della musica sacra del novecento

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ASSOCIAZIONE CORALE ‘BENEDETTO MARCELLO’
Corso di Studi
‘La Produzione musicale sacra a Roma’
4° ciclo di conferenze sul tema
‘La musica sacra contemporanea’
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INDICE
Presentazione
pag. 5
Prefazione
pag. 7
Cultura e musica negli eventi storico sociali del novecento
di Maria Teresa Carloni
pag. 9
Igor Stravinskij e Lorenzo Perosi: due aspetti della musica sacra
del novecento
di Maria Teresa Carloni
pag. 14
Breve storia della riproduzione dei suoni
di Francesco Paradisi Miconi
pag. 20
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PRESENTAZIONE
Il Corso di Studi ‘LA PRODUZIONE MUSICALE SACRA A ROMA’ è
dall’Associazione Corale ‘BENEDETTO MARCELLO’ con lo scopo di
l’interesse verso la grande tradizione corale capitolina e di divulgare presso
pubblico il patrimonio artistico culturale rappresentato dalla musica corale
romana.
promosso
stimolare
un ampio
italiana e
Il progetto nasce articolato in quattro cicli di conferenze che si sono svoli a cadenza
annuale, ciascuno composto da conferenze-concerto, durante le quali l’apporto di eminenti
musicologi e musicisti si sono alternati al dibattito e all’esecuzione, da parte della corale
polifonica ‘Benedetto Marcello’, di alcuni pezzi musicali attinenti all’argomento
dell’incontro.
Questa pubblicazione raccoglie il lavoro svolto per il 4 ciclo di conferenze sul tema ‘LA
MUSICA SACRA CONTEMPORANEA’ e conclude il ciclo quadriennale di conferenze.
Il Presidente
Federica Stacchi
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PREFAZIONE
Il Corso di Studi ‘La produzione musicale sacra a Roma’ nasce da un disegno culturale
divulgativo dell’Associazione corale ‘Benedetto Marcello’.
Il progetto, articolato in 4 cicli di conferenze-concerto con cadenza annuale, ha
affrontato un tema diverso sulla musica sacra a Roma:
1° ciclo (novembre 1999) ‘Il cinquecento in Italia e a Roma’
2° ciclo (novembre 2000) ‘Le grandi composizioni sacre per i Giubilei e i
compositori operanti nelle cappelle musicali delle
basiliche capitoline’
3° ciclo (novembre 2001) ‘L’orchestra nella musica corale’
4° ciclo (novembre 2002) ‘La musica sacra contemporanea’
Il quarto ciclo sul tema ‘La musica sacra contemporanea’ vuole analizzare alcuni aspetti
della musica corale del novecento attraverso tre interventi dal titolo ‘Cultura e musica negli
eventi storico sociali del novecento’, ‘Igor Stravinskij e Lorenzo Perosi: due aspetti della
musica sacra del novecento’, e ‘Breve storia della riproduzione dei suoni’.
Questa pubblicazione vuole essere un approfondimento degli argomenti trattati attraverso
la divulgazione integrale degli interventi dei musicisti partecipanti all’ultimo ciclo del
Corso di Studi.
Il Direttore Artistico
M° Maria Teresa Carloni
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Cultura e musica negli eventi storico sociali del
novecento
di
Maria Teresa Carloni
Il novecento è stato un secolo ricco di avvenimenti che hanno modificato l’economia, la
politica, le ideologie e la cultura. Non è quindi corretto isolare i fatti artistici dalla realtà
storica alla quale appartengono in quanto, per il periodo che stiamo per analizzare
brevemente, le vicende musicali partecipano ad una vicenda culturale complessiva a sua
volta integrata con la vita politica e sociale di un’epoca.
Il passaggio tra l’ottocento ed il novecento fu segnato dal capitalismo non solo
nei paesi a più antica tradizione industriale come Francia ed Inghilterra, ma il fenomeno
divenne mondiale in quanto interessò potenze industriali più recenti come la Germania,
l’Italia, la Russia che si aprì al grande capitalismo Inglese, Stati Uniti e Giappone:
caratteri economici simili riguardarono quindi paesi dalle storie passate e recenti
radicalmente diverse attraverso un’espansione produttiva impetuosa, e aggressiva nella
ricerca dei mercati, che ebbe il suo sbocco più immediato nell’industria degli
armamenti. Le potenze europee sono parimenti impegnate all’espansione economica in
Africa ed in Asia dove, non più con poche basi costiere, all’interno fanno fiorire
imprese minerarie ed agricole. Muoiono quindi antiche civiltà aventi sistemi diversi da
quelli occidentali, ossia da sistemi capitalistico-industriali. Sempre in primo piano è in
ogni modo presente, per le grandi nazioni industriali, la questione sociale che, in fasi
alterne, spingono gli operai ad organizzarsi con precise mete di potere politico.
L’esaltazione del capitalismo, della scienza e della tecnica si colorerà nel novecento di
aspetti violenti, aggressivi, intolleranti e razzisti.
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Tra l’ottocento ed il novecento, nella cultura europea, la figura dell’intellettuale
modifica la sua natura per mettersi al servizio della marcia inarrestabile del progresso,
divulgandone le realizzazioni. Giunge al culmine una cultura ufficiale funzionale alla
realtà politico-economica del tempo: essa ha i suoi centri propulsori nelle grandi
esposizioni nazionali ed internazionali per esporre le meraviglie della produzione
industriale sottolineato da opere l’arte. L’ideologia che guida questo tipo di cultura è
ottimistica ed il suo gusto venne espresso attraverso la ‘grandiosità’, immagine artistica
centrale di questa cultura ufficiale: un esempio nell’architettura è la grandiosità degli
edifici legati alle funzioni pubbliche (palazzi governativi, stazioni ferroviarie, ecc) e
nell’arte figurativa connessa a questi edifici. La ‘grandiosità’ sviluppa una vera e
propria psicologia delle masse spesso trattate come coronamento della grande opera
d’arte. La cultura sociale di questo inizio secolo è dunque pesantemente condizionata
dall’esaltazione delle sorti che la scienza e la tecnica riserveranno all’umanità.
Il novecento si apre quindi con una situazione politico-sociale basata, per grandi
linnee, sulle tematiche precedentemente esposte. Due furono i principali motivi di crisi
che attraversarono immediatamente l’inizio del secolo: la minaccia di una guerra
incombente e l’acuirsi della questione sociale. Nella prima metà del secolo le grandi
dittature, le due guerre mondiali e l’olocausto modificarono completamente tutto ciò che
era stato costruito nei secoli precedenti: le economie delle nazioni europee vennero
distrutte, insieme alle città, dalla guerra e solo nella seconda metà del secolo, attraverso
la ripresa economica data dalla ricostruzione industriale, sono tornate ad essere delle
potenze economiche. La società civile visse una delle pagine più tristi di tutta la sua
esistenza: l’intolleranza ed il razzismo che portò all’olocausto.
