverso” il silenzio della p.a., in ZITO-DE CAROLIS, Giudice amministrativo e tutele in forma specifica, Milano, 2003, 189). Tale ultima presa di posizione sembra pertanto anticipare ciò che si è venuto precisando ad opera della novella del 2005, allorché si è ritenuto opportuno affermare, sul piano positivo, la possibilità di procedere all’estensione dell’oggetto del giudizio sul silenzio anche alla fondatezza della pretesa. In altre parole, le integrazioni apportate dalla nuova formulazione dell’art. 2, L. n. 241/90 parrebbero confermare, indirettamente, le aperture della giurisprudenza, consentendo una lettura meno rigida del principio che, correttamente, tende a non realizzare, nell’ambito del processo amministrativo, un’indebita commistione fra riti diversi. In questa ipotesi, infatti, i significativi elementi di novità introdotti dall’espressa previsione di un sindacato sulla fondatezza dell’istanza del privato rischierebbero di rimanere offuscati da una netta separazione tra le regole previste per il rito di cui all’art. 21bis e quelle per il giudizio ordinario. In buona sostanza, parrebbe scarsamente persuasivo uno schema che, da un lato, ammette l’intervento del giudice per accertare l’inadempimento e la rilevanza della situazione soggettiva dell’istante; dall’altro, Art 239 Successivamente, i giudici del Supremo Consesso, prendendo spunto dalla dall’ampiezza della formula utilizzata in occasione della novella del 2000, hanno cercato di superare i problemi di rito appena ricordati, privilegiando al massimo l’esigenza di “concentrare i poteri di cognizione del giudice intorno alla complessiva vicenda dei rapporti giuridici che tutelano un determinato interesse o bene della vita del soggetto privato nei confronti dell’azione della pubblica amministrazione” (così, testualmente Cons. Stato, sez. V, n. 1974/02, cit., il quale, opportunamente ha posto quale unica condizione alla realizzazione della connessione in parola la rigorosa tutela dei diritti processuali attraverso cui vengono garantiti i diritti di difesa di tutti i soggetti controinteressati; per quanto attiene il superamento dei rilievi che avevano impedito una soluzione di tal genere nella precedente occasione si rinvia alle felici precisazioni di R AMAJOLI, La connessione nel processo amministrativo, Milano, 2002, 133-134). Si tratta, in definitiva, di un’interpretazione prevalentemente ispirata al principio di effettività delle garanzie giurisdizionali, in grado di contribuire alla progressiva realizzazione di un modello che, proprio con riferimento agli interrogativi da ultimo presi in considerazione, tende ad introdurre forme di tutela capaci di assicurare il “giusto assetto dei rapporti controversi” (in questo senso, ancora una volta, Cons. Stato, sez. V, n. 1974/02, cit., il quale interpreta il rito semplificato previsto per il silenzio della p.a. dall’art. 21 bis, L.Tar, come uno strumento attraverso cui conseguire, in via giudiziale, concreti obiettivi di giustizia. E’ questa una lettura che tuttavia non sembra ricondursi alla visione riduttiva che, al contrario, parrebbe doversi ricavare dalla pronuncia dell’Ad. Plen. n. 1/2002, cit., la quale, fedele al modello impugnatorio che si vorrebbe a tutti i costi mantenere vivo e vitale in ogni sua manifestazione, crea le premesse per una interpretazione anche degli altri istituti, ivi compreso il ricorso per motivi aggiunti disciplinato dalla riforma del 2000, secondo la prospettiva contraria a quella delineata nel testo). 20 nell’eventualità di un provvedimento sopravvenuto nel corso del giudizio attivato ai sensi dell’art. 21bis, ne impone l’arresto, lasciando all’iniziativa della parte la possibilità di adire nuovamente (nell’ambito del rito ordinario) il giudice al fine di ottenere una pronuncia sulla legittimità dell’azione amministrativa (tardivamente) esercitata. Ciò non di meno, dall’insieme delle novità introdotte alla disciplina processuale del silenzio, parrebbero potersi rinvenire sufficienti indizi per ravvisare l’opportunità di dare vita ad un simultaneus processus, allo scopo di evitare al ricorrente la proposizione di autonome domande per questioni che comunque risultano tra loro strettamente connesse, che proprio per questo motivo meriterebbero di essere prese in esame contestualmente, al fine di assicurare una tutela effetiva ed in linea con i dettami dell’art. 113, Cost.. Non vi è dubbio, infatti, che debba essere sfruttata al massimo la possibilità di riunire, all’interno del medesimo processo, l’esame di tutte le domande che traggono origine dalla legittimità dei comportamenti e delle determinazioni sottoposte al sindacato del giudice amministrativo, stante l’assenza di specifici impedimenti in tal senso (ad eccezione della sussistenza della giurisdizione (significativa, in tal senso, la conclusione cui perviene la stessa Corte Costituzionale allorché ha chiarito come “L’art. 1 1, comma 1, L. 21 luglio 2000, n. 205 consente innovativamente, attraverso i motivi aggiunti contro i provvedimenti sopravvenuti, un processo simultaneo con riunioni di azione connessi ed ampliamento dell’ambito originario, ma presuppone che la domanda e l’oggetto nuovi rientrino nella Art 239 Ciò non di meno, le pronunce che in seguito si sono occupate di questa controversa questione non hanno ritenuto di seguire le aperture da ultimo sintetizzate. Ed invero, in più occasioni, il giudice amministrativo ha ripetutamente ribadito la propria contrarietà a realizzare indebite commistioni tra istituti creati per essere applicati nell’ambito del rito ordinario, e quelli volti a regolare i riti speciali, primo fra tutti quello ai sensi dell’art. 21 bis in parola. In buona sostanza, l’argomento su cui poggia tale orientamento restrittivo è l’esigenza di osservare “l principio di concentrazione dei processi sotteso all'art. 1 della l. n. 205 del 2000, per il quale qualora sopraggiungano provvedimenti ulteriori, connessi funzionalmente a quelli oggetto del ricorso iniziale, devono essere proposti motivi aggiunti, non può trovare ingresso ove il ricorso originario sia stato introdotto con il rito speciale ex art. 21 bis della l. Tar (o ex art. 2 della l. n. 205 del 2000), essendo su un piano processuale incompatibile il procedimento camerale con quello ordinario” (così, testualmente, Cons. Stato, sez. V, 4 marzo 2008, n. 897). Ed ancora, si teme una sorta di sovrapposizione tra rimedi tipici del modello impugnatorio rispetto a quelli disciplinati secondo lo schema dei riti camerali tenuto conto della diversa natura delle situazioni soggettive azionate(secondo TAR Campania-Napoli, sez. V, 17 settembre 2008, n. 10246, “È inammissibile l'impugnativa, mediante motivi aggiunti , ai sensi dell'art. 21, l. 6 dicembre 1971 n. 1034, come sostituito dall'art. 1, l. 231 luglio 2000 n. 205, di un provvedimento di cui sia stata acquisita la conoscenza in pendenza del ricorso proposto contro il silenzio a norma dell'art. 21 bis, l. n. 1034 del 1971 introdotto dall'art. 2, l. 21 luglio 2000 n. 205, tenendo presente, da un lato, che quest'ultima procedura è destinata ad acquisire la pronuncia dell'Amministrazione, alla quale è estraneo un qualunque contenuto impugnatorio, in quanto mancando il provvedimento, non si è ancora prodotta una vera lesione di posizioni soggettive e dall'altro lato che, se all'interno della procedura dettata dall'art. 21 bis citato, fosse possibile innestare il rito destinato all'annullamento del provvedimento, ciò potrebbe dar luogo ad un abuso nel caso in cui il ricorrente si avvalesse del rito speciale per ottenere l'esame immediato di un provvedimento « connesso » con il denunciato inadempimento e che, quindi, dovrebbe essere gravato solo con l'impugnazione ordinaria”), sia della profonda diversità che caratterizza i due tipi di accertamento svolto dal giudice in sede ordinaria rispetto a quella richiestagli ai sensi dell’art. 21 bis (cfr. TAR Emilia Romagna, sez. II, 16 ottobre 2007, n. 2004). 21 giurisdizione del giudice amministrativo adito,, mentre non esiste la necessità costituzionale che, dopo l’avvio di un giudizio fra due soggetti, tutti i rapporti e le pretese successive vadano concentrati avanti ad un unico giudice in deroga alle usuali previsioni di riparto di giurisdizione ed al principio di precostituzione del giudice”, così, testualmente, Corte Cost., 18 dicembre 2001, ord. n. 414). 