donna e prete - Parrocchia Santa Lucia di Roseto

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DONNA E PRETE
(Nella e oltre la Lettera del Giovedì Santo 1995 di Giovanni Paolo II)
RIFLESSIONI SULLA LETTERA
Di Cettina Militello
Premessa
Commentare una lettera che non ci vede fra i destinatari risulta un po' imbarazzante. E
quasi violare la reciprocità che sempre, nel genere epistolare, intercorre tra mittente e
destinatario. Ma, ovviamente, per quanto iscritta nel genere epistolare, questa di Giovanni
Paolo Il ai sacerdoti in occasione del Giovedì santo 1995, proprio per la statura del
mittente e la rilevanza dei destinatari, ha valenza ecclesiale. E dai fatti ecclesiali nessuno è
escluso, nemmeno le donne che, sulle prime, nelle attenzioni liturgiche del Giovedì santo rinnovazione delle promesse sacerdotali/istituzione del sacerdozio - sembrano doppiamente
escluse.
Ma l'attenzione inconsueta e dichiarata nella Lettera di quest'anno è alla donna nel suo
rapportarsi al sacerdote o, se vogliamo, al sacerdote nel suo rapportarsi alla donna.
La prima reazione è, dunque, di stupore. Ma davvero si vuole sottolineare un tema così
delicato e, diciamolo pure, così esorcizzato? Si pronuncia davvero la parola donna
nell'ottica di un 'esperienza di vita, quella sacerdotale,
che (soprattutto in Occidente) da secoli scorre nel segno di una rimozione, di una presa
di distanza dichiarata ed enfatizzata dalla donna?
Eppure, l'oggetto della lettera è proprio “ l'importanza della donna nella vita de l sacerdote ”. Giovanni Paolo Il lo sviluppa negli otto brevi paragrafi che la compongono. I primi
tre scorrono sul tema della “ Madre ”, in uno sconfinare continuo dalla maternità di
Maria, madre del Signore, alla maternità concreta delle donne, di que lle soprattutto che
hanno sostenuto e guidato i loro figli verso la scelta sacerdotale. I paragrafi da 4 a 6
tematizzano la donna come “ sorella ” (n. 5): “ Quelle di madre e di sorella sono le due
fondamentali dimensioni del rapporto tra la donna e il s acerdote ” (n. 5). I paragrafi 7 e 8
ritornano, più che al tema dell'esclusione della donna, ai ministero nel suo statuto di
servizio. Il modello è Cristo servo, ma ad esso si affianca l'esemplarità di Maria, la serva
del Signore.
I TEMI DELLA LETTERA
La donna alla quale dobbiamo la vita
Giovanni Paolo Il comincia con l'affermare che “ il primo e fondamentale rapporto che
l'essere umano stabilisce con la donna è proprio quello da figlio a madre”. “ La madre è la
donna alla quale dobbiamo la vita”. E dunque la generazione ad attivare lo speciale
vincolo tra ogni figlio e la propria madre.
Nessuno, ovviamente, può mettere in dubbio la parte specialissima che una madre ha
nella gestazione del figlio; gestazione sigillata, coro nata, dai dolori del parto. Ma l'enfasi
sulla donna e sulla sua funzione materna non può dimen ticare che, per quanto privilegiata,
la relazione materna da sola non è sufficiente per generare alla vita. Un figlio/una figlia
sono frutto di un incontro duale. Dicono l'esuberanza fe conda da Dio assegnata come
compito al maschio e alla femmina, proprio nel crearli a sua immagine (cfr. Mulieris
dignitatem 6). Ci permettiamo di annotarlo perché il papa consegna ai sacerdoti nella
contestualità del Giovedì santo proprio la Mulieris dignitatem, affinché ne facciano “ oggetto di speciale meditazione” (n. 2).
Probabilmente l'enfasi sulla madre scaturi sce dalla chiave interpretativa del “femminile”,
tipica della Lettera, e dalla corrispondenza continua, caratteristica dei primi tre paragraf i,
tra la madre e la Madre, tra la maternità di Maria e la maternità delle donne. E Cristo il mo -
dello nel suo amore filiale ed è Maria il model lo nel suo amore materno. Il papa sottolinea
come sia “fondamentale per il "pensare" cristiano” questo legame con la Madre di Dio, sul
piano teologico, storico e antropologico-culturale.
Ma quale sia il gioco sottile delle associazioni e dei rimandi, di questo continuo oscillare
tra Maria e le donne nella prospettiva della mater nità, ciò che sta a cuore al papa,
nell'orizzonte di quanto gia insegnato tanto nella Redemptoris Mater che nella Mulieris
dignitatem, è il “carattere peculiare” che riveste la presenza della donna nella vita
sacerdotale; carattere che “ esige una analisi specifica”.
Corpo eucaristico e corpo di Maria
Il primo elemento veramente innovativo all'interno di questa analisi ci è proposto all'in terno del paragrafo 3. Si tratta infatti di porre sul tappeto il rapporto che intercorre tra
Maria e l'eucaristia spingendolo, in tutta coerente con tiguità, sino al più ampio rapporto
della femminilità con l'eucaristia.
Il punto di partenza è offerto dall'inno Ave verum corpus natum de Maria Virgine... Un
inno, come osserva Giovanni Paolo Il, che non appartiene alla liturgia del Giovedì santo,
ma al cui centro è il mistero del corpo del Signore, questo sì al centro del triduo pasquale.
Il corpo di Cristo offerto come cibo nell'eucaristia è“quel Corpo che, quale Figlio di Dio,
aveva assunto dalla Genitrice, la Vergine immacolata” (n. 3).
Annotiamo che assai spesso nella storia della cristianità, a livello di devozione come a
livello di riflessione, si è cercato di dare valenza umana all'eucaristia. Indubbiamente il
mistero della “presenza” eucaristica rende presente il “corpo nato da Maria”. È una
memoria che la nostra rigidezza occidentale ha fatto fatica a si gnificare, ma che i riti
orientali evocano in tutta naturalezza nelle loro celebrazioni eucaristiche.
Onestamente non si può dire che la comunità abbia mai negato nel corpo “eucaristico” la
presenza di quella carne e di quel sangue che il Verbo di Dio incarnandosi ha mutuato da
Maria. Mi viene in mente - non è certo una citazione colta, ma è pur sempre significativa l'usanza di imprimere il monogramma di Maria nell'ampollina dell'acqua: l'ac qua nella commixtio al vino è memoria della umanità, mutuata appunto da Maria. E ho presente qualche
porticina di tabernacolo iconografata con Maria che allatta suo Figlio, scritta all' intorno
con l'inno di san Tommaso: Nobis datus nobis natus ex intacta virgine.
Ciò che Giovanni Paolo il vuole sottolineare è però la presenza di Maria al Giovedì
santo. Anche se nella memoria liturgica non si parla di lei “è difficile non avvertirne la
presenza nell'istituzione dell'eucaristia ” (ivi).
Non è che la Lettera parli di una presenza fisica di Maria nel Cenacolo dove Gesù
istituisce l'eucaristia. La “ presenza della Madre” è dun que interamente affidata alla
contiguità biologica ma, soprattutto, alla contiguità d'amore che ella, come ogni madre, ha
con il Figlio. La presenza della maternità, e grazie ad essa della femminilità, diviene così,
nel sacramento dell'ordine, un fatto concreto.
Tanto reale però, quanto “ discreto”.
Tutta restando evidente la potenza della figu ra materna, soprattutto nel sostenere o
ispirare la vocazione al sacerdozio del proprio figlio, la donna sta come in filigrana. Si
tratti del farsi attivamente partecipe dell'offerta del figlio, si tratti del darsi per noi del
Signore Gesù, si tratti dell'offerta in persona Christi compiuta da ogni sacerdote.
Troppo poco? Forse. Ma non è irrilevante additare la presenza della femminilità, la
contiguità delle donne al sacramento dell'eucaristia e al sacramento dell'ordine.
Per quanti problemi ponga, questa chiamata in causa evoca le donne oltr e la maternità.
Fratelli e sorelle in Cristo
Nella Lettera il passaggio dal tema della madre a quello della sorella avviene a partire da
Maria. La maternità verso l'“ unico ” Figlio si pone quale garanzia di una “ molteplicità ”
spirituale, pur se, immediatamente, a fondarlo è il mistero di Cristo, la cui azione redentrice
abbraccia tutti gli uomini, anzi l'intera umanità. Resi in lui figli e figlie adottivi del Padre,
diventiamo tra noi fratelli e sorelle.
“ Ed ecco emergere all'orizzonte della nostra riflessione sul rapporto tra il sacerdote e la
donna, accanto alla figura della madre quella della sorella ” (n. 4).
Per la peculiarità del suo compito ogni sacer dote si iscrive nella relazione di fraternità
posta in essere dall'appartenere all'unica famiglia del Padre. In quest'orizzonte generale si
colloca però l'esperienza concreta della sororità che il sacerdote vive per l'avere avuto in
famiglia delle sorelle. E ammesso pure che non le abbia avute, certamente la sua esperienza
include la presenza delle donne nell'ambito del vicinato, nei giochi dell'infanzia o nella
scuola.
Giovanni Paolo Il sottolinea fortemente 1' “ importanza enorme ” di una comunità mista
nella formazione dei ragazzi come delle ragazze. Si tratta di un dato iscritto nel “ disegno
originario del Creatore ” (cfr. n. 4). La vocazione al matrimonio come quella alla vita
consacrata non si determina nell'isolamento.
Insomma un'autentica vocazione al celibato è di necessità iscritta in una assunzione
equilibrata della alterità femminile. In questa rete di equilibrio appare “ particolarmente
importante che il sacerdote sviluppi profondamente in sé l'immagine della donna come
sorella”.
Una garanzia di gratuità
Il paragrafo 4 si chiude con l'affermazione che non è possibile nel prete un ministero di
autentica paternità spirituale senza l'acquisizione di un orizzonte universale di fraternità e
sororità, senza l'assunto che uomini e donne sono fratelli e sorelle anche là dove non
intercorra un legame di parentela. Ma è il paragrafo 5 a decli nare il tema della sororità e a
spiegarci il perché della sua assunzione a fianco del termine madre come cifra del rapporto
possibile e auspicabile tra la donna e il prete.
Culturalmente il termine sorella ha una carica particolare. Nell'indicare la donna, la
relazionalità a una donna, sottolinea con forza la sua “ intangibilità ”. La sorella, insomma,
non è oggetto del desiderio, anzi per definizione nel riconoscere una donna come sorella,
pur accogliendone la differenza, ci si rapporta con lei nel segno della assoluta e totale
gratuità.
Non a caso il termine ha finito con l'indicare le donne consacrate, attivamente impegnate
nella profezia dei bisogni. Dalla sororità francescana in poi le religiose saranno chiamate “
sorelle ”, nella valenza cristiana originaria restitu tiva della prima comunità e nella valenza
socio-culturale che in analogia alla relazione familiare esige, appunto, l'intangibilità di una
donna che mi sta accanto, senza vincoli di sangue, rendendomi un servizio sororale e
fraterno, libero e gratuito. Se maschio non posso che rispettar la, accettandola in un rapporto
che mitiga la sua stessa soggezione, facendomela compagna al trimenti.
Per il sacerdote la donna non può essere che una sorella
Non si può dire - è proprio del genere epistolare - che la tematizzazione della donna
come sorella scorra su una univoca linea di riflessione. Il problema, diciamolo pure, è pur
sempre quello di fissare bene i confini del rapporto possibile tra la donna e il prete.
Se non ci sono evidenti pericoli nel ricondur re la donna al paradigma materno,
soprattutto se si tratta di una persona anziana, sulla scia di lTm 5,2 emerge la necessità di
assumere le più giovani come sorelle “ in tutta purezza”. Il nodo resta dunque quello del
celibato, della “ speciale vigilanza ” che esso richiede “ sui propri sentimenti e su tutta la
propria condotta ” (cfr.n.5).
Non c'è spazio per un rapporto che metta a rischio questo dono e questa scelta; il d overe
di un prete è quello di lottare per restare fedele al la propria vocazione.
E, inutile dirlo, la civiltà contemporanea non è di grande aiuto. Edonismo, egocentrismo,
sensualità ostacolano sempre e comunque la fedeltà, sia nel matrimonio che nella vita
consacrata.
Non pochi sacerdoti vivono queste difficoltà e alcuni “ proprio a causa di una donna
hanno abbandonato il ministero sacerdotale ” (ivi).
Non c'è da discutere sulla questione di fondo: la nostra società è poco attenta a
determinati valori. Il parallelismo tra le difficoltà che incontra la vita coniugale e la vita
consacrata sono eloquentissimi sulla scarsa incidenza dei va lori della fedeltà. Nella nostra
società prevale il modello della provvisorietà, dell'esperienza a tempo. Uomini e don ne
appaiono incapaci di operare scelte definitive, a tutti i livelli ovvia mente, anzi si teorizza e
legittima questa incapacità, questa immaturità come un diritto e addirittura come un valore.
La mia preoccupazione è altra. Mi sentirei a disagio se qual che prete leggesse
quell'annotazione su di alcuni i quali “ proprio a causa di una donna hanno abbandonato il
ministero ”senza tenere presente la Mulieris dignitatem. Perché, malgrado ogni sincero
sforzo, facciamo fatica a liberarci dalla misoginia cultur ale. Nella Mulieris dignitatem il
papa ha vigorosamente sottolineato, abbandonando la tesi da sempre sostenuta, che
nell'esperienza del peccato Adamo ed Eva sono stati protagonisti allo stesso modo e allo
stesso titolo. Una donna che scatena in un prete la presa di coscienza della sua incapacità o
impossibilità di tener fede all'impegno celibatario assai spesso è vittima prima, forse,
d'essere colpevole. Assai spesso si assommano storie personali inconcludenti e immature.
Assai spesso la donna non interferisce affatto, neanche come elemento catalizzante, in una
crisi profonda che ha le sue radici altrove... Bisognerà dunque interrogarsi a fondo su quel lo che è un orizzonte formativo fallimentare, e ricercare all'interno delle metodiche di
formazione, nelle domande profonde del soggetto, le ragioni di un disamore o di un
abbandono delle scelte di partenza. Con troppa disinvoltura sono ammesse al sacerdozio
persone troppo giovani e immature, sopravvalutando a volte la quantità sulla più preziosa
qualità.
La donna e l'edificazione della Chiesa
Ovviamente l'attenzione alla donna nel suo stare accanto al sacerdote non può
dimenticare quello che Giovanni Paolo Il chiama “ l'argo mento ancor più ampio, del ruolo
che la donna è chiamata a svolgere nell'edificazione della Chiesa” (n. 6).
Nel mistero del popolo di Dio uomini e donne vedono intersecarsi le loro strade che
sempre e comunque restano finalizzate alla costruzione del corpo di Cristo, alla crescita
della Chiesa.