In questa parte drammatica del secolo la cultura e l’arte subirono una forte
battuta d’arresto. E’ quindi da dividere in tre parti le fasi culturali del secolo: prima
delle due guerre, tra le due guerre e la rinascita dopo la seconda guerra mondiale.
All’inizio del secolo ci fu una fase di grande diffusione della musica: i concerti
itineranti (le tournèe) iniziarono ad essere una organizzazione su scala mondiale; i
conservatori, fino allora utilizzati solo per lo studio della musica, diventano luoghi di
esecuzione musicale dove spesso venivano invitati ad insegnare e a tenere concerti
famosi musicisti europei. L’editoria musicale ebbe un’espansione a livello mondiale
rilevante facilitata dai minori ostacoli linguistici rispetto all’editoria letteraria: come
nell’economia ci fu il capitalismo, anche nell’editoria musicale questo avvenne con
l’espansione su nuovi mercati di alcune case editrici (ad esempio Ricordi assorbì varie
case editrici e si espanse fino agli Stati Uniti e l’Argentina). Nacque il ‘divismo’ dei
grandi interpreti: fino allora venivano ricordati i compositori delle opere eseguite con
minimi riferimenti agli esecutori, dal novecento in poi iniziarono a prendere il
sopravvento l’esecuzione degli interpreti sulla musica eseguita. Nascono le grandi
orchestre ed il mito del direttore d’orchestra che mettono in rilievo il culto
dell’individuo eccezionale, del capo carismatico, se non addirittura del superuomo (tutte
ideologie che oggi ancora persistono nell’ambiente delle grandi orchestre tanto da
rendere molto difficile ad una donna direttore d’orchestra di poter emergere!). Nasce
inoltre in questo inizio secolo, il culto per il repertorio: nei concerti si iniziò sempre di
più ad eseguire musica del passato dando sempre meno spazio alla musica
contemporanea, prassi che rimane ancora oggi nei programmi dei concerti o nelle
stagioni dei teatri dell’opera. Il valore culturale espresso dal repertorio divenne quindi
assimilabile a quello di un museo a cui si affida, nella continuità rassicurante con il
passato, la dignità del presente. Positiva fu la concezione ‘sacrale’ del teatro o della sala
da concerto: il teatro diventa il ‘tempio della musica’, lo spettacolo il ‘rito’, gli interpreti
i ‘celebranti’ e gli spettatori, che ascoltavano muti, degli ‘iniziati’. Questo cerimoniale
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modificò definitivamente il malcostume di alcuni aspetti della pratica corrente di ascolto
in tutti teatri del mondo, dato dagli eccessi chiassosi del pubblico durante l’esibizione
degli interpreti: si giunse quindi alla progressiva scomparsa del continuo rumoreggiare
durante l’esecuzione che aveva caratterizzato le platee e i palchi per tutti l’ottocento. I
concerti e le rappresentazioni teatrali iniziarono ad avere una maggiore accuratezza
nelle esecuzioni attraverso la maggiore cura nelle prove e nel numero delle prove stesse,
con un maggior coordinamento negli elementi di regia e di coreografia.
In tutti questi cambiamenti e, contemporaneamente, del radicamento tra cultura e
capitalismo, operarono dei musicisti investiti da qui processi di sradicamento, di
emarginazione e autocoscienza della crisi tra rapporto artista-società che andò sotto il
nome di avanguardia. La sostanza della crisi tra il compositore contemporaneo di inizio
secolo (ossia il musicista che non vede più eseguita la sua musica ma musica di
repertorio) ed il pubblico risiede nel linguaggio: il musicista non riesce più ad adeguarsi
all’insieme di aspettative che gli provengono dall’esterno: come il pittore non intende
più adeguarsi alla riproduzione di una realtà predeterminata, come il letterato non
intende più descrivere oggettivamente i meccanismi predeterminati dell’organismo
sociale, così il musicista considera obsoleti i modi di linguaggio del sistema tonale, le
forme ad esso coerenti, le funzioni universalmente accettate del tempo e dello spazio
nell’ascolto musicale. Il distacco tra musicista e pubblico è causa ed insieme effetto
della crisi del linguaggio: causa perché la ricerca del linguaggio prescinde dalle
possibilità di comprensione di un ascolto ingenuo; effetto perché l’isolamento nei
confronti della società e dalla mancanza di una funzione riconoscibile dell’attività
artistica, nasce una totale libertà, lucidamente individuata da Stravinskji, come
condizione impossibile per la creazione.
Tra le due guerre il mondo occidentale ebbe il punto più basso di una crisi
politica, economica ed intellettuale: il 1929 è l’anno dell’inizio della ‘grande
depressione’, una crisi economica che, partita dall’america, investì tutta l’Europa. Non
meno profondi di quelli economici furono gli effetti politici ed istituzionali della crisi:
da questa situazione trassero nuovo alimento i movimenti nazionalistici che sfociarono
nelle grandi dittature. Profonde ripercussioni si ebbero sulle strutture stesse
dell’organizzazione sociale: fenomeni come l’inurbamento di vasti strati contadini, lo
sviluppo di una base operaia e piccolo-borghese di massa, la concentrazione del capitale
e la nascita di organismi produttivi, subirono un’improvvisa accelerazione in seguito
agli interventi di ristrutturazione negli anni successivi alla crisi, sino a sancire il
definitivo tramonto del vecchio liberismo.
Nel campo della cultura e dell’arte pochi intellettuali dell’epoca ebbero la
consapevolezza chiara delle profonde trasformazioni che stavano verificandosi nel
mondo occidentale: mentre la prima guerra mondiale era stata una esperienza traumatica
per la cultura ed aveva segnato profondamente la produzione artistica degli anni
successivi, la crisi degli anni trenta cadde invece in un clima di rassegnata indifferenza,
di disorientamento e di disarmo intellettuale. L’impotenza o il silenzio della cultura
venne così ad aggiungere un senso di desolazione alla tragedia che si andava
consumando. La musica e la produzione musicale seguì due strade come per la politica
e l’economia: nei paesi dove i movimenti nazionalistici avevano preso il sopravvento,
fino a giungere alle grandi dittature, la musica era ‘di regime’, ossia vincolata e non
libera espressione dell’arte; nei paesi liberi la musica rimase sempre un linguaggio di
libera espressione dell’artista, ma la produzione musicale risentirà degli eventi bellici.
