LA VOCE D’ITALIA MILANO – 3 Novembre 2006 Racconto senza fine, ovvero Orlando secondo Messina Dopo l’11 settembre lo si definisce scontro di culture. Ai tempi di Carlo Magno, una dozzina circa di secoli fa, era più semplicemente guerra di conquista e reconquista. Cristiani e Arabi, Franchi e Saraceni, due accampamenti, due vessilli, due eroi. Oggi l’Atlantico, un tempo in mezzo scorreva il Rodano. Ma sempre di donne, cavalieri, armi e amori si tratta e di questo riferisce, informa, anzi no, racconta la parola di Enrico Messina. Perché la differenza sta tutta qui, non nello scenario, ma nella modalità di enunciazione. E Messina si trova a suo agio quando, camicia bianca, sgabello e corno in mano (obbligato tributo al mondo dei paladini) si cala nelle vesti di narratore di strada. Nulla di più per la scarna, essenziale scenografia di “Orlando furiosamente solo rotolando”. E diversamente non poteva essere per un monologo di un’ottantina di minuti, dove, un po’ come nel teatro di Testori, la parola regna sovrana. Non si legga però come ribassamento di prospettiva o semplificazione dello scenario messo in gioco la differenza di strategia di comunicazione che caratterizza e distingue il racconto dall’informazione. Fior di studi a cavallo tra antropologia e sociologia ci hanno svelato nell’ultimo decennio quanto le narrazioni e le auto-narrazioni possano dire, specchiare realtà, mutare opinioni e modi vivendi. Il giovane autore e attore foggiano (classe 1969), dopo excursus formativi in terra d’Africa, a stretto gomito con griot e cantastorie locali, ha da tempo intrapreso un lavoro sulla parola come strumento antropologico di riappropriazione della propria identità culturale e come grimaldello per aprirsi a quel mondo ormai in via di sparizione che è la dimensione del racconto, della favola, della leggenda. Da questo punto di vista, le gesta d’Orlando già cantate - in diverso modo e a diverso titolo - dai nomi illustri dell’epica italiana sono per Messina niente più che uno spunto da cui prendere le mosse per una loro puntuale reinvenzione linguistica: altrove la sua narrazione ha alternato musica e voci per ricostruire le vicende di Thomas Sankara, il presidente ‘ribelle’ che guidò il Burkina Faso dall’83 all’87 o per ricondurre a memoria storie di braccianti. Nessuna discontinuità, dunque, con gli ultimi lavori dell’artista pugliese, semmai un approfondimento di uno sperimentalismo linguistico che permette oggi a Messina una varietà di registri (comico, lirico, grottesco) e una gamma di timbri e toni vocalici che sono la forza del suo teatro. Cronologia e plot, fabula e intreccio, per stare ai formalisti russi, vanno tranquillamente a farsi benedire. Quello che importa a Messina non è ‘ridire’ il già detto, con un semplice scarto drammaturgico che trasponga la parola dal testo ad un palco. Messina attinge dall’epica, ma anche dalla sua rivisitazione calviniana (interpola un passo del cavaliere inesistente) e ci aggiunge del suo. Non fabula, ma affabulazione. Che racconti dei capi, Agricane o Carlo Magno (resi nel ridicolo della loro narcisistica e immobile gestione del potere) o che narri dei combattenti, un umanissimo, insignificante “né vassallo, né valvassore, né valvassino” Orlando scelto a caso da Carlo Magno e per caso dal destino infausto di Roncisvalle, reso imperituro eroe già così moderno perché perdente, Astolfo, o meglio “Astolf”, pronunciato nasale, inglesino e perfettino tutto buone maniere che sulla Luna preferisce salirci con una scala a pioli, non con il leggendario ippogrifo, Messina non dice, ma evoca. All’uso ritmico di variazioni impresso alla parola, si deve qui almeno ricordare per breve inciso lo straordinario lavoro mimico a cui Messina ricorre nella sua ininterrotta opera di evocazione. Perché di pura evocazione, ripetiamo, si tratta, in un continuo rimando anche fisico, spaziale di gesti e sguardi rivolti verso l’altrove, il fuori scena. I tempi si dilatano, dunque, esplode la fabula e si estendono gli spazi. All’infinito. La disarticolazione del ‘cunto’ avviene poi in due direzioni: in quello del punto di vista, dove ad un narratore esterno, mai parco di commenti, si alternano le voci dei protagonisti in prima persona, e secondariamente nell’uso dei dialetti che caricano semanticamente la rapida galleria di voci e volti di connotazioni di volta in volta diverse. Se il Pulci nel suo Morgante in salsa grand guignol faceva terminare il suo poema con la disfatta di Roncisvalle, e se l’Ariosto, tra un rimando e l’altro, si sentiva di portare a compimento l’opera del Boiardo con la vittoria cristiana, Messina non conclude. Gaddianamente sospende la narrazione sulla lotta di Orlando alla prese con tre draghi, senza proclamarne una fine. Il corno non serve più allora. Ma già lo sapevamo che la storia era un pretesto. di Vittorio Nava