Risulterebbe davvero monco un discorso che non prestasse attenzione alla partecipazione
delle donne alla vita della Chiesa. Tanto più che il Vaticano Il ha disegnato questa comune
identità del popolo di Dio, questo comune impegno di uomini e di donne: tutti e tutte, re
sacerdoti profeti. Il papa richiama espressamente il capitolo Il della Lumen gentium e invita
a leggerlo. Ricorda come esso significativamente preceda il capitolo sulla costituzione
gerarchica. E se è vero, come risulta dalla testimonianza evange lica, che le donne non
vengono chiamate a far propri i compiti degli apostoli, pure esse resta no iscritte
nell'orizzonte più largo della missione profetica, che “ ha nella Chiesa forme diver se,
secondo il carisma di ciascuno ” (ivi).
La missione profetica viene elargita agli uomini come alle donne. E Giovanni Paolo Il
può ancora una volta far scorrere di fronte ai suoi interlocutori la galleria delle donne
neotestamentarie: la Samaritana, Maria e Marta, le donne testimoni della Passione che,
prossime a Gesù ai piedi della croce, ungono poi il suo corpo, e sono presenti alla sua
deposizione nella tomba. Le stesse saranno le prime testimoni della tomba vuota, anzi
verranno inviate agli apostoli come testimoni. Fra di esse Maria di Magdala, indicata già
nella Mulieris dignitatem come Apostola apostolorum.
In queste presenze Giovanni Paolo Il legge la partecipazione delle donne alla missione
profetica di Cristo, la partecipazione al suo munus regale sacerdotale e profetico, evocato
dalla i Pt 2,9-10 e ribadito dottrinalmente, sulla sua scia, in Lumen gentium 10-12; 34-36.
Il ministero come servizio
In una Lettera che traccia un'ipotesi di rapporto tra le donne e il prete non può non trova re eco il disagio delle molte donne che interpretano la loro esclusione dal ministero come “
una forma di discriminazione ” (cfr. n. 7).
Giovanni Paolo Il non riprende i temi più volte sviluppati, le ragioni teologiche
dell'esclusione della donna dal ministero sacerdotale. Si limita a ricordare come non si tratti
di discriminazione, iscrivendosi il sacerdozio ministeriale non nell'orizzonte del potere ma
in quello del servizio.
Ma soprattutto il papa evoca l'atteggiamento di Gesù nel Vangelo di Giovanni, il suo
farsi servo sino a caricarsi di un'incombenza qual è quella del prendersi cu ra dei piedi di
quelli che ha invitati al suo banchetto d'addio. D'altra parte, in una convergenza unanime,
emerge dai racconti evangelici che Gesù è venuto non per essere servito ma per servire e
dare la propria vita... Perciò nessuno si scandalizzerà se, soprattutto sulla scia di Giovanni,
noi sottolineiamo come il ministero assolto da Gesù, ministero di servizio, si svolga
secondo il paradigma femminile del farsi carico, del prendersi cura. Un prendersi cura del
corpo tradizionalmente iscritto nelle funzioni femminili. Cosa questa che ci interpella sul
senso che, qui come altrove, ha l'assunzione di paradigmi femminili. E se Giovanni Paolo Il
prosegue sottolineando la valenza “ministeriale ” del sacerdozio, il suo statuto di servizio al
popolo di Dio, garanzia, insomma, che tutti e ciascuno partecipino al meglio al mistero
della crescita del corpo ecclesiale; dinanzi al paradigma messo in atto da Ge sù, un
paradigma di servizio, non altrettanto può sempre dirsi del servizio nella sua Chiesa. Non
possiamo sottacere come certo servizio sacerdotale rimanga iscritto in un paradigma se colare (o sacrale - i due termini sono assai più vicini di quel che non si creda) di potenza.
Non solo si smarrisce il modello di Cristo “servo dell'uomo”, ma si smarrisce i n particolare
la ministerialità della stessa eucaristia, il senso originario e costitutivo del “ per voi ” che la
caratterizza.
Maria, la serva
La simmetria asimmetrica della redenzione declina, accanto a Cristo servo, Maria quale
serva del Signore. Così ella si proclama in Lc 1,38. Non si tratta, nella Lettera, di trarne
suggestioni per declinare il servizio altro e parallelo delle donne ma al contrario di esortare
i preti, stretti alle donne dal vincolo di maternità e sororità, a far proprio, ad imit are il
modello di servizio messo in atto da Maria. Lo esige la mi nisterialità del sacerdozio che
dunque “occorre vivere in unione con la Madre, che è serva del Signore ” (n. 8). Maria
diventa così, oltre che modello, custode del sacerdozio; è colei che lo rende fecondo e
salvifico.
Giovanni Paolo Il conclude invocandone la protezione, non senza averle chiesto di porre
nel cuore di ogni sacerdote “ soprattutto un grande anelito di santità”.
OLTRE LA LETTERA
Ci è stato impossibile, percorrendo la Lettera, non entrare direttamente nel merito delle
sue tematiche e delle sue argomentazioni. Tuttavia vorremmo ora, più organicamente,
confrontarci con il tema della maternità e con quello della sororità per chiederci, infine, se
la Lettera non stimoli a declinare ulteriormente il rapporto tra donna e sacerdote.
E poiché “ madre ” e “ sorella ” sono termini di relazione, ci è necessario porre innanzi
tutto la questione della “ relazione”.
A immagine lo creò. A sua immagine li creo...
Tutta l'antropologia cristiana si sviluppa a partire da questo theologoumenon di Gen 1,26
che, come ha mostrato la Mulieris dignitatein, trova fondamentalmente consenso nel
secondo racconto della creazione (Gen 2,4b-25).
Il mistero dell'uomo sta tutto racchiuso in quest'essere a imm agine e nell'esserlo non
nell'esclusione o nella separatezza, ma in quella relazionalità dei generi che statutariamente
rinvia al mistero stesso di Dio come soggettua lità amante, come circolo relazionale.
L'uomo e la donna stanno come di fronte, l'uno opp osto all'altra (cfr. Gen 2,18), perché
ripropongono in humanis il mistero della relazionalità in divinis, il mistero additato dai
nomi stessi delle divine Persone: Padre, Figlio, Spiri to, nomi tutti di relazione.
L'esse ad in divinis, espresso dal sostanziarsi stesso della relazione, è supportato in
humanis dal dimorfismo sessuale. E necessaria la differenza. Anzi è espressiva della stessa
corrispondenza tra le persone divine e le persone umane. Essa tuttavia si dispiega non
soltanto come esse ad. Il dimorfismo sessuale esige un essere per, dal quale scaturisce la
possibilità per l'uomo maschio e femmina non solo di sostanziare la relazione ma di
proiettarla nel futuro, assolvendo così a uno dei compiti che il Creatore ha as segnato alle
creature.
Nell'uomo maschio come nell'uomo femmi na l'orizzonte dell'esse ad è dunque quello originario e primordiale, al cui interno è immedia tamente avvertibile - e senza differenze - lo
statuto ad immagine. L'esse ad disegna la coppia umana primordiale, ma non è circoscritto
ad essa; va oltre i due a disegnare ogni alterità umana così come l'alterità divina. E
d'altra parte, nessuna persona, in divinis come in humanis, è identica a un'altra. Ciascuno è
irripetibile e unico, pur nella comune costituzione che fa dell'altro la ragione d'essere di
ciascuno.
L'esse ad inerisce allo statuto ontico dell'essere umano. Ma l'esserci dell'uomo maschio e
femmina esige la compiutezza di un riscontro che fletta l'orizzonte ontico in un concreto essere per. La funzione, insomma, che regge il dimorfismo sessuale vede il maschio e la fem mina l'uno di fronte all'altra nella concretezza di un compito che è insieme comune e
diverso, che tutti e due, il maschio come la femmina, iscrive in un comune generare.
Il mistero dell'essere umano, così prossimo al mistero di Dio, ci resta inattingibile senza
la distinzione tra il piano ontico e il piano funzio nale. E se il primo si dispiega nelle
valenze della assoluta corrispondenza e parità, il secondo si dispiega nelle valenze di una
corrispondenza asimmetrica.
In ogni caso l'uomo maschio è per l'uomo femmina e viceversa. Entrambi poi nella loro
costitutiva reciprocità ripropongono il mistero amante delle divine Persone, l'attività libera
e sovrana del Padre, la dialogia del Figlio, la gratuità dello Spirito. Questi tratti
assolutamente accomunanti perché costitutivi dell'immagine si traducono nella simmetria
asimmetrica della differenza sessuale. Sicché l'unica immagine di Dio trova modalità
diversificate di realizzazione; così come l'unica natura divina sussiste nella Trinità delle
divine Persone. Ciò che sul piano divino si realizza nella distinzione di persona e natura,
sul piano umano si gioca nella diversificazione tra relazione e funzione, iscritte entrambe
nella comune natura e nella determinazione sessuata delle persone. Per intenderci, il
disegno del principio esige l'esse ad e l'essere per
La persona umana sessuata è posta originariamente come esse ad e si traduce come
essere per. La relazionalità metafisica dell'essere persona si concretizza nella relazionalità
funzionale del mio specifico rapportarmi all'altro come essere per l'altro. L'uomo maschio e
femmina non può sfuggire alla sua costitutiva reciprocità. Deve necessariamente tradurla,
renderla operativa, secondo una catena relazionale che tuttavia mai può oscurarne
l'assolutezza di persona.
Se ci mettiamo in ascolto del concretizzarsi culturale o storico della reciprocità, iscritta
nell'orizzonte profondo dell'essere persona di ciascuno di noi, v edremo come interferisce
pesantemente, come possa prevalere la traduzione funzionale, l'esserci rispetto all'essere.
Certamente ciò avviene perché non si dà mai un as soluto essere al di fuori di un concreto
esserci. Ma ciò avviene anche perché l'esserci è stato mutato, sovvertito, ferito rispetto
all'originario disegno di Dio.
Così la mutualità personale, esaltata e affidata al dimorfismo sessuale ha prodotto
modelli di prevaricazione, che, nel dimorfismo sessuale, hanno iscritto la donna nell'alveo
della funzione, persino lasciando soltanto al maschio lo statuto assoluto e sovrano di
persona.
Madre, figlia, sorella, sposa, vedova, declinano culturalmente quella condizione di intro versione, quel “ privato ” contrapposto al “ pub blico ”, che è proprio del femminile
funzionale. La cura della casa, la cura della famiglia, la cu ra dei figli, l'assenza di una
professione: sono questi i caratteri storici, le costanti della feno menologia del femminile.
Ma oggi verifichiamo una inversione di tendenza resasi necessaria per l'ingresso della
donna nel mondo del lavoro e in quello della cultura, fuori dal circolo chiuso della
produzione familiare.
Madre
Se nella Lettera il papa sottolinea il rapporto originario di alterità che si instaura tra la
madre e il figlio, nel suo magistero non mancano accenti' sul fatto che la relazionalità
madre-figlio non scatunsce autonomamente ma inerisce alla relazionalità maschio -femmina
nella compiutezza di una corporeità consumata ed esperita.
Eppure il padre resta assente nella nostra tradizione culturale. Quale che sia la
presenza-assenza del padre - il nostro tempo vive attivamente un movimento maschile di
coscientizzazione -0 resta però indiscusso che la madre stabilisce durante la gestazione, e
poi durante il primo periodo di vita del bambino, un rapporto privilegiato.
Ditale rapporto solo oggi scopriamo la va lenza simbolica risolutiva, quella che lega
l'evento della maternità non soltanto al corpo (generare/nutrire) ma alla parola e al
linguaggio (espressione/lrappresentazione/comunicazione). La madre è la mediatrice della
parola. E a partire da lei che il figlio è introdotto alla dina mica e alla simbolica del
linguaggio. Sin qui la donna è stata circoscritta alla sola corporeità, addirittura vista come
solo corpo, in opposizione al maschio, testa, ragione, logos. L'attenzione alla madre in
questa valenza nuova che le assegna la mediazione del linguaggio e dunque l'avvio a
coscienza e conoscenza rompe insomma quella dicotomia corpo-parola che sin qui ha
espropriato la donna dalla parola “ logica”.
Il che a livello di simbolica cristiana ovvia mente ci riconduce a Maria, colei che
accoglie, colei che “ genera ” il Verbo, colei che appresta la sua carne al Verbo di Dio che
si incarna. Corpo “ per noi ” dato, sangue “ per noi ” versato. Corpo vero al quale va però
riunita la valenza simbolica del suo essere Verbo -incarnato, Parola fatta carne. L'assioma
caro cardo salutis non può minimizzare o ignorare che quella carne è la carne del Verbo.
Carne e Parola sono indivisibili. Maria vive questo mistero “ concependo il Verbo nella
mente prima che nel grembo ”, e lo vive altresì aprendo al Figlio, all'umanità del Figlio,
come ogni madre, l'ordine simbolico del linguaggio.
Sorella
Abbiamo già annotato quale sia la qualità del termine sorella nella catena relazionale.
Altrettanto antico e presente del termine madre, interpreta il femminile in un'ottica che
senza escludere il maschio stabilisce con lui non un rap porto di soggezione o dipendenza
ma, piuttosto, di parità e autonomia.
Il termine sorella indica certamente una don na nella trama funzionale della parentela, si
tratta tuttavia di una trama assai spesso metaforica. Chiamare una donna sorella, chiamarsi
fra donne sorelle non appella necessariamente al rappor to carnale, all'essere stati generati
dalla stessa madre e dallo stesso padre, appella, detto da donna a donna o da uomo a donna,
a riconoscimento di comune umanità nel segno di una solidarietà al di fuori di uno schema
legale di appartenenza. Detto da un uomo a una donna esclude, poi, una relazionalità
sessuale di tipo genitale.
Chiamarsi reciprocamente “ sorella ” o, il che è lo stesso, “ fratello ”, evoca
riconoscimento gratificante dell'altro, apertura all'altro, disin teressata e amicale.
Non a caso la riflessione delle donne, teologia inclusa, fa della sisterhood, della sororità
un suo manifesto, il segno del legame, della nuova coscienza solidale che lega le donne tra
di loro.
In qualche modo la stessa maternità si scioglie, trapassa in attitudine di sororità. Il porsi
necessariamente “ gerarchico ” di madre figlia/figlio cede nella maturità acquisita del fi glio/figlia a una relazionalità diversa, sororale alla madre. L'ipoteca padrone/servo, sovra no/suddito non ha ragion d'essere nel segno della sororità che dunque ha implicita, sempre e
comunque, una istanza orizzontale di comunio ne e condivisione.
Se ci appelliamo alla Scrittura, se ci poniamo in ascolto delle contestualità ove appare il
termine “ sorella ”, al di là del suo significato immediato che dice un legame di sangue,
vedremo come esso comporta sfumature diverse di intel ligenza e accoglienza del
fernminile. Si pensi a Maria “ sorella ” di Mosè, per esempio. La sua presenza accanto al
fratello, al di là dell'invocare la comune genitrice, evoca piuttosto un equilibrio, una
reciprocità, la condivisione di un impegno storico-salvifico.
Si leggano invece i contesti nei quali il termi ne “ sorella ” si lega al termine “ sposa ”, il
Cantico di cantici per esempio, e vi si vedrà la precisa volontà di articolare il legame
coniugale secondo uno spessore che importa rispondenza amicale, affinità elettiva
profonda, solidarietà.