3.2 L’ampliamento dell’oggetto del giudizio sul silenzio alla fondatezza della pretesa. Nell’ambito delle integrazioni apportate in occasione degli ultimi interventi, correttivi rispetto all’impianto originario della L. n. 241/90, un posto di primaria importanza merita la novella del 2005 allorchè il legislatore non si è limitato a fornire delle indicazioni utili ad arricchire la disciplina vigente sul piano sostanziale, dettando una disposizione tipicamente processuale, (e cioè l’attuale comma 8 dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990) tesa ad integrare la disciplina del rito rito speciale regolato dall’ art. 21 bis L. Tar, secondo la quale « il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell’istanza ». Tale specificazione, dunque, crea le premesse per superare una delle questioni più dibattute in materia di silenzio, relativa all’oggetto del giudizio ed ai correlati poteri cognitori del giudice in tali fattispecie (sottolinea la mera facoltà del giudice amministrativoe non l’obbligo di pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa Cons. Stato, sez. IV, 7 luglio 2008, n. 3371(. In realtà, la problematica in esame nasce antecedentemente all’entrata in vigore dell’art. 21 bis e risente, così come sottolineato dalla migliore dottrina (sul punto, cfr. F.G. SCOCA – M. D’ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, cit., p. 415, dell’evoluzione subita, nel tempo, dalla qualificazione dell’ inerzia dei pubblici poteri, unitamente alle trasformazioni che, progressivamente, hanno significativamente innovato lo schema originario del processo di impugnazione. Sono note le vicende che, nel corso del tempo, hanno caratterizzato l’evoluzione del modello generale del processo amministrativo verso forme di controllo giurisdizionale più ampie proprio in quelle ipotesi di azione amministrativa non coincidenti con l’emanazione di un provvedimento formale, legittimandosi, per l’effetto, un giudizio in cui, superata l’idea dell’annullamento del “provvedimento silenzioso”, fosse consentito l’accertamento sull’esistenza dell’obbligo di provvedere dell’autorità, attraverso un’indagine sulla situazione di fatto e di diritto sottostante la richiesta del privato. Ed ancora, nonostante tale ampliamento fosse stato limitato alle sole ipotesi di attività vincolata della p.a., una volta venuta meno l’esigenza di pervenire all’annullamento del provvedimento tacito di diniego, la giurisprudenza amministrativa cominciò a delineare uno scenario più ampio, in cui il sindacato compiuto in sede giurisdizionale non fosse più limitato al mero riconoscimento dell’esistenza in astratto dell’obbligo di provvedere ma si Art 239 Come già si è avuto modo di rilevare, l’asserita natura attizia del silenzio, infatti, portava a modellare il corrispondente giudizio sullo schema cassatorio-demolitorio, tipico del processo amministrativo, finalizzato all’annullamento di un provvedimento negativo tacito, fittizio ed illegittimo, se non altro per carenza di motivazione. Si era pertanto in presenza di un giudizio che, è evidente, offriva ben poche garanzie di tutela al privato, essendo, di fatto, rimessa all’amministrazione la decisione sostanziale sull’accoglimento o sul rigetto dell’istanza e preclusa al giudice ogni possibile indagine sui motivi di fatto e di diritto dell’inerzia. 22 estendesse, altresì, all’esame della fondatezza della pretesa, fino a definire il contenuto della decisione da adottare (espressione di tale nuovo orientamento è la decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 10 del 1978, cit .). Il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sull’oggetto del giudizio avverso il silenzio si è prevalentemente focalizzato attorno a questi aspetti ed ha nuovamente ripreso vigore in concomitanza dell’entrata in vigore dell’art. 21 bis della legge Tar, al punto da costituire la premessa per un nuovo intervento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (intendiamo fare riferimento alla decisione dell’Adunanza Plenaria, 9 gennaio 2002, n.1, a seguito della rimessione disposta da Cons. Stato, sez. VI, ord. 10 luglio 2001, n. 3083), chiamata, in sintesi, a pronunciarsi proprio sull’oggetto del giudizio introdotto dalla riforma del 2000 e, di conseguenza, sui poteri di cognizione del giudice amministrativo. A contendersi la scena, più in particolare, erano due orientamenti, l’uno, restrittivo, volto a riconoscere al giudice il solo potere di dichiarare l’obbligo di provvedere; l’altro, estensivo, finalizzato ad ammettere una pronuncia che, in caso di attività vincolata, consentisse all’autorità giudiziaria di determinare il contenuto dell’atto che avrebbe dovuto essere emesso a soddisfazione delle pretese del ricorrente (per un’analisi puntuale dei due orientamenti formatisi in seno alla giurisprudenza amministrativa v. le interessanti riflessioni di TRAVI, Giudizio sul silenzio e nuovo processo amministrativo, in Foro It., 2002, III, 227; LIGNANI, Silenzio (dir.amm.), in Enc. Dir., Agg., Milano, 1999, 980 ss.). Ad originare tale contrasto giurisprudenziale, ma anche dottrinale, era il dettato dell’art. 21 bis della legge n. 1034 del 1971 in cui, testualmente, si stabilisce che «il giudice ordina all’amministrazione di provvedere». Ed infatti, nonostante il tenore letterale della norma, i fautori dell’interpretazione estensiva, prospettando una palese diminuzione di tutela rispetto al passato, evidenziavano l’irragionevolezza di quella tesi restrittiva che costringeva il privato a due gradi di giudizio solo per ottenere una pronuncia meramente declaratoria dell’obbligo di provvedere, anche nei casi di manifesta fondatezza di una domanda da soddisfare con l’esercizio di un’attività vincolata. Un simile schema interpretativo, per giunta, avrebbe condotto ad esiti irragionevoli anche per la stessa amministrazione, imponendole di dare una risposta espressa, eventualmente anche dopo la nomina di un commissario ad acta, pur nelle ipotesi, opposte, di pretese manifestamente infondate. Secondo i giudici di Palazzo Spada, inoltre, la ratio e la littera legis della disposizione in parola, avevano una valenza generale, per cui le stesse conclusioni dovevano ritenersi valide anche per le ipotesi di attività amministrativa vincolata. Nella citata pronuncia, significativamente, veniva precisato che “l’articolazione precettiva […] definisce una disciplina unica ed Art 239 Negando una simile apertura, il Supremo Consesso ha preferito circoscrivere l’ambito del sindacato del giudice alla mera legittimità dell’inerzia, riconoscendogli il solo potere di ordinare all’autorità amministrativa di provvedere, senza alcuna possibilità di statuire sulla fondatezza della pretesa e determinare il contenuto dell’atto. Di conseguenza, il rito speciale introdotto al riguardo dal legislatore del 2000, si tradurrebbe unicamente in uno strumento per giungere celermente alla declaratoria dell’obbligo di provvedere, affidando al commissario ad acta, nella seconda (ed eventuale) fase del medesimo processo, il compito di emanare l’atto non adottato dall’amministrazione rimasta inerte. 