Neuroscienze e Scienza dello Spirito “Il dato - scrive Massimo Scaligero – è sempre dato al pensiero”. Poche parole. Una frase semplice. Un pensiero sfolgorante difficilissimo da penetrare fino in fondo. In realtà, con quel pensiero, semplice solo in apparenza, Scaligero mina alla radice uno dei paradigmi basilari della scienza newtoniana e, nello stesso tempo, uno dei convincimenti più radicati nella coscienza di veglia ordinaria dell’uomo comune. Il convincimento in questione è che, a prescindere dalla capacità di investigazione dell’uomo, esista una realtà oggettiva (un ente, un cosmo, un mondo, una materia), esistente in sé e per sé, autonoma e indipendente dal soggetto che ne fa esperienza. E il corollario di quel convincimento è che lo scienziato sia appunto colui che si sforza di astrarsi da se stesso e, quasi come un deus ex machina, possa riuscire alla fine a contemplarne le leggi. A ben vedere, la validità di questo paradigma era venuta meno già nella prima metà del XX° secolo quando alcuni fisici, spingendosi più in profondità di quanto non avessero mai fatto nella struttura dell’atomo, scoprirono le prime particelle subatomiche e il loro “anomalo” comportamento. In sostanza – senza voler qui ripercorrere le straordinarie e sconcertanti esperienze di Max Planck, Niels Bohr, Werner Heisemberg, Erwin Schrodinger, Wolfang Pauli – quello che si scoprì in quegli anni potrebbe essere sintetizzato in due concetti basilari. Primo, che la natura intima dell’atomo (ritenuto dalla fisica classica il mattone ultimo della realtà) non è sostanziale bensì probabilistica. E che il mondo che ci circonda, piuttosto che da “cose”, sarebbe composto da “opportunità”. Secondo, forse ancora più importante, è che la coscienza dell’uomo che indaga la natura della realtà non avrebbe alcuna possibilità di separarsi dal fenomeno osservato il quale, perciò, malgrado tutto, ne risulterebbe sempre condizionato. Negli anni ’80 sembrava che questo stato di cose fosse oramai acquisito una volta per tutte, almeno negli ambienti di punta della ricerca scientifica; perciò il fisico teorico e ricercatore Fritiof Capra, dopo aver ampiamente descritto e motivato la crisi di passaggio dalla fisica classica alla nuova fisica nel suo celeberrimo saggio Il Tao della fisica, con il successivo e coraggioso lavoro, Punto di svolta, volle azzardare una previsione: entro pochissimo tempo la visione riduttiva e meccanicistica della realtà, propria di un pensiero patriarcale e maschilista, verrà sostituita da una visione olistica e femminile nella quale, finalmente, ci sarà spazio anche per gli aspetti soprasensibili della realtà. Purtroppo, mai previsione fu così infelice. Dal canto suo, sempre negli anni ’80, la psicologia aveva studiato attentamente il fenomeno percettivo umano ed era giunta a una sorprendente conclusione: seguendo il dato sensoriale dal punto di origine (ad esempio una sorgente luminosa) ai mezzi di trasmissione dello stesso (per esempio l’aria), per arrivare infine all’organizzazione umana (organo sensorio, via nervosa periferica, sistema nervoso centrale), poco prima che sorga la percezione vera e propria si verifica un salto. E cosa davvero accade tra il segnale bioelettrico finale e l’accendersi di una data percezione è un mistero. Lo stesso che separa la mente dalla coscienza. Come se non bastasse, ci si rese conto che, in condizioni normali, al cervello umano arrivano circa quattro milioni e mezzo di input al minuto, tra endogeni ed esogeni. Che mai nessuno sarebbe in grado di gestirli tutti e che perciò il nostro cervello li seleziona, eliminandone quattro milioni e coordinando solo i rimanenti cinquecentomila. La domanda successiva, perciò, fu in base a quali leggi avvenisse la selezione. E fu scoperto che moltissimi erano gli elementi che entravano in gioco, come il linguaggio (a differenti idiomi corrispondono, in effetti, diverse percezioni della realtà del mondo), la cultura del popolo nel quale si nasce, l’educazione ricevuta, le aspettative, le esperienze pregresse, i desideri inconsci e così via. In altre parole era chiaro che a parità di stimolo non sarebbe stato possibile fare nessuna previsione sulla percezione finale che soggetti diversi, con differente educazione e differenti esperienze, desideri e speranze avrebbero ricevuto. Tanto per fare un esempio: di fronte al medesimo paesaggio nevoso di alta montagna, un