In Italia la politica culturale del fascismo si identificò con la creazione di un apparato
burocratico centralizzato che impediva ad intellettuali ed artisti ogni deviazione dal
conformismo imposto dal regime. All’ombra di questa cultura incapace d’essere altro
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che una fabbrica di stereotipi per l’indottrinamento della massa, la vecchia cultura
liberale continuava ad essere il vero tessuto della vita intellettuale. Il panorama della
vita culturale durante il ventennio fascista fu uguale per tutte le arti. Molti musicisti si
piegarono al regime producendo musica come veniva imposto dal regime, molti altri
trovarono rifugio nei paesi liberi per esprimere la loro arte. In questo periodo nuovi
spazi vennero aperti all’attività compositiva ed esecutiva dall’avvento del film sonoro,
della radio e, successivamente, della televisione così come nuove professioni musicali
iniziarono ad esistere nell’ambito della musica d’uso come quella dell’arrangiatore.
Elemento innovativo sarà la nascita della riproduzione del suono e l’utilizzo di
strumenti elettronici nel linguaggio musicale.
Dopo la seconda guerra mondiale l’Europa, ridisegnata dalla pace e dalla ‘guerra
fredda’, attraversa il periodo della rinascita economica che farà tornare varie nazioni
potenze mondiali. Nella cultura l’avanguardia, in altre parole il ripudio delle forme
convenzionali della comunicazione linguistica, si configurò come l’atteggiamento più
congeniale alle nuove generazioni di intellettuali ed artisti nel loro rapporto con la realtà
contemporanea. Il riferimento ideale e terminologico alla cultura radicale del primo
novecento, la petizione di continuità nei confronti di quella che da allora è invalso
chiamare ‘avanguardia storica’ venne via via ad avere una rivalutazione nei confronti di
temi, opere ed autori anteriori alla guerra. In realtà, se si eccettuano alcuni casi di
effettiva persistenza di una tradizione dell’avanguardia che dal primo novecento si
trasmette al secondo, è difficile sul piano generale attribuire alla continuità tra vecchia e
nuova avanguardia il carattere di un organico sviluppo storico al di là delle presunzioni
ideologiche. Se di continuità si vorrà parlare questa andrà ricercata nelle singole opere e
nel dibattito teorico che venne sviluppandosi sul tema dell’avanguardia e del suo
significato nella società contemporanea.
Sostanzialmente ci troviamo di fronte a due vie seguite dai musicisti in tutto il
secolo: una via volta alla tradizione del linguaggio musicale strettamente legato alla
tonalità, una seconda via di scardinamento della tonalità e ricerca di un nuovo
linguaggio espressivo musicale: nella via della tradizione abbiamo molti musicisti e
buona parte dei musicisti di regime, nella seconda troviamo tutti i compositori delle due
avanguardie. Nella prima via tutto rimane abbastanza invariato rispetto alle forme
musicali ed alla prassi esecutiva dell’ottocento. La seconda strada ha invece creato ad
una serie di sperimentazioni che vanno dalla musica dodecafonica alla musica seriale.
Fulcro di ogni sperimentazione dell’avanguardia è lo scardinamento del sistema tonale,
l’utilizzo della melodia non più come elemento determinante nella costruzione del brano
musicale, l’utilizzazione non tradizionale degli strumenti musicali e della voce,
l’utilizzo maggiore dell’elemento ritmico e degli strumenti a percussione, la ricerca di
una nuova forma di notazione musicale, la creazione di nuovi strumenti musicali e la
musica elettronica. Nasce quindi un cammino volto alla ricerca delle possibilità
espressive e ritmiche degli strumenti fino ad allora utilizzati ed alle nuove possibilità
tecniche della voce.
Scomparendo la concezione di canto identificato come una melodia, concezione
che aveva dominato il panorama musicale per oltre tre secoli, la storia della vocalità è
essenzialmente una rassegna delle varie forme in cui si presenta il canto declamato. Si
afferma quindi il principio di una vocalità che si esprime quasi esclusivamente in una
forma intermedia tra linguaggio parlato e linguaggio cantato, mentre il compito di
delineare gli stati d’animo viene affidato all’accompagnamento strumentale. In Italia la
declamazione tende a dilatarsi in forme ariose in parte coincidendo con il declamato
delle ultime opere veriste. Il fenomeno di maggior interesse e rilievo è però costituito
dall’introduzione dello Sprechgesang, una declamazione legata al ritmo e all’altezza
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degli intervalli melodici in cui la voce accenna appena il suono abbandonandone però
subito l’altezza pur tenendo il suono per tutta la durata prescritta. Ad opera dei
compositori della avanguardia è legata la nascita della nuova vocalità: si tratta di una
concezione della scrittura e dell’ interpretazione delle parti vocali che interessa non solo
la possibilità di fonazione, compresi i rumori comunicativi (sospiro, grida, risate,
gemiti, singhiozzi, ecc) e le caratteristiche del canto jazzistico e del canto popolare, ma
anche l’attività gestuale del cantante, il quale deve saper ballare, recitare, improvvisare,
mimare; alla nuova vocalità non sono d’altra parte estranei nemmeno tratti di autentico
virtuosismo.
Nella musica vocale d’avanguardia la parola, spogliata ormai da un corrispettivo
musicale, tende a svincolarsi anche da un rapporto linguistico e a diventare, nella
primordiale consistenza materiale di suono e ritmo, comunicazione affettiva diretta i
immediata; la generale tendenza, nella seconda parte del secolo, è quella di considerare
essenziale la valorizzazione delle sfumature timbriche delle vocali e delle consonanti
concepite come una riserva di colori e timbri naturali. Abbiamo composizioni in cui la
parola viene frantumata in fonemi naturali non aventi valore semantico preciso, e
ricomposti attraverso tecniche seriali particolari: tutti i fonemi risultano separati per
sonorità, colore ed accento e adeguati con un sistema di procedimenti combinatori al
particolare carattere. Lo sviluppo della musica vocale ha subito una duplice direzione:
da un lato proseguendo nel campo autonomo della fonetica musicale, dall’altro invece
come descrizione di particolari stati d’animo e come espressione di associazioni e
visioni subconscie. Nel primo caso la voce umana continua ad essere considerata
principalmente come materia per la costruzione delle complicate strutture seriali, al di
fuori delle associazioni espressive. Il secondo ha avuto il suo esordio negli anni ’60
quando, superato l’apice del serialismo strutturale, si andava delineando una radicale
dissoluzione della ‘serietà’ seriale. L’attenzione dei compositori e degli interpreti era
volta sempre più alla riscoperta del valore di una sfumatura dinamica o di un
atteggiamento espressivo nella valorizzazione degli affetti complementari della voce
con le sue varie maniere di emissione e di articolazione mimica. Molti compositori
hanno sperimentato nuove tecniche compositive legate all’utilizzo diverso degli
strumenti a disposizione, mentre molti altri sono rimasti legati alla tradizione ed alla
prassi esecutiva del secolo precedente.
