Parole contemporanee modulo 13 TU 2008
comunicazione: mezzi e forme
lezione 7
Comunicazione, mezzi e forme
1. situazioni di comunicazione in prima proposta
1.1. Italo Calvino. Nei suoi giri solitari per i boschi, gli incontri umani erano, se pur più rari, tali da
imprimersi nell’animo, incontri con gente che noi non s’incontra. A quei tempi tutta una povera
gente girovaga veniva ad accamparsi nelle foreste: carbonai, calderai, vetrai, famiglie spinte dalla
fame lontano dalle loro campagne, a buscarsi il pane con instabili mestieri. Piazzavano i loro
laboratori all’aperto, e tiravano su capannucce di rami per dormire. Dapprincipio, il giovinetto
coperto di pelo che passava sugli alberi faceva loro paura, specie alle donne che lo prendevano per
uno spirito folletto; ma poi egli entrava in amicizia, stava delle ore a vederli lavorare e la sera
quando si sedevano attorno al fuoco lui si metteva su un ramo vicino, a sentite le storie che
narravano.
I carbonai, sullo spiazzo battuto di terra cenerina, erano i più numerosi. Urlavano «Hura! Hota! »
perché erano gente bergamasca e non la si capiva nel parlare. Erano i più forti e chiusi e legati tra
loro: una corporazione che si propagava in tutti i boschi, con parentele e legami e liti. Cosimo alle
volte faceva da tramite tra un gruppo e l’altro, dava notizie, veniva incaricato di commissioni.
— M’hanno detto quelli di sotto la Rovere Rossa di dirvi che Hanfa la Hapa Hota ‘1 Hoc!
— Rispondigli che Hegn Hobet Hò de Hot!
Lui teneva a mente i misteriosi suoni aspirati, e cercava di ripeterli, come cercava di ripetere gli zirli
degli uccelli che lo svegliavano il mattino.
Calvino Italo, Il barone rampante, ed.Einaudi, Torino 1957, p.78
1.2 Lewis Carroll. Il Bruco e Alice si guardarono in silenzio per qualche tempo. Da ultimo il
Bruco si tolse di bocca il narghilé e l’apostrofò con voce languida, assonnata. «E chi sei tu?» disse il
Bruco. Come inizio di conversazione non era incoraggiante. Alice rispose, un po’ imbarazzata:
«Ehm... veramente non saprei, signore, almeno per ora... cioè, stamattina quando mi sono alzata lo
sapevo, ma da allora credo di essere cambiata diverse volte.» «Che vorresti dire?» disse il Bruco,
secco, «Spiegati meglio!» «Temo di non potermi spiegate, signore» disse Alice «perché non sono
io.» «Non capisco» disse il Bruco. «Temo di non poter essere più chiara di così» rispose Alice con
molto garbo, «perché purtroppo io sono la prima a non capirci nulla; e poi cambiare dimensioni
tante volte in un giorno solo finisce per scombussolarti parecchio.» «Macché» disse il Bruco. «Non
le sarà ancora capitato » disse Alice; « ma quando dovrà trasformarsi in crisalide... io sa che le
succederà, un giorno o l’altro, no... e poi in farfalla; io dico che si sentirà un po’ strano, non crede?»
«Neanche per sogno» disse il Bruco. «Si vede che lei la pensa in un altro modo» disse Alice. «Io so
solo che io mi sentirei molto strana.» «Tu!» disse il Bruco con disprezzo. «E chi sei tu?»
Col che la conversazione tornava al punto di partenza. Alice provò una certa irritazione per la
secchezza dei commenti del Bruco. Si raddrizzò e gli disse, molto seria: «Secondo me, toccherebbe
a lei presentarsi per primo.» «Perché?» disse il Bruco.
Era un’altra domanda imbarazzante; e siccome non le veniva in mente una buona risposta, e
l’umore del Bruco sembrava sempre più scorbutico, Alice si voltò per andarsene.
Carroll Lewis, Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie. Mondadori, Milano 1978, pp. 4950
1.2.01. Le due citazioni mettono in scena eventi del comunicare; o meglio comunicano la difficoltà
del comunicare e lasciano intendere che la non comunicazione costituisca un tratto specifico e
centrale (non solo un problema ma un dato costituente) della comunicazione.
1.2.02. la comunicazione della difficoltà del comunicare pone di nuovo a tema la dinamica logica
delle situazioni totali (quelle per le quali non è a disposizione un punto di vista esterno) che si
presuppongono in autoriferimento, in cui occorre stare, affrontare, agire e risolvere: per chiarire la
conoscenza ne faccio uso, mi esprimo secondo logica presentando i fondamenti della logica,
affronto i temi del linguaggio parlando, analizzo il problema della comunicazione comunicando. Si
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tratta di situazioni totali autoreferenziali che impongono un procedimento di tipo circolare, affidato,
nel corso del ‘900 filosofico, alle procedure proprie della fenomenologia (più o meno
trascendentale). La questione si pone in modo specifico a proposito del comunicare se si parte della
convinzione che la comunicazione costituisca il contesto della conoscenza (e anche di conoscenza
della conoscenza). Come per Alice e il Bruco, anche per la filosofia, la riuscita di una
comunicazione è legata a problemi di priorità.
1.3. problemi di priorità, consapevolezza di un errore di impostazione (?)
1.3.1. precedenza della comunicazione sulla rappresentazione e sulla conoscenza; condizionamento
della prima sulla seconda. Affrontando il tema degli “stereotipi e pubblica opinione” è emersa
l’opportunità di porre in dubbio la sequenza tradizionale con cui la filosofia tende talvolta ad
impostare il problema conoscitivo: la persona, la mente, il soggetto si apre conoscitivamente alla
realtà all’oggetto; segue poi la comunicazione della conoscenza. È un’impostazione che parte da un
presupposto “autistico”: di un soggetto, formato e pienamente tale nella sua solitudine, che si apre
all’esterno e comunica. In realtà la comunicazione è il contesto della conoscenza, è il presupposto e
la condizione (non necessariamente in senso negativo, ma inoppugnabilmente) del conoscere.
Perciò la «problematica filosofica quindi non deve più incentrarsi tanto sulla costituzione
dell’esperienza, ma sulla condivisione dell’esperienza».
«È la comunicazione, e non la rappresentazione, a presupporre la realtà. Tuttavia, è importante
precisare che, ai due poli della relazione, l’esistenza dell’altro non viene presupposta al fatto di
rappresentarsi le sue espressioni, ma al fatto di rivolgersi a lui; e quindi l’esistenza non è che un
presupposto formale.»
Ferry, Jean-Marc 2004 Le grammatiche dell’intelligenza, Medusa, Milano 2008 p. 10-11
1.3.2. struttura della mente (le definite forme a priori) e la funzione comunicativa:
«La struttura stessa della nostra mente è in buona parte determinata dal fatto che l’uomo è stato
impegnato nella comunicazione per tante centinaia di migliaia d’anni, per tutto l’intero corso della
sua evoluzione storica, e perfino oltre. Una buona parte delle caratteristiche distintive della mente
dipende dal fatto che essa è uno strumento per la comunicazione. Senza dubbio, un’esperienza deve
prendere forma prima che sia possibile comunicarla, ma la forma che prende è in gran parte
determinata in funzione di tale possibilità. La selezione naturale ha dato un enorme rilievo
all’abilità nella comunicazione.»