abitante dei paesi caldi potrebbe al massimo distinguere tra neve e ghiaccio, là dove un Inuit (un eschimese) sarebbe in grado di distinguere almeno otto o nove nevi diverse. Giunti a questo punto, sarebbe bastato fare un ultimo passo e prendere atto che mai n essuno, e in nessuna occasione, è stato o sarà mai in grado di uscire dal processo percettivo e così realizzare una osservazione per così dire oggettiva. Tutte le percezioni sono condizionate dagli elementi di cui sopra abbiamo parlato, anche quelle che per oggetto dell’indagine hanno la percezione stessa. Per lo stesso motivo si può affermare che non esiste nessuna reale distinzione tra percezioni soggettive e percezioni oggettive e che quando nella ricerca scientifica si attribuisce valore soggettivo alla rappresentazione del rosso contrapposto al valore oggettivo della frequenza di luce che al rosso corrisponderebbe, in realtà si commette il più grossolano errore epistemologico e gnoseologico di sempre. “Chi fa dell’organismo umano il generatore dei processi del suono, del calore, del colore ecc… scrive ben a ragione Rudolf Steiner - deve pur vedere in esso il generatore dell’estensione, grandezza, posizione, movimento, forze ecc… Poiché queste qualità matematiche e meccaniche sono in realtà inscindibilmente collegate col restante contenuto del mondo della percezione.” Pertanto, l’inevitabile soggettività con la quale ci accostiamo alla Realtà, determinata dalla particolare angolazione dalla quale ognuno di noi contempla il mondo, non dovrebbe condurre a ipotizzare la relatività della Realtà, bensì solo la relatività inevitabile del fenomeno percettivo, perché – come ho già fatto rilevare - diverso in ogni uomo per tutta una serie di condizioni. Pertanto, solo la percezione della Realtà è relativa non l’idea che se ne può cogliere. Il concetto di albero, ad esempio, è uno solo quale che sia il numero di alberi esistenti al mondo e quale che sia l’esperienza relativa che uomini diversi, in diverse parti della terra possono farsene. Le singole manifestazioni della pianta, infatti, sono molteplici espressioni dell’organismo primordiale l’Urpflanze di Goethe - il quale ha in sé la facoltà di assumere svariati aspetti e in una situazione determinata assume quell’aspetto che risulta il più appropriato alle condizioni ambientali. Ma ciò che così vive e si manifesta in natura, noi uomini, grazie al pensare, possiamo percepirla come idea. La brevità di questo articolo non consente eccessivi approfondimenti su questo argomento, ma vorrei suggerire a quanti fossero interessati all’argomento, di cimentarsi con Le opere scientifiche di Goethe, Verità e scienza e Filosofia della libertà di Rudolf Steiner. E agli psicologi, visto il loro campo di studio e di interesse, consiglierei di provare a documentarsi sulle implicazioni gnoseologiche risultanti dalle operazioni chirurgiche compiute su adulti ciechi dalla nascita ai quali, grazie ad una imprevista donazione d’organi, viene offerta la possibilità di ottenere la vista. Quando le bende vengono tolte, questi pazienti adulti all’improvviso vedono… ma non sanno cosa vedono! Attraverso i loro “nuovi occhi” il cervello riceve milioni di stimoli luminosi che, all’inizio, non possono essere in alcun modo organizzati. E’ impossibile per loro distinguere un qualsiasi oggetto dallo sfondo nel quale si trova. Salvo che prima… non lo tocchino. Toccandolo, portano incontro agli stimoli luminosi altrimenti indifferenziati una rappresentazione (ad esempio: bicchiere) che in loro si era già strutturata attraverso l’educazione tattile. L’esperimento fa comprendere come, se non si attivasse una corrente dall’interiorità dell’uomo verso gli stimoli luminosi, questi rimarrebbero muti quanto al loro significato. Ma ciò che in un non-vedente operato permette il riconoscimento, in questo caso una precedente rappresentazione conquistata per educazione tattile, nel bambino sano appena nato lo attua la corrente del pensare1. “Un pensare - scrive Massimo Scaligero - che all’inizio, nell’uomo, non si da ancora in concetti o idée, ma è presente nella sua forma pre-dialettica, immediata, identica con il mondo delle cose. E’ tale identità che non conosciuta, e nemmeno sospettata, fa sorgere il mondo esterno, il mondo delle cose, l’alterità priva della correlazione che la fa essere.” Perciò, insiste Scaligero, “Il dato è sempre dato al pensiero”, perché