11._Feudalesimo.st

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CAPITOLO 11
IL FEUDALESIMO
1. LA SOCIETÀ FEUDALE
1.1 Dal vassallaggio al feudalesimo
Il vincolo vassallatico
L’impero carolingio lasciò un’impronta fondamentale nella società medievale. Mentre nel mondo
greco e romano l’individuo era innanzitutto un cittadino, sottoposto alle leggi dello stato che gli
attribuivano diritti e doveri, nel mondo medievale l’uomo divenne, proprio sul modello franco,
essenzialmente un vassallo sottoposto a vincoli personali.
La struttura sociale dei franchi, come si è visto, era infatti fondata sui legami personali, definiti
vassallatici, tra il re e i signori del regno. Il termine vassallo, dal celtico gwass, “ragazzo”
latinizzato in vassus, era originariamente usato per indicare il servo. In effetti il nobile e ricco
guerriero franco che faceva atto di sottomissione al re si poneva al suo servizio, fondamentalmente
militare, gli giurava fedeltà e ne otteneva in cambio un beneficio e il privilegio di essere ammesso
tra i suoi familiares.
Come nasce il feudalesimo
Furono soprattutto i Pipinidi a coalizzare intorno a sé in questo modo la migliore aristocrazia franca,
a cui distribuivano terre che si procuravano con le campagne militari e attingendo ai beni
ecclesiastici. I rapporti vassallatici si estesero poi con Carlo Magno, che legava i suoi compagni
d’armi come conti e marchesi, cioè funzionari dell’impero, a cui assegnava in beneficio terre del
regno in qualità di contee e marche. Non aveva altro modo per compensarli, in mancanza di un
erario pubblico: l’economia infatti era regredita e le imposte erano pagate in natura e, per di più,
non esisteva una burocrazia in grado di prelevare le tasse in modo capillare e sistematico.
Su questo meccanismo basato su vincoli di fedeltà personale ed elargizione di benefici il re fondava
il suo potere, senza per questo veder ridotto il suo vastissimo patrimonio: infatti poteva revocare il
beneficio in qualsiasi momento e alla morte del vassallo tornava comunque in possesso delle terre
date in beneficio. Ma nell’877 il capitolare di Quierzy stabilì il diritto dei vassalli del re a
trasmettere il beneficio in eredità e nel 1037 un altro editto estese lo stesso diritto a tutti i vassalli:
proprio a partire da questi provvedimenti si può parlare di nascita del feudalesimo.
Una fitta rete di legami
I legami di vassallaggio si estesero ben presto a diversi livelli e finirono col creare una fitta e vasta
rete di rapporti personali di fedeltà e dipendenza. Infatti i vassalli legati al re potevano a loro volta
nominare dei valvassori (vassi vassorum, “vassalli di vassalli”), di livello inferiore rispetto al loro,
di cui essi diventavano signori. I valvassori potevano a loro volta nominare i valvassini.
Rapporti di questo genere erano idonei a raccogliere ampi gruppi di guerrieri attorno a capi militari,
ma anche a coalizzare numerosi membri dell’aristocrazia intorno a potenti famiglie, che avevano
così a disposizione un grande seguito militare.
Scheda cultura e identità
La cerimonia d’investitura
Il beneficio veniva concesso nel corso di una cerimonia solenne chiamata investitura, perché chi
riceveva il beneficio vi veniva investito del titolo di vassallo con cui si poneva sotto la potestà
(mundio) e si legava in un rapporto di fedeltà reciproca con il signore (senior) che glielo concedeva.
Il rituale seguiva uno schema prefissato, che andava dalla vestizione del futuro vassallo al momento
in cui egli poneva le mani giunte tra quelle del signore, riceveva dal signore un bacio sulla bocca e
si riconosceva suo “uomo” (homo, in latino) pronunciando un giuramento con una formula che
costituiva l’atto di omaggio e sanciva un legame inscindibile e vincolante fino alla morte. Chi
violava il patto commetteva una fellonia, il più grave dei delitti di epoca feudale, che lo disonorava
in quanto fellone, traditore, e lo privava di ogni diritto, anche del beneficio.
fine scheda
Forza e fragilità del sistema vassallatico
Quello basato sui legami vassallatici era un sistema molto efficace ed economicamente vantaggioso,
perché permetteva di mobilitare un esercito senza ingaggiare mercenari, per mantenere i quali
mancava ormai il denaro.
Era però anche un sistema molto fragile perché si basava su rapporti di fedeltà personale, che
potevano essere infranti, ma soprattutto erano rigidamente gerarchici (un signore dipendeva da un
altro signore, legato ad un terzo e così), che sciolsero col tempo i legami di fedeltà col potere
centrale del sovrano e determinarono alla fine del IX secolo la frammentazione politica europea in
una miriade di centri di potere privato, i feudi. Infatti insieme al beneficio, Carlo Magno aveva
affidato anche gran parte dei poteri pubblici ai vassalli, conti, marchesi e duchi, e così sfera
pubblica e sfera privata nei feudi finivano col coincidere. Il fenomeno nasceva dalla carenza di una
capillare amministrazione centrale, di una burocrazia – che si riduceva semplicemente ai missi
dominici – e dalla mancanza di un esercito statale, cui sopperivano le truppe di cavalieri fornite dai
vassalli. La cavalleria era però insufficiente per un territorio ormai molto ampio e non era neppure
un corpo permanente, che poteva essere mobilitato rapidamente in qualsiasi momento.
