Cacania

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Da A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, Profili storici, vol. 3a, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 140-2
La Cacania
Per raffigurare la crisi dell'Impero asburgico sono preziose alcune testimonianze
letterarie. Una delle più conosciute ed efficaci è senza dubbio L'uomo senza qualità
dello scrittore austriaco Robert Musil (1880-1942). Pubblicata tra il 1930 e il 1942,
quest'opera documenta la dissoluzione delle forme narrative ottocentesche e riflette
le profonde trasformazioni della cultura e della società europea. Nelle pagine
iniziali del libro, Musil traccia con ironia un quadro dell'immobilismo della
monarchia austro-ungarica all'inizio del '900. Uno Stato fedele agli antichi valori,
che adatta i processi dì modernizzazione economica e sociale alle proprie tradizioni
consolidate. Lo scrittore richiama l'attenzione su alcune caratteristiche delle
istituzioni e della burocrazia austriaca, descrivendo mentalità e comportamenti
comuni dei ceti dirigenti. Un'immagine del passato, rivissuta con passione e acume
dall'artista viennese.
Nell'età in cui sarti e barbieri hanno ancora un'enorme importanza e ci si guarda con
piacere allo specchio, s'immagina anche sovente un luogo dove si vorrebbe passare
la vita, o almeno un luogo dove sarebbe di stile vivere, pur sentendo magari che non
ci si starebbe volentieri. Così da tempo si è giunti necessariamente al concetto di
una specie di città super-americana, dove tutti corrono o s'arrestano col cronometro
in mano. Aria e terra costituiscono un formicaio, attraversato dai vari piani delle
strade di comunicazione. Treni aerei, treni sulla terra, treni sotto terra, posta
pneumatica, catene di automobili sfrecciano orizzontalmente, ascensori velocissimi
pompano in senso verticale masse di uomini dall'uno all'altro piano di traffico; nei
punti di congiunzione si salta da un mezzo di trasporto all'altro, e il loro ritmo che
tra due velocità lanciate e rombanti ha una pausa, una sincope, una piccola fessura
di venti secondi, succhia e inghiotte senza considerazione la gente, che negli
intervalli di quel ritmo universale riesce appena a scambiare in fretta due parole.
Domande e risposte ingranano come i pezzi di una macchina, ogni individuo ha
soltanto compiti precisi, le professioni sono raggruppate in luoghi determinati, si
mangia mentre si è in moto, i divertimenti sono radunati in altre zone della città, e
in altre ancora sorgono le torri che contengono moglie, famiglia, grammofono e
anima. Tensione e distensione, attività e amore son ben divisi nel tempo e misurati
secondo esaurienti ricerche di laboratorio. Se svolgendo una qualsiasi funzione
s'incontrano difficoltà, si desiste subito, perché si trova un'altra cosa, oppure un
metodo migliore, o ancora vi sarà un altro che s'incaricherà di scoprire la strada
giusta; e questo non porta danno, perché il massimo sperpero delle forze comuni è
causato dalla presunzione di esser chiamati a compiere la propria opera fino in
fondo. In una collettività ogni strada porta a una meta buona. La meta è posta a bre-
ve distanza; ma anche la vita è breve, e così si ottiene un massimo di buoni successi;
di più non occorre all'uomo per essere felice, perché il successo conseguito foggia
l'anima, mentre quello a cui si aspira senza ottenerlo la storce soltanto; per essere
felici non ha importanza lo scopo prefisso, ma solo il fatto di raggiungerlo. E inoltre
la zoologia insegna che da una somma di individui limitati può benissimo risultare
un insieme geniale.