Questi elementi sopra elencati sugli avvenimenti storico-sociali, culturali e
musicali del novecento vogliono essere un breve spunto di riflessione su un secolo ricco
di eventi che hanno cambiato profondamente la società, l’economia, la cultura e la
musica.
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Igor Stravinskij e Lorenzo Perosi: due aspetti
della musica sacra del novecento
di
Maria Teresa Carloni
Nel panorama della musica sacra del novecento compositori come Igor
Stravinskij e Lorenzo Perosi possono riassumere i due caratteri che prevalsero in questo
secolo: la ricerca verso un nuovo linguaggio musicale, facendo tesoro delle esperienze
del passato, e l’esaltazione della tradizione rinnegando ogni forma di modernità. Questo
piccolo saggio, attraverso il confronto di due grandi compositori, vuole mostrare due
aspetti della musica sacra del novecento.
Igor Stravinskij nacque in Russia nel 1882. Sin da bambino avvenne il suo
contatto con la musica attraverso il padre, primo basso dell’opera imperiale di
Pietroburgo, e successivamente con lo studio del pianoforte. I suoi ricordi musicali della
prima infanzia erano legati ai canti dei contadini ascoltati durante i mesi estivi trascorsi
in campagna, quelli della prima giovinezza riflettono invece la stupefazione di un
ragazzo che assiste per la prima volta ad un’opera e che ascolta per la prima volta un
orchestra. Fu solo nel corso della giovinezza che la musica cominciò ad occupare un
posto prevalente e sempre più esclusivo fra gli interessi artistici e culturali di
Stravinskij. Intraprese lo studio del Diritto, insieme allo studio della musica, e concluse
i suoi studi nel 1905. Visse in Russia fino allo scoppio della prima guerra mondiale:
successivamente si trasferì prima in Svizzera poi a Parigi; in seguito alla rivoluzione
russa, della quale rimase profondamente deluso, decise di non tornare più nel suo paese
d’origine. Nel 1939, avvertito l’imminente scoppio della seconda guerra mondiale, si
trasferì definitivamente negli Stati Uniti dove morì, quasi novantenne, nel 1971.
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La sua opera compositiva può essere suddivisa in cinque periodi ben distinti
della sua vita: gli anni di apprendistato fino al 1909, gli anni del soggiorno in Svizzera
fino al 1919, il periodo parigino fino al 1939, il primo periodo americano e l’ultimo
ventennio. Nel periodo di apprendistato notiamo che così come lentamente Stravinskij
manifestò le proprie attitudini musicali, così anche il processo di maturazione di un
proprio stile personale fu piuttosto lento ad emergere. I primi lavori compositivi furono
lavori di apprendistato caratterizzati da un sofferto cimento verso la grande forma o dal
ricalco di un modello. E’ verso la fine di questo periodo che Stravinskij, traendo spunto
dalla tradizione e dalla spiritualità russa, inizia a far emergere il suo stile: fulcro di
questo mutamento è ‘Feu d’artifice’ (1908) dove Stravinskij introduce un nuovo criterio
compositivo in cui le cellule melodiche si ricompongono e si scompongono senza posa
utilizzando l’intervallo e non tanto un tema come principio strutturale; la dimensione
ritmica assume notevole dinamismo e varietà, diventando anch’essa elemento strutturale
e di sviluppo contestualmente all’elaborazione intervallare.
Nel secondo periodo, quello del soggiorno in Svizzera, scrisse molta musica
spaziando nei vari generi musicali. Lo stile compositivo è ormai ben delineato, infatti
egli riassume l’intera tradizione russa tardottocentesca della scuola dei cinque ma con
evidenti influssi della musica francese: sfruttò dunque questi elementi in modo nuovo
che diventeranno caratteristica del suo stile personale attraverso l’uso di spirali
cromatiche che identificavano simbolicamente il mondo degli esseri magici dando
luogo a sviluppi intervallari invece di sviluppi tematici veri e propri, l’uso del timbro
come elemento per definire con nitidezza i vari strati sonori dell’udito orchestrale, l’uso
del ritmo che nel decorso tematico orizzontale si complicava in suddivisioni
asimmetriche e in quello verticale in episodi poliritmici. Questo periodo compositivo fu
molto fecondo infatti ci sono giunte molte opere nei diversi generi musicali.
Gli anni del soggiorno in Francia inaugurarono una nuova stagione creativo con
il balletto ‘Pulcinella’ che lui stesso definiva “la mia scoperta del passato, l’epifanea
attraverso la quale tutto il mio lavoro ulteriore divenne possibili: fu uno sguardo
all’indietro naturalmente, la prima di molte avventure in quella direzione, ma fu anche
uno sguardo allo specchio”. In questa duplicità dello sguardo creativo, nel passato per
attingere modelli e nel presente o passato molto prossimo del proprio stile per ricrearli
con la coscienza storica, consiste l’essenza del neoclassicismo che però, nella
dimensione stravinskiana, fissa molto più lo sguardo nello specchio del proprio stile di
quanto non faccia nei confronti del passato. Naturalmente l’idea di rinnovare l’arte
rivolgendosi ai principi e modelli del passato non costituiscono un fatto nuovo, ma il
neoclassicismo del secolo ventesimo si presenta con due caratteristiche particolari: la
ricerca dei principi ordinatori fuori dal Romanticismo e la consapevolezza della
conoscenza approfondita di molti stili del passato; erano dunque ben lontani dalla
ripetizione pedissequa ed inutile di ciò che era stato, ma volevano creare “una forza
vivente che anima ed informa il presenta”. I temi di compositori precedenti passati al
vaglio della rielaborazione e dell’orchestrazione stravinskiana assumono una nuova
vitalità ritmica e sonora, oppure accentuano ancor più la loro vena nostalgica e
sentimentale in un gioco continuo di scambi e di ribaltamenti fra i due piani: il principio
compositivo di cui si avvale è la parodia. Nella musica di ispirazione religiosa, poiché
in essa la sincronia tra il tempo ontologico ed il tempo musicale intende infondere
nell’ascoltatore un sentimento di euforia e calma dinamica che predispone alla preghiera
ed al canto di lode, questi principi trovano la più compiuta e perfetta attuazione. La
prima straordinaria opera fu la ‘Sinfonia di salmi’ in cui la scelta dei salmi e dei tempi è
ordinata in modo da tracciare un percorso spirituale che dalla supplica e dalla
prostrazione, attraverso la fede e la speranza, giunge alla lode ed al giubilo: un esempio
è come al fascio di luce abbagliane che ci folgora il passaggio dal modo minore al
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maggiore nel Laudate Dominum, alla calma dinamica del Laudate in cui la lode è
espressa con un movimento rotatorio che suggerisce l’immagine dell’eternità. Fu in
ogni modo molto difficile per il pubblico e la critica comprendere tali trasformazioni.