23 indifferenziata, valida in tutti i casi in cui l’amministrazione si sottragga al dovere di adottare un atto autoritativo esplicito” (v., testualmente, Cons.Stato, Ad.Plen. n.1/2002, cit., 235), rendendo così, da un lato, irrilevanti i presupposti di fatto del provvedimento, dall’altro determinante la sola correlazione del silenzio con l’esercizio di una potestà amministrativa e con un corrispondente interesse legittimo del privato. Il nuovo dettato normativo, sempre seguendo le argomentazioni dell’Adunanza Plenaria, esige che all’identità formale di situazione soggettiva dell’amministrazione e del privato corrisponda una identità di tutela giurisdizionale. Di fronte ad esso, pertanto, deve cedere anche quell’orientamento giurisprudenziale favorevole all’estensione del sindacato del giudice nelle ipotesi in cui il provvedimento sia espressione di una potestà amministrativa priva di contenuto discrezionale(pur comprendendo le ragioni e condividendo le finalità dell’indirizzo giurisprudenziale riferito nel testo, il Consiglio di Stato da un lato, ribadisce la necessarietà del suo superamento in quanto imposta dal dato normativo, dall’altro precisa come “ la valutazione del rito speciale sotto il profilo della capacità di offrire una più efficace tutela al privato in attesa di provvedimento va effettuata con riferimento all’obiettivo sollecitatorio postosi da legislatore e considerando il risultato conseguibile al conseguimento delle due fasi […]”. Visto in questa prospettiva, dunque, il nuovo modello processuale avrebbe assicurato pur sempre al privato un significativo vantaggio anche rispetto all’indirizzo giurisprudenziale anzidetto. Sul punto, Cons.Stato, Ad.Plen. n.1/2002, cit., 235). Nonostante alcune pronunce discordanti, la prevalente giurisprudenza si è sostanzialmente uniformata alla decisione n. 1 del 2002, limitandosi a dichiarare, ai sensi dell’ art. 21 bis - sia in caso di attività discrezionale che vincolata - l’illegittimità del silenzio, imponendo all’amministrazione, nel caso di accoglimento del ricorso, di provvedere sull’istanza entro il termine assegnato, rinviando al(la fase successiva ed eventuale del) commissario ad acta, il compito esclusivo di esercitare, in via sostitutiva, la potestà amministrativa di competenza dell’organo rimasto inadempiente. Alla luce di detta novità, l’attuale disposto dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990 autorizza a discostarsi dall’interpretazione del Supremo Consesso, riaffermando la possibilità di un giudizio sulla fondatezza della pretesa e consentendo l’astratta configurabilità di soluzioni più incisive in termini di effettività. A suggerire un quadro potenzialmente più ampio delle decisioni conclusive del rito sul silenzio è la nuova formula legislativa, la quale espressamente statuisce che « il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell’istanza». Art 239 La pronuncia n.1/2002 dell’Adunanza Plenaria, è evidente, ha rappresentato una battuta di arresto nel percorso evolutivo intrapreso dal nostro sistema di giustizia amministrativa, a partire dalle profonde ed incisive modificazioni che hanno interessato il processo nel corso del biennio 1998 – 2000 fino ad arrivare alle diverse tesi progressivamente affermatesi in quella parte della dottrina che ha cercato di rinvenire, nel modello processuale vigente, tutti gli spunti utile a riconoscere il massimo grado di effettività alle decisioni giurisdizionali. In questa prospettiva, pertanto, l’introduzione di una disposizione che consente al giudice amministrativo di pronunciarsi sulla fondatezza dell’istanza proposta dall’interessato, sia il frutto di una rimeditazione dell’intera problematica, non solo in un’ottica squisitamente processuale, ma anche in conseguenza delle novità attinenti i profili sostanziali dell’inerzia dei pubblici poteri. 24 La disposizione in commento, a ben vedere, nonostante l’incertezza dell’espressione e la scelta della prospettazione del giudizio sulla fondatezza in termini di possibilità, grazie alla sua generica articolazione, consente, innanzitutto, di “recuperare” quell’interpretazione estensiva ormai consolidata in materia di attività vincolata e che, all’indomani dell’intervento dell’Adunanza Plenaria sembrava destinata ad essere abbandonata, secondo la lettura fornita della novella del 2000. Allo stesso tempo, la nuova formulazione dell’art. 2, proprio per la sua indeterminatezza, impone all’interprete, di delimitare i confini di un simile giudizio sulla fondatezza, nel tentativo di conciliare le esigenze di speditezza del rito ex art. 21 bis con quelle di una tutela più incisiva prospettate dalla riforma del 2005. Occorre, dunque, individuare una soluzione in grado di valorizzare la portata innovativa del nuovo articolo 2, che vada al di là di un semplice escamotage legislativo, inserito soltanto per riaffermare il pregresso orientamento giurisprudenziale formatosi per i casi di attività vincolata. Il giudizio sul silenzio introdotto dalla legge n. 205 del 2000, come si è visto, è improntato a chiare esigenze di celerità, come tale destinato ad una soluzione rapida (tant’è che si svolge in camera di consiglio), contemplando una fase istruttoria meramente eventuale. Si tratta, tuttavia, di caratteristiche che, se da un lato si pongono in linea con la scelta di non ritenere necessaria la diffida e permettere al giudice di determinare, in ipotesi di attività vincolata, il contenuto del provvedimento, dall’altro, si mostrano del tutto insufficienti in tutte le altre ipotesi in cui il medesimo giudizio sulla fondatezza non attenga scelte già predeterminate dalla legge o dalla stessa amministrazione (in senso conforme cfr. a titolo meramente esemplificativo, le recenti pronunce di Tar Lazio – Roma, sez. II, 26 giugno 2009, n.6260; Tar Campania - Napoli, sez. VIII, 24 aprile 2009, n. 2166). Nonostante il significativo ampliamento introdotto dalla novella del 2005, i nuovi poteri attribuiti espressamente al giudice amministrativo non sembrano infatti poter “trasformare” il rito speciale in materia di silenzio in una azione di adempimento, sul modello di quella conosciuta dall’ordinamento tedesco (Così come acutamente evidenziato da DE PRETIS, L’azione e i poteri del giudice, in FALCON, La tutela dell’interesse al provvedimento, Trento 2001, 18, tale azione di adempimento (Verplifchtungsklage) presuppone la definizione di alcuni aspetti ai quali l’ordinamento italiano non sembra aver ancora dato una sistemazione definitiva o quantomeno soddisfacente. Fra questi, l’ Autrice richiama l’individuazione in maniera rigorosa del confine fra ciò su cui il giudice può intervenire in positivo e ciò che, invece, è interdetto al suo controllo, una precisa distinzione fra gli ambiti discrezionali e vincolati dell’azione amministrativa, fra violazioni formali e sostanziali nonché la soluzione alla questione dei poteri del giudice nell’accertamento degli aspetti concreti della singola vicenda.Per una ulteriore precisazione su questi aspetti v. anche FANTINI, Considerazioni sull’obbligo di provvedere alla (ri)pianificazione urbanistica e sulla discrezionalità nel “quid”, nota a TAR Veneto, sez. I, 21 febbraio 2005, n. 723, in Urb. a Appalti, 2005, 965; ID., L’interesse pretensivo e le sue forme di tutela, in CAVALLO, Diritti ed interessi nel sistema amministrativo del terzo millennio, Torino, 2002, 135; CLARICH, L’azione di adempimento nel sistema di Art 239 Di conseguenza, qualora l’inerzia attenga l’esercizio di un’attività discrezionale, parrebbe doversi pervenire alla conclusione secondo cui il rito ai sensi dell’art. 21 bis, per le peculiarità sopra richiamate, può sfociare nella sola declaratoria del dovere/obbligo di provvedere, permanendo intatto, in capo al titolare della potestà, il margine di totale autonomia in ordine al provvedimento da emanare. 25 giustizia amministrativa in Germania: linee ricostruttive ed orientamenti giurisprudenziali, in Dir. proc. amm., 1985, 66 ss.); ne discende pertanto che, laddove spetta unicamente all’amministrazione esercitare interamente la scelta discrezionale, non residua alcuno spazio per il giudice, ad eccezione dell’accertamento del mancato esercizio di detta potestà. Quanto fin qui affermato induce pertanto a spostare, sia pure fugacemente, la riflessione sui limiti e sull’estensione da riconoscere alla nozione di attività discrezionale (o, se si preferisce, sulla nozione di attività vincolata), tenuto conto dell’apertura legislativa introdotta con la riforma in esame. A ben vedere, come è stato di messo in evidenza (FANTINI, Considerazion sull’obbligo di provvedere ..., cit., 965-966), l’ambito di operatività di pronunce che contengano la declaratoria della fondatezza della pretesa parrebbe configurarsi solo laddove, oltre ai tratti concernenti l’an ed il quando dell’obbligo di provvedere (elementi, questi ultimi, già ricompresi nella verifica del generico inadempimento della p.a.), risultino predeterminati anche nel quid. Soltanto in queste ipotesi, di conseguenza, il rito originariamente costruito come una sorta di corsia preferenziale per accertare l’inosservanza del termine per l’emanazione del provvedimento, ben si adatta ad un giudizio volto a pronunciare sulla fondatezza della pretesa. In questa prospettiva si pone, pertanto, un interrogativo, allorché la materia risulti solo parzialmente vincolata, in cui, pur sussistendo dei margini di valutazione per l’amministrazione decidente, alcuni presupposti o le linee generali per la scelta puntuale risultano già