Richards I.A. I fondamenti della critica letteraria, (in Fubini, Enrico 1980 L’estetica
contemporanea, Loescher, Torino)
1.3.3. La costruzione tradizionale del cammino storico della filosofia pone all’inizio, come prima
comparsa e primo obiettivo, il logos, la ragione, in antitesi con l’opinione, l’apparenza, l’illusione, il
pensiero comune. Porre il concetto di logos all’inizio del filosofare, e come sua causa e fondamento,
significa collocare il fine come principio non solo in senso etico e scientifico (posizione corretta e
auspicabile) ma anche in senso gnoseologico e metafisico. La conoscenza privilegiata diventa
quella razionale e logica, alla stessa realtà viene attribuita una struttura razionale, come insegna da
subito l’ontologia, scienza delle forme supreme, ideali e reali, dell’essere. Le forme della
comunicazione diventano solo appendici e processi per l’esposizione di una razionalità in sé già
strutturata nel pensiero e nell’essere. La tradizione scettica e la filosofia trascendentale, che ad essa
deve la propria impostazione, accusano in questa impostazione la reificazione del pensiero
nell’essere e per contrastarla avviano lo studio delle condizioni ideali e linguistiche a partire dalle
quali nascono le interpretazioni della realtà. La logica diventa allora un uso particolare del
linguaggio e non più la struttura del mondo in sé; il linguaggio è contesto di analisi fenomenologica
dei modi con cui si definiscono percorsi di orientamento e lettura della realtà.
2. filosofia analitica degli atti linguistici
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2.1 La svolta che pone al centro la comunicazione inizia in modo irreversibile con l’opera di John
Langshaw Austin “Come fare cose con le parole” [FCP] (How to Do Things with Words) , scritta
tra il 1951 e il 1955, pubblicata postuma nel 1962. Ha inizio cioè quando si vede il linguaggio
«come azione piuttosto che come struttura o risultato di un processo conoscitivo» e al centro
dell’attenzione analitica si pongono gli “atti linguistici” (gli “speech acts”). Si tratta di una
innovazione non solo tematica, ma di metodo. L’impostazione analitica pragmatica che caratterizza
gli studi di Austin differenzia le sue teorie dalle indagini che contemporaneamente Wittgenstein
stava svolgendo (Ricerche filosofiche 1953) in particolare sul linguaggio quotidiano. Anche
Wittgenstein “postula l’unità azione-linguaggio, considerando il nesso tra linguaggio e mondo
come nesso tra una pluralità di giochi linguistici diversi, connessi a diverse forme di vita. Secondo
Wittgenstein, parlare un linguaggio costituisce un’attività, e il significato di una parola è il suo uso
nel linguaggio stesso. Per comprendere il significato di quanto espresso dal linguaggio è necessario
conoscere le regole del gioco entro il quale il linguaggio stesso viene usato; e, dal momento che le
regole del gioco sono stabilite per convenzione intersoggettiva (in altre parole, sono definite
socialmente), ne deriva che l’analisi del linguaggio costituisce uno strumento per la comprensione
dell’azione (dell’interazione) sociale”. È sull’aspetto pragmatico, contesto poi di catalogazione e di
riflessione teoretica, che insiste l’impostazione analitica di Austin. In richiamo, alcuni passaggi
centrali della analisi e proposta di Austin:
2.1.1. enunciati performativi: enunciati (alla prima persona del presente indicativo) che non
descrivono un atto, ma servono a compierlo, cioè «alcuni casi o sensi (solo alcuni, per amore del
cielo!) in cui dire qualcosa è fare qualcosa; o in cui col dire o nel dire qualcosa noi facciamo
qualcosa.»
«Per troppo tempo i filosofi hanno assunto che il compito di una « asserzione » possa essere solo
quello di « descrivere » un certo stato di cose, o di « esporre un qualche fatto », cosa che deve fare
in modo vero o falso. Gli studiosi di grammatica, in realtà, hanno regolarmente fatto notare che non
tutte le e frasi » sono (usate per fare) asserzioni: ci sono, tradizionalmente, oltre alle asserzioni
(degli studiosi di grammatica), anche domande ed esclamazioni, e frasi che esprimono ordini o
desideri o concessioni. E sicuramente i filosofi non intendevano negare ciò, nonostante qualche uso
impreciso di « frase » per « asserzione ». […] Esempi:
(E. a) « Sì (prendo questa donna come mia legittima sposa) » pronunciato nel corso di una
cerimonia nuziale .
(E. h) « Battezzo questa nave Queen Elizaheth » — pronunciato quando si rompe la bottiglia contro
la prua.
(E. e) « Lascio il mio orologio in eredità a mio fratello » — quando ricorre in un testamento.
(E. d) « Scommetto mezzo scellino che domani pioverà ».
In questi esempi risulta chiaro che enunciare la frase (ovviamente in circostanze appropriate) non è
descrivere il mio fare ciò che si direbbe io stia facendo mentre la enuncio o asserire che lo sto
facendo: è farlo. Nessuno degli enunciati citati è o vero o falso: lo asserisco come ovvio e non lo
dimostro. Ciò ha tanto bisogno di discussione quanto ne ha il dire che « dannazione » non è vero o
falso: può darsi che l’enunciato « serva ad informarti » — ma questa è una cosa abbastanza diversa.
Battezzare la nave dire (in circostanze appropriate) 1e parole « io battezzo etc. ». Quando, davanti
all’ufficiale di stato civile o davanti all’altare, etc., dico «sì », non sto riferendo di un matrimonio:
mi ci sto coinvolgendo.
Come dobbiamo chiamare una frase o un enunciato di questo tipo ? Propongo di chiamarlo una
frase performativa o un enunciato performativo, o, in breve, « un performativo ». Il termine
«performativo » verrà usato in una varietà di modi e costruzioni affini, quasi come il termine
«imperativo » . Il nome deriva, ovviamente, da perform [eseguire], il verbo usuale con il sostantivo
« azione»: esso indica che il proferimento dell’enunciato costituisce l’esecuzione di una azione —
non viene normalmente concepito come semplicemente dire qualcosa.» (pp. 9-11)
2.1.2. dalla condizione vero / falso (teoria della verità) alla condizione felice / infelice (teoria della
felicità)
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« Questi hanno, giudicando dalle apparenze, l’aspetto — o per lo meno la composizione
grammaticale — delle « asserzioni »; ma tuttavia, quando li si esamina più attentamente, si vede
molto chiaramente che non sono enunciati che potrebbero essere « veri » o « falsi ». Tuttavia
l’essere « vero » o « falso » è tradizionalmente il segno caratteristico di una asserzione. Uno dei
nostri esempi era l’enunciato « sì » (prendo questa donna come mia legittima sposa), pronunciato
nel corso di una cerimonia nuziale. Qui dovremmo dire che nel dire queste parole noi stiamo
facendo qualcosa — cioè, ci stiamo sposando, piuttosto che raccontando qualcosa, e cioè che ci
stiamo sposando. […] Oltre all’enunciazione delle parole del cosiddetto performativo, molte altre
cose devono, come norma generale, essere corrette e funzionare bene se si deve dire che abbiamo
felicemente portato a compimento la nostra azione. Cosa siano queste cose possiamo sperare di
scoprirlo esaminando e classificando i tipi di casi in cui qualcosa funziona male e l’atto sposarsi,
scommettere, lasciare in eredità, battezzare, e altri ancora — è perciò almeno in una certa misura un
insuccesso: l’enunciato è allora, possiamo dire, non proprio falso ma in generale infelice. E per
questa ragione chiamiamo la teoria delle cose che possono essere scorrette e funzionare male in
occasione di tali enunciati, la teoria delle Infelicità. […] vi sono più modi di violare il linguaggio
che semplicemente la contraddizione. Le domande principali sono: quanti modi, e perché violano il
linguaggio, e in cosa consiste la violazione? […] Dobbiamo considerare la situazione totale in cui
viene formulato l’enunciato — l’atto linguistico totale — se dobbiamo vedere il parallelo tra le
asserzioni e gli enunciati performativi, e come ciascuno possa funzionare male. Così l’atto
linguistico totale nella situazione linguistica totale sta emergendo dalla logica a poco a poco come
importante in casi speciali: e perciò stiamo assimilando il supposto enunciato constativo al
performativo. […] Possiamo, comunque, rafforzare la nostra convinzione che la distinzione sia
definitiva tornando alla vecchia idea secondo la quale l’enunciato constativo è vero o falso e quello
performativo è felice o infelice.