Feudo e feudalesimo
Il nuovo sistema viene definito feudale, perché nel X secolo il beneficio venne chiamato feudo, dal
germanico few, che indicava originariamente la quota di un gregge che il capo clan di una società
pastorale attribuiva a chi gli aveva fornito un servizio. Poi passò a indicare il terreno che il sovrano
concedeva a un vassallo. I vassalli possessori di un feudo divennero feudatari e feudalesimo indicò
quindi la società basata su vincoli personali di cui il feudo era l’espressione. Anche se era la
struttura portante del regno franco sin dal VII secolo, solo quando si estese all’Italia settentrionale, a
tutti i paesi germanici e infine all’Inghilterra, e i benefici divennero ereditari, si può parlare di
feudalesimo in senso stretto. La struttura feudale si mantenne per secoli e gli ultimi residui di
feudalesimo in Francia furono aboliti solo con la Rivoluzione francese.
Il potere della Chiesa feudale
Tra i vari centri di potere, molto forte era quello della Chiesa, che poteva, con le proprie istituzioni
sparse ampiamente in tutta Europa, esercitare un controllo capillare, spesso superiore a quello delle
istituzioni laiche. Gli stessi re carolingi mirarono a tutelare le vaste proprietà terriere ecclesiastiche,
che almeno in teoria dovevano essere finalizzate a opere di bene. Concessero a monasteri, abbazie e
vescovadi, che dipendevano direttamente dal papa, alcune immunità, cioè privilegi, che li
esentavano dalle tasse e da prestazioni di manodopera e impedivano l’alienazione, cioè il
trasferimento ad altri, dei loro beni. Inoltre abati e vescovi avevano la possibilità di legare con
vincoli di fedeltà vassalli a cui concedevano in beneficio terre di proprietà dell’abbazia o del
vescovado. In cambio ne ottenevano la protezione armata. Anche la Chiesa, quindi, si inserì nel
nuovo sistema vassallatico in una posizione di forza.
1.2 I mutamenti economici dal VI al X secolo
Le ragioni di una crisi
L’economia altomedievale era fondata sul possesso della terra, non molto diversamente da quanto
accadeva nel mondo antico. Nell’alto medioevo però la terra era cambiata ed era cambiato anche il
modo di organizzarne la coltivazione.
Guerre con conseguenti devastazione dei campi, migrazioni di popoli, epidemie a volte devastanti
come quella del VI secolo, carestie ricorrenti – se ne verificava mediamente una ogni 10 anni – e
peggioramento del clima con lunghi periodi di piogge e inondazioni e altri di siccità,
determinarono un deciso decremento della popolazione europea. Si calcola che dai 60 milioni di
abitanti nel II secolo si passò ai meno di 30 nel VII-VIII secolo. La diminuzione della manodopera
sia libera che schiavile nei latifondi e l’assenza di un adeguato sviluppo tecnologico in grado di
sopperire alla mancanza di lavoratori determinarono un cambiamento nel paesaggio.
Dai campi alle selve
Nel mondo romano dominavano le aree coltivate a cereali, ulivi, vigne e alberi da frutto, distinte
dalle zone adibite a pascolo. I germani, invece, basavano la propria economia su caccia, pesca,
allevamento e raccolta. Nelle loro terre dominavano acquitrini, steppe, pascoli e foreste (in
Germania pare occupassero i 4/5 della superficie) , mentre l’agricoltura, che rivestiva un ruolo
marginale, si praticava in piccoli appezzamenti all’interno dei pascoli.
Le coltivazioni mediterranee richiedevano un lavoro assiduo, così quando la popolazione diminuì,
l’agricoltura decadde anche nelle aree dell’antico impero romano, si ridussero le aree coltivate,
mentre aumentarono le terre incolte o lasciate a pascolo, dilagarono le foreste, i corsi d’acqua, non
più controllati dall’uomo, inondarono le pianure, formando acquitrini in cui si sviluppò la malaria
che costrinse i contadini a ritirarsi sulle colline, a darsi all’allevamento e a trovare risorse sfruttando
le foreste.
Dalle selve ai campi
Le foreste divennero le vere protagoniste del paesaggio medievale. Considerate da un lato
misteriose, abitate da forze soprannaturali o briganti, erano viste anche come luoghi dove
raccogliere legname, materiale essenziale per costruire abitazioni, attrezzi agricoli, palizzate. Vi si
potevano anche cacciare animali selvatici, raccogliere frutti spontanei e allevare allo stato brado
maiali, la cui carne si poteva essiccare e affumicare. Era una delle poche possibilità di conservare
prodotti alimentari, mentre di solito il cibo disponibile nelle annate buone si mangiava tutto e nei
periodi di magra si soffriva la fame. L’economia era quindi di semplice sussistenza. Però, mentre
l’Europa mediterranea era in decisa decadenza, nell’Europa continentale era cominciato il
disboscamento e il dissodamento delle aree forestali per impiantarvi colture agricole.