Il periodo americano inizia, nei suoi primi anni di permanenza, con tutta una
serie di lavori d’occasione o su commissione quanto mai disparati: tra questi
l’elaborazione di un’armonizzazione poco ortodossa dell’inno statunitense che lo
porterà a rischiare di venir accusato di vilipendio nei confronti dello stato. Deciso a
rimanere negli Stati Uniti, spinto dai problemi economici e dal desiderio di inserirsi in
quella nuova realtà, si rese pienamente disponibile nei confronti dei suoi valori, di suoi
gusti e del suo mercato musicale. Alcuni lavori di questo periodo risentono di un certo
manierismo e si avverte la ripresa di moduli di lavori precedenti, mentre per altri lavori
non vale questo discorso: è presente a volte la capacità ricreativa del trasformismo
parodistico di Stravinskij e l’uso di una specie di fuga con accompagnamento, in cui fa
passare il tema delle diverse voci orchestrali secondo il principio delle risposte della
fuga accompagnate da leggere trame contrappuntistiche derivate da ritmi di danza. Il
periodo neoclassico ha il suo coronamento con una splendida serie di capolavori nei vari
generi: l’altissimo grado di astrazione raggiunto dalla parodia gli permetterà di fare
ormai a meno di riferimenti tematici diretti. Il procedimento di sviluppo dei movimenti
estremi, in cui una cellula elementare viene elaborata mediante rotazioni e
permutazioni, fa presagire una predisposizioni all’impiego di procedimenti seriali veri e
propri, che di lì a poco saranno utilizzati per la prima volta in modo esplicito nei
ricercari della ‘Cantata’. Per quanto concerne la musica sacra, Stravinskij, intenzionato
a scrivere una Messa per il rito cattolico-romano e non una messa da concerto, si attiene
in modo rigoroso alla natura delle funzioni liturgiche delle singole parti. Nel Kyrie e
nell’Agnus Dei le invocazioni di supplica sono poste in rilievo o da ostinazioni ritmiche
oppure mediante cornici strumentali che fungono da interludio agli eventi corali; nel
Gloria e nel Sanctus, invece, fa spiccare il carattere di lode e di acclamazione
alternando episodi in cui una vocalità melismatica e di ambito intervallare molto ridotto
quanto mai suggestiva, ad episodi di esaltazione corale in cui la ripetizione di cellule
elementari nelle diverse da voci provoca l’effetto di vere e proprie esplosioni di gioia; il
testo del Credo, in accordo con la sua funzione liturgica di professione di fede, è
scandito sillabicamente dal coro e suddiviso in sezioni da pause, cadenze, respiri,
sottolineature di parole-chiave, secondo un preciso piano formale ed espressivo.
Nonostante la severità arcaica della Messa, Stravinskij non impiegò ricalchi parodistici
diretti di stile della musica sacra del passato storico: ingloba nel proprio stile, sintetizza
procedimenti e linguaggi in astratto.
Nell’ultimo ventennio si conclude l’opera compositiva di questo compositore
con opere ancora di grande interesse e di maturazione del proprio stile. Manifestò un
sempre più spiccato interesse per l’impiego delle permutazioni e delle elaborazioni
canoniche della tecnica seriale, senza fare molto uso di serie dodecafonica: ancora una
volta è però ancora il suo stile ad inglobare le tecniche seriali ed a piegarle alle proprie
esigenze creative. Due sono le opere sacre di grande interesse di questo periodo:
‘Canticum Sacrum’ , del 1955, e ’Requiem Canticles’. Nella prima opera la serialità è
ancora impiegata assieme a parti libere da vincoli seriali. Dalla sede per la quale fu
composta, la basilica di San Marco a Venezia, trae l’ispirazione per far rivivere la
solennità rituale e la magnificenza timbrica degli antichi maestri veneziani in un’aura
sonora quasi sospesa e atemporale. La cantata presenta con una struttura simmetrica che
colloca al centro una sezione dedicata alla tre virtù teologali (carità, speranza e fede)
invocate in una notevole varietà di episodi corali che vanno dal canone, al canto
responsoriale, fra loro separati da interludi strumentali. Attorno a questo nucleo centrale
si dispongono due episodi, l’uno solistico del tenore solo, accompagnato da effetti
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strumentali e sonori raffinatissimi, l’altro a responsorio tra baritono e coro che
riecheggia le sue parole amplificandole come in un eco. I due movimenti corali estremi
sono perfettamente speculari in quanto rappresentano l’esortazione dell’opera di
evangelizzazione e il suo compimento. Introduce l’intera opera una dedicatio in forma
di bicinium fra tenore e baritono con sostegno strumentale. La perfetta integrazione tra i
procedimenti seriali da un lato, i modelli antichi dall’altro, fa della composizione il
primo capolavoro sacro di questa stagione compositiva di Stravinskij, e rappresenta una
chiara prova del fatto che l’acquisizione della serialità non costituì affatto per il
compositore un rifiuto del passato, di quello storico come di quello personale, bensì un
altro modo di avvalorarlo. Nell’ultima sua composizione sacra di ispirazione funebre,
’Requiem Canticles’, realizzò forse il momento più alto di sintesi tra il linguaggio
seriale e le valenze espressive del proprio stile. Ognuna delle sezioni è un quadro di
grande potenza e di grande concisione espressiva illustrato da procedimenti compositivi
talora inediti, come la combinazione tra omoritmia corale e parlato, che intensifica in
modo impressionante l’effetto di supplica affannosa di una massa orante, o come la
chiusa celestiale affidata ad un trio di celesta, campane e vibrafono con laceranti
interpunzioni accordali di flauti, pianoforte e arpa.