Il Nuovo Testamento presenta anch'esso il termine “ sorella”. Esso si carica di tutta la
negatività richiesta dall'assolutezza del discepolato ma anche della positivita inerente alla
nuova e definitiva famiglia escatologica (cfr. Mt 12,46 -50 e paralì.). Se bisogna rinnegare i
vincoli di sangue e declinare altrimenti maternità fraternità e sororità, ciò significa anche
che fraternità e sororità hanno nuovo spazio e valore. Proprio per queste ragioni adeloho's e
adelphé saranno i termini più usati per designare i credenti, i membri della nuova comunità.
Così i cristiani si chiameranno l'un l'altro.
Che Giovanni Paolo Il presti attenzione al termine sorella e lo proponga come modello di
ricezione e di accoglienza del femminile non può che significare e richiamare tutte queste
cose.
Crediamo pure che sulla tradizione della fraternità come costante della storia cristiana, il
papa abbia proposto un modulo di presenza femminile, possibile, bene accetta, gratificante,
maturante, arricchente.
La solitudine non è per l'uomo. Il cuore uma no non può che amare. La trama costitutiva
della reciprocità chiede comunque di dispiegarsi, né basta l'ascesi eroica a erodere questo
bisogno profondo dell'altro che Dio stesso ha iscritto nel cuore dell'uomo.
Né basta genericamente l'altro. Ciascuno di noi cerca, interroga il proprio
simile/dissimile, quello dialogando con il quale realizza, traduce in questo mondo creato, la
suggestione, l'orma della dialogia ineffabile e increata.
Nell'attenzione che verginità e celibato hanno ricevuto lungo la storia della cristianità è
stato rilevante il condizionamento culturale, l'eredità del mondo greco, della sua misoginia
culturale. Né d'altra parte il mondo ebraico coevo a Gesù teneva in gran conto la donna.
Sicché verginità cristiana e celibato si sono configurati come modi di vita autenticamente
perfetti. Al femminile mettendo in atto l'unica emancipa zione possibile rispetto al maschio,
uscendo dal modulo legale della schiavitù e della tutela - la vergine non appartiene a nessun
maschio, né al padre, né al fratello; né a un marito -; al maschile emancipandosi dal
bisogno di una creatura fragile, inferiore e inferma, totalmente ina deguata a una
relazionalità non funzionale alla procreazione.
Additare le dinamiche culturali ambigue che hanno caratterizzato l'ascetismo celibatario
cristiano non vuol dire negarne lo statuto trascendente di reciprocità, la domanda plausibile
di alterità che ha come suo termine Dio stesso, il suo primato, così da guardare lui, e lui
solo come lo “ sposo”.
In questa chiave il termine sorella ha la doppia valenza di segnalare già in partenza un
modello di rapporto che non chiama in causa la sessualità genitale, e soprattutto chiama la
donna a condividere un modello comunionale.
Sì, oltre l'effetto d'argine alla concupiscenza e al desiderio che il termine sorella esige,
assai più importante e rilevante mi pare questo tratto liberante, indicativo di partnership, di
un progetto di vita sul piano della comunione e della condivisione.
Il modulo paterno e il modulo sororale ven gono evocati insieme nella Lettera, segno
della difficoltà concreta, della difficoltà reale che il rovesciare un rapporto di sudditanza
comporta.
Dunque un rapporto libero da ogni ipoteca genitale, ma anche nel segno dell'abbandono
di ogni ipoteca patriarcale. Uomini e donne nella Chiesa, preti e donne su un piano di
fiduciale parità, di mutuo riconoscimento dell'altro, del suo valore intangibile, del compito
a ciascuno proprio nell'edificare il corpo del Signore.
OLTRE LA SORORITÀ...
L'avere chiamato in causa la donna come “ sorella ” ci suggerisce però anche altre considerazioni traendo dalle istanze di inclusione, di possibile presenza del femminile nella vita
sacerdotale, altre e più impegnative conseguenze.
La reciprocità primigenia
Abbiamo ricordato a margine della dinamica attivante la rinunzia ascetica alla propria
alterità sessuale come il rifiuto di viverla sul piano del rapporto propriamente coniugale
non metta al riparo, né sarebbe possibile, l'uomo e la don na che iscrivono se stessi in una
scelta continente, dalla originaria domanda di alterità. L'altro, il proprio simile-dissimile è,
dicevamo, iscritto nel disegno di Dio. Disegno originario, disegno del principio che
Giovanni Paolo Il ricorda nella Lettera e che ha a lungo tratteggiato nella Mu/iens
dignitatem. Per quanto la scelta verginale e celibataria si iscriva in quella opzione radicale
per Dio che oltrepassa il dinamismo delle nozze, la domanda d'alterità continua ad
attraversare l'esistenza del celibe come della vergine. Soprattutto oggi, che diversamente
dal passato, siamo fortemente incentivati alla comprensione di sé, alla lettura globale della
nostra umanità sessuata, senza ipocrisie, senza fughe, senza compensazioni improbabili.
Già nel suo trattato Sulla verginità, Giovanni Crisostomo annotava che a differenza di
chi non conosce le nozze, l'esistenza della persona sposata è molto più equilibrata. Gli è
risparmiata la lotta incessante contro il proprio desiderio. Trova riparo accoglienza nella
carne dell'altro e si tratta di un'esperienza rappacificante. Non si pensi da questa larga
citazione che Giovanni Crisostomo sconosca la misogi nia culturale. Solo che a volte, come
in questo caso, l'evidenza mette a tacere lo stesso a prio ri culturale.
Oggi sappiamo tutto (o quasi) dei dinamismi della nostra sessualità. Non ci sono più miti
ad interpretarla. La viviamo dando ai suoi dinami smi un significato diretto e preciso, senza
possibilità di fuga o di scampo.
Ovviamente resta ancora da interrogarsi se i percorsi formativi tengano conto di tutto ciò
come dovrebbero. In ogni caso vuoi per le sollecitazioni martellanti di una cultura che esal ta il corpo, vuoi per gli strumenti scientifici in nostro possesso, verginità e celibato non
possono che apparirci in ciò che sono, volontaria rinuncia a una compiutezza relazionale, i
cui innegabili valori non rimuovono la lacerazione profonda che questa incompiutezza inge nera.
Che fare? Fuggire sempre e comunque? Dismettere la propria scelta? Ritornare a temi e
modelli obsoleti stigmatizzanti la donna e la sessualità?
No, davvero. La storia della spiritualità cristiana ci offre altre risposte, altre possibilità.
Esse hanno il valore prezioso di indicarci un modello perseguito in condizioni oggettive di
svantaggio, in condizioni oggettive di pregiudizio culturale.
Il modello ascetico e le sfide de/la reciprocità
Chiunque si accosti alla storia della spiritualità cristiana, chiunque legga criticamente la
storia della santità, non potrà che constatare una costante: mai incontriamo nell a loro
solitudine un santo o una santa, un asceta maschio o un'asceta femmina, ma sempre li
scopriamo iscritti in un modulo relazionale che è sì di fra ternità-sororità ma, soprattutto, è
di amicizia.
Il bisogno dell'altro si gioca certo nelle sfere consce e inconsce attivate dalla
sessuazione, ma tutta accettando questa dinamica così com'è compatibile con una scelta
ascetica e continente, il bisogno dell'altro si traduce, al di là e oltre il modello delle nozze,
in quello altrettanto fondamentale dell'amicizia.
L'amicizia, la reciprocità profonda del riconoscimento mutuo non solo del proprio essere
per ma anche del proprio esse ad, attraversa senza esitazioni, illumina senza eccezioni la
storia della santità cristiana. Si tratti del rappor to di Paolo con la leggendaria Tecla - il
referente è celibatario e ascetico, ma il modello è quello dell'impegno missionario -; si tratti
dell'affinità elettiva che corre tra Melania l'An ziana e Rufino di Aquileia, tra Paola e
Girolamo - il referente è quello colto e raffinato dell'amore e dello studio della Scrittura -;
o tra Crisostomo e Olimpia - il referente è certo amicale ma soprattutto “ ministeriale ”: si
tratta di un vescovo e una diaconessa -. E poi, via via sino al Medioevo, si rifletta sul
rapporto che corre tra Radegonda e Venanzio Fortunato - ancora un modulo di colta e
raffinata amicizia -; tra Lioba e Bonifacio - ancora un comune impegno missionario -; tra
Chiara d'Assisi e Francesco - una medesima utopia di radicale e povera fraternità/sororità -;
tra Caterina e Raimondo da Capua - è parabola non inconsueta che di un “ padre ” fa un “
figlio ” -; tra Giordano di Sassonia e Diana degli Andò - ancora amicizia ma anche
condivisione di un nuovo orizzonte religioso -; tra Teresa d'Avila e Jerònimo Graciàn ancora condivisione di un disegno fondativo, questa volta con leadership femminile -; tra
Giovanna di Chantal e Francesco di Sales - affinità elettiva, affine spiritualità ministeriale
E per non omettere questo nostro tempo, si pen si all'amicizia tra Armida Barelli e Agostino
Gemelli, tra Adrienne von Speyr e Hans Urs Von Balthasar, tra Adelaide Coari e Angelo
Roncalli... Si tratta di storie diverse, profondamente diverse. Alcune percorrono sino in fon -
do, dichiaratamente il paradigma della relazionalità privilegiata maschio-femmina; altre invece lo traducono quasi inconsapevolmente, ex abundantia cordis.
Due esemplificazioni
Fra le tante testimonianze legate al genere epistolare - genere cortese e tuttavia intimo e
immediato che difficilmente si carica di ipocrisie formali, non certo nel caso dei personaggi
elencati - mi si consenta di citare una delle lettere che Giordano di Sassonia scrive a Diana
degli Andò. Il primo è immediato successore di Domenico alla guida dell'Ordine
Domenicano, la seconda è fra le prime donne che cedono alle suggestioni della nuova
famiglia religiosa, iniziatrice in Bologna della prima comunità fe mminile domenicana. La
vicenda si colloca nella prima parte del secolo XIII.
“ Il tuo amore con il quale, secondo Dio in Cristo, fortemente e sinceramente mi abbracci, con
certezza afferma che anch'io ti amo. E di certo questo io faccio, altrimenti non imiterei colui che
dice: "Io amo coloro che mi amano" (Pr 8,17). Questo lo fanno anche i pagani e i peccatori. Sarei
peggiore di loro se non ti amassi. So però che tu mi ami con mag giore intensità di quanto io non
ami te. Mi dispiace privarti di questa p arte di amore. Ti reco offesa; già da tempo hai gettato in me,
terra sterile, iT seme del tuo amore e non raccogli ciò che hai seminato... Ma sopporta con pazienza,
perché questa ingiuria io non la reco a te sola, ma a Cristo tuo Sposo, il cui Padre, il se minatore, già
da lungo tempo aspetta da me il frutto del suo prezioso seme...
“ Sono felice perché sono amato da te, ma la mia gioia diminuisce al pensiero che non ricambio
interamente il suo amore. Tu però mi ami perché pensi che la parola della salvezza e il dono della
conversione ti siano venuti per mezzo mio. Io credo invece che tu avessi già nel cuore la grazia
dello Spirito Santo prima che ci incontrassimo... ” (Ep. LV).
Questa lettera di cui non conosciamo la data precede la scelta definitiva di D iana, il suo
lasciare il mondo. Vi traspare la topica dell'ami cizia ascetica, il gioco sottile dell'amore che
è amore di carità, senza per ciò cessare d'essere amore nel senso umano del termine. E che
fra i due intercorrano le valenze normali dell'amore, della gioia del ritrovarsi e della
tristezza del distaccarsi, lo mostra la lettera XLVI, scritta nell'estate del 1231:
“Quando devo separarmi da te lo faccio sempre con grande sofferenza di cuore e tu me ne
aggiungi altra. Vedo che ti abbatti così inconsolabilmente che non solo mi devo rattristare della
separazione, ma anche per il dolore che manifesti.
“Ma perché ti angusti così? Non sono forse sem pre tuo? Io sono sempre con te; sono tuo nel
lavoro e nella quiete, tuo quando sono presente, tuo quan do sono assente; tuo nella preghiera, tuo
nel merito, tuo anche nel premio...”
E si richiamino alla mente gli stralci assai più noti delle lettere scritte da Francesco di
Sales a Giovanna di Chantal. Così le scrive il 26 aprile del 1604:
“Dio, mi pare, mi ha dato a voi. Ne sono più sicu ro a ogni ora. E tutto quello che vi posso dire.
Raccomandatemi al vostro buon Angelo” (Lettera 215).
È passato appena un mese da quando si sono conosciuti Il 14 giugno dello stesso anno le
scriverà per prevenire ogni possibile sua obiezione:
“... Non ho mai preteso che fra noi esistesse alcun legame il quale comportasse obbligo alcuno,
ad eccezione di quello della carità e della vera amicizia cristiana, il cui rapporto è chiamato da san
Paolo vincolo di perfezione; e realmente esso è così, dal momento che è indissolubile e non subisce
mai nessun logoramento. Qualunque altro legame è transi torio... quello della carità, invece, cresce
con il tempo... L'amore è forte come la morte e dura più dell'inferno, dice Salomone. Ecco, mia
buona Sorella (e consentitemi di chiamarvi con questo nome, che è quello con cui gli apostoli e i
primi cristiani esprimevano l'amore profondo che si portavano l'un l'altro) ecco il nostro legame,
ecco le nostre catene: quanto più si chiuderanno e stringeranno tanto più ci daranno gioia e libertà...
Non c'è nulla di altrettanto docile, niente di così saldo. Allora tenetemi legato ben strettamente a
voi, senza preoccuparvi di saperne di più, se non che questo legame non è in con trasto con nessun
altro legame, né di voto né di matrimonio...” (Lettera 223).
E più avanti aggiunge:
“... Non fili comunico mai senza di voi: son vo stro, insomma, tanto quanto potreste
desiderare...”.
Qualche mese più tardi ricordandole l'espres sione del suo primo biglietto così osserva:
“... Vi scrissi che Dio mi aveva dato a voi, non credendo si potesse aggiungere altro all'affetto
che provavo nel mio spirito... Adesso, però, mia cara Fi glia, s'è aggiunto qualcosa che non si può
nominare, fili sembra; ma il suo effetto, comunque, è una grande dolcezza interiore... Ogni affetto
ha una sua particolare diversità rispetto agli altri; quello che io vi porto ha una certa particolarità
che mi consola moltissimo... ” (Lettera 234).
L'ingresso della Chantal nella vita religiosa non cambia la sostanza di questa
corrispondenza elettiva, anche se ora prevale nell'indirizzo verso di lei il termine “ madre ”:
“Che Iddio sia sempre il nostro amore, mia dilet tissima Madre e vi colmi della sua santissima
consolazione... Io vi appartengo in lui, totalmente e as solutamente, come la vostra anima, come voi
stessa, perché così è piaciuto a lui” (Lettera 1244).
“ Madre mia, Dio ricolmi di benedizioni il vostro cuore, che io amo come il mio proprio cuore.