Furono i germani a sviluppare nuove tecniche agricole più adeguate a dissodare la dura terra
argillosa delle pianure settentrionali, come l’aratro pesante, usato a partire dal VII secolo e
provvisto di versoio in grado di aprire solchi profondi. L’aratro leggero della tradizione
mediterranea era adatto, infatti, solo ai terreni leggeri e sabbiosi delle regioni meridionali.
Nell’Europa del nord gli spazi più ampi e aperti, meno ondulati di quelli meridionali, permisero le
colture estensive di grano e cereali in genere. Si poté diffondere anche la rotazione triennale delle
colture che prima affiancò e poi sostituì la rotazione biennale, a partire dalla Gallia già nel VI
secolo. I cereali, infatti, impoveriscono il terreno, pertanto è necessario lasciare per un anno il
campo a maggese, cioè incolto o adibito a pascolo in modo che gli escrementi animali fertilizzino il
terreno come concime. Ma mentre con la rotazione biennale, metà del campo restava per un anno
improduttiva, con la rotazione triennale il campo era diviso in tre parti: in ognuna si coltivano un
anno cereali, l’anno successivo legumi, ricchi di proteine utilissime nella dieta contadina, dove
mancava la carne, e il terzo restava a riposo. In questo modo aumentava la produttività del campo e
anche la varietà delle produzioni. Per di più si cominciò a diffondere l’uso del mulino ad acqua,
che i romani conoscevano già, ma non usavano perché preferivano utilizzare gli schiavi.
Dida
Alimentazione integrata
L’allevamento dei maiali era molto diffuso presso i germani, che avevano una dieta basata su
proteine animali e scarsa di cereali, al contrario di quella mediterranea. Solo tra VII e VIII secolo si
ebbe un’integrazione dell’alimentazione tra dieta mediterranea e germanica: nel mondo romano si
diffuse l’uso di carne di maiale, di grassi animali e formaggi e si cominciò a conoscere la birra
(cervogia) prodotta dai germani. E viceversa nel nord Europa si avviò la coltivazione di cereali e
della vite.
Tra strade e città desolate
Il regresso medievale a forme di economia più arretrate derivava anche dal crollo dei commerci e
dall’abbandono delle città.
Mentre nell’impero bizantino si arrivava a prelevare in tasse il 50% della ricchezza prodotta, in
occidente, come abbiamo visto, l’assenza di un sistema di tassazione non permetteva di finanziare il
sistema dei trasporti, con grave danno dei commerci, né permetteva l’approvvigionamento, così le
carestie non potevano essere risolte importando prodotti dall’estero.
Mentre in Oriente bizantini e arabi continuavano i loro commerci e né le città né le campagne
risentivano della crisi che attanagliava l’occidente, in Europa, in seguito al crollo delle strutture
politiche dell’impero romano, l’insicurezza delle strade e di tutte le vie di comunicazione via terra
per il dilagare di aggressioni, invasioni, razzie, avevano infatti reso pericolosi i commerci con
conseguente diminuzione delle attività artigianali e degli scambi.
Reggeva ancora la circolazione su lunghe distanze di prodotti di lusso, riservati ad élites ristrette e
comunque più povere di un tempo: tessuti pregiati, metalli preziosi, manufatti di alto artigianato. La
circolazione delle monete si era ovviamente ridotta, tanto che Carlo Magno aveva preferito coniare
monete d’argento, di minor valore, più adeguate al minor volume di traffico. Si cominciò addirittura
a preferire lo scambio in natura.
Le città si erano spopolate sia perché avevano perso le loro funzioni economiche e politiche, sia
perché più esposte alle invasioni. La popolazione cittadina, che prima della caduta dell’impero
romano era nutrita dalle elargizioni di grano, si era ormai spostata nelle campagne. Qui i proprietari
di grandi latifondi avevano dato vita a nuove strutture economiche.
Isole agricole
In un paesaggio ormai largamente inselvatichito, gli insediamenti umani si presentavano sovente
come piccole isole di agglomerati di case e campi, in mezzo a vaste zone incolte, spesso assai
distanti le une dalle altre e mal collegate tra loro da strade sconnesse. Si trattava a volte di villae a
volte di villaggi, difesi da palizzate o opere di fortificazione, circondati da una fascia di campi
coltivati, attorniati a loro volta da pascoli e infine da foreste o paludi.
Esisteva in minima parte ancora la piccola proprietà privata, definita allodio (dal germanico lod,
“piena proprietà”), per distinguerla dalle terre avute in concessione. Non godevano però delle
immunità previste per le grandi proprietà, così l’esosità del fisco regio e le pressioni dei grandi
proprietari, che miravano a impossessarsi dello loro terre, costringevano in genere i piccoli
proprietari a cedere la terra con accomandazione a un signore per passare alla condizione di
lavoratori dipendenti, pur mantenendo diritti civili e giuridici.
Così prevalevano ormai decisamente le grandi proprietà. Grandi proprietari erano i sovrani, gli
enti ecclesiastici (monasteri e vescovadi) e famiglie ricchissime.