Non è certo che avverrà proprio così. Ma simili immaginazioni sono affini ai sogni
di viaggi, in cui si rispecchia il senso dell'incessante movimento che ci trascina con
sé. Sono superficiali, irrequiete e brevi. Sa Iddio quale sarà veramente il futuro. Si
direbbe che ad ogni istante noi abbiamo in mano gli elementi, e la possibilità di fare
un progetto per tutti. Se non ci piace la faccenda delle velocità, inventiamo qualche
altra cosa! Per esempio, una cosa molto lenta, con una felicità fluttuante come un
velo, misteriosa come una chiocciola marina, e con quel profondo occhio bovino di
cui già s'estasiavano i greci. Ma purtroppo non è affatto così. Siamo noi, invece, in
balia della cosa. Giorno e notte viaggiamo dentro ad essa e vi svolgiamo ogni nostra
attività; ci si rade, si mangia, si ama, si leggono libri, si esercita la propria
professione, come se le quattro pareti stessero ferme, e l'inquietante è che le quattro
pareti viaggiano, senza che ce ne accorgiamo, e proiettano innanzi le loro rotaie
come lunghi fili adunchi e brancolanti, senza che noi sappiamo verso qual meta. E
per di più si vorrebbe possibilmente far parte delle forze che menano il treno del
tempo. È un compito assai indefinito, e quando si guarda fuori dopo un lungo
intervallo si ha l'impressione che il paesaggio sia mutato; ciò che fugge davanti ai
finestrini, fugge perché non può essere altrimenti, ma sebbene noi siamo sottomessi
e rassegnati ci domina sempre più l'impressione sgradevole di aver già oltrepassato
la meta o di aver imboccato la linea sbagliata. E un bel giorno ecco il bisogno frenetico: scendere! Saltar giù! Un desiderio di esser ostacolati, di non più evolversi, di
restar fermi, di tornare indietro al punto che precede la diramazione sbagliata. E nel
buon tempo antico, quando c'era ancora l'impero austriaco, si poteva in quel caso
scendere dal treno del tempo, salire su un treno comune d'una ferrovia comune e ritornare in patria.
Là, in Cacania1 - quella nazione incompresa e ormai scomparsa che in tante cose fu
un modello non abbastanza apprezzato — c'era anche velocità, ma non troppa. Se
trovandosi all'estero si pensava al paese, ecco fluttuava davanti agli occhi il ricordo
di quelle strade bianche, larghe e comode del tempo delle marce a piedi e delle
diligenze a cavalli, che si snodavano in tutte le direzioni come canali di un ordine
stabilito, come nastri di quel traliccio chiaro usato per le uniformi, e cingevano le
province col braccio cartaceo dell'amministrazione. E quali contrade! C'eran mari e
1
Nell'Austria degli Asburgo tutto era imperial-regio, Kaiser-Kóniglich, abbreviato in
K.K. che si pronuncia kaka.
1
ghiacciai, il Carso e i campi di grano della Boemia, notti sull'Adriatico con stridio di
grilli inquieti, e villaggi slovacchi dove il fumo usciva dai camini come dalle narici
di un naso camuso e il villaggio stava accovacciato fra due piccole colline come se
la terra avesse dischiuso un poco le labbra per riscaldare la sua creatura. Naturalmente su quelle strade viaggiavano anche automobili; ma non troppe! Si preparava
anche là la conquista dell'aria; ma non troppo assiduamente. Ogni tanto si faceva
partire una nave per l'America Latina o per l'Asia Orientale; ma non troppo spesso.
Non si avevano ambizioni imperialistiche; si era nel punto centrale dell'Europa,
dove s'intersecano gli antichi assi del mondo; le parole «colonia» e «oltremare»
giungevano all'orecchio come cose lontane e non sperimentate. Si faceva lusso; ma
non così raffinato come in Francia. Si faceva sport; ma non così accanito come in
Inghilterra. Si spendevano somme enormi per l'esercito; ma solo quanto bastava per
rimanere la penultima delle grandi potenze. Anche la capitale era un po' più piccola
di tutte le altre metropoli del mondo, ma un po' più grande di quel che non fossero
di solito le grandi città. E il paese era amministrato — con oculatezza, discrezione e
abilità a smussare cautamente ogni punta — dalla migliore burocrazia d'Europa, alla
quale si poteva rimproverare un solo difetto: per essa genio e spirito d'iniziativa
nelle persone non autorizzate a ciò da alti natali o da incarico governativo erano
impertinenza e presunzione. A nessuno del resto piace farsi dettar legge da chi non
vi è autorizzato! E poi in Cacania un genio era sempre scambiato per un babbeo,
mai però, come succedeva altrove, un babbeo per un genio.
