CULTURA MARINARA COME LEZIONE DI VITA L’esperienza pedagogica della Caracciolo nei ricordi degli scugnizzi. di Marina Silvestri Ferrari Solidarietà, lavoro, affetti: furono questi i valori che fecero dell’esperienza educativa della naveasilo Caracciolo di Napoli un modello e un metodo pedagogico ammirato in ambito internazionale. Giulia Civita Franceschi, moglie dell’ammiraglio Civita, che diresse la nave dal 1913 al 1928, riuscì a salvare dalla strada, dalla delinquenza e dalle malattie più di settecentocinquanta scugnizzi, o meglio come si usa dire oggi usando un linguaggio ‘politicamente corretto’: “Ragazzi a rischio”, preparandoli alla vita marinara. Divenuti uomini, “recuperati” alla vita civile, mantennero con la loro istitutrice un rapporto epistolare di toccante autenticità. Ne parla la mostra di materiali fotografici e fonti d’archivio proposta dal Museo del Mare di Bagnoli, curata da Antonio Mussari e Maria Antonietta Selvaggio, intitolata Da scugnizzi a marinaretti. L’esperienza della nave-asilo Caracciolo (1913-1928) arrivata quest’estate a Trieste, alla Biblioteca Statale, grazie all’Associazione Culturale Amici del Caffè Gambrinus. La raccolta completa, patrimonio documentario del Museo del Mare di Napoli, consta di oltre cinquecento documenti scritti ed un migliaio di foto donati al museo da Gabriella Aubry figlia del “caracciolino” Gennaro Aubry che ha coadiuvato la figlia del politico ed economista Arturo Labriola, Ornella, a cui era stato affidato da Giulia Civita Franceschi, nel compito di conservare tale patrimonio. Un'occasione per conoscere tali esperimenti intrapresi da pedagogisti e filantropi a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, tra i quali lo storico e senatore del regno Pasquale Villari, che trasposero nel nostro Paese l’esperienza inglese delle training ships, quali la nave-officina “Garaventa” a Genova nel 1883 che ebbe lo scopo di accogliere giovani che avevano scontato pene carcerarie, e nel 1906 la nave-asilo “Scilla” a Venezia scuola di pesca per gli orfani dei pescatori dell’alto Adriatico, voluta da David ed Elvira Levi-Morenos. Nel 1911 il Ministero della Marina guidato dal ministro Pasquale Leonardi Cattolica fece dono alla città di Napoli della nave “Caracciolo”, e il prof. Federico Celentano, in qualità di presidente del Patronato appositamente costituito, provvide a redigere lo statuto di questa scuola sperimentale dove l’istruzione militare fu impartita da ex ufficiali e quella elementare da civili. La “Caracciolo”, spiega la mostra, fu destinata ad accogliere sia gli orfani dei marittimi sia i fanciulli abbandonati di Napoli – “pericolati” e “pericolanti” nel linguaggio criminologico del tempo. La “Caracciolo”, non si limitò ad essere una scuola di addestramento ai mestieri marittimi, ma fu piuttosto una “comunità”, in cui – secondo l’impostazione di Giulia Civita – ogni fanciullo, conosciuto e rispettato nei propri bisogni nonché incoraggiato e valorizzato nelle proprie tendenze, veniva “aiutato individualmente a migliorarsi e a svilupparsi in modo armonico”. Per questi tratti caratteristici la Civita la definisce un’educazione naturale. L’esperienza della nave-asilo Caracciolo, che si guadagnò il plauso di Maria Montessori, ebbe termine con l’inserimento dell’istituto nell’Opera Nazionale Balilla, che impedì alla direttrice di portare a compimento il progetto di estendere l’accoglienza e l’istruzione alle scugnizze: con la nascita della SPEM (Scuola per Pescatori e Marinaretti) nel 1921 di Miseno, era stato previsto un edificio destinato alle bambine, ma fu intralciato da interessi privati e non riuscì a decollare. Dopo il 1945 ebbero esito negativo anche altri tentativi di riproporre il modello per ridare dignità a troppi bambini traviati dagli eventi bellici e da tutto ciò che significarono nelle vicende della città e dei suoi quartieri più degradati. Sostenuta da articoli di Lieta Nicodemi e Olga Arcuno, rispettivamente sulle pagine dei giornali Risorgimento e Solidarietà, Giulia Civita Franceschi nel 1947 aprì il Congresso delle donne napoletane con un intervento in cui, riporta la stampa dell’epoca: Ella ribadì insieme ai concetti fondamentali del suo metodo anche il “primato” femminile in campo educativo e rieducativo. Ma si comprende