Da villae romane a curtes medievali
Già negli ultimi decenni dell’impero romano i grandi latifondisti avevano fortificato le loro villae di
campagna, vere e proprie aziende agricole, e avevano cominciato a proteggerle con uomini armati
per rifugiarvisi sfuggendo alle invasioni barbariche e alla rapacità degli esattori fiscali. Qui avevano
cercato protezione anche i cittadini immiseriti in cerca di lavoro e i piccoli proprietari che avevano
ceduto la propria terra. Così le ville erano diventate sempre più grandi e organizzate e spesso le
proprietà di una singola villa erano disperse su territori amplissimi e separate da grandi distanze. Si
preferì allora suddividerle in aziende agrarie chiamate, in Italia, curtes, “corti”, e villae nei territori
dominati dai franchi. Furono le ville e le corti a dominare, insieme ai monasteri, il paesaggio rurale
europeo a partire dal VII secolo. Carlo Magno aveva anche emanato un Capitulare de villis con cui
dava precise indicazioni per il funzionamento delle ville, di cui egli stesso possedeva un numero
enorme, forse centinaia, soprattutto nella Gallia nordorientale.
La suddivisione della curtis: la pars dominica…
Ogni curtis era affidata a un signore, un dominus, ed era suddivisa in due parti.
La pars dominica o riserva padronale era costituita dalle terre sfruttate solo dal proprietario, le più
fertili e facili da lavorare, perché pianeggianti e con suoli meno duri. Aveva al centro un insieme di
costruzioni, delimitate da una palizzata – la curtis vera e propria – al cui interno si trovavano la
residenza del signore, di solito in pietra, a un piano, gli edifici che ospitavano il personale al suo
servizio diretto e gli alloggi dei servi, le stalle, i magazzini, e poi mulini, frantoi, forni, laboratori
artigiani, ampi tratti di seminativo coltivato a cereali e a ortaggi destinati all’autoconsumo della
curtis, cui seguivano vigneti, pascoli e infine il bosco. All’interno della curtis spesso sorgeva anche
una chiesa.
La pars dominica era lavorata da prebendari, schiavi domestici ai quali il padrone dava la
prebenda, cioè vitto e alloggio, e a volte anche un salario.
…e la pars massaricia
La pars massaricia o massaricium, suddivisa in mansi (da manére, “rimanere”, “abitare”), piccoli
lotti di terra di una decina di ettari, sufficienti in teoria a sfamare la famiglia affidataria e garantire
un surplus per pagare il canone. Erano dati in concessione a coloni o massari, contadini liberi,
oppure a servi, in cambio di:
 pagamento annuo di un canone in natura o in denaro
 consegna periodica di prodotti lavorati, come attrezzi agricoli e stoffe tessute dalle donne
 fornitura di giornate di lavoro gratuito nelle terre del padrone, le cosiddette corvées (termine
francese derivato dal latino corrogata opera = opera richiesta).
Il proprietario offriva anche protezione (mundio) in caso di pericolo e cibo nei periodi di carestia.
I mansi erano sparsi su un territorio esteso, spesso inframmezzati ad altri di diversi proprietari.
Potevano essere mansi ingenuiles, cioè affidati agli ingenui, figli di genitori liberi che si erano
messi sotto la protezione del signore, e mansi serviles affidati a servi casati, cioè schiavi a cui il
padrone dava una casa in cui vivere e un pezzo di terra da coltivare. La condizione del servo casato
non differiva molto da quella del contadino libero: entrambi, infatti, erano tenuti alle corvées, che
però erano più gravose e impegnative per i servi. In caso di controversie neppure i contadini liberi
potevano far valere i propri diritti, perché i mansi venivano dati in concessione senza contratti
scritti.
storia di parole
Angheria
I contadini soffrivano nel lasciare il proprio lavoro nei momenti in cui serviva maggiormente la loro
opera, per l’aratura, la mietitura, la fienagione o la vendemmia. Le corvè in alcune regioni italiane
furono perciò chiamate angarie. Angaria o angheria deriva dal latino tardo-antico angaria
(maschile) con cui si indicava l’obbligo di fornire mezzi di trasporto. Il termine latino derivava a
sua volta dal greco angaréia, da ángaros, che era il messo del re di Persia che aveva l’autorità di
requisire e imporre tasse. Proprio da questo significato passò a indicare un atto di prepotenza, un
sopruso, una vessazione, un’imposizione violenta.
I nuovi schiavi
Il numero degli schiavi in età feudale era ormai assai ridotto, sia perché il loro mantenimento era
gravoso, sia perché erano diminuite le guerre e gli schiavi si razziavano ormai soprattutto nei paesi
slavi. Per questo anche il termine servus, che in latino indicava lo schiavo, fu sostituito in tutte le
lingue con termini derivati dalla parola “slavo”: slaven in tedesco, esclaves in francese e schiavo in
italiano. Molti schiavi inoltre venivano affrancati sia per influsso della dottrina cristiana, che
tuttavia non negava la possibilità dell’esistenza della schiavitù, sia per la nuova situazione
economica che considerava più economico, piuttosto che mantenere schiavi, utilizzare il lavoro di
contadini liberi, in grado di mantenersi coltivando la terra data in concessione. Inoltre un lavoratore
che ricava il proprio sostentamento dalla terra è spinto a lavorarla con più impegno.