In verità, quante cose curiose ci sarebbero da dire sul tramontato impero di Cacania!
Per esempio, esso era imperial-regio, ed era imperiale e regio; uno dei due segni
«i.r.» oppure «i. e r.» era impresso su ogni cosa e su ogni persona, tuttavia
occorreva una scienza segreta e occulta per poter distinguere
con sicurezza quali istituzioni e individui fossero da
considerarsi imperial-regi e quali imperiali e regi.
Per iscritto si chiamava Monarchia Austro-Ungarica, ma a voce
si chiamava Austria, termine a cui il paese aveva abdicato con
solenne giuramento statale ma che conservava in tutte le
questioni sentimentali, a prova che i sentimenti sono importanti
quanto il diritto costituzionale e che i decreti non sono la cosa
più seria del mondo. Secondo la costituzione era uno stato
liberale, ma aveva un governo clericale. Il governo era clericale,
ma lo spirito liberale regnava nel paese. Davanti alla legge tutti
i cittadini erano uguali, non tutti però erano cittadini. C'era un
Parlamento, il quale faceva un uso così eccessivo della propria
libertà che lo si teneva quasi sempre chiuso; ma c'era anche un
paragrafo per gli stati di emergenza che serviva a far senza del
Parlamento, e ogni volta che tutti si rallegravano per il ritorno
dell'assolutismo la corona ordinava che si ricominciasse a
governare democraticamente. Di tali vicende ne capitavano molte in Cacania, e fra
le altre vi furono anche quei conflitti nazionali che attirarono giustamente la
curiosità dell’Europa e oggi son presentati in modo del tutto falso. Furono così
violenti che per cagion loro la macchina dello stato s'inceppava e s'arrestava
parecchie volte all'anno, ma nei periodi intermedi e nelle pause di governo l'armonia
era mirabile e tutti facevan vista di nulla. E infatti non c'era stato nulla di reale.
Soltanto l'ostilità di ogni uomo contro le aspirazioni d'ogni altro uomo, che oggi ci
trova tutti unanimi, nello stato di Cacania aveva precorso i tempi e s'era
perfezionato in un raffinatissimo cerimoniale, che avrebbe potuto ancora avere
grandi conseguenze se il suo sviluppo non fosse stato troncato anzitempo da una
catastrofe.
Infatti non soltanto l'avversione per il concittadino s'era accresciuta fino a diventare
un sentimento collettivo, ma anche la diffidenza verso se stessi e il proprio destino
aveva preso un carattere di profonda protervia. Si agiva in quel paese - e talvolta
fino ai supremi gradi della passione e alle sue conseguenze - sempre diversamente
da quel che si pensava, oppure si pensava in un modo e si agiva in un altro. [...] Così
era accaduto in Cacania, per quel che può apparir visibile agli occhi di tutti, e in
questo la Cacania era lo stato più progredito del mondo, benché il mondo non lo sapesse ancora; era lo stato che ormai si limitava a seguire se stesso, vi si viveva in
una libertà negativa, sempre con la sensazione che la propria esistenza non ha
ragioni sufficienti, e cinti dalla grande fantasia del non avvenuto o almeno del non
irrevocabilmente avvenuto, come dall'umido soffio degli oceani onde l'umanità è
sorta. «E capitato che...» si diceva in Cacania, mentre l'altra gente in altri luoghi
credeva che si fosse prodotto un avvenimento mirabolante; era un'espressione alla
buona per cui eventi e colpi del
destino diventavano lievi come
piume e pensieri. Sì; benché
molte cose sembrino indicare il
contrario, la Cacania era forse
un
paese
di
geni;
e
probabilmente fu questa la
causa della sua rovina.
R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi,
Torino, 1970, pp. 26-30.
A sinistra: mappa dell’Impero
Austro-Ungarico nel 1914.
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