Sono senza fine vostro, in Colui che per la sua misericor dia sarà se gli piacerà - senza fine
interamente nostro” (Lettera 1837).
L'amicizia cristiana: un modulo
del passato o una possibilità del presente?
Nessuna di queste “ coppie amicali ” mette in forse, nell'incontro con l'altro, la radicalità
della sua scelta continente. Se mai coglie nell'altro l'incentivo, il modello, l'aiuto a
perseguire senza incertezze, senza tentennamenti il proprio impegno spirituale.
Per riandare alla suggestione del “ comune sacerdozio ”, potremmo osservare come
nell'esercitare il munus regale, profetico, sacerdotale, queste coppie sono emblematiche.
Ora Te unisce un disegno autorevole e fondativo, ora il carisma profetico e missionario, ora
quello più direttamente oblativo e sacerdotale. Né è sconvolgente che queste donne
affianchino tutte religiosi e presbiteri, anzi credo appaia senza ombra di dubbio come a
garantire l'affinità, la qualità dell'affinità sia proprio 1' incontrarli nella mede sima tensione
fondativa, missionaria, oblativa.
All'interno di queste coppie, della loro relazionalità i padri diventano figli e le madri
figlie, l'uno all'altra diventano fratello e sorella, ma soprattutto restano “ amici ” nel senso
forte che questa espressione ha nella comunità cristiana.
Ricordo, tra gli altri, come sia Agostino a svi luppare cristianamente quel modello
d'amicizia che già Cicerone declinava come omnium divinarum humanarumque rerum cum
benevolentia et ca rita te consentio (Laeiius VI,20). Scrive, infatti, alla nobile Proba:
“Se infatti la miseria opprime, se il lutto rattri sta, se l'esilio affligge, se qualche
eventuale disgrazia ci
tormenta, ma ci sono vicini degli uomini buoni, che sanno non soltanto gioire con chi
gioisce, ma anche piangere con chi piange e sono capaci di conforto e dialogo, moltissimo
quelle penose circostanze della vita sono mitigate, quei gravi pesi alleviati, le av versità
superate. Ma a compiere ciò in loro e per mezzo di loro, è colui che col suo spirito li rende
buoni” (Ep. CXXX, Il, 4).
La discriminante cristiana dell'amicizia, quella che transignifica l'umano convergere nei
valori, fossero pure quelli religiosi, è lo Spirito che effuso nei nostri cuori ci consente di
chiamare Dio con il nome di Padre.
Mi si obietterà: ecco che amicizia e sororita/fraternità coincidono. Certamente! L'amici zia di cui parliamo è fraterna e sororale, ma punta oltre la relazionalità funzionale, a una re lazionalità assolutamente e interamente radicata nella persona come interpellanza,
accoglienza, gratuità di risposta. E questo modello accogliente, dialogico, sempre e
comunque gratuito, iscritto nel disegno di Dio, ripropositivo a suo modo della dialogia
originaria e costitutiva della persona umana nel suo statuto “ ad immagi ne ” che l'amicizia
propone, anche nel suo modello ascetico, facendo di uomini e donne che hanno optato per
Dio compagni di vita, compagni nel ministero.
Non crediamo che questo modello appartenga solamente al passato. Le figure recenti che
abbiamo evocate stanno a dimostrarci la permanenza di un modello che pertanto non va
relegato a non meglio precisate cristianità utopiche. Di più gli uomini e le donne che
abbiamo elencati vivono in tutta fedeltà il loro tempo, si tratti del '900 come dell'età dei
Padri o del Medioevo. Vivono in una comunità ecclesiale iscritta nelle contraddizioni di
sempre, a cui cercano di ovviare riproponendo per esempio nell'utopia fondativa idealità
dismesse, o, altrimenti, assicurando il permanere di un modello ministeriale, anche al
femminile.
Donna e prete: un rapporto possibile
Sinceramente crediamo non si tratti di un modello da relegare al passato, ma di un
modello che conserva a tutt'oggi il suo valore ecclesiale.
Non si tratta di avallare un rapporto esclusivo escludente, ma d i flettere un rapporto che
nel suo tratto privilegiato è invece capace di poten ziare al meglio ogni sorta di inclusività.
Se vogliamo il nodo ultimo è proprio questo: l'amicizia, la corsia preferenziale, se
affianca la donna al prete, non ne limita la dis ponibilità agli altri, non ne incrina il modello
di essere umano a servizio totale degli altri?
È facile flettere al meglio l'amicizia quando una contestualità ecclesiale e culturale rende
oggettivamente distanti la donna e il prete. Ma nel nostro contesto di prossimità, di libertà
di relazione e d'incontro, questa stessa possibilità non finisce con il costituire un ostacolo,
sicché, estromesso il modello intransigente delle noz ze, ci ritroviamo ugualmente di fronte
a due soggetti, un uomo e una donna che chiedono innanzi tutto di realizzarsi nella
mutualità gratificante ed esclusiva del loro incontro?
Ovviamente non vogliamo negare che un certo pericolo ci sia. Ma, come prova lo stesso
modello della santità coniugale, la corsia preferenziale dell'intesa e del rapporto non sempre
costituisce per l'altro occasione di introversione e chiusura. L'esperienza vera dell'amore
cristiano sempre e comunque è un aprirsi agli altri, un potenziare l'accoglienza e l'incontro.
In ogni caso a una condizione crediamo possibile un'amicizia tra una donna e un prete: è
necessario, assolutamente necessario, che intercorra fra i due lo stesso impegno, la stessa
spiritualità ministeriale. Che le si conceda o le si neghi il ministero, una donna può essere
amica e compagna di un prete solo se ne condi vide la scelta ministeriale, se le assegna il
primato, se iscrive se stessa in questa oblatività, in questo orizzonte ecclesiale di servizio.
Non è amicizia, ovviamente, quella che distrae o distoglie. È allora che scattano i perversi
dinamismi che incentivano la crisi o semplicemente l'insofferenza, la scontentezza, il
dubbio. Ma là dove sia fondamentale e primaria la passione per la Chiesa, dove stia
assolutamente al centro la scelta del servizio, la donna amica, compagna e sorella, diventerà
addirittura la coscienza critica dell'amico, compagno, fratello. Lo resti tuirà giorno per
giorno all'assolutezza del suo essere per gli altri, senza remore, senza riserve. E lo farà
senza fatica perché si tratta di un impegno che è il suo impegno, di un ministero che è il suo
ministero, di una scelta che è la sua scelta.
Non pensiamo che tutto ciò accada sempre e comunque. Né dimentichiamo la fragilità
nostra di creature originariamente ferite proprio nelle dinamiche dell' alterità. Ma crediamo
ciò nonostante possibile un percorso ecclesiale che faccia spazio alla donna come donna. Al
di là del riconoscerla quale madre e quale sorella, nell'amicizia la donna è semplicemente e
gratuitamente il simile/dissimile che per grazia èdato d'incontrare, di riconoscere,
d'accogliere. La compiutezza di questo incontro indubbia mente genera con una qualità
nuova alla Chiesa, e soprattutto rende meglio visibile quel disegno comunionale che la
Chiesa stessa è chiamata a testimoniare come popolo di Dio, come corpo di Cristo e sua
sposa.
ORIZZONTI DELLA LETTERA
Di Piersandro Vanzan
Introduzione “ contestualizzante”
Viva era l'attesa per quanto Giovanni Paolo TI avrebbe trattato nella Lettera ai sacerdoti,
in occasione del Giovedì santo 1995, anche perché molteplici e contraddittori sono stati i
nodi venuti al pettine nell'ultimo anno: dall'ordina zione sacerdotale femminile nella Chiesa
anglicana (dato pure il calo numerico del suo clero maschile) al paral lelo calo dei presbiteri
cattolici nell'area nord-occidentale, mentre buono è stato l'incremento nelle giovani Chiese.
Qui però si registrano altre tensioni o difficoltà come, per esempio, le ipoteche
sociopolitiche e della iglesia popular nell'America Latina, un certo sincretismo religioso in
Asia, col rischio di attenuare lo slancio missionario, le varie que stioni rimaste insolute al
Sinodo per l'Africa: dall'inculturazione liturgica alla catechesi, sen za dimenticare celibato
ecclesiastico nel senso tradizionale, che negli Usa sta diventando invece una sofisticata “
terza via ”, ibrida tra continenza matrimoniale e verginità consacrata.
In tutte le aree poi si ritrova la questione del non facile rapporto tra le varie componenti
intraecclesiali (preti, laici e religiosi), che viaggia in parallelo al corretto rapporto tra il
sacerdozio universale dei battezzati e quello ministeriale dei preti. Senza mortificare l'uno o
l'altro, urge precisare tanto il coinvolgimento laicale nel mi nistero dei presbiteri, quanto il
servizio tipico di questi ultimi alla migliore esplicitazione del ruolo sacerdotale, profetico e
regale dei primi.
L'esegesi corretta della Lumen gentium (n. 10), infatti, riconosce al sacerdozio
ministeriale una differenza essenziale nella fun zione, ma non un gradino più alto nell'essere
Chiesa: pena considerare i due sacerdozi in termini di subordinazione, anziché di mutue
relazioni, e l'ordinazione un sacramento che farebbe del prete non un servus servorum Dei,
ma un supercristiano. 2 Non a caso Giovanni Paolo Il, nella Pastores dabo vobis (Pdv,
1992), afferma che i preti stanno “ davanti ” e non “ sopra ” la Chiesa (n. 16), mentre gran
parte del capitolo Il (nn. 13-18) insiste sul loro essere “a servizio”, dato che, per
l'ordinazione, “ sono e agiscono in persona Christi Capitis ”, ossia del Servo di Jhwh, che “
li pone nella Chiesa quali servi autorevoli dell'annuncio del Vangelo a ogni crea tura e di
servi della pienezza della vita cristiana di tutti i battezzati ”. Tale configurazione n el
servizio, poi, che regola tutta l'articolazione pastorale del sacerdozio ministeriale, evidenzia
che questo è nell'ordine dei mezzi, mentre quello universale pertiene all'’ordine dei fini 3
E nell'aprile 1994 Giovanni Paolo Il, interve nendo al simposio promosso dalla Congrega zione per il clero sulla collaborazione dei fedeli laici al ministero tipico dei presbiteri, non
solo ha ribadito che la funzione dei preti non è so stituibile da altre componenti ecclesiali,
ma anche che i servizi e ministeri dei fedeli laici preziosi ai fini del coinvolgimento in
solido (viribus unitis) per realizzare una migliore comunione ad intra e una più efficace
sortita missionaria ad extra - non sono mai “ alternativi ”. Nemmeno quando
opportunamente suppliscono azioni presbiterali - dove manca il sacerdote e con le
autorizzazioni (e dentro i limiti) che la Gerarchia prevede - o vi si integrano per rendere un
miglior servizio alla comunità. Per esempio, nel preparare insieme al sacerdote l'omelia,
eccetera.
Detto altrimenti, pure nella dialettica sacerdoti-laici (uomini e donne) bisogna puntare
sull'uguaglianza differenziata - perché siamo tutti filii in Filio, anche se ognuno ha ruoli e
servizi diversi (ma interagenti, a bene della Chiesa tutta) -' così da evitare tanto la clericalizzazione dei fedeli laici, magari per supplire la carenza di presbiteri, quanto la
secolarizzazione dei preti, magari con l'intenzione di eliminare le differenze (che invece
restano: ma a livello di servizio, come detto); o, peggio, con l'intento di renderli più
conformi ai gusti del nostro tempo (malintesa inculturazione).
In tali complessi scenari, poi, grande impor tanza e risonanze ben promettenti va
acquistando nella Chiesa - soprattutto dopo quanto il papa ha scritto nell'ormai famoso “
trittico”: Redemptoris Mater (RM, 25 marzo 1987) Mulieris dignitatem (MD, 15 agosto
1988) e Christifideles laici (ChL, 30 dicembre 1988) - la “ questione donna ” rivisitata in
chiave di “ ontoteologia della reciprocità”. Una prospettiva, quest'ultima, che tanto si rivela
efficace nell'indagare la dignità femminile in sé (laperseitas tipica della “ persona”, come
vedremo), altrettanto è importante nel valorizzare l'agire femminile sia nella Chiesa (in
bonum Ecclesiae) che nella società (pro mundi vita).
Una valorizzazione di quello che Giovanni Paolo Il definisce “ il genio ” anche operativo
femminile. Ma - ecco la novità! - non a se stante, bensì visto nella reciprocità: con e
insieme all'uomo. Ossia superando precedenti, da nnose contrapposizioni. Nella felice
prospettiva appunto dell'antropologia unoduale che, sulla base della rivelazione genesiaca,
trova poi la sua più completa icona o “ metafora viva ” (P. Ricoeur) nel mistero ineffabile
della Tri-Unità divina.
Sono gli orizzonti che Giovanni Paolo Il ha lasciato filtrare nella Mulieris dignitatem - e
che il più avvertito neo-femminismo della reciprocità ha ben apprezzato 4 , proprio
rivisitando le indicazioni biblico-teologiche sull'uguaglianza differenziata: con
1'adam-ish-ishah, di Genesi 1 e 2, e la Tre-Unità del Nuovo Testamento che rivelano la pari
dignità ma insieme l'altrettanto chiara differenza fra le persone -' che, in humanis, è legata
alla sessualità. Cosicché la maschilità e la femminilità non sono intercambiabili, con buona
pace delle teorie sull'androgino 5
Unidualità e persona: orizzonte della Lettera ai sacerdoti
Questa lunga introduzione è sembrata opportuna per “ contestualizzare ” adeguatamente
quanto Giovanni Paolo Il ha scritto ai preti di tutto l'orbe cattolico il Giovedì santo 1995.
Una Lettera-meditazione che, quest'anno, ha colpito un po' tutti - anche i laici per la tematica scelta; “ L'importanza della donna nella vita del s acerdote ”. E benché, come dice il
papa stesso al n. 2, l'argomento abbia presente “ la Conferenza internazionale convocata
dall'Onu a Pechino (settembre 1995)” - a conclusione del “ decennio delle donne ”,
inaugurato dalla precedente Conferenza mondial e di Nairobi (1985)-, tuttavia questa Lettera
è originale per il taglio o modo nuovo usato nell'affron tare il tema “ donna e sacerdote”.
Non limitandosi, cioè, al tradizionale problema del “ celi bato ecclesiastico ”, bensì
inquadrandolo nella suaccennata “ questione femminile ” e, ultimamente, nell'ottica della
reciprocità. È quanto risulta dallo stesso n. 2, contenente l'invito a rimeditare la Mulieris
dignitatem. Solo così la meditazione del papa glissa le secche del mo ralismo tradizionale e
apre, pure in questo delicato argomento, sentieri nuovi o interrotti da tempo.
Perciò, una corretta riflessione su questa Lettera del papa suppone, innanzi tutto, d'aver
ben presente T'unodua/ità antropologica genesiaca - che nell' adam-ish-ishah rivela
l'uguaglianza differenziata, ossia la pari dignità di Ciascuno (in quanto persona), e la mutua
reciprocità (in quanto maschio e femmina). Su ciò Giovanni Paolo Il insiste ripetutamente.