egli aveva sperimentato come l’ente primario da cui in seguito dipendono soggettività e oggettività è il pensare umano. E’ la corrente del pensare, infatti, che va incontro ai dati sensoriali, li seleziona, li relaziona e infine crea quella realtà del mondo che poi sembra essere preesistente allo sforzo conoscitivo dell’uomo. In realtà, il dato che lo scienziato osserva e studia (sia esso una luce o una frequenza) è pur sempre il risultato di una sotterranea e inconsapevole attività di pensiero. Solo che è un’attività ancora vivente, di natura spirituale, pre-dialettica, precedente a quella riflessa che solo poi egli conoscerà e con la quale inizierà a investigare il mondo. Illudendosi di produrre i concetti con il proprio pensare e, successivamente, di aggiungerli al mondo. Non accorgendosi che i concetti sono nel mondo e che egli, piuttosto, con la propria attività pensante li percepisce. Tuttavia se non sarà risolto l’errore gnoseologico che sta alla base dei presupposti conoscitivi della attuale ricerca scientifica, e se i ricercatori non riusciranno a risalire il flusso del pensare che dalla propria scaturigine vivente conduce alla sua forma riflessa, si continuerà a discutere a vuoto opponendo teorie a teorie, senza intravedere nessuna via d’uscita. Guardiamo quello che accade, ad esempio, nei sancta sanctorum dei laboratori di fisica teorica e di meccanica quantistica: stessi dati; convincimenti e pre-giudizi opposti e contrari. A) Da una parte il neuro-scienziato Karl Pribram e il fisico David Bohm. I loro sforzi congiunti, sostenuti dai rigorosi esperimenti di Alain Aspect, presuppongono la natura olografica del cervello umano e dell’intero universo. Presuppongono un Ordine Implicato, che avrebbe perciò tutte le caratteristiche di una Intelligenza Sublime (preesistente al divenire spaziotemporale) e una Realtà Esplicata (che sarebbe invece il mondo quale ogni giorno ci appare). Alle stesse conclusioni giunge il prof. John Hagelin, fisico teorico statunitense, che proprio in questi giorni ha annunciato la scoperta del “Campo Unificato”. In pratica una sorta di vibrazione cosciente alla base dell’universo fisico, rispetto alla quale tutti noi saremmo punti di vista individuali impegnati a riscoprirne, liberamente, la natura spirituale. B) Su posizioni opposte, invece, il fisico, matematico e cosmologo Stephen Hawking, noto soprattutto per i suoi studi sui buchi neri e sull’origine dell’universo. In collaborazione con James Hartle, Hawking sviluppò, infatti, un modello di universo senza confini nello spaziotempo, che elimina il Big Bang inteso come singolarità iniziale ed esclude qualunque Intelligenza Creatrice. Questo perché, secondo il nostro scienziato, un attimo prima del Big Bang non esisteva il tempo (come non esiste all'interno di un buco nero o in uno stato di universo "congelato"), ergo non sarebbe esistito alcun Creatore e nemmeno un tempo per creare l'universo. Cercare un tempo pre-universo di creazione equivale, secondo Hawking, a cercare i confini della Terra, che non ne ha essendo un ellissoide. E ai critici che gli chiedono come secondo lui possa esistere una legge di gravità senza gravi, o come sia concepibile una legge di meccanica quantistica che preceda l'universo, Hawking risponde che non c'è bisogno di un alcun Creatore per creare le leggi fisiche, in quanto semplicemente esse esistono intrinsecamente alla materia/energia, sempre esistente sotto qualche forma, oppure apparsa dal nulla prima di tutto. Ma non esistendo prima di allora lo spazio-tempo si potrebbe anche dire che essa deriva da un istante senza tempo… un eterno presente, come quello dell'orizzonte degli eventi. Ammetto che è molto difficile, almeno per alcuni, non ravvisare in queste ultime attestazioni di Hawking un vero e proprio fideismo religioso che, se non si rivolge a Dio, si rivolge alla Materia come ente in sé auto-creatosi. Ma non è questo il punto. Il punto è osservare come, pur movendo da dati sostanzialmente identici, due o più menti geniali possano approdare a risultati divergenti. Questo accade perché si rimane nel pensiero riflesso, speculativo (e dunque ipotetico) anche quando presume di muovere da fatti incontestabili. E’ il caso delle neuroscienze e della maggior parte delle loro affermazioni sui processi cerebrali. L’intento dei neuro scienziati è sempre quello di voler dimostrare che la materia (ammesso