Gli schiavi stessi godevano di maggiori diritti: non solo quelli casati, ma anche gli schiavi
prebendari potevano avere famiglia e su di loro il padrone non aveva più diritto di vita o di morte,
né poteva separare la famiglia: era un atto dettato non solo e non tanto da umanità, quanto dal
vantaggio che la famiglia garantiva il lavoro di più persone. Tuttavia gli schiavi facevano parte del
patrimonio del signore e giuridicamente non erano persone, non potevano arruolarsi come soldati né
testimoniare in tribunale né accedere al clero. Anche i contadini giuridicamente liberi, che non
erano proprietà del signore, erano tuttavia vincolati alla terra e facevano parte dei beni del padrone,
erano i cosiddetti servi della gleba (la gleba è la zolla di terra), che rappresentavano l’evoluzione
dei contadini già vincolati al mestiere e alla terra – che perciò non potevano cambiare residenza –
sotto Diocleziano e Costantino nel IV secolo.
L’economia autosufficiente delle curtes
Alla base dell’economia altomedioevale erano le curtes e i monasteri. Era un’economia chiusa con
pochi contati esterni, autosufficiente: tutte le merci necessarie ai loro abitanti venivano prodotte al
loro interno. Anche gli scambi avvenivano all’interno, tra pars massaricia e riserva padronale, e
solo talvolta all’esterno, con aziende vicine o nei mercati settimanali che si tenevano anche nei
villaggi più piccoli: divennero frequentissimi a partire dal IX secolo. La vendita di prodotti
permetteva ai contadini di raccogliere denaro per pagare i canoni. Si trattava quindi di un
commercio locale o tra regioni vicine, con scambi per lo più in natura. Nelle fiere più importanti gli
scambi in quantità limitata non necessitavano delle monete d’oro usate ancora dai bizantine e dagli
arabi, bastavano le monete d’argento, che coniavano le zecche locali, sorte spesso vicine alle
miniere. A vendere erano anche i signori, per poter acquistare beni di lusso, metalli, spezie e tessuti
preziosi. Sporadici flussi commerciali infatti sopravvivevano dall’Oriente lungo l’Adriatico e
arrivavano fino al nord Europa attraverso i passi alpini e dai porti mediterranei della Gallia lungo il
Rodano e il Reno fino al mar del Nord.
Il modello del flusso produzione-consumo
L’economia feudale pre-industriale si basava su un flusso continuo di beni che andava dal
produttore al consumatore, cioè dai contadini e dagli artigiani al ricco possidente terriero che
controllava le risorse primarie e commissionava i beni da produrre. Dato che solo una piccola
percentuale di questa produzione finiva nelle mani dei lavoratori, il potente si trovava ad avere una
quantità di beni molto superiore a quanto riusciva veramente a consumare. Questo surplus assumeva
la forma di spreco e veniva restituito alla popolazione durante alcune feste e celebrazioni religiose.
In questa occasione le differenze sociali tra dominati e dominanti cadevano e la comunità si trovava
unita sotto un’unica bandiera. Quindi lo spreco fungeva sia da divisorio tra poveri e ricchi, per il
fatto che i primi non potevano mai eguagliare i secondi in quanto a spreco e non avevano i mezzi
necessari per creare ricchezza sufficiente a competere con loro, sia da collante della comunità.
Anche le rivalità tra i potenti assumevano la forma di una gara alla festa più sontuosa e ricca.
Questo sistema ha mantenuto i ruoli sociali statici per centinaia di anni e ha tenuto le comunità
coese e legate a un territorio specifico. Le ricchezze, lo spreco e tutta la produzione in genere
proveniva infatti dalle risorse primarie della zona e non c’era né l’interesse né la possibilità di
rifornirsi regolarmente e in grande quantità da territori lontani. Quindi tutta la produzione e il
sistema sociale era subordinato al mondo naturale e al territorio circostante. La natura del luogo era
pertanto il limite intrinseco alla produzione e all’evoluzione della collettività. L’individuo era legato
necessariamente alla comunità e al territorio, dai quali dipendeva e ai quali egli stesso era
necessario perché il flusso economico non si inceppasse.
La caccia da necessità a sport
La curtis non era tutta messa a coltura: la parte meno adatta all’agricoltura veniva lasciata a pascolo
o vi si lasciava crescere la foresta, utile, oltre che per ricavarne il legname indispensabile
all’economia della curtis, soprattutto come riserva di caccia, attività aristocratica per eccellenza.
Spesso i signori sottraevano addirittura terre all’agricoltura pur di avere a disposizione estese
foreste in cui cacciare.
La caccia, tipica dei popoli nomadi, assunse infatti nella società feudale un nuovo ruolo. Da attività
indispensabile a procurarsi cibo nella foresta dove abbondava la selvaggina si trasformò in
un’attività riservata all’aristocrazia e addirittura spesso vietata ai contadini. Ed era l’attività di gran
lunga preferita rispetto all’amministrazione della cosa pubblica o anche del proprio patrimonio.