Facciamone brevemente memoria, sintetizzando i capitoli III e IV della Mulieris dignitatem, dov'è analizzato “ il principio ” genesiaco, fondante ogni riflessione sull'uomo e la
donna nella relazione che li rimanda l'uno all'altra e, insieme, al Creatore. “ Persona ” è il
termine più appropriato che la teologia ha reperito per e sprimere questo mistero dell'essere
umano, non solo irripetibile, dato il suo essere “ in -e-per-sé” (la perseitas cara agli
scolastici), ma insieme fatto per essere “ con-e-pro ” gli altri, dato che l'io personale è tale
solo nella comunione-con e donandosi-al tu. Il rimando al Creatore, poi, evidenzia la
necessaria interpretazione analogica della persona. Si pensi alla categoria del prosopon,
ossia “ immagine di ”, che non può trovare il fine in se stessa, né in un'altra, né tanto meno
nelle cose create, ma si caratterizza per quel dialogo che, anche solo implicitamen te, la
persona è chiamata a instaurare col suo Creatore. Egli solo, infatti, è l'ultimo, pieno e
definitivo (trascendente ma anche escatologi co) “ tu ” d'ogni “io ” personale, secondo la dinamica che Agostino ben ha espresso nell'in quietum cor.
Ma il dinamismo personalistico - abbozzato nella Bibbia e sviluppato dalla teologia non finisce qui.
Resta infatti da sondare questa ulteriore profondità del mistero umano (non a caso irnago
Dei): “ l'altro ” - sia la donna per l'uomo, sia l'uomo per la donna - benché “ carne dalla
stessa carne ”, non può essere l'altra metà della mela, senza cui la prima resterebbe monca:
se così fosse, la “ persona ” non sarebbe in-et-perseitas. Ancor peggio, l'altro sarebbe il “
mezzo ” per realizzare la propria completezza. E tuttavia, benché ogni persona sia una
totalità - e perciò, in quanto assoluta in sé, “ fine ” e non “ mezzo ” -' l'io si pone di fronte
al tu come alterità gratuita (dono), ma non superflua. In Genesi 2,20 si esprime tutto ciò
mediante un intraducibile ezer kenegdo (= l'altro-di-fronte, non riducibile al francese
vis-à-vis).
Il “faccia a faccia” dell'ebraico pnim elpnim (Es 33,11) o “ persona a persona ” del gre co
prosopon pros prosopon (iCor 13;12) è una riduplicazione tipicamente biblica per esprime re il massimo o supremo nella comparazione che, in questo caso, sta nell'immediatezza di
due misteri “speculari ” (due totalità che si fronteggiano) e che tuttavia si aprono recipro camente nel dono ineffabile (appunto perché totalizzante due totalità). Un dono quindi che,
in quanto posto al di là degli occhi con cui vedo e che mi vedono nella vicinanza, rivela
l'ambito trascendente del “ cuore ” biblico o pascalianamente “ metafisico ”: quello cioè
che va ben oltre le ragioni della “ ragione ”.
In breve, un tu certamente donato (e perciò gratuito), ma insieme necessario, visto che
senza di lui non esploderebbe l'autoriconoscimen to dell'io. Alla presenza del tu, invece,
ecco risvegliarsi l'io, che ne gioisce perché attinge sia l'esperienza fondamentale della
comune-unione, nella relazione io-tu come dono reciproco, sia il fondamento e visibilità
della stessa esperienza di Dio. Infine, queste profondità e valen ze genesiache raggiungono
una conferma inaudita proprio nella correlazione, rivelata nella pienezza dei tempi, di un
Dio come Trinità di persone: totali in sé, eppure in reciproca, totale comune -unione di
carità fra loro ~erikoresis interpersonale). Sappiamo bene, infatti, che questo rivelarsi
dell'intima vita Dei (= mistero trinitario ad intra) non è fine a se stesso - quasi un teorema
da studiare in astratto -' bensì ha un preciso risvolto “economico ” (= mistero trinitario “per
noi ”). Ossia questo mistero ci è stato rivelato per farci intendere che l'antropologia, proprio
trattando dell'imago Dei, o ha una base e infrastruttura trinitaria o non è in grado di fondare
e reggere la corretta reciprocità delle persone. Sono quindi decisivi i risvol ti trinitari,
proprio ai fini della “ economia della salvezza ”, illuminando e portando a compi mento
quanto rivelato “ in principio ” sul rapporto uomo-donna, come integralmente partecipi
l'uno dell'altra, e che ora viene proiettato nell'ineffabile orizzonte della relaziona lità a
uguaglianza differenziata esistente fra le Persone divine.
Giovanni Paolo Il, con i suoi numerosi interventi sull'amore umano, sulla teologia del
corpo e in particolare sulla donna (ma sempre vista “reciproca” all'uomo, e viceversa), ha
ormai contraddistinto il suo pontificato anche - non certo solamente - per illuminare
appieno le varie armoniche della persona: sia nell'in principio fondante (= come imago
Dei), sia nella pienezza della rivelazione nel Figlio (= come filii in Filio e, quindi, partecipi
della stessa vita intratrinitaria). E proprio avendo di mira i risvolti analogici con la Trinità
interpersonale, egli definisce la persona come un “ tendere alla realizzazione di sé, che non
può compiersi se non mediante un dono sincero di sé all'altro da sé” (Muiieris dignitatem
7).
E ben sapendo che l'atto genesiaco è il primo tempo dell'historia salutis, mirata a
compiersi nella ricapitolazione trinitaria, il papa evoca questa analogia ultima e definitiva
ricordando che “ l'uomo è chiamato a esistere per gli altri, a diventare un dono”, proprio in
analogia con il dono reciproco e interpersonale della Trinità. È significativo perciò che,
nella tradizione cristiana, quanto più fu valorizzata la cosiddetta “ antropologia trinitaria ” rispetto al monoteismo rigido -, tanto più furono valorizzate le differenze, non
considerandole abissali o inesorabilmente conflittuali, bensì relazionali e mettendo nel
circuito io-tu-noi le valenze della migliore reciprocità 6.
Perciò, nel tentare di approfondire l'inesauribile ricchezza del rapporto uomo-donna, non
è possibile scindere il piano antropologico da quello teologico, quasi si potesse attribuire al
primo la pluralità e al secondo l'unità indivisi bile. Se così fosse, la molteplicità sarebbe
tollerata come imperfezione della realtà creata e, d'altra parte, il coronamento perfettivo
ultimo, quello trinitario, resterebbe non fondato antro pologicamente. Oltre a tradire la
continuità, da sempre ribadita nella teologia cristiana - “ la Grazia suppone la natura e la
perfeziona ”, poiché il Logos redentore, manifestatosi nella pienezza dei tempi, non è altro
da quello creatore degli inizi; l'uomo imago Dei ha in sé quella potentia oboedientialis che
sarà realizzata appieno nella pienezza dei tempi -, l'accennata scissione porterebbe a
ritenere la donna non l'ezer kenegdo genesiaco, ma la controfigura, eco o brutta copia
dell'uomo. Perché la differenza sarebbe un “differire ” dalla sintesi unoduale-neutro che, in
tale prospettiva, sarebbe l'adam.
In breve, l'alterità della donna verrebbe a delinearsi in negativo, tutta ritagliata a misura
dell' uomo, che la definisce specularmente in rapporto a sé: Eva “ in funzione ” di Adamo e non il suo ezer kenegdo -' come appunto pensava Rousseau, descrivendo Sofia in funzione
di Emilio 7 . Pertanto, questa unidualità antropologica è in grado di fondare non solo la
migliore risposta alle provocazioni sia del veteromaschi lismo sia del femminismo uguale e
contrario, ma anche di sostenere inediti progressi dell' ac cennata uguaglianza differenziata,
proprio nell'orizzonte della Trinità (= un solo Dio, ma in tre Persone: uguali e distinte), e
altrettanto interessanti ricadute di questa prospettiva nell'ecclesiologia “ globale o inclusiva
”: quella della reciprocità elenco-maschile e laico-femminile, per realizzare tutt‘insieme “
la perfezione globale del corpo mistico ” (cfr. Ef 4,15 ss.). Tutti spunti che, ripetiamolo,
vanno tenuti presenti nella riflessione sulla Lettera del papa, che ora analizziamo per
partes.
Dall'icona mariana alla sororità cristiana
L'importanza della suaccennata antropologia unoduale 8 sta nel consentire un ricupero e
valorizzazione dell'autentico femminile, senza cadere negli eccessi di un certo femminismo
sessantottesco, che perseguiva l'emancipazione muliebre o mascolinizzando la donna - cioè
attestandola sui valori equivoci perseguiti oggi da certa moda maschile (autodeterminazione
come libertinaggio, fuga dalla responsabilità, eccetera), o contrapponendola all'uomo: ma
non per contrastarne le suddette mode devianti, bensì per un'autoaffermazione tipo single,
ossia rifiutando il maschio, come nel film La città delle donne di Fellini. Un ricupero e
valorizzazione del femminile che non ricade però nelle trappole romantiche e, tutto
sommato alienanti, della donna angelicata, dell'eterno femminino, dell'angelo del focolare,
eccetera. Bensì tiene conto della relazionalità io -tu (e in vista del noi), qual è stata
teorizzata, per esempio, nel personalismo comunitario di stampo mounie nano, caro al
neofemmnismo della reciprocità. Nella Lettera tutto ciò appare, seppur in fili grana, già al n.
2, dove significativamente il papa riconsegna la Mulieris dignitatem ai sacerdoti,
raccomandandola come “ oggetto di speciale meditazione”, e ricordandone l'iconica
fondazione mariana (cfr. Redemptoris Mater). Gli aspetti mariani, infatti, sono
fondamentali “per il pensare cristiano: innanzi tutto sul piano teologico, ma anche su quello
storico, antropologico e culturale. Nel cristianesimo, infatti ,
la figura della Madre di Dio rappresenta una grande fonte d'ispirazione, non soltanto per
la vita religiosa, ma anche per la cultura cristiana ”.
Rinviando a più avanti gli approfondimenti mariani, qui riprendiamo le considerazioni
antropologico-ecclesiali della Lettera.
Dato il contìnuum esistente tra l'atto creazionale e quello redentivo, l'archetipo unoduale
genesiaco, visto in principio, lo ritroviamo “ in fase di completamento ” nella pienezza dei
tempi della storia di salvezza: ossia nella Chiesa, dove il Lo gos redentore “ porta a
compimento” l'intenzionalità del Logos creatore (restaurandone il progetto in
sovrabbondanza (cfr. Gv 10,10 e Rm 5,20). La Chiesa però, merita ricordario, non è il
Regno o la pienezza escatologica del piano di Dio; ma senz'altro ne è l'avanguar dia, benché
nella difficoltà del cammino tra il “già” e il “ non ancora”, santa e peccatrice, semper
reformanda: anche per quanto riguarda certi gap a proposito della relazionalità
uomo-donna, carismi-ministeri, clero-laici, e via numerando, che ritroviamo lungo tutta la
storia di questa originale “ famiglia di Dio” che vive nel tempo e nello spazio dell'historia
salutis o, anche, nel “frattempo” che spazia dalla creazione all'escatologia. A questa familia
Dei, composta di uomini e donne secondo le molteplici relazionalità appena dette, il papa fa
cenno al n. 4, ricorrendo a un'interessante suggestione d'inconsueta ecc lesiologia
cristologico-mariana, dove si privilegia il rapporto Figlio-Madre e viceversa (echeggiando
Gv 19,21) come figura del rapporto intraecclesiale.
Il mistero eccelesiologico, infatti, “ scaturisce” - è il docet caro ai Padri della Chiesa e
fondante poi l'argomento di convenienza svi luppato dai teologi medievali - dal fatto che “
un Figlio tanto singolare non poteva essere che l'unico figlio della sua Vergine Madre. Ma
proprio tale unicità - continua Giovanni Paolo Il - si pone quale migliore garanzia di una
molteplicità spirituale. Cristo, vero uomo e insieme eterno unigenito Figlio del Padre,
conta, sul piano spirituale, un numero sterminato di fratel li e di sorelle. La famiglia di Dio,
infatti, comprende tutti gli uomini: non soltanto quanti me diante il battesimo diventano figli
di Dio, ma in un certo senso l'intera umanità, giacché Cristo ha redento tutti gli uomini e
tutte le donne, offrendo loro la possibilità di diventare figli e figlie adottivi dell'eterno
Padre. Tutti così diventiamo in Cristo, fratelli e sorelle”.
E poiché questa base fraterna-sororale è decisiva per l'articolarsi successivo della
Lettera, conviene scandagliare un po' il contenuto bibli co della parola/categoria adelphoi e
che, ovviamente, la mens pontificia suppone, ma che la brevità dello scritto non co nsente
d'esplicitare.
Del resto, come fu già notato a proposito del genere letterario e dello stile teo -poetico
usato nella Mulieris dignitatem, è tipicamente wojtylano procedere “ evocativamente ” ossia con “ toccata e fuga”, che “ dice e più allude ” -' dando più spazio alle “ ragioni del
cuore ” pascaliane che non alle “ idee chiare e distinte ” di un certo razionalismo ~. Il
vocabolo adel-phos -formato da delfus (= seno materno) e alfa copulativo - significa, alla
lettera, nato dai medesimo seno materno e sta quindi a indicare il “ fratello carnale ”
(rispettivamente, adel-phe è “ la sorella”).
Non è questa la sede per analizzare continuità e sviluppi del vocabolo nell'Antico e
Nuovo Testamento. Basterà ricordare che, a partire dal Concilio di Ger usalemme, anche i
credenti di origine pagana vengono inclusi sotto questo appellativo, dato che la fede nel
Risorto stabilisce fra i conrisorti - diventati suoi fratelli e sorelle (Rm 8,14; 2Cor 6,18; Gai
3,26)- rapporti talmente “ altri o nuovi ” per i quali non si trova vocabolo migliore di
10
adelphoi: per indicare cioè la “ fratellanza ” retta dall'agape .
È in questa prospettiva che Giovanni Paolo Il tratta del rapporto prete -donna (sorella):
cioè in una relazione di fraternità-sororità che, per quanto non inconsueta nella teologia e
spiritualità, non è certo frequente in documenti pontifici. Scrive dunque Giovanni Paolo 11:
“ Ecco emergere all'orizzonte della nostra riflessione sul rapporto tra il sacerdote e la
donna, accanto alla figura della madre [il tema mariano, su cui torneremo], quella della
sorella ”. Infatti, nell'orizzonte della redenzione - che si esprime in rapporti umani nuovi (il
“ già ” del “ non ancora ”del veniente regnum Dei) -, “ il sacerdote partecipa in modo
particolare alla relazione difraternità offerta da Cristo a tutti i redenti ”. Quindi, se
abbiamo capito bene, in questa relazione universale di fraternità, il rapporto prete-donna
(sorella) assurge, nella mens pontificia, a cifra di valore emblematico, rappresentando il “
già ” del “ non ancora ” o l'icona profetico-escatologica di quella perfezione ultima e piena
del Regno in cui, pur “ non sposando né maritando ” (Mt 22,30), l'amore regnerà sovrano,
perché Dio-Amore (tutt' altro) “ sarà tutto in tutti ” (I Cor 15,2 8), e tutti saremo “uno” in
Lui (Gv 17,21).