che sappiano cosa essa sia) possa pensare e che la coscienza non sia altro che il prodotto, più o meno occasionale, di un processo bioelettrico. Facciamo un esempio, ed esaminiamo i tanto discussi casi di EPM (esperienze di pre-morte) che il medico statunitense Raymond Moody portò alla ribalta della coscienza collettiva mondiale nel 1975. Prima di lui se ne era interessata in maniera sistematica la dottoressa Elisabeth Kubler Ross; dopo di lui Pim van Lommei, Sam Parnia, i nostri psichiatri ricercatori Aureliano Pacciolla, Antonino Sodaro e molti altri. In sostanza, il dato più o meno sconcertante è che alcune persone che, per incidente, si sono trovate a sperimentare brevi momenti di morte clinica prima di essere richiamati in vita, raccontano similari esperienze extra-corporee o spirituali. Il fatto interessante è che, a prescindere dall’accuratezza con la quale vengono accertate le condizioni di morte clinica e di cessazione dell’attività cerebrale, sostenitori e oppositori del fenomeno si pronunciano con uno spreco di intelligenza e di veemenza tanto encomiabile quanto inutile. Perché se davvero si è riusciti a comprendere quanto da me argomentato, e cioè che tra la ricezione dei dati sensoriali e la rappresentazione finale che se ne ricava si verifica un salto incomprensibile al pensiero ordinario, ci si renderà conto che le ipotesi proposte stanno tutte, ma proprio tutte, sullo stesso identico piano speculativo. Affermare che le immagini di beatitudine spirituale riportate dal paziente siano allucinazioni di difesa compensatoria al terrore del proprio morire prodotte poco prima del cedimento finale, oppure siano immaginazioni oniriche gratificanti, svincolate dal tempo ordinario e create dall’inconscio pochi attimi prima del risveglio, così come avallare la loro natura extra-corporea e spirituale o, ancora, affermare che sia il diavolo stesso ad inviare tali suggestioni per trarre in inganno l’anima del morente, è la stessa identica cosa. Proprio la stessa! E gli atei convinti aderiranno a quelle che sembreranno loro misurate e scientifiche attestazioni, gli amanti della New Age aderiranno alle seconde, mentre i cattolici credenti assumeranno per vera l’ultima affermazione. Sempre di pensiero riflesso si tratta. Più o meno coerente, più o meno forbito e ben documentato, ma pur sempre astratto, dialettico, impotente a penetrare l’autentica natura del fenomeno. Mi rendo tuttavia conto che poche persone saranno propense a riconoscere la possibilità che la corrente del pensare umano possa uscire dalla propria condizione di riflessità. E meno ancora si sforzeranno di realizzare tale esperienza di superamento attraverso gli esercizi proposti dalla scienza dello spirito. La ritrosia è comprensibile, lo ammetto. Eppure è la stessa identica situazione nella quale si trovò Galileo Galilei quando pregò i giudici del tribunale ecclesiastico che poi lo condannò a scendere dai loro scranni e a guardare nel suo telescopio. Non ci fu nulla da fare. I giudici “sapevano” come stavano le cose, “sapevano” che la terra era al centro dell’universo e che il telescopio non poteva funzionare. Perciò non scesero dai seggi e non guardarono nel telescopio. Loro sapevano come stavano le cose. Lo sapevano con quello stesso identico pensiero dogmatico con cui i nostri scienziati moderni sanno che prima della materia non c’è altro e che si rifiutano di provare a guardare l’attività del proprio pensare prima di farsi pensiero pensato. In definitiva il problema è tutto qui: la mancata individuazione dei presupposti gnoseologici che sono alla base del processo conoscitivo umano. Che poi gli scienziati si ingegnino a convincerci delle straordinarie capacità pensanti e creative della materia, o che i moderni maestri spirituali ci spingano alla fede nella natura spirituale dell’essere umano, non fa poi molta differenza. La sola differenza potrebbe farla intraprendere un cammino di esperienze interiori come quelle proposte dall’antroposofia. Ove anche questa smettesse di essere trattenuta a livello teoretico e divenisse invece prassi interiore, cioè a dire continuativa azione spirituale di trasformazione. 1) Per i più curiosi consiglio la lettura di: Teoria e storia del problema di Molyneux http://www.ispf-lab.cnr.it/system/files/ispf_lab/documenti/atto_291104_1.pdf Oppure la visione del film: “A prima vista” del 1999 diretto da Irwin Winkler