Serviva a difendere la popolazione dalle bestie selvatiche e a procurare la carne, cibo nutriente e
prelibato che non poteva mancare alla tavola dei signori, soprattutto per differenziarla dalla mensa
contadina e quindi come simbolo di prestigio. Ma in primo luogo i signori utilizzavano la caccia
come esercizio per la guerra: per questo non ricorrevano alle trappole per catturare gli animali,
come facevano i contadini, ma trasformavano l’attività venatoria in uno sport da praticare insieme
ad altri signori. Era l’occasione per mostrare il proprio coraggio in una sfida contro animali selvatici
pericolosi, come orsi e cinghiali, o veloci come i cervi. Dopo aver inseguito l’animale e studiato con
gli altri cacciatori le strategie per accerchiare la preda, si arrivava allo scontro corpo a corpo con la
bestia armati di sola spada. Carlo Magno era famoso per la sua abilità nel cavalcare e nel cacciare e
memorabile fu la sua caccia all’uro, un toro selvatico robusto e aggressivo oggi scomparso, che egli
cacciò e uccise per impressionare l’ambasciatore di Baghdad in visita.
1.3 La signoria fondiaria
L’incastellamento
Lo stato aveva ormai perso gran parte del potere e aveva affidato molte sue prerogative ai feudatari.
La curtis assunse quindi anche un ruolo politico: il signore esercitava, infatti, su tutti gli abitanti
della curtis sia diritti economici, come riscuotere i canoni d’affitto, sia il diritto di emanare leggi,
amministrare la giustizia, e dirimere contese, sia il dovere di provvedere alla difesa e
all’approvvigionamento in caso di carestia. Il potere dei signori si rafforzò quando, tra la fine del IX
e l’inizio del X secolo, si verificò l’ultima ondata di invasioni (di normanni, ungari, saraceni), di
cui parleremo nelle prossime pagine. Poiché questi popoli spesso si spostavano con agili navi e
attaccavano le coste o risalivano i fiumi per rapide incursioni, contro i loro attacchi a poco serviva
la cavalleria carolingia adatta a battaglie campali. Sarebbe stato necessario un esercito permanente
abbastanza numeroso da presidiare i lunghi confini dell’impero. Ma l’impero di Carlo Magno non
aveva mai avuto la disponibilità finanziaria e organizzativa per una simile soluzione.
Ad assumersi quindi il compito della difesa furono i feudatari, laici ed ecclesiastici, che così
acquisirono la piena sovranità sui loro feudi. Fecero costruire, su antichi castelli longobardi,
bizantini, franchi e persino romani, fortificazioni, torri di avvistamento, mura entro le quali si
asserragliavano anche gli abitanti delle campagne e dei borghi. Gli antichi centri abitati che
sorgevano in pianura o lungo le strade vennero abbandonati perché troppo esposti alle scorrerie,
mentre sorsero villaggi sulle alture, attorno alle fortificazioni fatte erigere dal signore, in posizione
meno esposta. Dall’alto era anche più facile avvistare il nemico per rinchiudersi entro le mura e
organizzare una più efficace difesa. Così tra l’840 e il 950 l’Europa si riempì di castelli. Anche le
abbazie assunsero l’aspetto di fortezze, mentre i vescovi facevano erigere nuove mura intorno alle
città.
Il fenomeno dell’incastellamento rispondeva anche all’esigenza di difendersi dall’attacco di altri
signori, ormai sempre più spesso impegnati in lotte reciproche, per accaparrarsi nuove terre finita
l’epoca delle grandi conquiste carolinge.
Storia di parole
Castello
Il termine è il diminutivo di castrum, “fortezza” in latino. Il castello nasce dall’architettura militare
romana, come opera fortificata, con scopi di sorveglianza e di difesa. Col tempo assunse però forme
più eleganti e meno squadrate. Oggi degli originari antichi castelli medievali rimangono solo pochi
resti, ma anche il ricordo nei nomi di numerosi paesi italiani: Castellammare, Castrovillari, Civita
Castellana; in Francia in nomi che includono la parola chateau e in Germania il suffisso burg,
entrambi col significato di “castello”.
La signoria di banno
I castelli permettevano anche un più efficace controllo sulle popolazioni rurali sottomesse e
un’indipendenza sempre più radicale dal potere regio. I signori, insieme alla difesa militare
dell’intero territorio in cui sorgevano le loro proprietà, assunsero anche il potere di banno del re,
cioè il potere di giudicare e punire, di imporre proprie leggi, tasse e pedaggi per l’uso di strade e
ponti, dazi su trasporti e commerci, monopoli su determinati servizi, come l’uso dei mulini o dei
forni. Era un potere che tendeva a estendersi sempre più e in territori sempre più ampi, a imporre il
proprio controllo sulle chiese del territorio, ma anche su terre di altri signori, e ad ampliare il
numero degli armati, fino a creare veri stati nello stato. Gradualmente la signoria fondiaria si
trasformò in signoria territoriale con poteri su tutti gli abitanti del feudo, perno dell’intera
organizzazione economica, sociale e politica.