2.1.3. ma i due criteri non sono così lontani « Avendo suggerito che il performativo non è affatto
distinto dal constativo in maniera così evidente — il primo felice o infelice, il secondo vero o falso
— stavamo riflettendo su come definire il performativo in modo più chiaro.» Anche la verità ha
bisogno di contesto; si avvicina quindi al criterio felicità / infelicità: « Supponiamo di mettere a
confronto « la Francia è esagonale » con i fatti, in questo caso, suppongo, con la Francia:
quest’asserzione è vera o falsa? Ebbene, se volete, fino ad un certo punto; naturalmente io posso
capire ciò che intendi col dire che è vera per certi propositi e scopi. Va abbastanza bene per un
generale di massimo grado, forse, ma non per un geografo. « Naturalmente è piuttosto
approssimativo », dovremmo dire, « e va piuttosto bene come asserzione piuttosto approssimativa ».
[…] Il riferimento dipende dalla conoscenza che si ha al momento in cui viene proferito l’enunciato.
[…] È essenziale rendersi conto che « vero » e « falso », come « libero » e « non libero », non
stanno per alcunché di semplice, ma soltanto per una dimensione generale dell’essere una cosa
giusta o corretta da dire, in opposizione ad una cosa sbagliata, in queste circostanze, a questo
uditorio, per questi scopi e con queste intenzioni.»
2.1.4. enunciati performativi: enunciati locutori, illocutori, perlocutori.
« Innanzitutto abbiamo distinto un gruppo di cose che facciamo nel dire qualcosa, che, nel loro
insieme, abbiamo riassunto col dire che eseguiamo un atto locutorio, che approssimativamente
equivale a pronunciare una certa frase con un certo senso e riferimento, che ancora equivale
approssimativamente al « significato » nel senso tradizionale. In secondo luogo, abbiamo detto che
eseguiamo anche degli atti illocutori quali informare, ordinare, avvertire, impegnarsi a fare
qualcosa, etc., cioè enunciati che hanno una certa forza (convenzionale). In terzo luogo, possiamo
anche eseguire degli atti perlocutori: ciò che otteniamo o riusciamo a fare col dire qualcosa, come
convincere, persuadere, trattenere, e persino, per dire, sorprendere o ingannare.»
In ulteriore presentazione – bilancio generale: « … l’unità tra linguaggio e azione è il presupposto
fondamentale della teoria degli atti linguistici, elaborata da Austin e Searle, secondo cui enunciare
una frase significa anche, di per sé, compiere un’azione, in questo caso, il dire diventa fare, e il
linguaggio diventa uno strumento dell’azione sociale. Austin (1962) distingue tre tipi di «atti
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linguistici», o meglio tre dimensioni dell’atto linguistico: l’atto locutorio (l’azione che si compie
nel parlare stesso, nonché la capacità del linguaggio di descrivere stati di cose); l’atto illocutorio (in
questo caso l’azione che compiamo è, a seconda, ordinare. consigliare, promettere, scusarsi ecc.);
l’atto perlocutorio (che consiste nel la produzione — volontaria o involontaria — di conseguenze
sulla situazione, dove l’azione consiste quindi in ciò di cui ci rendiamo responsabili se il nostro
parlare produce un effetto extralinguistico, come convincere, allarmare, rassicurare ecc.). Facciamo
un esempio: se io dico «ti assicuro che ti aspetto fuori», compio contemporaneamente tre atti
distinti: un atto locutorio (cioè l’atto di pronunciare quelle determinate parole), un atto illocutorio
(da in + locutorio, l’atto cioè che compio nel dire quella frase, e quindi, nel mio caso, l’assunzione
di un impegno) e un atto perlocutorio (da per + locutorio, l’atto cioè che compio col dire quella
frase, l’azione sul mio interlocutore, che può avere determinati effetti: in questo caso, spaventarlo,
rallegrarlo, rassicurarlo ecc.). Boni, Federico 2007 Sociologia della comunicazione interpersonale,
Laterza, Roma-Bari (da questo stesso studio è tratto liberamente il confronto Austin Wittgenstein
sopra richiamato, in 2.1.)
2.1.5. centralità degli enunciati illocutori: « Con l’enunciato performativo, noi prestiamo la massima
attenzione alla forza illocutoria dell’enunciato, e facciamo astrazione dalla dimensione della
corrispondenza ai fatti. […] Ma la vera conclusione deve certamente essere che per noi è
necessario a) distinguere tra atti locutori e illocutori, e b) specialmente, e in modo critico, stabilire
in relazione ad ogni genere di atto illocutorio — avvertimenti, valutazioni, verdetti, asserzioni, e
descrizioni — in quale modo specifico (se ve n’è uno) si intende che essi siano, in primo luogo a
proposito o fuori luogo, e secondariamente, « giusti » o « sbagliati »; quali termini di valutazione
vengono usati per ogni atto e cosa significano. Questo è un campo di ricerca molto vasto e
certamente non porterà ad una semplice distinzione tra « vero » e « falso »; e non porterà neppure
ad una distinzione tra le asserzioni e gli altri atti, poiché asserire è soltanto uno dei numerosissimi
atti linguistici che appartengono alla classe degli atti illocutori. […]
Distinguo cinque classi molto generali: ma sono lungi dall’essere ugualmente soddisfatto di tutte.
Comunque, sono sufficienti per fare il diavolo a quattro con due feticci con cui ammetto di essere
incline a farlo, cioè 1) il feticcio vero/falso, 2) il feticcio valore/fatto. Chiamo quindi queste classi di
enunciato, classificate secondo la loro forza illocutoria, con i seguenti nomi più o meno sgradevoli:
1) Verdettivi.
2) Esercitivi.
3) Commissivi.
4) Comportativi (questo è terribile).
5) Espositivi.»