delineati in conseguenza della (parziale) consumazione, a monte, del potere discrezionale. In questi casi, allora, il giudice dovrà ampiamente attingere alle potenzialità insite nella disciplina delineata con l’art. 21 bis, che consente di interrompere il termine acceleratorio per addivenire alla conclusione del rito speciale qualora sia necessario lo svolgimento di eventuali attività istruttorie. E’questo un aspetto particolarmente delicato, soprattutto se si pone l’attenzione a quelle materie in cui è possibile configurare un silenzio-rifiuto, tendenzialmente residuali ma, non per questo, meno delicate (si pensi all’ambiente o ai beni culturali), in quanto connotate da una forte presenza di elementi tecnico-discrezionali. In tali evenienze, al giudice sarà probabilmente richiesto uno sforzo particolare, dovendo fare ricorso a tutti gli strumenti istruttori a sua disposizione, primo fra tutti la consulenza tecnica, per assicurare forme di tutela effettiva alle situazioni soggettive coinvolte, così come postula l’espressa previsione di un giudizio sulla fondatezza. Con questo non si intende sottovalutare i margini che residuano comunque in capo all’amministrazione chiamata a pronunciarsi in quelle fattispecie in cui, pur risultando vincolato dal legislatore o da precedenti manifestazioni di volontà, l’assetto degli interessi è il frutto di una valutazione che necessariamente deve essere “riservata” all’autorità competente (sul punto il rinvio è d’obbligo a MARZUOLI, Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985 passim e DE PRETIS, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova, 1995, passim ). Al riguardo, non è da escludere, altresì, un consistente impiego dell’istituto del remand, proprio allo scopo di ridurre al minimo i gradi di giudizio, attraverso il quale pervenire a pronunce molto circostanziate e potenziare al massimo la collaborazione tra giudice ed amministrazione, nel pieno rispetto dell’autonomia decisionale di entrambi, senza dar luogo ad indebite ed indesiderate invasioni dei rispettivi ambiti. Ed invero, solo in presenza di accertamenti ripetibili in sede giurisdizionale potrà trovare spazio un sindacato Art 239 In altre parole, dall’analisi della casistica giurisprudenziale in materia, pare potersi dedurre che il giudice amministrativo si esprima sulla sussistenza dei presupposti per l’accoglimento in senso favorevole della richiesta del privato solo in quelle ipotesi in cui l’accertamento dei fatti posti a base dell’istanza risulti alla sua portata; diversamente, il sindacato si arresta alla verifica del mancato esercizio del potere, pur in presenza di un obbligo esistente in tal senso. 26 forte (per una rivisitazione della ben nota distinzione tra c.d sindacato forte e sindacato debole, si intende richiamare la distinzione introdotta dalla giurisprudenza da parte di Cons. Stato, sez. V, 5 marzo 2001, n. 1247; sez. IV, 16 ottobre 2001, n. 5287, , nonché alla sintesi offerta di recente da CINTIOLI, Tecnica e processo amministrativo, in Dir.proc.amm., 2004, 995-1000, il quale si sofferma diffusamente sul ruolo di integrazione che l’amministrazione viene sempre più assumendo con riferimento all’attuazione dei concetti giuridici indeterminati. Riguardo a tale ultima problematica v., altresì, le lucide considerazioni di MERUSI, Giustizia amministrativa e autorità amministrative indipendenti, in Dir.amm. 2002, 190-195; ed ancora, dello stesso A., Variazioni su tecnica e processo, in Dir.proc.amm. 2004, 974, GIUSTI – CINTIOLI monografie) del giudice amministrativo, mantenendo la competenza dei pubblici poteri per ogni determinazione di natura valutativa (con ciò aderendo alla ben nota tesi di DE PRETIS, op. cit., 264, che prefigura con largo anticipo quanto oggi recepito dalla giurisprudenza che ultimamente ha specificato la sua posizione su detti profili; in tal senso cfr. Cons. Stato, sez. IV, 2 marzo, 2004, n. 926; si segnala inoltre, per quanto attiene l’approfondimento dei problemi solo incidentalmente richiamati nel testo – sia pure in ordine alle sue ricadute nello specifico settore delle autorità amministrative indipendenti, L AZARA, Autorità indipendenti e discrezionalità, Padova 2001, passim ed in part. 284 ss. e 303 ss,). Da ultimo, la previsione di un sindacato sulla fondatezza della pretesa, sembra poter scalfire anche la tradizionale propensione del giudice amministrativo a dichiarare l’inammissibilità della domanda qualora l’istanza del privato non possa ritenersi accoglibile. Ed infatti, come meglio si avrà modo di precisare con riferimento ai profili risarcitori connessi al mancato rispetto dell’obbligo di provvedere (rinvio al § 3,3), permane intatta l’esigenza di definire con una pronuncia espressa nel merito, il giudizio avente ad oggetto il silenzio-rifiuto, sia che la controversia si concluda positivamente per l’interessato, sia che lo stesso non veda soddisfatta la propria richiesta. La ricostruzione interpretativa proposta, tuttavia, continua ad incontrare ostacoli che lasciano intendere la tradizionale predilizione, da parte del giudice amministrativo, per un modello di sindacato che circoscriva il proprio ambito alla mera declaratoria dell’obbligo di provvedere, lasciando sullo sfondo le aperture insite nelle novità introdotte nel 2005 e dimostrando una certa ostilità verso forme che di tutela che tendenzialmente superino il tradizionale strumentario decisorio del modello cassatorio storicamente affermatosi nel nostro ordinamento processuale Art 239 Al riguardo, non va sottaciuto come, anche in presenza della significativa innovazione apportata in tema di poteri cognitori e decisori del giudice in tali fattispecie, difficilmente la pronuncia di accoglimento del ricorso potrà ritenersi sostitutiva di un successivo esplicito esercizio della potestà momento imprescindibile per la definizione del rapporto giuridico in contestazione (èquesta l’interpretazione cha appare preferibile, nonostante già in sede di prima applicazione della novella del 2005, siano state proposte soluzioni differenti, tra le quali spicca quella avanzata dal Tar Campania-Napoli, sez. I, 13 giugno 2005, n. 7817, secondo cui il nuovo impianto dell’accertamento giudiziale del silenzio “laddove non implichi valutazioni discrezionali rimesse in prima battuta alla necessaria valutazione dell’autorità amministrativa - in ciò evidentemente risolvendosi l’opzione valutativa prevista dalla nuova disposizione e la conseguente valutazione facultizzante rimessa all’apprezzamento del giudice amministrativo - può estendersi alla verifica in ordine alla fondatezza della pretesa azionata, assumendo carattere pienamente satisfattivo in presenza di una valutazione giudiziale piena, la quale, disancorata dal limitato orizzonte dell’accertamento del mero dovere di provvedere, investe i contenuti sostanziali del rapporto tra cittadino e Pubblica amministrazione”). 27 (così Cons Stato, sez. IV, 16 settembre 2009, n. 4362; Id. sez. V, 14 aprile 2009, n. 2291; Tar Campania – Salerno, 10 giugno 2009, n. 3190) 3.3 Rapporti tra rito speciale ed azione risarcitoria. Con riferimento all’azione risarcitoria esperibile avverso l’inerzia, la novella del 2005 non sembra produrre significativi spostamenti rispetto agli orientamenti già autorevolmente manifestati dalla migliore dottrina e dalle pronunce più significative della giurisprudenza. Ed infatti, una volta raggiunto il traguardo del la risarcibilità degli interessi legittimi, con l’introduzione dell’art. 21 bis legge Tar si è posto, innanzitutto, il problema della compatibilità del rito de quo con un’eventuale pretesa risarcitoria. Sul punto sembra schiacciante l’orientamento restrittivo, non solo per l’incompatibilità del rito con gli accertamenti istruttori più complessi che potrebbe esigere una pronuncia sui danni (cfr. FANTINI, Il rito speciale, cit., 187) ma anche per il contenuto della pronuncia sul silenzio tipizzato dalla norma in questione, limitato alla dichiarazione dell’obbligo di provvedere (cfr. S ASSANI, Il regime del silenzio, cit, 300). A rafforzare tale convincimento contribuiva la pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.1 del 9 gennaio 2002, cit., che - come si è già avuto occasione di rilevare negando l’estensione dell’oggetto del giudizio alla fondatezza della pretesa contrastava con l’orientamento della