Accanto alla sopraffazione tuttavia il nuovo sistema portava anche qualche vantaggio al territorio:
per aumentare la produzione il signore aveva interesse a realizzare opere di miglioramento della
terra, come dissodamenti e bonifiche, con vantaggi per tutta l’economia locale.
Nel corso dei secoli successivi i feudatari allargarono i propri domini fino a costituire dei principati.
Cavalieri di Dio
A partire dal X secolo il mestiere di cavaliere fu accessibile anche a uomini di umili origini, purché
in possesso di terre sufficienti a mantenere cavalli e armatura, che si mettevano al servizio dei
signori. I signori, poi, che del mestiere delle armi avevano sempre fatto la loro ragione di vita, erano
professionisti della guerra brutali e violenti e, ormai svincolati dal controllo del re, dilagavano
incontrastati rivolgendo le armi contro altri signori, ma spesso anche contro i più deboli e indifesi, e
rapinavano, razziavano, uccidevano impunemente. La chiesa si rese conto che i cavalieri
rappresentavano un pericolo sociale, fonte di instabilità; impose pertanto norme di comportamento
che ne limitassero la bellicosità e la indirizzassero alla difesa degli inermi, impossibilitati a
difendersi: religiosi, donne, vecchi, bambini, ceti più deboli. Costrinse i cavalieri a rispettare le paci
di Dio, che proibivano di combattere in certi luoghi, come quelli in vicinanza delle chiese, e nei
periodi in cui cadevano le feste religiose più importanti. Propose un’immagine ideale di cavaliere:
rispettoso dei più alti valori della cristianità, nobile, generoso, leale.
Era anche un modo per spingere i cavalieri a farsi carico delle responsabilità di governo e di
controllo del territorio, di garanzia della pace e della giustizia, che la dissoluzione dell’impero
carolingio non garantiva più.
Per consentire a questi guerrieri in genere rozzi e ignoranti di sfogare la propria aggressività in
forme lecite, gli stessi signori organizzarono, come spettacoli per il divertimento di gentiluomini e
dame, tornei, giostre e sfide, che permettevano loro di occupare il tempo, mantenersi in
allenamento, sperimentare nuove tecniche di combattimento, imparare a rispettare le regole e la
disciplina, persino ad affinare lo spirito, perché spesso impararono a combattere solo per ottenere
l’onore o compiacere una dama e riceverne il premio destinato al vincitore.
I tre ordini voluti da Dio
Nell’XI la società si andava ormai trasformando e tramontava il modello sociale dell’Alto
Medioevo. Adalberone, vescovo di Laon (Francia) intorno all’anno 1030 scrisse un testo poetico in
cui rimpiangeva la società feudale, che gli appariva ordinata e regolata da leggi divine: «La realtà
delle fede è unica, - affermava - ma nell’ordinamento della società vi sono tre stati di vita. [...]
Alcuni pregano, altri combattono, altri ancora lavorano…». I tre ordini della società altomedievale,
concepiti come immutabili e voluti da Dio, erano dunque, in ordine gerarchico, quello degli
oratores, gli uomini di chiesa addetti a pregare, dei bellatores, i guerrieri predisposti a combattere
in difesa degli altri due ordini, dei laboratores, che col loro lavoro permettevano agli altri due ordini
di svolgere la propria funzione e di mantenere una posizione di privilegio. Di contro alle richieste di
un rinnovamento sociale, di un ritorno all’originaria dottrina cristiana dell’uguaglianza di tutti gli
uomini, che si facevano sentire dopo l’anno Mille, Adalberone proponeva una società immobile in
cui non era possibile cambiare condizione, perché ogni stato sociale, ogni ruolo, ogni compito era
stato stabilito da Dio per garantire l’ordine e la pace. Lo stesso Adalberone, però, nota che ormai
quella società va declinando. Dopo l’anno Mille in effetti il mondo medievale entrò in un’altra fase,
anche se il modello della società tripartita rimase a lungo, ad esempio in Francia, in cui alla vigilia
della Rivoluzione francese la società era ancora divisa in tre “stati” (nobiltà, clero e terzo stato).
2. LA DISGREGAZIONE DELL’IMPERO CAROLINGIO
Tentativi di unità
La nuova situazione storica pose le premesse per la dissoluzione dell’impero carolingio.
Carlo Magno aveva previsto di spartire, com’era tradizione dei franchi, l’impero tra i suoi tre figli,
ma la morte di due di loro lo costrinse ad associarsi al trono, per garantirgli la successione, l’unico
erede rimasto, anche se, per il carattere introverso e poco intraprendente, non era il suo preferito.
Alla morte di Carlo nell’814, gli succedette quindi Ludovico (814-840) che continuò l’alleanza con
la Chiesa e per questo ottenne il titolo di Pio.
Per evitare che il magnifico edificio messo in piedi dal padre fosse in futuro smantellato, Ludovico
il Pio emanò nell’817 l’Ordinatio imperii (la “Costituzione dell’impero”), con la quale nominava il
suo primogenito Lotario erede del titolo imperiale, mentre gli altri figli erano obbligati a rispettare
l’autorità dell’imperatore, ma avrebbero avuto il titolo di re: Pipino del regno di Aquitania e
Ludovico, detto poi il Germanico, di quello di Baviera. La spartizione si complicò quando nacque
un altro figlio dalla seconda moglie di Ludovico, Carlo detto il Calvo, al quale fu assegnato un
nuovo regno creato nella Germania meridionale, l’Alemannia.