2.1.6. l’incontro nella felicità / infelicità: « la verità e la falsità non sono (tranne che mediante
un’astrazione artificiale che è sempre possibile e legittima per certi scopi) nomi che indicano
relazioni, qualità, o altro, bensì una dimensione di valutazione - in che condizioni stanno le parole
quanto all’essere soddisfacenti riguardo ai fatti, gli eventi, le situazioni, etc., a cui si riferiscono. »
2.2 Sviluppi e commento alle direzioni aperte dalla proposta di Austin
(dalla Introduzione all’opera FCP di Carlo Penco e Marina Sbisà)
2.2.1. Verità e felicità
Cade dunque il privilegio dato dai filosofi all’asserzione; questa non è che una delle diverse forme
di atto illocutorio, accanto a valutazione, domanda, ordine, promessa, ecc. Ma l’asserzione è anche per tradizione - l’uso del linguaggio che riguarda il vero e il falso. Cade forse dunque anche il
privilegio dato al concetto di verità? È difficile dare una risposta univoca. Sul tema della verità
Austin aveva scritto un articolo (Truth, 1950) che è stato al centro di una polemica con Strawson.
Qui ci interessa mettere in evidenza tre aspetti particolarmente rilevanti come retroterra di FCP:
a) Contro l’idea che la verità sia una proprietà delle credenze o delle espressioni linguistiche (parole
o frasi), Austin sostiene che ciò cui si attribuisce verità è l’asserzione (la quale si differenzia dalla
frase, o dalla credenza, proprio perché è quello che poi Austin chiamerà un concreto atto linguistico
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eseguito in un contesto). In questo senso il saggio Truth dà un contributo indiretto ma centrale alla
formazione delle idee poi esposte in FCP.
b) Per Austin il principio di bivalenza — cioè il principio della logica per cui ogni proposizione
deve essere vera o falsa — « ha operato troppo a lungo come la forma più semplice e pervasiva
della fallacia descrittiva» (Truth, p. 131). Questo principio non ha quella validità assoluta che i
logici e i filosofi del linguaggio gli hanno sempre attribuito: da una parte (è il punto di partenza di
FCP, Lezione I), abbiamo asserzioni « mascherate » che non descrivono alcunché e di cui non si
direbbe che sono vere o false; dall’altra (è la conclusione di FCP, Lezione XI) comunque qualsiasi
asserzione non va definita esclusivamente per la sua relazione al vero o al falso, ma anche in
relazione allo scopo e alle intenzioni del parlante, alla posizione in cui la si può fare, al tipo di
impegno che farla comporta, ecc.; queste caratteristiche hanno a che fare non tanto con la verità, ma
con la felicità, o buona riuscita, di un atto illocutorio. Inoltre, se si applica il principio per cui
occorre sempre «considerare la situazione linguistica nella sua totalità» (FCP, p. 101 [138]), nella
vita reale, in opposizione alle situazioni semplificate della teoria logica, non si può sempre
rispondere in modo semplice alla questione se un’asserzione è vera o falsa. Potrebbe trattarsi ad
esempio di un’asserzione approssimativa o esagerata. Circostanze, uditorio e scopi
dell’enunciazione concorrono così non solo a determinare la felicità dell’asserzione, ma anche la
sua posizione in quella dimensione di giudizio che ha per poli estremi il vero e il falso (Truth, par. 5
e 6; FCP, pp. 104 [143] ss.).
c) Austjn, da buon aristotelico difende una teoria corrispondentista della verità; ma riconosce
chiaramente che dire che un’asserzione è vera quando « corrisponde ai fatti » è fuorviante, e porta a
posizioni criticabili, come quella mai citata esplicitamente del Tractaius di Wittgenstein. La teoria
corrispondentista rende però giustizia all’idea che « it takes two to make a truth », cioè che parliamo
sempre di qualcosa (Truth, p. 124 n.). Come dunque salvarla? Austin contribuisce con due idee.
Da una parte, mostra come la corrispondenza del linguaggio ai fatti è una questione più generale di
quel che riguarda il solo discorso assertivo: come un’asserzione è vera o falsa, così un verdetto è
equo o iniquo, un consiglio buono o cattivo, un rimprovero meritato o non meritato (cfr. FCP, pp.
34 [41] s.). Dall’altra parte, mostra come non si può parlare di mera corrispondenza a « fatti », ma è
più corretto parlare di convenzioni che fanno corrispondere le frasi a tipi di situazione e le
asserzioni a situazioni storiche; queste convenzioni rispondono al duplice scopo descrittivo e
indicale (dimostrativo) delle espressioni linguistiche. Austin conclude che « un’asserzione è detta
vera quando lo stato di cose storico cui è correlata dalle convenzioni dimostrative (quello a cui « si
riferisce ») è di un tipo con cui la frase usata nel farlo è correlata dalle convenzioni descrittive»
(Truth, par. 3, pp. 121-22).
2.2.2. Filosofia e teoria del linguaggio
Come abbiamo a più riprese avuto occasione di vedere, il lavoro di Austin ha dato un grande
numero di contributi alla teoria del linguaggio, sia offrendo temi e spunti all’elaborazione dei logici,
sia fornendo strumenti concettuali alla linguistica, soprattutto nell’area della pragmatica. Ma che
relazione ha questo lavoro con la filosofia? Si tratta della nascita di un nuovo pianeta-scienza dal
vecchio grande sole filosofico, come Austin preannuncia altrove? Al ruolo di filosofo, egli ha forse
ormai rinunciato? Si rilegga l’ultima pagina del libro: Austin non propone una teoria filosofica;
propone un programma di lavoro di teoria del linguaggio; e lo offre ai lettori perché lo usino, per il
piacere [fun] della filosofia.
E, in effetti, in FCP troviamo un autore che, spesso tra le righe, si diverte moltissimo a criticare
certe abitudini intellettuali: la costruzione di dicotomie, il vizio del riduzionismo o gli stereotipi
filosofici consolidati. Così vediamo Austin mettere in discussione e ristrutturare radicalmente una
dicotomia dire/fare che non è altro che la reincarnazione della dualità teoria/prassi; protestare contro
l’uso indiscriminato della dicotomia vero/falso; affermare che vuole fare il diavolo a quattro con la
dicotomia fatto/valore.
Non è dire poco. Si tratta di categorie fondamentali della cultura occidentale. Fino a che punto va
preso sul serio tutto ciò?
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Forse non va preso sul serio perché la serietà della filosofia non era spirito di Austin? Ma proporre
la filosofia come piacere e come gioco impedisce forse di prenderla sul serio? Non giocano forse
molto seriamente i bambini? Austin mette in gioco i presupposti della propria cultura; ma di questa
cultura accetta le regole: la pratica dell’argomentazione filosofica e la ricerca della verità. La sua è
una scommessa di chi vuole criticare una tradizione dall’interno.
Ma allora perché Austin non sviluppò i suoi discorsi in modo più esplicito, in una teoria filosofica,
etica o epistemologica? In un appunto datato ottobre 1951 leggiamo: « sempre stato consapevole
che [FCP] avrebbe avuto ripercussioni in filosofia (...) so benissimo che ha ripercussioni in etica e
epistemologia, ma lo tengo sotto silenzio [keeping that dark] ». Sviluppare simili discorsi avrebbe
comportato una sorta di profondità che Austin rifiutava: dotato semmai di quella « profondità della
superficie », che Nietzsche attribuiva ai Greci, Austin, formatosi sui testi classici, ha trovato nella
superficie del linguaggio il suo luogo filosofico. E non è del tutto falso dire che FCP è un’opera di
filosofia teoretica travestita strategicamente da ricerca linguistica. In questa ambiguità essa rimane
un enfant terrible della filosofia del ‘900: con tutte le potenzialità di un’infanzia.