Cassazione che, ai fini della tutela risarcitoria, esigeva l’accertamento della fondatezza della pretesa. Sulla scorta di tali premesse, pertanto, la sentenza definitiva sulla domanda avente ad oggetto i danni derivanti dall’inerzia dell’amministrazione, sarebbe stata comunque successiva all’esecuzione, da parte dell’amministrazione, dell’ordine di provvedere. Tale corrente dottrinale e giurisprudenziale, esclude, in sintesi, che con il rimedio di cui all’art. 21 bis, L.Tar, il ricorrente possa ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza del silenzio osservato dall’amministrazione, a fronte di una richiesta volta a perseguire un ampliamento della situazione soggettiva dell’istante. Ed ancora, trattandosi di una pretesa (risarcitoria) completamente sganciata rispetto a quella eventualmente connessa alla tutela dell’interesse legittimo - così come ricostruita ai sensi delle recenti riforme introdotte dal legislatore a partire dal 1998 – prevalentemente riconducibile alla figura del c.d. “danno da ritardo” (sottolinea con convinzione tale profilo di novità, accedendo pertanto alla prospettiva indicata nel testo, M.A. SANDULLI, Competizione, competitività, braccia legate e certezza del diritto – Note a margine della legge di conversione del D.L. 35del 2005, in www.giustamm., secondo la quale in assenza della remora di dover corrispondere un risarcimento per danno da ritardo, le amministrazioni ben difficilmente potrebbero resistere alla tentazione di farsi indicare - in via sostitutiva- dal giudice il comportamento da tenere), non sembrano residuare spazi per un utile impiego del rito speciale Art 239 Di recente il Cons.Stato, sez. IV, ordinanza 7 marzo 2005, n. 875 ha rimesso al vaglio dell’Adunanza Plenaria la tenuta del sistema di tutela così delineato, ipotizzando una ricostruzione del danno da ritardo quale mera violazione dell’interesse procedimentale al rispetto dei tempi posti dall’ordinamento, ricollegabile ad un più generale dovere di correttezza procedimentale, da tutelare in maniera autonoma e distinta rispetto a quella accordata all’utilità finale perseguita dal cittadino richiedente e conseguibile all’esito (positivo) del procedimento. In quest’ottica, dunque, il carattere autonomo del dovere di correttezza escluderebbe la necessità per il privato di azionare con il meccanismo del silenzio, allo scopo di conseguire il provvedimento, ma non necessario nell’economia dell’azione risarcitoria “né ai fini della qualificazione dell’inerzia - che è considerata contra ius dalla stessa norma che pone il termine – né per accertare la spettanza dell’utilità finale, che non rileva” (così, testualmente, Cons. Stato, sez. IV, ord. n. 875/2005, cit.). 28 introdotto con la novella del 2000 in materia di silenzio, anche in considerazione della natura e della complessità dell’attività che il giudice è chiamato a svolgere ( cfr., ex multis, Tar Campania – Napoli, sez. VIII, 11 giugno 2009, n. 3207; Cons. Stato, sez. VI, 18 giugno 2008, n. 3007; Id., sez. IV, 28 aprile 2008, n. 1873) Infine, dalle premesse sopra tratteggiate, dovrebbe potersi concludere per la pacifica ammissibilità di un’azione diretta ad ottenere il ristoro del pregiudizio derivante al privato nonostante l’accoglimento dell’istanza, poiché in ritardo rispetto ai tempi procedimentali normativamente disciplinati. Qualche dubbio, al contrario, sembra prospettarsi con riferimento alla diversa vicenda che viene a determinarsi allorché i pubblici poteri si siano espressi in senso Art 239 Ciò non di meno, permangono alcune zone d’ombra riapparse anche in alcuni recenti interventi del giudice amministrativo, chiamato espressamente ad affrontare tali specifiche questioni (intendiamo fare riferimento alla pronuncia densa di affermazioni e di passaggi ricostruttivi del TAR Puglia, sez. II, 13 gennaio 2005, n. 56). Più in particolare, non sono mancati tentativi di ricondurre anche la fattispecie qui presa in considerazione nell’ambito dell’itinerario interpretativo prospettato con la ben nota pronuncia dell’Adunanza plenaria n. 4 del 2003, tesa ad affermare il principio della pregiudizialità amministrativa in tema di risarcimento del danno conseguente all’esercizio di attività amministrativa (chiarisce molto bene la applicabilità della regola solennemente affermata dall’Adunanza plenaria n. 4/2003 del Consiglio di Stato alle fattispecie qui prese in considerazione OCCHIENA, Riforma della l. n. 241/90 e “nuovo” silenzio rifiuto: del diritto v’è certezza, in www.giustamm 2005). Sul punto va subito chiarito, in linea con quanto fin qui affermato, come nelle ipotesi di silenzio-rifiuto il rapporto giuridico amministrativo che viene ad instaurarsi tra cittadino e pubblica amministrazione sia sussumibile nella formula dirittoobbligo(di provvedere), delineando, di conseguenza, una pluralità di situazioni soggettive in capo all’interessato. Ed infatti, in primo luogo, quest’ultimo è portatore di un interesse legittimo al conseguimento del bene della vita che potrà ottenere solo mediante l’emanazione del provvedimento; nel contempo, l’istante risulterà altresì titolare di un vero e proprio diritto soggettivo all’emanazione di una decisione nel rispetto del termine fissato dalla norma o dal regolamento, in ossequio al più generale obbligo di correttezza gravante su chi esercita la potestà. E’ dunque tale secondo profilo che dà luogo all’ipotesi di danno da ritardo, da considerarsi a tutti gli effetti risarcibile, a prescindere dalle vicende più prettamente attinenti la legittimità del comportamento dell’amministrazione in relazione alla (mancata) manifestazione di volontà da parte dell’organo competente. Ne discende, inoltre, che nessuna utilità può derivare dal pregiudiziale accertamento dell’illegittimità del silenzio, quale elemento propedeutico all’accoglimento delle domande risarcitoria, in quanto diversa è la pretesa azionata nel danno da ritardo, di per sé idoneo a produrre degli effetti nei confronti della sfera soggettiva dell’interessato al momento dello spirare del termine entro cui obbligatoriamente l’autorità procedente era tenuta a decidere (sotto questo aspetto non sembra, pertanto, condivisibile l’orientamento del Tar Puglia, cit. secondo cui, al contrario, il giudice amministrativo è comunque tenuto a verificare previamente l’illegittimità del comportamento dell’amministrazione, al pari di quanto avviene nelle fattispecie in cui oggetto del giudizio risulta essere l’impugnazione formale di un provvedimento, prima di pronunciarsi sulla fondatezza della domanda risarcitoria, evidenziando l’insostituibilità che sul piano logico assume detto accertamento, in conformità a quanto prescritto ex art. 7, co. 3, L. Tar (cfr. Tar Puglia n. 56/2005, cit., 82; di avviso totalmente contrario si dimostra invece S.S.SCOCA, Il ritardo nell’adozione del provvedimento e il danno conseguente, cit., 12-13), secondo quanto confermato, peraltro, dal superamento della necessità della diffida, introdotto dalla legge n. 15 del 2005. 29 sfavorevole, ancora una volta al di fuori dei parametri temporali indicati dal legislatore o dai regolamenti. Seguendo lo schema in questa sede più volte richiamato, secondo cui l’osservanza del termine contribuisce inequivocabilmente ad identificare un diritto soggettivo del cittadino che l’amministrazione è obbligata ad osservare nell’esercizio dei propri compiti, non parrebbero frapporsi ostacoli ad estendere anche a tale fattispecie le conclusioni cui si è pervenuti in tema di accoglimento tardivo dell’istanza. E ciò in quanto il “tempo” rileva come elemento in sè, a prescindere dall’esito del procedimento, dando luogo ad un’autonoma pretesa, in termini di conoscenza delle decisioni dell’amministrazione nei tempi previsti, in grado di incidere comunque sulla sfera giuridica dell’interessato il quale, proprio per una migliore gestione dei propri interessi, ha diritto di conoscere tempestivamente le decisioni dell’autorità, anche nel caso di rigetto della propria istanza (per un approfondimento esaustivo su tale problematica si veda l’articolato e denso di contenuti, lavoro di LIPARI, I tempi del procedimento amministrativo certezza dei rapporti interesse pubblico e tutela dei cittadini, in Dir.proc.amm., 2003, 292 ss. ed in partt. 