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TagT: Natale, Nicola
santo, Saturnali, dono, folklore, iniziazione, religione, rito, sacro,tradizione
Santa Claus nel "ciclo dei dodici giorni": una lettura
antropologica
Babbo Natale è vestito di rosso scarlatto: è un re. La sua barba bianca, le sue pellicce e i suoi stivali, la
slitta nella quale viaggia, evocano l’inverno. Lo si chiama “Babbo” ed è vecchio, quindi incarna la
forma benevola dell’autorità. […]In realtà, questo essere soprannaturale e immutabile, fissato una
volta per tutte nella sua forma […], è la divinità di una classe di età della nostra società, e la sola
differenza tra Babbo Natale e una divinità è che gli adulti non credono in lui, sebbene incoraggino i
bambini a crederci e alimentino tale credenza con molte mistificazioni.
(Claude Lévi-Strauss, Babbo Natale suppliziato, in Razza e storia e altri studi di antropologia, Torino
1967, p. 254)
20/12/2010 - Un episodio di cronaca apparentemente irrilevante, ma che trovò ampio risalto sui
quotidiani della Francia di metà Novecento, è stato oggetto di una delle poche analisi sulla figura di
Babbo Natale che l’antropologia abbia prodotto, e che reca la firma diClaude Lévi-Strauss. Nel
folgorante saggio Babbo Natale suppliziato lo studioso francese chiama a tema di studio l’articolato
processo della “costruzione dellatradizione”, individuandolo però entro un campo di analisi sotto gli
occhi di tutti, tanto familiare da essere quasi impenetrabile al nostro pensiero critico, che pure si è
a lungo esercitato in riflessioni complesse sull’altro, sul lontano, sul “primitivo”.
La notizia che ha stimolato Lévi-Strauss a rivolgere lo sguardo sul “noi” apparve il 24 dicembre 1951 sul
quotidiano «France Soir»:
Babbo Natale è stato impiccato ieri pomeriggio alle grate della cattedrale di Digione e bruciato
pubblicamente sul sagrato. Questa spettacolare esecuzione si è svolta alla presenza di molte
centinaia di bambini dei patronati. Era stata decisa in accordo con il clero, che aveva condannato
Babbo Natale come usurpatore ed eretico. L’accusa rivoltagli era di paganizzare la festa del Natale e
di essersi insediato in essa come un cuculo occupandovi sempre maggior posto. Gli viene
rimproverato soprattutto di essersi introdotto in tutte le scuole pubbliche da cui il presepio è
completamente bandito.
L’olocausto ordinato dalle autorità ecclesiastiche come contromisura all’offuscamento del senso
cristiano della Natività serve all’antropologo per tentare di decostruire l’intricata rete di carichi
semantici che, in tempi e luoghi diversi, si sono integrati e giustapposti fino a comporre la figura del
bonario e munifico vecchio che conosciamo sotto il nome di Babbo Natale / Santa Claus, alcuni
aspetti del cui “culto” – dopo il decremento della ritualità collettiva registratosi negli anni SettantaOttanta – hanno in anni recenti subìto una rilevante amplificazione presso le società
industrializzate. In particolare, il consumo vistoso individuato da Thorstein Bunde Veblen come
comportamento economico preferenziale della classe agiata si è stratificato sui preesistenti valori
del dono come elargizione e indicatore di reciprocità, assecondando in ciò il modello dominante del
consumismo di matrice nordamericana. Non a caso è proprio negli Stati Uniti che, dopo un percorso
lunghissimo iniziato nella Roma dei Saturnali, la figura di Santa Claus ha definitivamente acquisito la
strumentazione espressiva e i caratteri iconografici che oggi la caratterizzano.
In realtà, l’ascendente diretto di Santa Claus è un personaggio storico, il vescovo Nicola di Mira, vissuto
forse nel IV secolo d.C. ma il cui culto assunse un certo rilievo in Oriente nel VI secolo e in Occidente
(Roma e Italia meridionale, Germania, Francia e poi Inghilterra) a partire dal IX, fondandosi su un
sostrato di religiosità pagana e nascendo probabilmente dal processo di cristallizzazione delle feste
collegate al solstizio d’inverno, che nell’antica Roma erano presiedute da Saturno. I Saturnali
venivano celebrati nella settimana tra il 17 e il 20 dicembre, prolungandosi in epoca imperiale fino
al 24: era questa una fase liminare e potenzialmente rischiosa, connessa con la morte e la rinascita
simbolica del Sole, il cui culto venne introdotto nella seconda metà del III secolo e istituzionalizzato
da Aureliano con la festa del Dies natalis invicti solis, fissata il 25 dicembre. Qualche giorno dopo
iniziavano le feste in onore di Giano e della dea Strenia, nel corso delle quali era pratica usuale lo
scambio di doni (strenae in onore della divinità femminile, da cui il termine strenna ancora oggi in
uso). Nel timore che i nuovi culti ostacolassero la diffusione del cristianesimo, la Chiesa romana
stabilì in quella stessa data la ricorrenza della nascita di Cristo, agevolando di fatto confluenze e
sincretismi tra riti pagani e festività cristiana.