2.3. Commento: spunti di bilancio su metodi problemi direzioni. A partire dall’analisi di Austin
con riferimento al progetto generale della filosofia analitica del ‘900;
2.3.1. il mare di vasti e annosi quesiti: distinzione e relazione tra logica e linguaggio; pensiero e
linguaggio; ragione e linguaggio; linguaggio formale e linguaggio quotidiano; definizione e uso del
linguaggio; neuroscienze e linguaggio; tradizione linguistica e linguaggi personali …
«Fino ai tempi recenti, è stato un caposaldo della filosofia analitica, nelle sue varie manifestazioni,
l’assunto che l’analisi del pensiero possa essere affrontata solo attraverso la filosofia del linguaggio.
In altre parole, non può esservi una spiegazione di che cosa sia un pensiero, indipendentemente dai
mezzi espressivi impiegati; ma l’obiettivo della filosofia del pensiero può essere conseguito da una
spiegazione di ciò che fa sì che le parole di una lingua abbiano i significati che hanno, una
spiegazione che non faccia appello all’antecedente concezione dei pensieri che questi enunciati
esprimono. Resta il fatto che essi significano ciò che significano solo grazie all’uso che ne
facciamo. Per attingere un’intelligenza completa, per pervenire a una visione sinottica del modo in
cui funzionano, dobbiamo esaminare molto attentamente le nostre pratiche linguistiche, così da
acquistare innanzi tutto consapevolezza di quel che esattamente sono, avendo però come intento
finale quello di pervenire a una descrizione sistematica.» (Dummett, Michael, La base logica della
metafisica, il Mulino, Bologna 1996)
2.3.2. senso e significato; l’avvio in una distinzione ormai storica e imprescindibile: Frege, Russell
Gottlob Frege, in Über Sinn und Bedeutung, 1892 (Senso e denotazione o Senso e significato),
riconosciuto capostipite della filosofia analitica del linguaggio, analizza il significato dei nomi
distinguendo fra il loro senso (il modo in cui il nome ci dà l’oggetto designato) e il loro significato o
denotazione (l’oggetto designato stesso) [esempio “l’ippogrifo ha le ali” è enunciato dotato di senso
ma non di denotazione, almeno in contesto fisico], e applica la medesima distinzione anche agli
enunciati dichiarativi distinguendo tra il «pensiero» espresso e il valore di verità (cioè la circostanza
che il pensiero espresso sia vero, oppure quella che il pensiero espresso sia falso). Il riferimento è
anche a Bertrand Russell, On denoting (in Mind, 14 [1905] trad. Sulla denotazione), già qui la
«teoria delle descrizioni» e la distinzione dei livelli linguistici sono fonte di ispirazione per la
filosofia analitica del linguaggio. (note da Sbisà, Marina 2007 Detto non detto. Le forme della
comunicazione implicita, Laterza, Roma – Bari, pp. 20, 22)
2.3.3. perché la filosofia contemporanea è filosofia analitica: risposte in evoluzione.
«La filosofia non può fare altro che renderci capaci di conseguire una visione chiara dei concetti
mediante i quali pensiamo il mondo, consentendoci così di attingere un’apprensione più salda del
modo in cui nel nostro pensiero rappresentano il mondo. L’ottico non può dirci che cosa vedremo
quando ci guarderemo intorno: può solo dotarci di occhiali che mettano meglio a fuoco tutto quello
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comunicazione: mezzi e forme
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che vediamo. Il filosofo si propone di svolgere un compito analogo riguardo al modo in cui
pensiamo la realtà. Ciò significa però che il punto di partenza della filosofia deve essere l’analisi
della struttura fondamentale dei nostri pensieri.
Nel costruire un modello generale del significato di un enunciato appartenente a ciascun settore
della lingua, la teoria eluciderà il concetto di verità, così come è applicato alle asserzioni di
enunciati appartenenti all’area in questione – affermazioni sulla realtà fisica, asserti matematici,
asserti al tempo passato, e via dicendo – assegnando al concetto di verità il posto appropriato nella
caratterizzazione dei significati di tali enunciati.
(Michael Dummett, La base logica della metafisica)
2.3.4. tutta la filosofia è analitica ? l’analisi linguistica esaurisce tutto il lavoro filosofico?
lo è almeno prioritariamente (il resto è metafisica o filosofia “idealista”): J.L. Austin; è analisi
filosofica (non psicologica) dei fatti linguistici, sempre con compiti “dissolutivi”o euristici (i
discepoli di Austin: Paul Grice, John Searle), in tale contesto / proposito la filosofia analitica si
dispone in procedure definite. Tre pensatori analitici contemporanei:
2.3.4.1. Ernst Tuggendhat: la lunga indagine filosofica sul senso dell’essere (ontologia, da
Aristotele a Heidegger), come l’esplorazione dell’a priori soprattutto in forma trascendentale (da
Platone a Kant a Husserl) trovano impostazione e rilancio nella nozione di analisi linguistica: “il
linguaggio è quell’a priori che dà forma alla realtà e costituisce gli oggetti. In questo senso l’idea di
filosofia come analisi linguistica raccoglie e porta a un ultimo appropriato sviluppo l’eredità storica
dell’ontologia classica, e quella della filosofia trascendentale kantiana”
2.3.4.2. Michael Dummett: riallaccia la problematica della filosofia linguistica non alla questione
dell’essere ma a quella del pensiero (per pensiero Dummett intende non il processo psicologico del
pensare, ma il “significato” condiviso); la comprensione filosofica del pensiero si consegue
attraverso la “spiegazione filosofica del linguaggio”, e solo in tal modo; linguaggio e pensiero sono
rispettivamente lo strumento e l’oggetto del lavoro analitico
2.3.4.3. Richard Rorty: la filosofia analitica si identifica con la filosofia linguistica, ossia, nella sua
definizione: “la concezione secondo cui i problemi filosofici sono problemi che possono essere
risolti (o dissolti) o riformando il linguaggio, o ampliando la conoscenza del linguaggio che
abbiamo”. Anche quando la filosofia analitica si presenta nella versione costruzionista (che ritiene
necessario costruire una qualche teoria linguistica, e valutare in base ad essa il linguaggio filosofico,
scientifico o la lingua comune, e ciò “equivarrebbe a un ritorno alla grande tradizione della filosofia
come costruttrice-di-sistemi”) “i sistemi costruiti non sarebbero più considerati descrizioni della
natura delle cose o della coscienza umana, ma piuttosto proposte relative a come parlarne”
2.3.5. accostando i primi progetti e le ultime scelte operative si coglie un’evoluzione:
2.3.5.1. da una filosofia analitica (fino agli anni quaranta) intesa come programma di una filosofia
“rigorosa”, “scientifica”, che faccia riferimento alla logica (per quel che riguarda “le questioni di
senso”) e alle scienze empiriche (per quel che riguarda “le questioni di fatto”) e segua un metodo
argomentativo rigoroso, fissato in base a stipulazioni esplicite (qui: B. Russell, i teorici
neopositivisti come da Manifesto del Circolo di Vienna del 1929, con rigorosa esclusione di ciò che
si configura come individuale [in questo contesto nasce la contrapposizione tra “analitici” e
“continentali” (meglio “filosofia analitica” e “filosofia ermeneutica”), questi ultimi a dominante
impostazione esistenziale, fenomenologica, ermeneutica],
2.3.5.2. a una filosofia analitica (negli anni quaranta – sessanta) in cui ha il sopravvento una visione
del linguaggio come insieme di “atti” linguistici, per lo più determinati in base a stipulazioni e
convenzioni inesplicite, di origine antropologico-sociale,
2.3.5.3. a una filosofia analitica (intorno alla metà degli anni settanta) in cui le questioni di
“pensiero”, di “cognizione” (credenze, desideri, competenze del parlante ecc.) vengono considerate
prioritarie rispetto alla questioni linguistiche, e anzi funzionali per una qualsivoglia indagine sul
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linguaggio stesso; qui è universalmente condivisa la disillusione circa le pretese di rigore e di
scientificità “filosofica” rivendicata dall’analisi linguistica dei primi analitici.