344 ss. e 360 ss.). Per altro verso, non va sottaciuto come il comportamento inerte dell’amministrazione tenuta ad emanare il provvedimento richiesto concorra indubbiamente a configurare un’ipotesi di responsabilità, in quanto il mancato esercizio della potestà si traduce in una lesione del più generale principio dell’affidamento (su questi aspetti il rinvio è d’obbligo a M ERUSI, L’affidamento del cittadino, Milano, 1970, passim, nonché nella più recente versione dello stesso lavoro (sebbene ampliato) da parte dell’autorevole A., Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni “trenta” all’ “alternanza”, Milano, 2001), consentendo così una tutela effettiva dell’interessato, non più relegata negli angusti limiti connessi allo schema tradizionale del giudizio impugnatorio (in questo senso v. le precise e puntuali considerazioni di BARTOLINI, Il risarcimento del danno tra giudice comunitario e giudice amministrativo – La nuova tutela del c.d. interesse legittimo, Torino, 2005, 169 ss., il quale fornisce un quadro completo delle posizioni dottrinali e giurisprudenziali - esaustivamente richiamate, ivi, 171, ed in part. nt. 159- cui si rinvia per brevità). In altre parole, il silenzio disciplinato dalla nuova formulazione dell’art. 2 in commento sembra rafforzare l’idea dell’obbligo di correttezza cui è tenuta l’amministrazione nel corso della sua azione. Art 239 Alla luce di quanto da ultimo evidenziato, parrebbe emergere una prospettiva in grado di superare l’ulteriore interrogativo avanzato da taluni (vedasi, sia pure fugacemente ed in termini puramente illustrativi, tali aspetti MONTEDORO, Il giudizio avverso il silenzio, in MORBIDELLI, Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2008, 316 ss.) in ordine alla preclusione o meno discendente dalla mancata attivazione di un procedimento giurisdizionale volto a sanzionare l’inerzia dell’amministrazione, confermando indirettamente la tesi in precedenza prospettata della scissione tra il momento della tutela concernente l’aspettativa di provvedimento (interesse legittimo) e quello relativo al pregiudizio collegato alla (mancata) osservanza dei termini procedimentali (diritto soggettivo), meritevole a sua volta di ricevere una protezione adeguata da parte dell’ordinamento giuridico (sembra pertanto trovare conferma, nella fattispecie dell’inerzia della p.a., quanto.sottolineato efficacemente da A. ROMANO TASSONE, La responsabilità della p.a tra provvedimento e comportamento (a proposito di un libro recente), in Dir. amm. 2004, 211, laddove tale autorevole dottrina bene evidenzia il diritto del destinatario dell’azione amministrativa ad un comportamento corretto pur in assenza di un collegamento con il bene della vita cui l’interessato aspira). 30 In proposito, si deve ricordare che in dottrina era stata proposta, segnatamente da parte di Marcello Clarich, la tesi secondo cui dalle nuove disposizioni sul termine del procedimento, introdotte nel 1990, si sarebbe dovuta ricavare, per i procedimenti diretti all’adozione di atti limitativi della sfera giuridica dei destinatari, la regola generale della consumazione del potere di provvedere una volta scaduto il termine prefissato. La giurisprudenza amministrativa, tuttavia, ha subito rifiutato questa tesi, ritenendo che, in difetto di qualsiasi previsione espressa di perentorietà dei termini nell’art. 2, dal medesimo articolo non si potesse derivare alcuna regola generale in tal senso. I giudici amministrativi, quindi, pur dopo l’entrata in vigore della legge n. 241, in grande prevalenza hanno semplicemente continuato a riproporre, anche per i procedimenti in questione, il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui la perentorietà dei termini procedimentali può aversi, quale eccezione alla regola della loro natura meramente ordinatoria o acceleratoria, soltanto laddove la stessa perentorietà sia espressamente prevista dalle norme che disciplinano in modo specifico i procedimenti di volta in volta considerati, o queste sanzionino espressamente con la decadenza il mancato esercizio del potere dell’amministrazione entro i termini stabiliti (v., ex multis, Tar Trieste, sez. I, 30 novembre 2001, n. 708, confermata da Cons. St., sez. VI, 13 novembre 2007, n. 5794; Tar Napoli, sez. III, 4 aprile 2002, n. 1861; Cons. St., sez. VI, 13 maggio 2003, n. 2533; Tar Parma, sez. I, 29 aprile 2004, n. 195, confermata da Cons. St., sez. VI, 9 giugno 2005, n. 3041; Tar Lecce, sez. II, 18 maggio 2004, n. 3001; Tar Roma, sez. I, 5 ottobre 2005, n. 7857; Cons. St., sez. IV, 15 febbraio 2006, n. 609; Tar Firenze, sez. III, 19 maggio 2006, n. 2395; Tar Napoli, sez. VI, 20 maggio 2009, n. 2758; v. altresì Corte cost., 23 luglio 1997, n. 262, e Corte cost., 17 luglio 2002, n. 355). In qualche caso, poi, la giurisprudenza ha ritenuto perentorio un termine procedimentale aderendo alla tesi per cui, talora, la perentorietà dei termini può ricavarsi anche implicitamente dalla funzione che gli stessi sono chiamati ad assolvere in relazione alle particolari caratteristiche di determinati tipi di procedimenti (sostanzialmente in questo senso, v. ad esempio Tar Lecce, sez. II, 18 aprile 2006, n. 1956, e Tar Lecce, sez. II, 20 maggio 2006, n. 2879); ma in nessun caso la perentorietà di un termine, con il conseguente annullamento o dichiarazione di inesistenza o di nullità di un provvedimento adottato fuori termine, è stata tratta direttamente o esclusivamente dalle disposizioni dell’articolo in commento (e ciò, si noti, vale sia con riguardo alla giurisprudenza amministrativa che con riguardo a quella civile, relativa, segnatamente, ai vari tipi di provvedimenti sanzionatori che sono contestabili davanti al giudice ordinario). Art 239 4. Le conseguenze della mancata conclusione entro il termine prestabilito dei procedimenti a iniziativa d’ufficio diretti all’emanazione di provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati. Studiando la disciplina del giudizio avverso il silenzio della pubblica amministrazione, si è visto che, per quanto riguarda i procedimenti diretti all’adozione di atti ampliativi della sfera giuridica dei destinatari, è del tutto pacifico, sia in dottrina sia in giurisprudenza, che la scadenza del termine per concludere il procedimento non determina il venir meno del potere amministrativo di provvedere, vuoi in senso favorevole vuoi in senso sfavorevole ai soggetti interessati. Ciò posto, bisogna ora fare un breve cenno a quali conseguenze si possano avere, ai sensi dell’articolo in esame, nelle ipotesi di mancata conclusione entro il termine previsto dei procedimenti a iniziativa d’ufficio rivolti all’emanazione di provvedimenti restrittivi della sfera giuridica dei privati. Rinviando al commento all’articolo successivo ogni considerazione relativa alla configurabilità di una responsabilità civile dell’amministrazione per danno da ritardo anche in queste ipotesi (v. amplius infra, II, art. 2-bis), qui occorre dunque appurare se, in base all’art. 2 della legge n. 241, la scadenza del termine per concludere tali procedimenti determini, oppure no, la consumazione del potere amministrativo di provvedere. 31 Ebbene, anche la legge n. 69/2009, così come le precedenti norme che hanno modificato la legge n. 241/1990, non ha introdotto nell’articolo in esame alcuna previsione espressa di perentorietà dei termini. È difficile, pertanto, immaginare che la giurisprudenza possa mutare i propri orientamenti sull’argomento qui affrontato. La regola generale, dunque, rimarrà quella della natura ordinatoria o acceleratoria (ma, sia ben chiaro, pur sempre obbligatoria sul versante dei rapporti tra l’amministrazione procedente e i soggetti interessati) dei termini procedimentali, anche per i procedimenti a iniziativa d’ufficio rivolti all’emanazione di provvedimenti restrittivi della sfera giuridica dei privati; mentre le eccezioni a questa regola dovranno continuare ad essere rinvenute nelle – o, in determinati casi, ricavate dalle – norme che disciplinano in modo specifico i procedimenti di volta in volta considerati. Ciò premesso, si possono fare alcune considerazioni sulla portata della disposizione qui in esame. Essa, in sostanza, ha lo scopo di precisare che, tra gli elementi oggetto di valutazione ai fini della responsabilità dirigenziale di cui agli artt. 20-21 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (ma v. pure l’art. 5 