Da questa breve esposizione dei periodi di produzione musicale di Stravinskij, si
può vedere il percorso compositivo di questo artisti: assorbita, durante il periodo di
apprendistato, la tradizione e dalla spiritualità russa, iniziò un lento distacco già nel
corso degli anni svizzeri, quando intrattenne scambi culturali molto intensi con
intellettuali e musicisti non russi, ed iniziò a confrontarsi con orientamenti intellettuali
diversi da quelli radicati nella tradizione russa; negli anni venti iniziò la virata
neoclassica, con le perplessità ed i fraintendimenti che derivarono, inserendolo
stabilmente nel gruppo d’avanguardia europea dove egli sentì, sempre più viva,
l’esigenza di esporre il proprio pensiero estetico e poetico. Il trasferimento negli Stati
Uniti segna un’ulteriore trasformazione nel suo linguaggio musicale: la sua concezione
del processo creativo come un lavoro quotidiano artigianale ha come fine la creazione di
oggetti musicali, e intende abolire un rapporto psicologico cosciente del compositore.
Con l’acquisizione della serialità la poetica musicale sostanzialmente non mutò, ma
venne semmai specificando certi punti focalizzandoli meglio con la distanza storica e la
successiva evoluzione dell’arte musicale. Di questo straordinario compositore ci sono
giunte molte opere nei vari generi musicali.
Il secondo compositore oggetto di questo breve saggio sulla musica sacra del
novecento è Lorenzo Perosi. Nato a Tortona nel 1872, fu avviato agli studi musicali dal
padre, maestro di cappella nel duomo di Tortona e tra i propugnatori della riforma della
musica sacra italiana. Dopo aver terminato gli studi nel conservatorio di Roma e di
Milano, divenne organista e maestro di canto nell’Abbazia di Montecassino per due
anni: successivamente riprese gli studi nel conservatorio di Milano diplomandosi e
perfezionandosi successivamente a Ratisbona. Assunse l’incarico di maestro di canto
nel seminario di Imola, dirigendo la cappella del duomo, come poi quella di San Marco
a Venezia. Consacrato sacerdote ebbe modo di farsi conoscere dirigendo esecuzioni di
proprie composizioni oratoriali, e nel 1898 fu posto a capo della Cappella Sistina a
Roma e dal 1903 divenne Maestro Perpetuo. Una grave crisi psichiatrica lo costrinse a
lasciare l’incarico nel 1915, ma lo riassunse otto anni più tardi. Nel 1930 fu nominato
Accademico d’Italia e nel dicembre 1956 morì a Roma.
Autore fecondo ed ispirato di musica strettamente liturgica, Perosi esordi nel
campo oratoriale nel 1897 a Venezia in occasione di un congresso di musica sacra:
l’austerità del linguaggio, l’uso sapiente di spunti gregoriani, il casto ma fervido lirismo
della partitura fecero grande impressione, sì che fu istantaneamente promosso a nuovo
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genio musicale e la sua notorietà, fino ad allora limitata all’ambiente cattolico, si estese
in un baleno, provocando nell’opinione pubblica una enorme aspettativa. Gli anni tra la
fine dell’ottocento ed i primi del novecento furono quelli di gran successo che
stimolarono il giovane compositore ad un frenetico sforzo creativo per placare le
esigenze invero smodate del pubblico italiano: ai primi quattro oratori, tre scritti
addirittura in un anno, seguirono, a sempre più lunghi intervalli, lavori via via sempre
meno pregnanti. Venne acclamato come il nuovo Palestrina mentre soltanto poche voci
critiche isolate cercarono di far luce sull’autentica validità dell’opera di questo
musicista; purtroppo le successive poco liete vicende fisiche e mentali frammentarono
crudelmente l’elaborazione delle sue composizioni, sì che la conoscenza della sua
produzione musicale avvenne sempre in modo più incompleto ed occasionale,
impedendo un discorso critico continuativo e quindi confinando l’esegesi perosiana al
solo primo periodo. Perosi continuò a scrivere musica fino alla fine dei suoi giorni, ma
su questa musica non è stata fatta ancora un’adeguata indagine, sì che occorre
considerare soltanto la parte nota della sua opera.
La sua produzione musicale è divisibile in due parti: gli oratori e le forme affini
di musica sacra. La forma oratoriale, che gli procurò immediata fama, fu da lui
affrontata quasi per caso, mosso dall’esigenza di fornire un lavoro importante per il
congresso eucaristico veneziano: fu il grande successo ottenuto a spingerlo oltre,
facendogli concepire il progetto, solo parzialmente realizzato, di musicare in dodici
episodi la vita di Cristo. Attraverso le successive tappe, l’oratorio perosiano si configura
come animato da nobilissime intenzioni, denso di lirismo quasi costantemente puro e
spirituale: musicò direttamente il testo evangelico dando voce ai personaggi in prima
persona, movimentando inoltre il ruolo dello storico che risulta sovente suddiviso tra i
vari solisti ed il coro. Seguendo l’esempio di Bach fa uso di episodi fugati e di corali
variati; ma nell’insieme la materia musicale degli oratori colpisce per lo strano e
suggestivo eclettismo col quale egli accosta echi veristici, atteggiamenti wagneriani,
costruzioni di tipo barocco ed echi della grande polifonia italiana. Difettava in Perosi un
vero e completo corredo di studi: la sua preparazione comtrappuntistica, soprattutto in
materia sacra e gregoriana, era solida ma troppo poco egli aveva approfondito la scienza
dell’orchestrazione e la dottrina della composizione vera e propria, per questo la
realizzazione dei suoi lavori sinfonico-corali risulta sempre inferiore all’invenzione. I
momenti migliori vanno perciò ricercati nella fervida intonazione di episodi
commuoventi, gioiosi, esultanti, dove le componenti si armonizzano compiutamente
formando una sintesi poetico-mistica di schietta ispirazione cattolica che riesce a
conseguire un fascino genuino, fatto di ingenuo misticismo espresso da affettuose
pennellate sonore.
Altro discorso occorre tenere per quanto riguarda la musica liturgica,
numerosissima, che scrisse con inesausta spontaneità per tutta la vita. Sono giunti a noi
numerosi mottetti e numerose messe che esprimono, nella loro semplicità, la migliore
vena compositiva di Perosi, volta a tradurre in suoni le solenni parole dell’azione sacra.