2.4. le due direzioni della filosofia analitica le loro ragioni (Strawson, Rorty e Austin)
- 1. analitica del linguaggio comune (o naturale, o ordinario): descrizione (descrizionisti);
- 2. analitica del linguaggio ideale: costruzione (costruzionisti);
(fonte: D’Agostini, Franca 1997 Filosofia analitica, Paravia, Torino)
2.4.1. il problema delle due tradizioni e della loro relazione
2.4.1.1. hanno in comune il linguaggio come contesto di chiarificazione dei pensieri, del problemi
filosofici, e dissoluzione di impostazioni filosofiche metafisiche e idealistiche: «Sottoposte a tanta
raffinata acribia linguistica concreta, molte teorizzazioni filosofiche tradizionali cominciarono ad
apparire straordinariamente approssimative, quasi un complesso di vasti, ingenui fraintendimenti: ed
era, si può ben pensare, estremamente esilarante veder sgretolarsi o addirittura crollare quelle
immense ed imponenti cattedrali del pensiero al suono di questa musica così discreta. Ma c'era
dell'altro, qualcosa di ben più positivo: il senso della scoperta, l'avvertimento profondo della
tessitura raffinata, ricca, vibrante del nostro pensare in atto, dell'attuarsi del nostro bagaglio
concettuale e linguistico.» (Magee: Strawson, autoritratto)
2.4.1.2. relazioni e difficoltà di incontro delle due direzioni di ricerca. «Non è facile vedere
chiaramente perché debba esistere una controversia tra i filosofi del Linguaggio Ideale e i filosofi
del Linguaggio Ordinario, e difatti sono molti i filosofi che la considerano artificiosa. (Così
troviamo l'osservazione di Goodman, approvata da Carnap, secondo cui il filosofo «costruzionista» un filosofo che costruisce un Linguaggio Ideale [...]- «guarda all'analista verbale come a un alleato
apprezzato e rispettato, benché inspiegabilmente ostile»). (Rorty) Le difficoltà:
2.4.1.2.1. la chiarificazione linguistica ottenuta dal costruzionista attraverso il linguaggio ideale
rende inutile l’analisi del linguaggio ordinario: si sa che questo contiene imperfezioni e
insignificanze, queste non vanno chiarificate (è inutile), ma rimosse e sostituite; «Frege considerava
la notazione [logica] non tanto come un mezzo per analizzare la lingua così com'è, quanto piuttosto
come uno strumento idoneo a sostituirla attraverso un simbolismo opportuno in cui condurre il
ragionamento deduttivo rigoroso, e insisteva sul fatto di non avere fornito meramente uno strumento
per rappresentare i pensieri, bensì un linguaggio in cui potevano essere espressi. Esso si è dimostrato
idoneo a questo scopo. Oggi i matematici usano la notazione logica come qualcosa di ovvio e
scontato per dare espressione più perspicua alle proposizioni, benché il loro modo di ragionare resti
quello informale di sempre.»(Dummett)
2.4.1.2.2. la chiarificazione dei linguaggi naturali (ordinari, quotidiani, quelli non costruiti) svolta
allo scopo di dissolvere “modalità elusive, ingannevoli”, anche se ottenuta con il ricorso al
linguaggio “costruito”, presuppone la conoscenza dei modi in cui i concetti sono costruiti nel
linguaggio ordinario, ma tale conoscenza è già la risoluzione (la chiarificazione) dei problemi
linguistici. Queste due osservazioni segnalano l’impossibilità o l’inutilità dell’incontro, nella
filosofia analitica (magari con la identica funzione terapeutica), tra linguaggio ideale e linguaggio
comune. L'argomentazione centrale di Strawson suona così: «La pretesa di chiarificazione avanzata
dal costruzionista sembrerà vuota a meno che i risultati ottenuti abbiano una qualche presa sulle
difficoltà e i problemi filosofici tipici che insorgono a proposito dei concetti da chiarificare. Ora (si
ammetterà) questi problemi e difficoltà affondano le loro radici in concetti ordinari. non-costruiti,
nelle modalità elusive, ingannevoli in cui funzionano le espressioni linguistiche non formalizzate...
Se la modalità chiara di funzionamento dei concetti costruiti deve gettar luce sui problemi e sulle
difficoltà radicate nella modalità non chiara di funzionamento dei concetti non costruiti, allora ciò
che deve essere mostrato chiaramente sono precisamente i modi in cui i concetti costruiti sono
connessi a, e si allontanano da, i concetti non costruiti. E come si può ottenere questo risultato senza
descrivere accuratamente le modalità di funzionamento dei concetti non costruiti? Ma questo
compito è precisamente il compito di descrivere il comportamento logico delle espressioni
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linguistiche dei linguaggi naturali; esso potrebbe fornire da sé la risoluzione, di cui si andava in
cerca, dei problemi e delle difficoltà radicate nella modalità elusiva, ingannevole del funzionamento
di concetti non costruiti.»
A questo tipo di argomentazione il costruzionista può replicare in due modi ovvii: 1) Se si sa che
parlare in un certo modo conduce a certi problemi, e si dispone di un modo di parlare alternativo che
non conduce a certi problemi, che importa esaminare il «comportamento logico» implicato nel
primo modo di parlare? La funzione di un Linguaggio Ideale non è di chiarire concetti ordinari, ma
di sostituirli. 2) «Descrivere il comportamento logico delle espressioni linguistiche del linguaggio
naturale» potrebbe produrre «da sé» il risultato sperato, ma solo la pratica lo dimostrerà, e finora
tutto fa pensare che ciò non avvenga.” (Rorty)
2.4.2. La via di uscita. La via di risoluzione può essere consegnata alla tesi della autonomia delle
due direzioni di indagine analitica, affermata sulla base della specifica utilità di ciascuna.