In tale orizzonte Giovanni Paolo Il evidenzia che la vocazione al celibato sacerdotale
implica ed esprime tanto la particolare relazionalità fra tello-sorella, emblematica del
veniente regnuìn Dei (dove l'agape transustanzia l'eros), quanto l'impegno sacerdotale nel
valorizzare - come vediamo nella sinergia tra Gesù e le donne che lo seguivano i doni e
carismi femminili in bonum Ecclesiae: ossia mettendoli nel circuito della globale
ministerialità sacerdotale, profetica e regale della comunità tutta. Ovviamente, una tale
valorizzazione postula, oltre la serenità delle mutue relazioni agapiche, pure una siner gia
ministeriale nuova, tra donna e prete, come vedremo più avanti.
Ma torniamo al n. 5, dove leggiamo che “ la sorella rappresenta una specifica
manifestazione della bellezza spirituale della donna” e, al tempo stesso, “ la rivelazione di
una sua intangibilità”. Non sfuggano le valenze insite nei termini qui usati (e che, perciò,
abbiamo sottolineato): “rivelazione” - per evocare il suaccennato continuum tra natura e
Grazia - e “ intangibilità” come propflum di quella rivelazione, che Giovanni Paolo Il
spiega in due modi. Anzitutto, come tutela dalle strumentalizzazio ni maschiliste, operate
dalla “civiltà contemporanea, satura di elementi di edonismo, pornografia, eccetera, che
umiliano la dignità della donna, trattandola come oggetto di godimento sessuale. Questi
aspetti dell'attuale civiltà non favoriscono certo né la fedeltà coniugale, né il celibat o per il
regno di Dio”.
E in questo orizzonte che il papa rivisita la questione sacerdote -donna (sorella), memore
di quanto aveva già scritto in Mulieris dignitatem 30 e ha ripreso nel Messaggio per la
giornata della pace 1995, dove, al n. 3, trattando dell'affidamento reciproco, afferma che “
fin dalle prime pagine della Bibbia (...] Dio ha voluto che tra l'uomo e la donna vigesse un
rapporto di profonda comunione, nella perfetta reciprocità di conoscenza e di dono”,
cosicché “ nella donna, l'uomo trova un'interlocutrice con cui dialogare sul piano della
totale parità”. E quanto poi fu “ compiuto in pienezza ” nella vicenda terrena di “ Gesù e i
suoi ”, mostrando come - seppur in tonalità e maniere diverse rispetto alla “
fenomenologia” della comunione sponsale - fosse possibile tuttavia realizzarne “ l'onto teologia” di fondo, e cioè, nella potenza dello Spirito, una comune -unione non meno vera e
forte. In entrambe le modalità, poi, si tratta di un affidamento reciproco talmente grande e
delicato - poiché ne va di mezzo la realizzazione della persona come imago Dei - che,
fondato su una esigente “ affidabilità”, implica quella “ re sponsabilità” che,
etimologicamente, significa “ abile-a-rispondere” (alla vocatio Dei) che, sola, rende la
persona quale Dio l'ha pensata e voluta (nel rispettivo stato di vita). Detto altri menti, il
progetto genesiaco - che Gesù non abolisce ma porta a compimento - richiede che l'uomo e
la donna si prendano cura l'uno dell'altra e, per quanto riguarda il nostro tema, non s olo
ricordare come Maria è affidata a Giuseppe, e viceversa, ma anche come Gesù si affida - in
tempi e modi diversi - a Maria, alle sorelle di Betania, eccetera.
Ma c'è poi un altro significato di “ intangibilità”, nella Lettera del papa: semanticamen te
piuttosto raro, ma ancor più ricco. Si tratta dell'intangibilità come gemma preziosa, ma an che nascosta, che va dissotterrata. Ciò suppone la valorizzazione del proprium femminile altrimenti “sepolto” -' che al n. 2 viene indicato come “genio femmin ile”: da trafficare
anche nella ministerialità intraecclesiale che, al n. 6, è detta “ missione profetica”.
Ministerialità e profezia che, stante l'accennata rifrazione ma schile e femminile dei tria
munera, chiaramente hanno tonalità proprie nella donna e , oltre a non essere
intercambiabili con gli equivalenti degli uomini, sarebbe urgente far interagire - con lo stile
delle mutue relazioni - nella Chiesa e per il bene di tutta la Chiesa: nell'orizzonte appunto
della cosiddetta ecclesiologia globale o inclusiva, accennata più sopra e che ora vorremmo
analizzare un po' da vicino, nell'ottica della mi nisterialità.
Donna e ministerialità, o i tria munera al femminile
Ricordato che il Vaticano Il “ ha colto pienamente la logica del Vangelo nei capitoli 2 e
3 della Lumen gentium, presentando la Chiesa prima come popolo di Dio e soltanto dopo
come struttura gerarchica”, il papa afferma che questo popolo è formato da uomini e donne
che “ partecipano - ciascuno nel modo che gli è proprio - alla missione profetica,
sacerdotale e regale di Cristo” (cfr. nn. 6 e 7). Sono i classici tria munera ai quali
partecipa - in Cristo sacerdote, profeta e re - ogni battezzato. Ma qui al papa interessa
considerare quali rifrazioni proprie hanno quei munera non solo “ al femminile”, ma anche
nella specifica “ reciprocità ministeriale” che, in bonum totius Ecclesiae, sarebbe
auspicabile intensificare tra donna e presbitero. E, dopo aver ricordato le molteplici donne
che Gesù ha coinvolto a diverso titolo nel suo ministero, cita il comando missionario (Mc
16,15) e osserva: “Predicare il Vangelo è adempiere alla missione profetica, la quale nel la
Chiesa ha forme diverse secondo il carisma donato a ciascuno (Ef 4,lls.)”. E, a proposito di
questa citazione, il papa osserva acutament e che, “ in quella circostanza, trattandosi degli
apostoli e della loro peculiare missione, è a degli uomini che tale compito viene affidato”.
Ma, prosegue con acribia, “ se leggiamo attentamente i racconti evangelici e specialmente
quello di Giovanni, non può non colpire il fatto che la missione profetica, considerata
secondo tutta la sua diversificata ampiezza, viene distribuita tra uomini e donne”. Quindi, “
anche le donne, accanto agli uomini, hanno parte nella missione profetica di Cristo”.
Certo, in una breve lettera Giovanni Paolo Il non poteva sviluppare tutta la gamma delle
possibilità legate a questo munus propheticum - dal primo al secondo annuncio (ker"gma e
catechesi: sia in famiglia che nelle parrocchie, sia nei gruppi o movimenti che in t utti gli
ambienti da raggiungere con la “ nuova evangelizzazio ne”), e fino alla crescente presenza
delle teologhe nelle stesse Facoltà e Istituti di Scienze Re ligiose. Ma quel che importa è
l'averne fatto cenno.
Né meno interessante troviamo lo spazio dedicato a una variante piuttosto medita del
munus regale: la presenza femminile nella coeducazione in genere e in quella sacerdotale in
specie. Infatti, ricordato che “ la comunità mista possiede una importanza enorme per la
formazione della personalità”, e che sia le vocazioni al matrimonio sia quelle al sacerdozio
non germinano, né crescono né maturano nel/'isolamento, Giovanni Paolo lI scrive che “per
vivere nel celibato in modo maturo e sereno, sembra particolarmente importante che il
sacerdote sviluppi profondamente in sé l'immagine della donna come sorella” (n. 4).
Ovviamente questa meta ideale sarà raggiunta progressivamente, durante tutta la
formazione, ma è una conditio sine qua non tanto per superare le difficoltà celibatarie - e
raggiungere quella maturità psicoaffettiva tipica degli adelphoi e indispensabile per vivere
serenamente l'offerta del cuore a Dio -' quanto “ per esercitare verso gli uomini e le donne a
cui è inviato quel ministero di autentica paternità spirituale, che gli procura figli e figlie
nel Signore (cfr. lTs 2,11; Gal 4,19)”.
Un cenno infine al munus sacerdotale, osservando come nella Lettera viene inquadrato
nella generale partecipazione di ogni battezzato “alla missione sacerdotale e regale. Il
sacerdozio universale dei fedeli e la dignità regale investono uomini e donne”, e il
sacerdozio ministeriale, come è detto nella Pastores dabo vobis (nn. 13-18), è in funzione
della piena realizzazione di queste dimensioni del popolo di Dio. A questo punto era
inevitabile che il papa affrontasse la questione del sacerdozio ministeriale “al quale, per
volontà di Cristo, sono ammessi soltanto gli uomini” (n. 7). Qui va ricordata un altra,
brevissima Lettera del papa, Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994. In tale Lettera
Giovanni Paolo Il ricordava che già Paolo VI, nel 1975, quando cominciò la querelle delle
ordinazioni femminili presso gli anglicani, invitava quei fratelli a riflettere sulle “ ragioni
fondamentali”, biblico-teologiche e non meramente socio-culturali, che motivano il “no”
cattolico e ortodosso. Fondamentalmente si tratta dell'esempio di Gesù, che venti secoli di
tradizione ininterrotta non autorizzano a cambiare. E Gesù, diceva già Paolo VI, scelse gli
apostoli soltanto tra gli uomini, pur avendo a l seguito molte donne la cui importanza è ben
documentata nei Vangeli - e pur riconoscendo la Chiesa tutta, Occidentale e Orientale, il
ruolo unico svolto da Maria nei confronti sia di Gesù, sia della Chiesa nascente. Da parte
sua Giovanni Paolo Il vi aggiungeva, nella Lettera del 1994, questo significativo brano
della Mulieris dignitatem (n. 26): “ Chiamando solo uomini come suoi apostoli, Cristo ha
agito in modo del tutto libero e sovrano ”, ossia non condizionato dalle ipoteche maschili
ste-patriarcali tipiche dell'epoca. Non a caso il seguito del testo reci ta: “ Ciò ha fatto con la
stessa libertà con cui, in tutto il suo comportamento, ha messo in rilievo la dignità e la
vocazione propria della donna, senza conformarsi al costume prevalente e alla tra dizione
sancita anche dalla legislazione del tempo”. Nessun antifemminismo, quindi, ma soltanto
fedeltà ai fatti e detti del Signore. E ciò diventa ancor più eloquente al n. 3 della Lettera
odierna in cui, spiazzando vari autori tradizionali, afferma (notando il giro della frase,
tipicamente wojtylano): “ Anche se nella liturgia del Giovedì santo non si parla di Maria la troviamo invece il Venerdì santo ai piedi della Croce con l'apostolo Giovanni - è difficile
non avvertirne la presenza nell'istituzione dell 'Eucaristia, anticipo della passione e morte
del Corpo di Cristo, ossia di quel Corpo che il Figlio di Dio aveva ricevuto dalla Vergine
Maria, al momento dell'Annunciazione”. Proprio contemplando l'intrecciarsi di questi “
misteri ” - al contempo simboli e metafore vive (Ricoeur) dell'indicibile -, Giovanni Paolo
Il vede delinearsi una analogia tra l'irripetibile rapporto dell'unico, sommo ed eterno
Sacerdote con la “Vergine e Madre, figlia del tuo Figlio” (Dan te), e i suggestivi rapporti dei
ministri ordinati con la non impropriamente detta “ Regina e Madre dei Sacerdoti” (Fulton
Sheen).
Perciò anche quest'anno, proprio ribadendo il suo no alle ordinazioni femminili,
Giovanni Paolo Il denuncia tuttavia la fallacia di quanti ritengono che quest a esclusione sia
una forma di discriminazione. Lo sarebbe - osserva acutamente - “ se il sacerdozio
gerarchico determinasse una posizione sociale di privilegio, caratterizzata dall'esercizio del
potere” (n. 7). Ma non è così: “ Chi lo interpretasse come dominio, sarebbe certamente
lontano dall'intenzione di Cristo, il Servo”. E invece corretto rivi stare e approfondire le
relazioni esistenti tra il Servo - e quanti sono chiamati a prolungarne, proprio con
l'ordinazione, questa configurazione - e la Serva (Maria e tutte le altre) nell'ottica della reciprocità che, tipica dell'ecclesiologia globale o inclusiva, Giovanni Paolo Il ha abbozzato
in Mulieris dignitatem 27, nota 55, dove fa interagire la dimensione
maschile-petrina-gerarchica con quella femminile-mariana-carismatica. Non sono certo
prospettive facili, né avvertite da molti nella Chiesa e, anche per questo, i ri chiami del papa
meritano grande attenzione. Tali prospettive infatti, con buona pace degli ul timi
lefebvriani, sono quelle verso cui tutti nella Chiesa - laici e preti, donne e uomini, viribus
unitis - dovranno muoversi in questo scorcio del millennio.
Così da realizzare tutt'assieme - proprio imitando gli archetipi materni e filiali, fraterni e
sororali della Rivelazione - la dialettica che il Vangelo mostra esserci tra Maria, la serva
per eccellenza, e Gesù, il servo di Jahwh (cfr. n. 8), su cui poi viene modellandosi ogni
servizio nella Chiesa (cfr. Gv 13,13 ss.). Non a caso Gio vanni Paolo Il prosegue
analizzando questa dimensione del servizio femminile, che - similmente a quanto fecero le
donne per Gesù e nella Chiesa delle origini - è diverso ma non inferiore a quello maschile.
E ribadisce che tale servizio - in reciprocità con quello maschile -“ non è posto sopra ma
davanti e per la Chiesa”: così da completare assieme, proprio interagendo nelle mutuae
relationes, quella diaconia caritatis che nella “ tradizione (e traduzione, anche operativa)
femminile-mariana” ha senza meno un accento e valore tutto proprio. Nella linea , per
esempio, dell'intuizione di Teresa di Lisieux - non a caso legata da un'Amicizia spirituale
tutt'altra col missionario di prima linea -, e che il papa ha richiamato nel suo discorso
all'Unione Internazionale delle Superiori generali ~. Il genio religioso della piccola Teresa che ha portato una ventata di rinnovamento spirituale nella tarda modernità -' le fece
riscoprire il tesoro nascosto da sempre: che è per tutta l'umanità ma che, significativamente,
fu una piccola-grande donna a trovare e offrire a tutti: “ Compresi che l'Amore racchiudeva
tutte le vocazioni, che l'Amore era tutto, che abbracciava tutti i tempi e tutti i luoghi ”.
Decise perciò di essere questa testimonianza, profezia e ministerialità complessiva nella
Chiesa, ossia la reciprocità contemplativa dell'attività missionaria.