Tempo di marginalità che la festa sottraeva al divenire storico, quello che lo storico delle religioni
Arnold van Gennep ha definito il “ciclo dei dodici giorni” – composto da quelli compresi tra Natale e
Capodanno – era un periodo di sospensione dal quotidiano e di inversione e rovesciamento dei
ruoli, quindi anche di rafforzamento dei tabu: come segnala l’antropologa E. Stefania Tiberini, nei
Saturnali così come nel culto a San Nicola la ricorrenza solstiziale segnala una presenza della morte
che si esorcizza nell’elargizione di offerte di doni ai bambini in ragione della loro posizione presociale e pre-iniziatica, e dunque più vicina al nodo problematico della non-vita. I bambini
sarebbero dunque un varco nella barriera che divide i morti dai viti, e le questue infantili –
elemento ricorrente in queste celebrazioni, così come nella statunitense festa di Halloween e nel
Día de los Muertos del Messico – sembrano confermare questa adiacenza della morte al mondo
dell’infanzia, sancendo una relazione di complementarietà tra esistenze terrene e presenze che
popolano l’aldilà.
Mediatore di questa precaria alleanza sembra farsi anche Santa Claus, corruzione olandese di Sanctus
Nicolaus (ma noto nel mondo germanico come Niklaherr, Samichlaus, Sanda Klaus) e versione
esportata in America dalle migrazioni dal XVII secolo: e se in Europa settentrionale e nel Nord Italia
in quel periodo nell’iconografia di questo personaggio risaltano ancora gli attributi vescovili (il
manto rosso, la mitra sul capo), come ha segnalato M. Belpoliti “San Nicola è anche un santo che ha
molte facce, discendente dagli spiriti che accompagnano il corteo di Hellequin, il cacciatore che
rapisce i bambini e guida il corteo dei morti nelle notti invernali”. In Austria Sankt Nikolaus era
accompagnato da Krampus, o Knecht Ruprecht negli altri paesi germanici, essere maligno dotato di
due minacciose corna sul capo, di una lingua che gli penzolava dalla bocca e di un sacco in cui
imprigionava i bambini capricciosi; tratti e comportamenti comparabili ricorrono frequentemente
nelle tradizioni folkloriche dell’Alto Adige e del Tirolo.
Americanizzandosi, Santa Claus perde il suo doppio negativo e con esso tutti gli attributi ambigui che in
Europa lo connotano come severo garante del processo di inculturazione infantile. Storicamente,
questa flessione semantica asseconda il processo di affermazione della vita privata e la crescita del
ruolo economico e sociale della famiglia, innestandosi nelle prime fasi dell’industrializzazione e
della formazione e consolidamento delleborghesie cittadine. Non è un caso che Santa Claus
dismetta in questo stesso periodo gli antichi panni ecclesiastici per assumere le fiabesche fattezze
di un vecchio barbuto e grasso, dunque icona di opulenza, serenità e benessere: così lo tratteggia
nel 1863 su «Harper's Weekly» la penna del disegnatore statunitense Thomas Nast, dando un volto
propriamente statunitense a quel generoso distributore di doni che già Charles Dickens aveva
ritratto nel 1843 nel suo celebre Canto di Natale.
Da prodigo dispensatore di piccole gioie, Santa Claus inizia progressivamente ad assumere le fattezze di
un vero dio delle merci negli anni Trenta, grazie a una campagna pubblicitaria senza precedenti che
la Coca-Cola Company ideò per ovviare al divieto –generato da diversi procedimenti penali e da
campagne denigratorie sulla presenza di sostanze nocive nella bevanda – di utilizzare a questo
scopo immagini di bambini. Il disegnatore di origini svedesi Haddon Sundblom ipercaratterizzò il
complesso di segni già allestito da Nast, creando il peculiare codice simbolico che sostanzia
l’iconografia contemporanea di Santa Claus.
Più che soggiogato dall’ideologia del consumismo, Babbo Natale ne sembrerebbe dunque uno dei
prodotti più riusciti. “Espressione di un codice differenziale che distingue i bambini dagli
adolescenti e dagli adulti” (Lévi-Strauss, op. cit., p. 59) e mediatore dei conflitti intergenerazionali,
nel processo di mutamenti e risignificazioni lungo il quale la sua identità si è strutturata egli a
tutt’oggi disciplina le richieste infantili, incoraggiandone gli eccessi ma circoscrivendoli entro uno
spazio temporale ridotto. Sul versante macrosociologico, sovrintendendo al protocollo festivo delle
donazioni natalizie, garantisce il perdurare di questa forma occidentale di potlatch che alimenta
l’industria del consumo, ma allo stesso tempo riafferma la connotazione familistica e affettiva dello
scambio di beni, che rafforza la memoria sociale rendendo i beni materiali cosa diversa da quelle
“stampelle a sostegno di uno storpio” che secondo la definizione di Ivan Illich sono le merci.
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