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286), è indefettibilmente compreso anche quello dell’inosservanza dei termini dei procedimenti da parte delle strutture amministrative alle quali ciascun dirigente è preposto. In verità, sin dall’entrata in vigore del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e anche in seguito alle modifiche apportate al d.lgs. n. 165/2001 dalla legge sul riordino della dirigenza 15 luglio 2002, n. 145, il mancato rispetto dei termini procedimentali è sempre stato ritenuto un elemento valutativo della responsabilità gestionale dei dirigenti sia in Art 239 5. Termini del procedimento e responsabilità dirigenziale. Un breve cenno, infine, deve essere dedicato anche alla nuova disposizione dell’art. 2, comma 9, per cui «la mancata emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale». Questa disposizione va inquadrata nel più ampio contesto di riforma che ha portato all’approvazione della legge 4 marzo 2009, n. 15 (la cd. legge Brunetta o “antifannulloni”), diretta a implementare la produttività del lavoro pubblico, nonché l’efficienza e la trasparenza delle pubbliche amministrazioni. Il legislatore, infatti, di recente ha puntato sempre più l’attenzione sulle inefficienze dell’amministrazione, adottando una serie cospicua di misure finalizzate a incidere sull’organizzazione amministrativa per debellare o almeno ridurre dette inefficienze; e tra queste misure, che sono principalmente contenute nella legge n. 15/2009, si deve annoverare anche quella costituita dalla previsione del comma 9 dell’articolo in commento, introdotta dalla legge n. 69/2009. Si noti, poi, che, a conferma dell’attuale insistenza politica sul tema della produttività e dell’efficienza amministrativa, di tale previsione si trova praticamente un duplicato nell’articolo 7, comma 2, della legge n. 69/2009, il quale esordisce disponendo che «il rispetto dei termini per la conclusione dei procedimenti rappresenta un elemento di valutazione dei dirigenti» (e prosegue stabilendo che «di esso si tiene conto al fine della corresponsione della retribuzione di risultato», oltre ad attribuire al Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, di concerto con il Ministro per la semplificazione normativa, il potere di adottare le linee di indirizzo per l’attuazione dello stesso art. 7 «e per i casi di grave e ripetuta inosservanza dell’obbligo di provvedere entro i termini fissati per ciascun procedimento»). Ancora, si deve rilevare che, tra le misure più interessanti connesse a quelle testé indicate e pur esse finalizzate a migliorare l’efficienza dell’organizzazione amministrativa, figurano le previsioni dell’art. 23 della stessa legge n. 69/2009, relative alla diffusione delle buone prassi nelle pubbliche amministrazioni e alla pubblicazione dei tempi di adozione dei provvedimenti e di erogazione dei servizi al pubblico. 32 dottrina che in giurisprudenza (per la giurisprudenza amministrativa v., ad es., Cons. St., sez. V, ord. 10 gennaio 1997, n. 33; successivamente all’entrata in vigore della legge n. 145/2002, Cons. St., sez. VI, 19 febbraio 2003, n. 939); e, in proposito, si devono altresì ricordare le disposizioni dell’art. 3-ter del decreto-legge 12 maggio 1995, n. 163, convertito con modificazioni dalla legge 11 luglio 1995, n. 273, le quali, oltre ad avere introdotto la possibilità per gli interessati di chiedere l’intervento sostitutivo del dirigente generale, o a seconda dei casi del ministro, nelle ipotesi di violazione dei termini dei procedimenti di competenza delle amministrazioni statali, hanno previsto il compimento di rilevazioni annuali sul numero complessivo di tali procedimenti non conclusi entro i termini prefissati, connettendo espressamente la mancata osservanza di detti termini, in particolare, alla responsabilità dirigenziale. La nuova disposizione dell’art. 2, comma 9, della legge n. 241/1990, dunque, più che avere una reale portata innovativa, sembra avere il significato di un monito a considerare lo svolgimento tempestivo dei procedimenti un elemento particolarmente importante per valutare i risultati dell’attività di qualsiasi struttura amministrativa e verificare il “raggiungimento degli obiettivi” da parte dei rispettivi dirigenti. Del resto, non si vede come si potrebbe dubitare che tra gli “obiettivi” fondamentali di qualsiasi incarico dirigenziale non debba rientrare pure quello della conclusione dei procedimenti nei termini stabiliti; risultato che i dirigenti non possono non avere la responsabilità di assicurare nell’esercizio dei propri compiti di coordinamento e di controllo dell’attività degli uffici dagli stessi diretti e dei responsabili dei procedimenti amministrativi (sui rapporti fra i dirigenti e i responsabili dei procedimenti, ove i secondi non coincidano con i primi, v. amplius infra, II, artt. 4, 5 e 6). Bisogna poi evidenziare che, accogliendo la tesi, dietro prospettata, per cui le ipotesi di silenzio significativo non devono essere considerate deroghe all’obbligo per l’amministrazione di pronunciarsi in modo espresso, si dovrebbe ritenere che ai fini della responsabilità dirigenziale la mancata adozione dei provvedimenti nei termini previsti debba rilevare anche in riferimento ai casi di silenzio-assenso e, a maggior ragione, in riferimento a quelli di silenzio-rigetto. Si dovrebbe inoltre ritenere, per analogia, che ai medesimi fini debba autonomamente rilevare anche l’inosservanza dei termini endoprocedimentali, con specifico riguardo, ovviamente, alla posizione dei dirigenti preposti alle strutture responsabili di determinati adempimenti o fasi procedimentali. A monte di tutto ciò che si è potuto osservare, rimane comunque da vedere se e come le nuove misure finalizzate a migliorare l’efficienza dell’organizzazione amministrativa verranno concretamente applicate, al di là dell’enfasi che ne ha accompagnato l’approvazione; e, in tale contesto, se e come la responsabilità dirigenziale, finalmente, potrà trovare reale attuazione nel nostro ordinamento. Sez. II. Le domande e le risposte 1.1 L’art. 2 si applica anche ai procedimenti diretti all’emanazione di atti amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione? Gli atti amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione non sono esonerati dall’osservanza dell’art. 2 della legge n. 241/1990 (Corte cost., n. 355/2002, cit., e Cons. St., sez. V, 29 maggio 2006, n. 3265; nel medesimo senso, tra le pronunce più recenti, v. Cons. St., sez. IV, 21 febbraio 2005, n. 578; Tar Art 239 1. Casistica sulla sfera di operatività dell’obbligo di provvedere nel termine. 33 Lecce, sez. I, 8 febbraio 2007, n. 371; Cons. St., sez. VI, 4 aprile 2008, n. 1417; Tar Lecce, sez. I, 8 aprile 2009, n. 695). 1.2 L’art. 2 è applicabile per definire i tempi di adempimento delle obbligazioni pecuniarie dell’amministrazione? L’art. 2 della legge n. 241/1990 è dettato in funzione della sollecita conclusione dei procedimenti amministrativi e, pertanto, esso non è applicabile per definire i tempi di adempimento delle obbligazioni pecuniarie della p.a., che sono esigibili, invece, secondo la disciplina (normativa o convenzionale) dello specifico rapporto cui le stesse ineriscono (v., per tutte, Cass., sez. I, 19 dicembre 2001, n. 16025). 1.3 Sussiste l’obbligo di procedere e, quindi, di provvedere nel caso di istanze volte al rilascio di provvedimenti non previsti dall’ordinamento? L’obbligo dell’amministrazione di pronunciarsi non sussiste ove sia presentata una domanda non prevista dall’ordinamento come idonea ad avviare un procedimento tipico, in quanto intesa al rilascio di un provvedimento innominato (Cons. St., IV, 22 giugno 2006, n. 3921, relativa alla domanda di un giudice di pace intesa a ottenere l’inquadramento dell’istante nei ruoli della magistratura ordinaria; nel medesimo senso, tra le altre, v. Tar Napoli, sez. V, 11 novembre 2008, n. 19491, confermata in appello da Cons. St., VI, 31 marzo 2009, n. 1896, a proposito di una domanda intesa a ottenere che determinate pratiche di interesse dell’istante fossero affidate a funzionari diversi da quelli che avevano precedentemente operato nei suoi confronti, sul solo presupposto della conclusione ritenuta insoddisfacente delle pratiche precedenti). 