Ludovico volle realizzare il sogno di fondere impero e chiesa in un unico organismo, così potente
da fronteggiare il pericolo degli arabi da sud, dei normanni da nord e degli ungari da est. Ma finì
così con l’affermare il potere imperiale sulla Chiesa. Con la Costituzione romana dell’824 stabilì,
infatti, che il papa doveva prestare giuramento all’imperatore prima di salire al soglio pontificio e
potenziò l’uso dei vescovi come missi dominici, minando l’autonomia della chiesa, perché i vescovi
diventando funzionari imperiali erano sottoposti all’autorità del sovrano.
Una controversa successione (840-843)
Fu la generazione successiva a dar il colpo di grazia all’unità dell’impero. Malgrado Lotario fosse
stato incoronato imperatore nell’823, alla morte del fratello Pipino e del padre Ludovico il Pio
nell’840, fu attaccato dagli altri due fratelli. Nell’842 Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo
contro Lotario stipularono un accordo, sancito dal giuramento di Strasburgo. Il giuramento,
pronunciato e stipulato nelle due lingue volgari usate dai due eserciti, romanza (francese) e tedesca,
nella loro forma ancora molta arcaica, costituisce la più antica testimonianza di questi due volgari e
dimostra che per farsi capire dalla gente comune non si poteva più usare il latino neppure nella sua
forma ormai volgarizzata.
L’alleanza tra i fratelli costrinse Lotario a firmare, nell’843, il trattato di Verdun, con cui Carlo il
Calvo otteneva le zone dei franchi occidentali, la futura Francia, e Ludovico il Germanico le terre
dei franchi orientali a est del Reno e a nord delle Alpi, le future Germania, Svizzera e Austria,
mentre a Lotario si riconosceva il titolo di imperatore, ma si limitava il suo controllo al regno
d’Italia e alla fascia centrale dell’impero, dal mare del Nord al Mediterraneo, che costituivano la
Lotaringia (da cui il nome dell’attuale Lorena). Era la parte meno potente dell’impero, benché
comprendesse anche la capitale Aquisgrana e potesse controllare Roma, perché, schiacciata tra i
domini degli altri fratelli, non aveva possibilità di espandersi. Il titolo di imperatore assunse così un
valore quasi solo onorifico, però da allora venne attribuito a chi aveva il titolo di re d’Italia. Mentre
in Francia e in Germania si era già sviluppato un embrione di identità nazionale, il territorio di
Lotario raggruppava aree molto diverse e per di più divise dalla barriera delle Alpi, così alla morte
dell’imperatore i suoi domini si frazionarono ulteriormente.
Glossario
Lingue romanze
Le lingue romanze – dalla locuzione latina romanice loqui, “parlare latino” – sono le lingue nate
dall’evoluzione, nel corso del tempo e a contatto con le lingue dei popoli barbari, del latino parlato.
Sono oltre al francese e al provenzale, l’italiano, lo spagnolo, il catalano, il portoghese e il rumeno.
Il Capitolare di Quierzy (877)
La disgregazione dell’impero carolingio era insita nella sua stessa struttura. Fondata sulla fedeltà
personale dei vassalli nei confronti del sovrano, era destinata a sfaldarsi nel momento in cui il
carisma del sovrano, il potere della monarchia e la possibilità di acquistare sempre nuove terre con
campagne militari fossero venuti meno. I vassalli maggiori, infatti, non potendosi arricchire con
nuove guerre, pretesero di arricchirsi a scapito di una monarchia resa fragile dalle lotte interne. Per
distribuire benefici a vassalli sempre più potenti e non frenati da una personalità carismatica come
quella di Carlo Magno, la monarchia carolingia perse gran parte del suo patrimonio e si indebolì
tanto che Carlo il Calvo, a cui era passato alla fine il titolo di imperatore, fu costretto a emanare
nell’877 il capitolare di Quierzy (dalla piccola cittadina francese in cui fu promulgato), con cui
stabiliva l’ereditarietà dei benefici concessi ai conti, che diventavano quindi proprietari a pieno
titolo.
L’ultimo periodo unitario e la fine dell’impero (881-888)
Il caso volle che l’impero vivesse un’ultima fase di unità. Infatti la morte precoce di tutti gli eredi al
trono portò al potere Carlo il Grosso, figlio di Ludovico il Germanico, che nell’881 si ritrovò
padrone dell’intero impero. In realtà erano ormai gli aristocratici a tenere le redini del potere: quelli
di Germania nell’887 destituirono Carlo, ufficialmente per motivi di salute, ma in realtà perché
aveva preferito pagare un ingente riscatto piuttosto che combattere contro i normanni che
assediavano Parigi. Così, quando nell’888, il sovrano morì, l’impero di Carlo Magno, dopo
nemmeno un secolo, scompariva. Ma il titolo imperiale si mantenne, passò prima a Guido, duca di
Spoleto, poi alla dinastia germanica di Sassonia.
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