dal tono del suo discorso e soprattutto dalla conclusione che ciò che le sta più a cuore è, come sempre, la sorte degli “scugnizzi”, quel drammatico problema che “torna oggi ad imperversare in questa nostra martoriata città e vi imperverserà tanto maggiormente quando gli anni renderanno più visibili le conseguenze del passaggio di due eserciti – l’uno di padroni, l’altro di vittoriosi”. Di alti contenuti anche il convegno introduttivo alla Mostra, tenutosi alla Biblioteca Statale di Trieste, organizzato dagli Amici del Caffè Gambrinus con l’adesione dell’Istituto Nautico, nel quale l’esperienza delle navi asilo è stata contestualizzata nel panorama dell’istruzione nautica così come veniva impartita in Italia fin dall’Ottocento negli Stati pre-unitari e in particolare a Trieste allora porto dell’impero austro-ungarico. “In una nazione circondata dal mare”– ha detto Raffaella Salvemini del CNR Issm Napoli – “l’istruzione nautica ha avuto una funzione di rilievo nello sviluppo del nostro Paese. Istruzione, recupero e formazione non sono però stati sviluppati congiuntamente in tutti gli stati pre-unitari”. La Salvemini ha spiegato come, fin da quando il problema dell’istruzione nautica si pose a partire da metà Settecento, vi concorsero fattori legati all’economia marittima del territorio, più tardi alla tecnica ed alla cantieristica e quindi fu diversamente influenzato dalle esigenze dei diversi porti; allora non essendo pagato dallo Stato, il servizio scolastico era supportato da finanziamenti di associazioni di categoria, Camere di Commercio, Comuni e Province. Per tale motivo dopo l’unità di Italia molte scuole non riuscirono a sopravvivere perché furono uniformati i programmi e ci fu bisogno di reclutamento ed di una formazione omogenea degli insegnanti. In precedenza, il Mezzogiorno aveva puntato ad un’istruzione complessiva elementare e tecnica, mentre la Sicilia aveva scelto di aprire le scuole a ragazzi con già un minimo di istruzione elementare. Trieste fu invece un caso a sé, come ha spiegato Giulio Melinato dell’Università di Milano-Bicocca, perché il target di partenza era alto, i ragazzi che frequentavano la scuola Nautica sapevano già leggere e scrivere, e l’Istituto poté specializzarsi nell’istruzione nautica superiore. Melinato ha sottolineato come il modello marittimo triestino sia stato intrinsecamente diverso per più di una ragione: “Mentre il modello napoletano genovese e veneziano è stato un modello evolutivo, trattandosi di porti che da sempre svolgevano questa funzione e si adattavano al cambio della tecnologia, il sistema triestino nacque in un determinato momento, il 1719, con l’istituzione del Porto franco, e si sviluppò come un sistema gravitazionale che trovò risorse captandole dall’ambiente di riferimento, come un corpo celeste che via via si crea il suo sistema planetario. Trieste assorbì risorse anche dal punto di vista scolastico: i giovani marinai si trasferivano a Trieste provenendo da altre realtà. Trieste funzionò come industrializzazione di questo sistema gravitazionale perché i numerosi squeri in Istria e in Dalmazia non riuscivano a stare al passo tecnologico e a costruire navi in ferro, poi navi in acciaio. Fu un sistema dinamico e flessibile, evolutivo e cumulativo che assorbì dall’esterno professionalità a tutti i livelli. Ne derivò una formazione molto più competitiva e tecnologica, perché doveva affrontare le rotte di tutto il mondo. Prese il meglio da tutto, anche gli armatori, i Tripcovich, i Gerolomich, i Premuda. I vantaggi e gli svantaggi: lo svantaggio sarà la grande rigidità nel lungo periodo che mostrerà i suoi limiti intrinseci quando l’impero austro-ungarico finirà.”. L’approdo a Trieste, della mostra sulla nave-asilo Caracciolo ha permesso di allargare gli orizzonti della riflessione sull’interazione con l’economia dei territori di qualsivoglia scuola di formazione, fermo restando il valore della riproposta di quest’irripetibile esperienza, la conferma della cui validità, sta nelle parole degli scugnizzi divenuti uomini che emozionano e toccano la ragione e i sentimenti. Una lezione per chi oggi cerca con la didattica di sviluppare più le professionalità che i futuri cittadini: uomini e donne capaci di acquisire gli strumenti per affrontare la vita.