1.5 Sussiste l’obbligo di procedere e, quindi, di provvedere nel caso di istanze reiterate con lo stesso contenuto pur in difetto di mutamenti della situazione di fatto o di diritto? L’obbligo della p.a. di concludere il procedimento con un provvedimento espresso viene meno in presenza di reiterate richieste aventi il medesimo contenuto qualora l’amministrazione abbia già adottato un formale provvedimento di rigetto e non siano sopravvenuti mutamenti della situazione di fatto o di diritto, a maggior ragione allorché detto provvedimento sia divenuto inoppugnabile (v., tra le pronunce più recenti, Cons. St., sez. IV, n. 6181/2000, cit.; Tar Napoli, sez. III, 23 novembre 2001, n. 5014; Cons. St., sez. IV, n. 3256/2002, cit.; Tar Latina, sez. I, 17 Art 239 1.4 Sussiste l’obbligo di procedere e, quindi, di provvedere nel caso di istanze manifestamente assurde o totalmente infondate o illegali? L’obbligo della p.a. di concludere il procedimento con un provvedimento espresso viene meno in presenza di domande manifestamente assurde o totalmente infondate o illegali (v., tra le pronunce più recenti, Cons. St., sez. IV, n. 6181/2000, cit.; Cons. St., sez. V, 8 marzo 2001, n. 1354; Cons. St., sez. IV, n. 3256/2002, cit.; Cons. St., sez. IV, 22 giugno 2004, n. 4455; Cons. St., sez. IV, 2 novembre 2004, n. 7068; Tar Lecce, sez. I, n. 371/2007, cit.; Cons. St., sez. VI, 11 maggio 2007, n. 2318). 34 gennaio 2003, n. 15, confermata da Cons. St., sez. V, 21 ottobre 2003, n. 6537; Cons. St., sez. IV, n. 4455/2004, cit.; Tar Venezia, sez. II, 22 febbraio 2008, n. 425). 1.7 Sussiste l’obbligo di dare seguito alle istanze dirette all’ottenimento di provvedimenti sfavorevoli nei confronti di soggetti terzi? La giurisprudenza in diversi casi riconosce l’obbligo dell’amministrazione di dare seguito alle istanze dei privati dirette all’ottenimento di provvedimenti sfavorevoli nei confronti di soggetti terzi, ove si tratti di istanze circostanziate e gli istanti si trovino in una particolare posizione (in genere quella di proprietari di un immobile o di abitanti di un determinato territorio), che li renda titolari di un interesse specifico, rilevante e qualificato all’adozione dei provvedimenti richiesti, differenziato da quello della generalità dei consociati: ciò accade prevalentemente nei casi in cui sia richiesta l’emanazione di provvedimenti sanzionatori e repressivi di abusi edilizi (v., ex ceteris, Tar Lecce, sez. I, n. 5018/2001, cit.; Cons. Art 239 1.6 Sussiste l’obbligo di dare seguito alle istanze di avvio di procedimenti di autotutela? In giurisprudenza è del tutto pacifico che ordinariamente l’amministrazione non è obbligata a dare seguito alle istanze di riesame presentate delle parti interessate, tanto nel caso in cui sia richiesto il riesame di provvedimenti divenuti inoppugnabili, quanto nel caso in cui sia richiesto il riesame di provvedimenti tempestivamente impugnati e ancora “sub iudice” al momento della presentazione dell’istanza (ex multis, tra le pronunce più recenti, v. Cons. St., sez. V, 27 marzo 2000, n. 1765; Tar Lecce, sez. I, 6 settembre 2001, n. 5018; Cons. St., sez. IV, 6 ottobre 2001, n. 5307; Tar Napoli, sez. III, n. 5014/2001, cit.; Tar Lazio, sez. I, 26 marzo 2002, n. 2527, confermata in appello da Cons. St., sez. IV, 30 dicembre 2003, n. 9212; Tar Napoli, sez. III, 10 aprile 2002, n. 1969, confermata in appello da Cons. St., sez. IV, 10 novembre 2003, n. 7136; Cons. St., sez. VI, 7 agosto 2002, n. 4135; Cons. St., sez. VI, 4 settembre 2002, n. 4453; Tar Latina, sez. I, n. 15/2003, cit., confermata da Cons. St., sez. V, n. 6537/2003, cit.; Tar Venezia, sez. II, 27 maggio 2003, n. 3016; Cons. St., sez. V, 7 novembre 2003, n. 7132; Cons. St., sez. IV, 14 luglio 2004, n. 5101; Tar Torino, sez. I, 2 settembre 2004, n. 1635, confermata in appello da Cons. St., sez. IV, 20 luglio 2005, n. 3909; Tar Roma, sez. II, 26 gennaio 2005, n. 625, confermata in appello da Cons. St., sez. VI, 27 giugno 2005, n. 3424; Cons. St., sez. IV, 31 marzo 2005, n. 1430; Cons. St., sez. IV, 9 agosto 2005, n. 4227; Cons. St., sez. VI, 5 settembre 2005, n. 4504; Tar Lecce, sez. III, 9 settembre 2005, n. 4218; Tar Roma, sez. I, 11 gennaio 2006, n. 239, seguita in appello da Cons. St., sez. VI, ord. 13 giugno 2006, n. 2948; Tar Lecce, sez. I, 11 maggio 2006, n. 2504; Cons. St., sez. IV, 12 maggio 2006, n. 2661; Cons. St., sez. VI, 28 marzo 2007, n. 1427; Tar Genova, sez. II, 10 maggio 2007, n. 741; Cons. St., sez. VI, n. 2318/2007, cit.; Tar Parma, sez. I, 10 marzo 2008, n. 135; Cons. St., sez. IV, 16 settembre 2008, n. 4362). Tuttavia, in casi eccezionali l’obbligo di avviare un procedimento di riesame su istanza di parte può essere ritenuto sussistente: così, ad esempio, nel caso di istanze volte a ottenere che, dopo la modifica, in via di autotutela, di determinati provvedimenti a seguito di un mutato orientamento dell’amministrazione, siano riformati nel medesimo senso anche ulteriori provvedimenti, analoghi a quelli già modificati (v., tra le pronunce più recenti, Tar Salerno, sez, II, 6 febbraio 2008, n. 164, e Tar Salerno, sez. II, 10 aprile 2008, n. 547); oppure nel caso di istanze basate sul presupposto che l’amministrazione abbia commesso un grave ed evidente errore al momento dell’emanazione del singolo atto di cui si chiede il riesame (v. Cons. St., sez. IV, n. 5101/2004, cit., e Cons. St., sez. IV, n. 1430/2005, cit., sempre limitando le indicazioni alle pronunce più recenti). 35 St., sez. V, 14 febbraio 2003, n. 808; Cons. St., sez. V, 21 ottobre 2003, n. 6531; Cons. St., sez. V, n. 7132/2003, cit.; Cons. St., sez. IV, n. 2661/2006, cit.) e nei casi in cui sia richiesta l’emanazione di provvedimenti, anche contingibili e urgenti, per la tutela della salute e la protezione dell’ambiente (v., tra le altre, Tar Salerno, sez. II, 26 giugno 2003, n. 745; Cons. St., sez. VI, n. 2318/2007, cit.; Tar Lecce, sez. I, 7 luglio 2009, n. 1786). 2.1 Decorso infruttuosamente il termine per decidere sull’istanza di accesso ed avendo l’interessato proposto ricorso ai sensi del rito speciale, nelle more del giudizio è consentito all’amministrazione di pronunciarsi? Trattandosi di un giudizio di natura non cassatoria ma di accertamento, il decorso del tempo non consuma il potere dell’amministrazione di decidere la quale può definire il procedimento sull’accesso a prescindere dalla scadenza del termine individuato dall’art. 25 (Cons. Stato, sez. VI, 8 febbraio 2001, n. 569) ed il diniego che dovesse intervenire non determina la sopravvenuta carenza di interesse, ipotesi, questa configurabile solo in caso di accoglimento dell’istanza (così Tar lazio, sez. I, 1 marzo 2001, n. 1687). 2.2 Un provvedimento emanato dopo la scadenza del termine di cui all’art. 2, l. n. 241/90, va considerato illegittimo? No, in quanto il mancato rispetto del termine per la conclusione del procedimento costituisce causa del relativo provvedimento solo nell’ipotesi in cui detto provvedimento produca una lesione specifica della posizione dell’ineterssato (cfr. Tar Lombardia – Milano, sez. II, 6 febbraio 2009, n. 1158; Tar Emilia Romagna, Parma, sez. I, 14 gennaio 2008, n. 25Tar Lombardia – Milano, sez. III, 17 gennaio 2007, n. 71) 2.4 Una volta proposto il ricorso avverso il silenzio ai sensi dell’art. 21-bis, l. Tar, l’eventuale domanda proposta con motivi aggiunti al fine di censurare il provvedimento sopravvenuto deve ritenersi inammissibile? Secondo la giurisprudenza no in quanto, ove all'originaria domanda diretta avverso il silenzio inadempimento segua un'azione di tipo impugnatorio introdotta con motivi aggiunti dall'errore di procedura non consegue un'automatica dichiarazione d'inammissibilità del sopraggiunto gravame, dovendo il giudice amministrativo dare applicazione al principio di cui all'art. 156, co. 2, c.p.c. e verificare se nel caso concreto siano stati Art 239 2.3 I casi di sospensione del termine per la conclusione del procedimento devono ritenersi tassativi? Sì, soprattutto dopo l’entrata in vigore delle modifiche apportate dall’art. 2, L. n. 241/90 dalla L. n. 15/90 pertanto, il procedimento non può essere sospeso dalla semplice richiesta di integrazione documentale ad opera delle parti (cfr. Tar Toscana-Firenze, sez. II, 7 marzo 2008, n. 277 36 Art 239 rispettati o possono essere comunque rispettati i termini e le modalità dettati per il rito ordinario a tutela delle parti (così Cons. Stato, sez. V, 4 marzo 2008, n. 897)