2.4.2.1. l’analitica costruzionista del linguaggio ideale: 1) propone un modello, 2) propone più di un
modello; in quest’ultimo contesto si apre al pragmatismo: «Ciò equivarrebbe a un ritorno alla grande
tradizione della filosofia come costruttrice-di-sistemi: con l'unica differenza che i sistemi costruiti
non sarebbero più considerati descrizioni della natura delle cose o della coscienza umana, ma
piuttosto proposte relative a come parlare. Con questa mossa si manterrebbe la funzione «creativa» e
«costruttiva» della filosofia. I filosofi sarebbero, come tradizionalmente si è pensato che dovesse
essere, uomini che forniscono una Weltanschauung o, per usare un'espressione di Sellars, un modo
di “capire come le cose, nel senso più ampio possibile del termine, sono interconnesse nel senso più
ampio possibile del termine”». (Rorty)
2.4.2.2. l’analitica descrizionistica del linguaggio ordinario: 1) esplora possibilità espressive,
2)evidenzia processi e strategie di argomentazione - comunicazione (Perelman) «Potrebbe darsi che
la filosofia linguistica possa trascendere la sua funzione meramente critica trasformandosi in
un'attività che, invece di inferire da fatti relativi al comportamento linguistico alla dissoluzione dei
problemi tradizionali, scopre condizioni necessarie della possibilità del linguaggio stesso (in un
modo analogo a quello in cui Kant ha, a quanto si dice, scoperto le condizioni necessarie della
possibilità dell'esperienza). Un tale sviluppo è tracciato da Strawson, quando afferma che lo scopo
della «metafisica descrittiva» è di mostrare «in che modo le categorie fondamentali del nostro
pensiero siano connesse, e in che modo si riferiscano, a loro volta, a quelle nozioni formali (come
esistenza, identità e unità) che attraversano tutte le categorie.» (Rorty)
2.4.2.2.1. nell’analitica del linguaggio ordinario la nuova direzione filosofica studia ed evidenzia gli
atti del significare «Il nostro comune assortimento di parole incorpora tutte le distinzioni che gli
uomini hanno considerato meritasse tracciare, e le connessioni che hanno considerato meritasse
mettere in evidenza, nella vita di molte generazioni: dato che hanno superato il lungo esame della
sopravvivenza del più adatto, queste sicuramente sono probabilmente più numerose e più valide, e
più sottili, almeno in tutte le questioni pratiche ordinarie, di qualsiasi altra che voi o io si abbia la
possibilità di pensare stando il pomeriggio in poltrona - che è il metodo alternativo di gran lunga
preferito.” “Quando eseguiamo un atto locutorio, usiamo il linguaggio: ma precisamente in che
modo lo usiamo in quell'occasione? Vi sono infatti numerosissime funzioni del linguaggio o modi in
cui lo usiamo, e fa una gran differenza per il nostro atto in quale modo e in quale senso lo stavamo
«usando» in quell'occasione. Fa una gran differenza se stavamo consigliando, o soltanto suggerendo,
o effettivamente ordinando, se stavamo promettendo in senso stretto oppure solo annunciando
un'intenzione vaga, e così via.» (Austin)
2.4.2.2.2. in questi contesti la filosofia analitica (descrizionista) si apre all’ermeneutica
e mette in dubbio la diffusa e disomogenea distinzione / contrapposizione tra “analitici” e
“continentali” questi ultimi evidenziati nel contesto della filosofia fenomenologica e ermeneutica
della tradizione di Husserl e Heidegger
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2.5. il quadro delle diverse impostazioni di metodo e di obiettivo: quattro forme recenti di
filosofia analitica. (Le novità introdotte in filosofia dalla scuola inglese sono chiaramente delineate
da uno dei primi storici del movimento analitico, James O. Urmson, espressi in un Convegno sulla
filosofia analitica del 1958, pubblicati in G.Gava, R.Piovesan, La filosofia analitica, Liviana,
Padova 1972.
2.5.1.L’analisi classica che si propone compiti di chiarificazione
Il pensiero fondamentale dell'analisi classica (che corrisponde, nelle sue linee generali, all’analisi
tradizionale della filosofia inglese, che Russell ha tanto contribuito a sviluppare) consiste nel fatto
che le proposizioni del linguaggio quotidiano sono corrette, in quanto esse in linea di massima non
sono false. Esse non sono assurde né da un punto di vista metafisico né da un punto di vista logico.
Ma, si obietterà, queste proposizioni del linguaggio ordinario non sono neppure metafisicamente
né logicamente soddisfacenti, in quanto la loro forma nasconde molto spesso il loro vero contenuto.
Il compito dell'analista non sarà, dunque, quello di respingere queste proposizioni, ma di
riformularle in modo tale che il loro vero contenuto venga chiaramente ed esplicitamente espresso.
Analizzare significa riformulare o anche tradurre in termini migliori.
2.5.2. L'analisi delle lingue artificiali che ne utilizza la costruzione
L'analista, per i filosofi di questa tendenza [l'analisi del linguaggio ideale] deve costruire il suo
proprio linguaggio ideale, o tutt'al più dei frammenti di questo linguaggio, lo schema d'un linguaggio, la cui forma logica e i concetti siano definiti e chiari. In questo linguaggio artificiale, i
procedimenti dell'analisi classica ridiverranno validi. Si disporrà di concetti e di proposizioni-base,
a partire dai quali si potrà dedurre tutto il resto, e ai quali si potrà ridurlo.
Lo studio di un tale linguaggio, aggiungevano, non è soltanto utile in sé. Se riuscissimo a
costruirlo, facendolo per quanto possibile simile alle lingue naturali, quasi di suprema precisione,
allora noi potremmo trarre da questo esame tutti i chiarimenti che è lecito sperare, del nostro
pensare quotidiano. Questo studio ci renderà comprensibile l'apparato concettuale implicato nei
linguaggi naturali, in modo analogo ad uno studio ben realizzato di un architetto che delucidi uno
schizzo dai contorni imprecisi.
Ecco, dunque, la teoria o, meglio, l'abbozzo di una teoria analitica adatta ai filosofi che costruiscono
i linguaggi formali e i calcoli, non solo a titolo di esercizio di pura logica formale, ma in quanto
vero e proprio metodo filosofico. Essa prende delle forme molto diverse. La si trova prima di tutto
espressa qualche volta in Russell. È anche, sotto un'altra forma, la posizione di Carnap e dei suoi
discepoli. È press'a poco la posizione di Nelson Goodman e di Quine. Questa teoria è anche molto
diffusa negli Stati Uniti, ma non la si accetta molto in Inghilterra.
2.5.3. I giochi linguistici l'analisi che fa perno sul tema dei “giochi linguistici"
Una seconda scuola s'ispira, in gran parte, ma non totalmente, al pensiero dell'ultimo Wittgenstein.
Wittgenstein e la sua scuola insistono molto sull'eterogeneità dei nostri concetti e delle forme
linguistiche usuali. Vi è, dice Wittgenstein, un gran numero di «giuochi linguistici» (language-games,
Sprachspiele) le cui regole sono molto diverse; spesso non si saprebbe dire se un concetto è più
complesso di un altro, o se ognuno d'essi ha lo stesso grado di complessità, perché le loro funzioni
linguistiche sono troppo disparate. Certo, l'analisi classica aveva già riconosciuto una disparità
analoga fra i concetti empirici e i concetti della logica; ma questa dicotomia è molto insufficiente.
Parlare delle nostre sensazioni, per esempio, è giocare a un giuoco linguistico. Parlare degli oggetti,
è giocare ad un altro giuoco, assai diverso; chi vuole ridurre l'uno all'altro, fa come colui che vuol
parlare del tennis in termini di calcio.
Wittgenstein e molti filosofi inglesi che si schierano in linea di massima con lui, pensano che una
gran parte dei problemi della filosofia tradizionale provengono dal fatto che i filosofi hanno troppo
misconosciuto questa varietà di funzioni dei concetti, e se ne fanno per conseguenza un'idea errata.
Ne consegue che se si applica il metodo di Wittgenstein per la soluzione di un problema filosofico, si
corregge una concezione sbagliata delle funzioni del linguaggio anziché acquistarne una
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concezione approfondita. Per il filosofo che abbraccia questa prospettiva, un problema è piuttosto
un enigma da risolvere che una questione che comporta una vera soluzione. Da ciò si vede
facilmente che i problemi della filosofia, per l'analista, non derivano dall'ignoranza del contenuto
preciso di questo o quel concetto, ma da una concezione completamente falsa della sua funzione,
non tenendo conto del carattere più o meno impreciso dei concetti empirici.