Sono questi gli orizzonti ecclesiologici globali che Giovanni Paolo Il indica a tutti (laici
e preti, donne e uomini), ma che nella Lettera del Giovedì santo ha messo a fuoco per
quanto concerne la reciprocità tutt'altra da instaurare tra donna e presbitero, alle soglie del
terzo millennio. Una reciprocità ovviamente tutta da “ inventare” (etimologicamente),
anche se - come intravisto - molte sono le piste di ricerca indi cate dal papa. Ma tutte legate
alla riscoperta del “ genio ” femminile: tanto nella società, quanto nella Chiesa. Perché,
secondo il papa, questa è la grande sfida del prossimo futuro: mantenere fermo, e anzi
potenziare, l'importante ruolo della donna nella famiglia, ma senza contrarre quello
faticosamente acquisito nella società (dove il suoi apporti risultano decisivi nel con trastare
il nichilismo maschilista). Mantenere ferme, e anzi potenziare, le odierne e molteplici
presenze femminili nella Chiesa, ma cercando di proseguire nell'allargare quei “ sentieri
interrotti” che Giovanni Paolo Il, non da oggi' 12 , apre e indica alla Chiesa: perché sa bene
che dev'essere pro mandi vita.
LETTERA AI SACERDOTI
(GIOVEDÌ SANTO 1995)
Giovanni Paolo Il
(testo integrale)
1. “ Onore a Maria, onore e gloria, onore alla Santa Vergine! (...) Colui che creò il
mondo meraviglioso in Lei onorava la propria Madre (...). L'amava come Ma dre, visse
nell'obbedienza. Benché fosse Dio, rispettava ogni sua parola”.
Cari Fratelli nel sacerdozio!
Non vi stupite se inizio questa Lettera, che tradizio nalmente vi rivolgo in occasione del
Giovedì Santo, con le parole di un canto mariano polacco. Lo faccio perché quest'anno
desidero parlarvi dell'importanza della donna nella vita del sacerdote, e questi versi, che
cantavo sin da bambino, possono costituire una significativa introdu zione a tale tematica.
Il canto evoca l'amore di Cristo per sua Madre. Il pri mo e fondamentale rapporto che
l'essere umano stabilisce con la donna è proprio quello da figlio a madre. Ciascuno di noi
può esprimere il suo amore alla madre terrena come il Figlio di Dio ha fatto e fa con la sua.
La madre è la donna alla quale dobbiamo la vita. Ci ha concepito nel suo grembo, ci ha
dato alla luce tra le doglie che accompagnano l'esperienza di ogni donna che partorisce.
Mediante la generazione viene ad instaurarsi uno speciale vincolo, quasi sacro, tra l'essere
umano e sua madre.
Dopo averci generato alla vita terrena, furono ancora i nostri genitori a farci diventare in
Cristo, grazie al sacramento de/Battesimo, figli adottivi di Dio. Tutto ciò ha reso ancor più
profondo il legame esistente tra noi e i genitori, in particolare tra noi e le nostre madri. Il
prototipo qui è Cristo stesso, Cristo-Sacerdote, che si rivolge così all'eterno Padre: “Tu non
hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né
olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto:
Ecco, io vengo ~...) per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,5 -7). Queste parole implicano
in qualche modo anche la Madre, avendo l'eterno Padre formato il corpo di Cristo per opera
dello Spirito Santo, nel seno della Vergine Maria, anche grazie al suo consenso: “Avvenga
di me quello che hai detto ” (Lc 1,38).
Quanti di noi debbono alla propria madre anche la stessa vocazione al sacerdozio!
L'esperienza insegna che molto spesso è la mamma a coltivare per lunghi anni nel proprio
cuore il desiderio della vocazione sacerdotale del figlio e ad ottenerla pregando con
insistente fiducia e profonda umiltà. Così, senza imporre la propria volontà, ella favorisce,
con l'efficacia tipica della fede, lo sbocciare dell'aspirazione al sacerdozio nell'anima del
figlio, aspirazione che porterà frutto al momento opportuno.
2. Desidero riflettere in questa Lettera sul rapporto tra il sacerdote e la donna, traendo
spunto dal fatto che il tema della donna richiama quest'anno un 'attenzione spe ciale,
analogamente a quanto è stato lo scorso anno per il tema della famiglia. Alla donna, infatti,
sarà dedicata l'importante Conferenza internazionale convocata dall'Organizzazione delle
Nazioni Unite a Pechino per il prossimo settembre. E un tema nuovo rispetto a quello
dell'anno scorso, ma con esso strettamente collegato.
Alla presente Lettera, cari Fratelli nel sacerdozio, desidero unire un altro documento.
Come l'anno passato ho accompagnato il Messaggio del Giovedì Santo con la Lettera alle
Famiglie, così ora vorrei riconsegnarvi la Lettera apostolica Mulieris dignitatem, del 15
agosto 1988. Come ricorderete, si tratta di un testo elaborato al termine dell'Anno Mariano
del 1987-1988, durante il quale avevo pubblicato l'Enciclica Redemptoris Mater (25 marzo
1987). È mio vivo desiderio che nel corso di questo anno si rilegga la Mulieris dignitatem,
facendola oggetto di speciale meditazione e considerandone in mo do particolare gli aspetti
mariani.
Il legame con la Madre di Dio è fondamentale per il “pensare” cristiano. Lo è innanzi
tutto sul piano teologico, per lo specialissimo rapporto di Maria con il Ver bo Incarnato e la
Chiesa, suo mistico Corpo. Ma lo è anche sul piano storico, antropologico e culturale. Nel
cristianesimo, in effetti, la figura della Madre di Dio rappre senta una grande fonte di
ispirazione non soltanto per la vita religiosa, ma anche per la cultura cristiana e per lo
stesso amor di patria. Esistono prove di ciò nel patrimo nio storico di molte nazioni. In
Polonia, per esempio, il più antico monumento letterario è il canto Bogurodzica (Genitrice
di Dio), che ha ispirato i nostri avi non solo nel plasmare la vita della nazione, ma perfino
nel difendere la giusta causa sul campo di battaglia. La Madre del Fi glio di Dio è diventata
la “grande ispirazione” per singoli individui e per intere nazioni cristiane. Anche que sto, a
suo modo, dice moltissimo a proposito dell'importanza della donna nella vita dell'uomo e, a
titolo speciale, nell'esistenza del sacerdote.
Ilo avuto già occasione di trattare tale argomento nell'Enciclica Redemptoris Mater e
nella Lettera apostolica Mulieris dignitatem, rendendo omaggio a quelle donne - madri,
spose, figlie o sorelle - che per i relativi figli, mariti, genitori e fratelli sono state
un'efficace ispirazione al bene. Non senza motivo si parla di “genio femminile”, e quanto
ho scritto finora conferma la fondatezza di tale espressione. Tuttavia, trattandosi della vi ta
sacerdotale, la presenza della donna riveste un caratte re peculiare ed esige un'analisi
specifica.
3. Ma torniamo, intanto, al Giovedì Santo, giorno nel quale acquistano speciale riliev o
le parole dell'inno liturgico:
Ave verum Corpus natum de Maria Virgine:
Vere passum, immolatum in cruce pro homine.
Cuius latus perforatumflutit aqua et san guine:
Esto nobis praegustatum mortis in examine.
O Iesu dulcis! O Iesu pie! O Jesu, fili Mariae!
Pur non appartenendo, tali parole, alla liturgia del Gio vedì Santo, sono ad essa
profondamente collegate.
Con l'Ultima Cena, durante la quale Cristo istituì sacramenti del Sacrificio e del
Sacerdozio della Nuova Alleanza, ha inizio il Triduum paschale. Al suo centro si trova il
Corpo di Cristo. È proprio questo Corpo che, prima di essere esposto alla passione e alla
morte, durante l'Ultima Cena è offerto come cibo nell'istituzione eucaristica. Cristo prende
nelle sue mani il pane, lo spezza e lo distribuisce agli Apostoli, pronunciando le parole:
“Prendete e mangiate: questo è il mio Corpo” (Mt 26,26). Istituisce così il sacramento del
suo Corpo, di quel Corpo, che, quale Figlio di Dio, aveva assunto dalla Genitrice, la
Vergine Immacolata. Successivamente presenta agli Apostoli nel calice il proprio Sangue
sotto la specie del vino, dicendo: “Bevetene tutti, perché questo è il mio Sangue
dell'alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Mt 26,27 -28). E qui ancora si
tratta del Sangue, che animava il Corpo ricevuto dalla Vergine Madre: Sangue che doveva
essere sparso, adempiendo il mistero della Redenzione, perché il Corpo ricevuto dalla
Madre, potesse - come Corpus immolatum in cruce pro homine - diventare per noi e per
tutti sacramento di vita eterna, viatico per l'eternità. Perciò nell'Ave verum, inno eucaristico
e insieme mariano, noi chiediamo: Esto nobis praegustatum mortis in examine.
Anche se nella liturgia del Giovedì Santo non si parla di Maria - la troviamo invece il
Venerdì Santo ai piedi della Croce con l'apostolo Giovanni - è difficile non avvertirne la
presenza nell'istituzione dell'Eucaristia, anticipo della passione e morte del Corpo di
Cristo, di quel Corpo che il Figlio di Dio aveva ricevuto dalla Vergine Madre, al momento
dell'Annunciazione.
Per noi, in quanto sacerdoti, l'Ultima Cena è momen to particolarmente santo. Cristo, che
dice agli Apostoli: “Fate questo in memoria di me” (lCor 11,24), istitui sce il sacramento
dell'Ordine. Rispetto alla nostra vita di presbiteri, questo è un momento spiccatamente
cristocentrico: riceviamo infatti il sacerdozio da Cristo -Sacerdote, l'unico Sacerdote della
Nuova Alleanza. Ma pensando al sacrificio del Corpo e del Sangue, che in persona Christi
viene da noi offerto, ci è difficile non ravvisare in esso la presenza de/la Madre. Maria ha
dato la vita al Figlio di Dio, così come han fatto per noi le nostre ma dri, perché Egli si
offrisse e anche noi ci offrissimo in sacrificio insieme con Lui mediante il ministero
sacerdotale. Dietro tale missione c’è la vocazione ricevuta da Dio, ma si nasconde anche il
grande amore delle nostre madri, così come dietro al sacrificio di Cristo nel Cenacolo si ce lava l'ineffabile amore di sua Madre. Oh, quanto rea/ mente e al tempo stesso discretamente
è presente la maternità e, grazie ad essa, la femminilità nel sacramento dell'Ordine, di cui
rinnoviamo la festa ogni anno, il Giovedì Santo!
4. Cristo Gesù è l'unico figlio di Maria Santissima. Comprendiamo bene il significato
di questo mistero: così era conveniente che fosse, giacché un Figlio tanto sin golare per la
sua divinità non poteva essere che l'unico figlio della sua Vergine Madre. Ma proprio tale
unicità si pone, in qualche modo, quale migliore “ garanzia ” di una “ molte plicità ”
spirituale. Cristo, vero uomo e insieme eterno ed unigenito Figlio del Padre celeste, conta,
sul piano spirituale, un numero sterminato di fratelli e di sorelle. La famiglia di Dio infatti
comprende tutti gli uomini: non soltanto quanti mediante il Battesimo diventano figli
adottivi di Dio, ma in certo senso l'intera uma nità, giacché Cristo ha redento tutti gli uomini
e tutte le donne, offrendo loro la possibilità di diventare figli e fi glie adottivi dell'eterno
Padre. Tutti, così, diventiamo in Cristo fratelli e sorelle.
Ed ecco emergere all'orizzonte della nostra riflessione sul rapporto tra il sacerdote e la
donna, accanto alla figura della madre, quella della sorella. Grazie alla Redenzione, il
sacerdote partecipa in un modo particolare alla relazione di fraternità offerta da Cristo a
tutti i redenti.
Molti tra noi sacerdoti hanno in famiglia delle sorelle. In ogni caso, ciascun sacerdote
sin da bambino ha avuto modo di incontrarsi con ragazze, se non nella propria fa miglia,
almeno nell'ambito del vicinato, nei giochi d'infanzia e a scuola. Un tipo di comunità mista
possiede un 'importanza enorme per la formazione della personalità dei ragazzi e delle
ragazze.
Tocchiamo qui il disegno originario del Creatore, il quale in principio creò l'uomo
“maschio e femmina” (cfr. Gen 1,27). Tale divino atto creativo prosegue attra verso le
generazioni. Il libro della Genesi ne parla nel contesto della vocazione al matrimonio: “Per
questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua mogl ie ” (2,24). La
vocazione al matrimonio ovviamente suppone ed esige che l'ambiente in cui si vive ri sulti
composto di uomini e di donne.
In tale contesto nascono però non soltanto le vocazio ni al matrimonio, ma anche quelle
al sacerdozio e alla vita consacrata. Esse non si formano nell'isolamento. Ogni candidato
al sacerdozio, nel varcare la soglia del seminario, ha alle spalle l'esperienza della propria
famiglia e della scuola, dove ha avuto modo di incontrare molti coetanei e coetanee. Per
vivere nel celibato in modo maturo e sereno, sembra essere particolarmente importante che
il sacerdote sviluppi profondamente in sé l'immagine della donna come sorella. In Cristo,
uomini e donne sono fratelli e sorelle indipendentemente dai legami di pa rentela. Si tratta
di un legame universale, grazie al quale il sacerdote può aprirsi ad ogni ambiente nuovo,
perfino il più distante sotto l'aspetto etnico o culturale, con la consapevolezza di dover
esercitare verso gli uomini e le donne a cui è inviato un minister o di autentica paternità
spirituale, che gli procura “figli” e “figlie” nel Signore (cfr. lTs 2,11; GaI 4,19).
5. Senza dubbio “la sorella” rappresenta una specifica manifestazione della bellezza
spirituale della donna; ma essa è, al tempo stesso, rivelazione di una sua “intangibilità”. Se
il sacerdote, con l'aiuto della grazia divina e sot to la speciale protezione di Maria Vergine e
Madre, matura in questo senso il suo atteggiamento verso la donna, vedrà il suo ministero
accompagnato da un sentimento di grande fiducia proprio da parte delle donne, guardate da
lui, nelle diverse età e situazioni di vita, come sorelle e madri. La figura della donna -sorella
riveste notevole importanza nella nostra civiltà cristiana, dove innumerevoli
donne sono diventate sorelle in modo universale, grazie al tipico atteggiamento da esse
assunto verso il prossimo, specialmente verso quello più bisognoso. Una “ sorella ” è
garanzia di gratuità: nella scuola, nell'ospedale, nel carcere e in altri settori dei servizi
sociali. Quando una donna rimane nubile, nel suo “donarsi come sorella” mediante
l'impegno apostolico o la generosa dedizione al prossimo, sviluppa una peculiare maternità
spirituale. Questo dono disinteressato di “fraterna” femminilità ir radia di luce l'umana
esistenza, suscita i migliori sentimenti di cui l'uomo è capace e lascia sempre dono di sé
una traccia di riconoscenza per il bene gratuitamente of ferto.
Così, dunque, quelle di madre e di sorella sono le due fondamentali dimensioni del
rapporto tra donna e sacerdote. Se questo rapporto è elaborato in modo sereno e maturo, la
donna non troverà particolari difficoltà nei suoi contatti con il sacerdote.