Sono tutti brani semplici, in cui la polifonia è trattata con scorrevolezza e posta al
servizio di una fresca vena melodica dove, accanto al gregoriano, si trova l’affettuosità
tipica di questo compositore. Tra l’innumerevole quantità di musica prodotta dal
movimento ceciliano, con severi propositi di restaurare il gusto ed il senso della liturgia,
i lavori di Perosi spiccano di gran lunga per genialità creativa sopravanzando i nobili ma
sterili parti dei compositori del movimento: Perosi colse interamente lo spirito della
riforma della musica sacra scegliendo il linguaggio del suo tempo depurandolo da falsi
residui romantici e da ambiziose filiazioni barocche irrimediabilmente vuote di
contenuto. I risultati da tale saggia e consapevole presa di posizione si notano in alcune
messe che vivono di autentica ispirazione, perfettamente equilibrate rispetto all’esigenza
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liturgica e condotte in modo sapiente nel sobrio dialogo fra voce e organo, e in molti
mottetti quasi tutti di breve respiro ma non per questo meno efficaci. Di Perosi ci è
giunta una vasta produzione musicale tutta imperniata nelle varie forme della musica
sacra.
Questo breve lavoro di descrizione ed analisi dell’opera musicale sacra di due
compositori vissuti nello stesso periodo storico, mette in evidenza come sia stato
frastagliato musicalmente il novecento musicale al punto di avere situazioni totalmente
contrapposte. In Stravinskij abbiamo il compositore a contatto con il mondo, con le
varie esperienze compositive delineatesi nel periodo in cui viveva, un compositore
prolifico nei vari linguaggi musicali sperimentati dall’avanguardia e nei vari generi
musicali; in Perosi abbiamo invece il compositore molto legato alla tradizione, ad una
continuità con l’ottocento, che respinse ogni forma di sperimentazione nell’ambito
dell’avanguardia, e che svolse tutta la sua attività compositiva nell’ambito della musica
sacra. Voler fare un parallelo tra questi due artisti non è possibile per la diversità di
formazione e di spessore musicale, ma è interessante vedere come potevano coesistere
due realtà così diverse nell’ambito dello stesso periodo storico.
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Breve storia della riproduzione
dei suoni
di
Francesco Paradisi Miconi
Forse non tutti sanno che i primi tentativi di imprigionare i suoni in un supporto
che ne potesse consentire il riascolto in un tempo successivo risalgono ad oltre
centoventi anni addietro.
Fu infatti lo statunitense Thomas Edison (il famoso inventore della lampadina
elettrica, nonché titolare di un numero incredibile di brevetti) a realizzare nell’anno
1877 il primo rudimentale fonografo. Egli, per la prima volta nella storia, servendosi di
un cilindro che ruotava a velocità costante e che si spostava lateralmente per mezzo di
una vite senza fine, riuscì ad imprimere – sia pure in modo molto approssimativo – i
suoni di una filastrocca cantata da sua figlia: sul cilindro veniva avvolto un foglio di
stagno ed i suoni, raccolti per mezzo di una specie di imbuto che trasmetteva le relative
vibrazioni ad una punta, venivano incisi mediante quest’ultima sul foglio di stagno. La
particolarità di questo fonografo primitivo era costituita dal tipo di incisione che era
modulata verticalmente e cioè in profondità anziché lateralmente.
Dieci anni dopo, nel 1887, fu il tedesco E. Berliner ad inventare la registrazione
laterale mediante la realizzazione di un solco inciso su un disco anziché su di un
cilindro.
Questa è stata l’invenzione fondamentale che, sviluppata e perfezionata nei
decenni successivi, ha consentito la immensa produzione e diffusione in tutto il mondo
della musica registrata mediante incisione su disco, sistema che è stato superato solo
recentemente dalla tecnologia digitale – di cui si dirà appresso – in contrapposizione a
quella fino ad allora universalmente in uso detta analogica.
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All’inizio del 1900 vennero commercializzati i primi dischi ed i primi sistemi
per il loro ascolto, senonchè la qualità del suono riprodotto era molto scadente e questo
per vari ovvi motivi.
Infatti nella fase di incisione i suoni venivano raccolti da una specie di tromba
rovesciata che trasmetteva le vibrazioni ad una membrana la quale a sua volta era
collegata ad una punta metallica: questa incideva un solco sul disco descrivendo una
aspirale che partiva dall’esterno e finiva verso il centro.
Occorre poi considerare che i suoni registrabili erano limitatissimi in intensità
perché il sistema tromba-membrana, avendo una efficienza acustico-meccanica molto
bassa, doveva essere posto nelle immediate vicinanze di chi parlava, suonava o cantava.
Un esempio pratico, ben noto a molti, si può avere ascoltando i dischi registrati
agli inizi del ventesimo secolo dal celebre tenore Enrico Caruso: in essi, mentre la voce
solista veniva captata discretamente perché molto vicina alla tromba del fonografo
incisore, l’accompagnamento da parte dell’orchestra o anche del solo pianoforte
risultava assolutamente ridicola per intensità e timbro.
Si deve inoltre considerare che, per una serie di motivi che ovviamente esulano
dalla presente elementare esposizione, la banda di frequenze riproducibile con tale
sistema era estremamente limitata e praticamente si riduceva ad una parte assai ristretta
delle sole frequenze medie, così determinando alterazioni e colorazioni timbriche oggi
inammissibili.
Si aggiunga a questo che il rapporto tra il livello del suono riducibile ed il
rumore determinato dallo sfregamento della puntina metallica nel solco inciso era molto
scadente contribuendo ulteriormente a peggiorare una qualità di ascolto già piena di
limiti e difetti. Eppure, per quei tempi, si restava stupefatti perché mai sino ad allora si
era avuta una possibilità di riascoltare un brano di musica in un tempo successivo a
quello in cui era stato eseguito.
Questo sistema di incisione – detto meccanico perché erano in gioco soltanto
principi di meccanica-acustica – venne soppiantato attorno all’anno 1928 quando fu
introdotta la registrazione elettrica.
Si trattò di una vera rivoluzione tecnologica perché, al posto di una membrana
collegata alla famosa “tromba” che raccoglieva i suoni, veniva usato un sistema
elettromagnetico in cui era incorporata una punta tagliente per l’incisione del discomaster. A questo dispositivo arrivavano i segnali elettronici provenienti da un sistema
elettronico di amplificazione al quale facevano poi capo dei microfoni e cioè dei
trasduttori che trasformavano l’energia acustica in energia elettrica.
Da questa innovazione si ottennero notevoli vantaggi sul piano dell’ascolto
perché da un lato la gamma di frequenze riproducibili si estendeva sia verso l’alto e sia
verso il basso consentendo così una timbrica migliore e dall’altro, mediante l’uso di più
microfoni, era possibile avvicinarsi ai musicisti per ottenere un suono complessivo che
potesse comprendere tutti gli esecutori o almeno una gran parte di essi.
Certo restavano ancora parecchi problemi da risolvere come ad esempio il
fastidioso rumore di fondo provocato dallo sfregamento della puntina sul solco ed il
tempo di riproduzione limitato a 4/5 minuti per ogni facciata del disco, cosa che
costringeva l’ascoltatore ad alzarsi spesso per cambiare il disco, interrompendo e
disturbando così la tensione psicologica connessa all’ascolto di un brano musicale di
una certa durata.