Non ne troverà, ad esempio, nel confessare le proprie colpe nel sacramento della
Penitenza. Tanto meno ne incontrerà nell'intraprendere attività apostoliche di vario tipo con
i sacerdoti. Ogni prete ha dunque la grande responsabilità di sviluppare in sé un autentico
atteggiamento di fratello nei riguardi della donna, un atteggia mento che non ammette
ambiguità. In questa prospettiva, al discepolo Timoteo l'Apostolo raccomanda di trattare “le
donne anziane come madri e le più giovani come so relle in tutta purezza” (lTm 5,2).
Quando Cristo affermò - come scrive l'evangelista Matteo - che l'uomo può rimanere
celibe per il Regno di Dio, gli Apostoli rimasero perplessi (cfr. 19,10-12). Poco prima egli
aveva dichiarato indissolubile il matrimonio, e già questa verità aveva suscitato in loro una
reazione sintomatica: “Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non
conviene sposarsi” (Mt 19,10). Come si vede, la loro reazione andava in direzione opposta
rispet to alla logica di fedeltà alla quale si ispirava Gesù. Ma il Maestro approfitta anche di
questa incomprensione, per introdurre nell'orizzonte angusto del loro modo di pensare la
prospettiva del celibato per il Regno di Dio. Con ciò Egli intende affermare che il
matrimonio possiede una propria dignità e santità sacramentale e che tuttavia esiste un'altra
via per il cristiano: una via che non è fuga dal matrimonio, bensì consapevole scelta del
celibato per il Regno dei cieli.
In tale orizzonte la donna non può essere per il sacerdote che una sorella, e questa sua
dignità di sorella dev'essere da lui consapevolmente coltivata. L'apostolo Paolo, che viveva
nel celibato, così scrive nella Prima Lettera ai Corinzi: “Vorrei che tutti fossero come me:
ma ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro” (7,7). Per lui non vi
è dubbio: sia il matrimonio sia il celibato sono doni di Dio, da custodire e coltivare con
premura. Sottolineando la superiorità della verginità, egli non svaluta in alcun modo il
matrimonio. Ad entrambi corrisponde uno specifico carisma: ciascuno di essi è una
vocazione, che l'uomo, con l'aiuto della grazia di Dio, deve saper discernere nella propria
esistenza.
La vocazione al celibato richiede di essere consape volmente difesa con una speciale
vigilanza sui sentimenti e su tutta la propria condotta. In particolare deve difen dere la
propria vocazione il sacerdote che, secondo la di sciplina vigente nella Chiesa occidentale e
tanto stimata da quella orientale, ha optato per il celibato in vista del Regno di Dio. Quando
nel rapporto con una donna venis sero esposti a pericolo il dono e la scelta del celibato, il
sacerdote non potrebbe non lottare per mantenersi fedele alla propria vocazione. Una simile
difesa non significherebbe che il matrimonio in se stesso sia qualcosa di male, ma che per
lui la strada è un'altra.
Lasciarla, nel suo caso, sarebbe venir meno alla paro la data a Dio.
La preghiera del Signore: “E non ci indurre in tenta zione, ma liberaci dal male”, acquista
un singolare significato nel contesto della civiltà contemporanea, satura di elementi di
edonismo, di egocentrismo e di sensualità. Dilaga purtroppo la pornografia, che umilia la
dignità della donna, trattandola come esclusivo oggetto di godi mento sessuale. Questi
aspetti dell'attuale civiltà non favoriscono certo né la fedeltà coniugale né il cel ibato per il
Regno di Dio. Se il sacerdote non alimenta in sé disposizioni autentiche di fede, di speranza
e di amore verso Dio, facilmente può cedere ai richiami che gli provengo no dal mondo.
Come dunque non rivolgermi a voi, cari Fratelli nel sacerdozi o, oggi, Giovedì Santo, per
esortarvi a restare fedeli al dono del celibato, offertoci da Cristo? In esso è contenuto un
bene spirituale che appartiene a ciascuno ed all'intera Chiesa.
Nel pensiero e nella preghiera sono presenti quest'og gi in modo particolare i nostri
fratelli nel sacerdozio che incontrano difficoltà in questo campo, quanti proprio a causa di
una donna hanno abbandonato il ministero sacerdotale. Raccomandiamo a Maria
Santissima, Madre dei sacerdoti, e all'intercessione degli innumerevo li santi sacerdoti della
storia della Chiesa il momento difficile che essi stanno attraversando, domandando per loro
la grazia del ritorno al fervore primitivo (cfr. Ap 2,4-5). L'esperienza del mio ministero, e
credo che ciò valga per ogni Vescovo, conferma che tali riprese avvengono e che pure oggi
non sono poche. Dio resta fedele all'alleanza che stringe con l'uomo nel sacramento
dell'Ordine.
6. A questo punto, vorrei toccare l'argomento, ancor più ampio, del ruolo che la donna è
chiamata a svolgere nell'edificazione della Chiesa. Il Concilio Vaticano Il ha colto
pienamente la logica del Vangelo, nei capitoli Il e III della Lumen gentium, presentando la
Chiesa prima come Popolo di Dio e soltanto dopo come struttura gerar chica. Essa è
anzitutto Popolo di Dio, giacché quanti la formano, uomini e donne, partecipano - ciascuno
nel modo che gli è proprio - alla missione profetica, sacerdotale e regale di Cristo. Mentre
invito a rileggere i citati testi conciliari, mi limiterò qui ad alcune brevi rifles sioni
prendendo spunto dal Vangelo.
Al momento di ascendere al cielo, Cristo comanda agli Apostoli: “Andate in tutto il
mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15). Predicare il Vangelo è
adempiere alla missione profetica, la quale ha nella Chie sa forme diverse secondo il
carisma donato a ciascuno (cfr. Ef 4,11-12). In quella circostanza, trattandosi degli Apo stoli e della loro peculiare missione, è a degli uomini che tale compito viene affidato; ma,
se leggiamo attentamente i racconti evangelici e specialmente quello di Giovanni, non può
non colpire il fatto che la missione profetica, considerata secondo tutta la sua diversificati
ampiezza, viene distribuita tra uomini e donne. Basti ricordare, per esempio, la Samaritana
e il suo dialogo con Cristo presso il pozzo di Giacobbe a Sicar (cfr. Gv 4,1 -42): è a lei,
samaritana e per giunta peccatrice che Gesù rivela le profondità del vero culto a Dio, al
quale non importa il luogo ma l'atteggiamento dell'adorazione “in spirito e verità”.
E che dire delle sorelle di Lazzaro, Maria e Marta? I Sinottici, a proposito della “
contemplativa” Maria, annotano la preminenza riconosciuta da Cristo alla contem plazione
rispetto all'azione (cfr. Lc 10,42). Più importan te ancora è quanto scrive san Giovanni nel
contesto della risurrezione di Lazzaro, loro fratello. In questo caso è a Matta, la più “ attiva
” delle due, che Gesù rivela i misteri profondi della sua missione: “Io sono la risurrezione e
la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in
eterno ” (Gv 11,25-26). Il mistero pasquale è contenuto in queste parole rivolte ad una
donna.
Ma procediamo nel racconto evangelico ed entriamo nella narrazione della Passione.
Non è forse un dato incontestabile che proprio le donne furono più vicine a Cristo sulla via
della croce e nell'ora della morte? Un uomo, Simone di Cirene, viene costretto a portare la
croce (cfr. Mt 27,32); numerose donne di Gerusalemme invece spontaneamente gli
dimostrano compassione lungo la “ via crucis ” (cfr. Lc 23,27). La figura della Veronica,
pur non biblica, ben esprime i sentimenti delle donne di Gerusalemme sulla via dolorosa.
Sotto la croce c'è soltanto un apostolo, Giovanni di Zebedeo, mentre ci sono diverse donne
(cfr. Mt 27,55-56): la Madre di Cristo, che, secondo la tradizione, l'ave va accompagnato nel
cammino verso il Calvario; Salome, la madre dei figli di Zebedeo, Giovanni e Giacomo;
Maria, madre di Giacomo il minore e di Giuseppe; e Ma ria di Magdala. Tutte intrepidi
testimoni dell'agonia di Gesù; tutte presenti nel momento dell'unzione e della deposizione
del suo corpo nel sepolcro. Dopo la sepoltura, volgendo al termine il giorno prima del
sabato, esse partono, con il proposito però di ritornare, appena consenti to. E saranno loro le
prime a recarsi al sepolcro, di buon mattino, il giorno dopo la festa. Saranno esse le prime
testimoni della tomba vuota, e saranno ancora esse ad informarne gli Apostoli (cft. Gv
20,1-2). Maria Maddalena, rimasta in lacrime presso il sepolcro, è la prima ad incontrare il
Risorto, che la invia agli Apostoli, quale prima annunciatrice della sua risurrezione (cfr. Gv
20,11-18). A ragione, pertanto, la tradizione orientale pone Maddalena quasi alla pari degli
Apostoli, essendo stata lei la prima ad annunziare la verità della risurrezione, seguita poi
dagli Apostoli e dai discepoli di Cristo.
Così anche le donne, accanto agli uomini, hanno parte nella missione profetica di Cristo.
E lo stesso si può dire circa la loro partecipazione alla sua missione sa cerdotale e regale. Il
sacerdozio universale dei fedeli e la dignità regale investono uomini e donne. Al riguardo,
è quanto mai illuminante una lettura attenta dei passi della Prima Lettera di san Pietro
(2,9-10) e della Costituzione conciliare Lumen gentium (nn. 10-I2; 34-36).
7. In quest'ultima, al capitolo sul Popolo di Dio segue quello sulla struttura gerarchica
della Chiesa. Si parla in esso del sacerdozio ministeriale, al quale per volontà di Cristo
sono ammessi soltanto gli uomini. Oggi, in alcuni ambienti, il fatto che la donna non possa
essere ordinata sacerdote viene interpretato come una forma di discrimi nazione. Ma è
veramente così?
Certo, la questione potrebbe essere posta in questi ter mini, se il sacerdozio gerarchico
determinasse una posizione sociale di privilegio, caratterizzata dall'esercizio del “potere”.
Ma così non è: il sacerdozio ministeriale, nel disegno di Cristo, non è espressione di
dominio, ma di servizio. Chi lo interpretasse come “ dominio”, sarebbe certamente lontano
dall'intenzione di Cristo, che nel Cenacolo iniziò l'Ultima Cena lavando i piedi agli Aposto li. In questo modo pose fortemente in rilievo il carattere “ministeriale” del sacerdozio
istituito quella sera stessa. “Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per ess ere servito, ma
per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45).
Sì, il sacerdozio che oggi ricordiamo con tanta venera zione come nostra speciale eredità,
cari Fratelli, è un sacerdozio ministeriale! Serviamo il Popolo di Dio! Ser viamo la sua
missione! Questo nostro sacerdozio deve garantire la partecipazione di tutti - uomini e
donne - alla triplice missione profetica, sacerdotale e regale di Cri sto. E non solo il
sacramento dell'Ordine è ministeriale: ministeriale è prima di tutt o la stessa Eucaristia.
Affermando: “Questo è il mio Corpo che è dato per voi (...) Questo calice è la nuova
alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi” (Lc 22,19 -20), il Cristo rivela il suo
servizio più grande: il servizio della Redenzione, in c ui l'unigenito ed eterno Figlio di Dio
diventa Servo dell'uomo nel senso più pieno e profondo.
8. Accanto a Cristo-Servo, non possiamo dimenticare Colei che è “la Serva”, Maria. San
Luca ci informa che, nel momento decisivo dell'Annunciazione, la Vergine pronunciò il suo
“fiat” dicendo: “Eccomi, sono la serva del Signore” (Lc 1,38). Il rapporto del sacerdote
verso la donna come madre e sorella si arricchisce, grazie alla tradizione mariana, di un
altro aspetto: quello del servizio ad imitazione di Maria se rva. Se il sacerdozio è per sua
natura ministeriale, occorre viverlo in unione con la Madre, che è serva del Signore.
Allora, il nostro sacerdozio sarà custodito nelle sue mani, anzi nel suo cuore, e potre mo
aprirlo a tutti. Sarà in tal modo fecondo e sa lvifico, in ogni sua dimensione.
Voglia la Vergine Santa guardare con particolare affetto a tutti noi, suoi figli prediletti,
in questa festa annuale del nostro sacerdozio. Ci metta nel cuore soprattut to un grande
anelito di santità. Scrivevo nell'Esortazione apostolica Pastores dabo vobis: “La nuova
evangelizzazione ha bisogno di nuovi evangelizzatori, e questi sono i sacerdoti che si
impegnano a vivere il loro ministero come cammino specifico verso la santità” (n. 82). Il
Giovedì Santo, riportandoci alle origini del nostro sacerdozio, ci ricorda anche il dovere di
tendere alla santità, per essere “ ministri di santità ” verso gli uomini e le donne affidati al
nostro servizio pastorale. In questa luce appare quanto mai opportuna la proposta, avanzata
dalla Congregazione per il Clero, di celebrare in ogni diocesi una “Giornata per la
Santificazione dei Sacerdoti” in occasione della festa del Sacro Cuore, o in altra data più
consona alle esigenze ed alle consuetudini pastorali del luogo. Faccio mia questa proposta,
auspicando che tale Giornata aiuti i sacerdoti a vivere nella conformazione sempre più
piena al cuore del Buon Pastore. Invocando su tutti voi la protezione di Maria, Madre della
Chiesa, Madre dei sacerdoti, con affetto vi benedico.
Dal Vaticano, 25 marzo 1995,
Solennità dell'Annunciazione del Signore.
NOTE
1 Cfr. per e~mpio Mulieris dignitotem 8; e Donna: educatnce al/a pace 6.
2. Cfr. H. de Lubac. Medifazk>'i sulla chiesa, Jaca Book. Milano 1979, p. 89.
3 Cfr. civilta' cattolica 1992. iv. 233-243 e 353-361.
4 Cfr. il bilancia che ne fa Paola Gaiotti de Biase nel voi. collettaneo dell' Università Pontificia Salesiana:
Essere donna, LDC 1989, pp. 343-356.
5 Cfr. Atti del Convegno nazionale dell'Università Cattolica a Roc caporena, su Donna.' genio e mi£sù>ne,
vita e Pensiero, Milano 1990, specialmente pp~ 59 -128.
6 Cfr. Giovanni Paolo Il EvangeIii~m vitoe 76.
7 Su queste tematiche cfr. le acute analisi di una coppia vcramente
reciproca”: A. Danese. Unità e ph~nttlità. Mow~ier e il fltoflto olio persono, Città Nuova, Roma 1984, e
G.P. Di Nicola. UguQelionzo e dif. ferenzo: Io reciprocità uomo.donno. ivi. 1993.
8 Cfr. Gen I e 2, ampiamente sviluppati nella Mulieris dignitotem.
9 Cfr. Danno: genio e ozissione. cit., pp. 61-66).
10 Che troviamo in 10v; cfr. anche Dizionario dei conceto biblici del NT EDB Bologna 1976. pp.
731-734; F. Moltmann Wendel, Libertà, uguaglianza, sororità, Queriniana, Brescia 1979.
11 Cfr. L'Ossenatore Romano, 19 maggio 1995, p. 4.
12 Cfr. Ciì'iltà Cattolica 1995, lì, 349-362.
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