Va comunque aggiunto che i dischi di quell’epoca (si sta parlando dei pesanti 78
giri che peraltro avevano una vita limitata perché soggetti al logorio dei solchi da parte
della puntina di lettura) avevano ancora una banda di frequenze molto tagliata sia verso
il basso e sia verso l’alto.
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La successiva rivoluzione è avvenuta all’inizio degli anni cinquanta con la
riproduzione del cosiddetto microsolco. Questo nuovo tipo di disco aveva i seguenti
vantaggi:
1- il materiale con il quale era realizzato, non solo era molto più leggero, ma
consentiva un notevole abbassamento del rumore di fondo rispetto a quello del
78 giri;
2- la durata di ogni facciata arrivava ad oltre 20 minuti;
3- la banda di frequenza riproducibili si estendeva enormemente consentendo un
ascolto molto più musicale e realistico;
4- con la drastica riduzione del peso della testina di lettura veniva ridotta l’usura
del solchi e garantita una durata nel tempo molto maggiore.
Quasi contemporaneamente stava cominciando ad affermarsi un altro
miglioramento – una vera innovazione senza precedenti nella sua applicazione
commerciale – conosciuto comunemente con il nome di stereofonia.
Mentre prima di allora il suono riprodotto in una normale casa di abitazione
proveniva unicamente da un altoparlante (pensiamo alla radio ed al vecchio
grammofono) creando una sorgente sonora estremamente localizzata e delimitata nello
spazio, con la stereofonia si è cercato, mediante l’uso di due distanziati diffusori acustici
collegati a due separati sistemi di amplificazione, di ottenere un fronte sonoro più largo
ed ampio e comunque maggiormente paragonabile a quello musicale.
C’è però da dire subito che di questa nuova tecnologia non sempre è stato fatto
un uso razionale e corrispondente alle vere esigenze della musica: molto spesso si è
assistito ad una separazione dei suoni artificiosa, ridicola e falsa, con effetti a prima
vista strabilianti ma che non rendevano certo giustizia alla musica.
C’è comunque da osservare che, nonostante tutti i miglioramenti di cui s’è
parlato, la qualità finale di un disco microsolco stereofonico presentava ancora forti
limitazioni: pochi sanno che dalla incisione della lacca vergine al disco venduto nei
negozi vi era una serie incredibilmente lunga e tecnologicamente complessa e sofisticata
di passaggi intermedi per poter arrivare alla fine alla realizzazione di un disco maschio
in metalli (detto stamper) dal quale poi si ottenevano per stampaggio le singole copie
destinate al commercio. E’ inutile dire che ognuno di questi passaggi comportava un
suo degrado che poteva consistere sia in perdite delle informazioni originali e sia in
deformazioni delle stesse.
Occorre poi considerare, tanto per chiudere questo breve sommario sulla
cosiddetta era analogica della riproduzione dei suoni, che nel frattempo era stata
raffinata la tecnica della registrazione magnetica, realizzata dapprima su filo metallico e
poi – con risultati molto superiori – su nastro. Questa è stata un’altra grande rivoluzione
tecnologica perché, oltre ad assicurare una qualità musicale finora mai raggiunta,
consentiva di immagazzinare su un nastro magnetico – detto master – le sedute di
registrazione in cui contenuto, con tutta la calma e con la possibilità anche di apportare
successivamente in studio modifiche o correzioni, veniva poi riversato, anche a notevole
distanza di tempo, sulla macchina di incisione dei dischi.
Basti pensare che, prima della scoperta della registrazione magnetica, l’evento
musicale veniva trasferito direttamente su disco per mezzo della macchina di incisione e
conseguentemente ogni errore od imprecisione sul piano musicale ed estetico
costringeva a gettare via l’intero master e rincominciare da capo. Tutto ciò inoltre con
notevole aumento dei costi di produzione in quanto, a prescindere dagli aspetti
puramente tecnici, gli esecutori restavano impegnati per tempi molto lunghi negli studi
di registrazione o nelle sale da concerto.
Tutta questa tecnologia – chiamata in gergo analogica – ha dominato la scena
mondiale fino all’anno 1979 quando è stata introdotta la cosiddetta tecnica digitale.
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Questa volta il salto di qualità, almeno sul piano concettuale e potenziale, è stato
veramente senza precedenti.
La musica registrata veniva trasferita su un supporto molto piccolo e leggero al
quale era stato dato il nome di compact disc.
Le peculiarità più importanti erano:
1- durata nel tempo del supporto pressoché illimitata;
2- durata ininterrotta del tempo di ascolto di circa 75 minuti;
3- totale assenza di ogni rumore di fondo, tranne i casi in cui veniva trasferito su
compact disc un vecchio master analogico;
4- gamma di frequenze riproducibili praticamente estesa a tutti i suoni udibili
dall’orecchio umano;
5- gamma dinamica (rapporto tra suono più debole e quello più forte) di oltre 90
decibel e quindi molto prossima alla realtà;
6- livello di distorsione bassissimo.
A questo si aggiunga il non trascurabile vantaggio pratico della possibilità di
formarsi una discoteca usando spazi materiali alquanto ridotti.
Si è accennato prima al fatto che con l’avvento del digitale la qualità musicale
raggiungibile poteva essere teoricamente altissima, ma nella realtà poi ciò non si è
verificato. Infatti, per motivi puramente commerciali, si è deciso di creare uno standard
(quello del compact disc) già limitato in partenza perché prevedeva all’origine una
perdita di informazioni e ciò ad ovvio discapito della qualità del suono.
Oggi però, dopo oltre venti anni di successo popolare del CD, si sta pensando,
dietro le pressanti richieste di un pubblico musicalmente più esigente e di una larga
fascia di tecnici che non accettano di vedere penalizzate, per motivi di lucro da parte
delle industria, le loro ricerche e le loro realizzazioni più avanzate, di rivedere lo
standard del digitale e speriamo che questa volta sui meschini interessi commerciali
possa prevalere la musica:
Aspettiamo fiduciosi.
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A.C.B.M. 005
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Finito di stampare nel giugno 2003
dall’Associazione Corale ‘BENEDETTO MARCELLO’
sede legale L.go N.S. di Coromoto, 2
00151 Roma
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© 2003 Associazione Corale ‘BENEDETTO MARCELLO’
sede legale L.go N.S. di Coromoto, 2 00151 Roma
tutti i diritti riservati a termine di legge – All rigth reserved – International copiright secured
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