2.5.4. L'analisi come esplicitazione dei significati del linguaggio così come è (L’analisi di Oxford)
Ma questa filosofia analitica, di cui ho appena offerto un succinto ragguaglio, non è la stessa di
quella che credo sia caratteristica della scuola di Oxford, così come essa si è costituita dopo l'ultima
guerra mondiale. L'analisi oxoniense e l'analisi wittgensteiniana non sono incompatibili e possono
associarsi in un'unica ricerca; ma non bisogna confonderle. Il quarto metodo d'analisi che mi accingo
ora a prendere in considerazione, sarà dunque il metodo di Oxford. È evidente che pochi filosofi
del gruppo di Oxford darebbero un assenso incondizionato a tutto ciò che ho appena asserito
riguardo al metodo di questo gruppo.
I filosofi analitici della scuola di Cambridge, Russell e Wittgenstein. per esempio, sono pervenuti alla
filosofia dopo una lunga pratica delle scienze e della matematica. È alla filosofia della matematica
che Russell ha applicato dapprima la sua analisi classica. Ma i filosofi di Oxford, quasi senza
eccezione, affrontano la filosofia dopo uno studio assai approfondito delle lettere classiche. Essi
s'interessano dunque spontaneamente delle parole, della sintassi, degli idiotismi. Essi non
vorrebbero utilizzare l'analisi linguistica ai soli fini di risolvere i problemi della filosofia, poiché
l'esame di una lingua li interessa di per sé. Pertanto questi filosofi sono forse più atti e più portati alle
distinzioni linguistiche della maggior parte dei filosofi. Per essi, i linguaggi naturali, che i filosofi
hanno l'abitudine di stigmatizzare come impacciati e inadeguati al pensiero, contengono in realtà
una ricchezza di concetti e di distinzioni molto sottili che adempiono ad una varietà di funzioni di
fronte alle quali i filosofi restano ordinariamente ciechi. Inoltre, poiché questi linguaggi si sono
sviluppati per rispondere ai bisogni di coloro che se ne servono, essi ritengono probabile che tali
linguaggi non conservino che i concetti utili e le distinzioni sufficienti e che essi siano precisi là dove
c'è bisogno di essere precisi e vaghi là dove non c'è bisogno di precisione. Tutti quelli che sanno
parlare una lingua hanno senza dubbio un dominio implicito di questi concetti e di queste
sfumature. Ma, sempre secondo la scuola di Oxford, i filosofi che si sforzano di descrivere questi
concetti e queste distinzioni, o li misconoscono o li semplificano all'estremo. In ogni caso, essi non
li hanno esaminati che superficialmente. Le vere ricchezze che racchiudono i linguaggi restano
sepolte. [...].
Wittgenstein, si sa, vedeva nel suo metodo l'erede della filosofia tradizionale. L'analisi, come egli la
praticava, si confondeva col vero metodo della filosofia; ella doveva quindi prima di tutto aiutarci a risolvere i problemi tradizionali. I difensori della scuola di Oxford non hanno pretese così audaci;
ma vi è posto, stando a ciò che essi credono, nello stesso seno della filosofia per le imprese più
diverse. La loro modestia non arriva fino a far loro ammettere che i loro studi linguistici siano
senza importanza alcuna per la filosofia tradizionale. Dedicarsi a una qualunque ricerca
filosofica, senza aver messo in luce le risorse concettuali del linguaggio cui ci si riferisce, è di
un'audacia folle e il fallimento della maggior parte delle imprese filosofiche non ha altra causa
secondo loro. Inoltre, dopo questa analisi molti problemi si dissolvono, come diceva già
Wittgenstein, e molti altri si rivelano mal posti. Come ha affermato Austin, se l'analisi non è il
termine ultimo {end-all) della filosofia, ne è per lo meno il primo inizio (begin-all).
da D’Agostini, Franca 1997 Filosofia analitica. Analizzare, tradurre, interpretare, Paravia, Torino
(con interventi di sintesi)
3. comunicazione e società (di massa)
3.01. una prima strategia di studio: l’analisi delle situazioni attuali di comunicazione è praticabile
solo se si attribuisce alle parole la natura di “atti linguistici performativi illocutori” così come
Austin li definisce. Atti linguistici = considerare il linguaggio dal punto di vista degli atti che nel
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lezione 7
parlarlo o col parlarlo si compiono; performativi = in cui col dire o nel dire qualcosa noi facciamo
qualcosa; illocutori = compiono l’azione detta.
3.02. un secondo assunto di tipo teoretico: l’analitica linguistica non può essere consegnata ai
linguisti, ai vocabolari, alla filologia, anche quando quelle analisi sono correttamente attente all’uso
del linguaggio e all’evoluzione determinata dall’uso, ma è da collocare all’interno della prassi
comunicativa quale è materialmente attuata e resa possibile dai mezzi di comunicazione utilizzati
nel periodo storico dato. Per usare il titolo di un’opera di Habermas, diventa “teoria dell’agire
comunicativo”.
3.03. Il lavoro analitico linguistico contemporaneo si colloca dunque all’interno di una specifica
triangolazione: comunicazione – mezzi – massa. Studio delle forme di comunicazione realizzata
attraverso i moderni mezzi della comunicazione disponibili in una forma di consumo (seriale)
propria della società di massa.
3.1. La logica dell’industria culturale si colloca alla radice delle forme del comunicare come stile
di consumo di una merce particolare e indifferenziata: l’informazione.
3.1.1. la tesi ormai classica dell’industria culturale (Adorno, Horkheimer, Morin …)
« La civiltà attuale conferisce a tutto un’aria di somiglianza. Film, radio e settimanali costituiscono
un sistema. Ogni Settore è armonizzato in sé e tutti fra loro. Le manifestazioni estetiche anche degli
opposti politici celebrano allo stesso modo l’elogio del ritmo d’acciaio. Le sedi decorative delle
amministrazioni e mostre industriali sono poco diverse nei paesi autoritari e negli altri. I tersi e
colossali palazzi che spuntano da tutte le parti rappresentano la pura razionalità priva di senso dei
grandi cartelli internazionali a cui tendeva già la libera iniziativa scatenata, che ha, invece, i suoi
monumenti nei tetri edifici circostanti — d’abitazione o d’affari — delle città desolate. […] Coloro
che vi sono interessati amano spiegare l’industria culturale in termini tecnologici. La
partecipazione, ad essa, di milioni imporrebbe metodi di riproduzione che a loro volta fanno
inevitabilmente sì che, in luoghi innumerevoli, bisogni uguali siano soddisfatti da prodotti
standardizzati. Il contrasto tecnico fra pochi centri di produzione e una ricezione diffusa esigerebbe,
per forza di cose, organizzazione e pianificazione da parte dei detentori. I clichés sarebbero scaturiti
in origine dai bisogni dei consumatori: e solo per questo sarebbero accettati senza opposizione. E, in
realtà, è in questo circolo di manipolazione e di bisogno che ne deriva, che l’unità del sistema si
stringe sempre di più. Ma non si dice che l’ambiente in cui la tecnica acquista tanto potere sulla
società è il potere degli economicamente più forti sulla società stessa. […] Ma ogni traccia di
spontaneità del pubblico nell’ambito della radio ufficiale viene convogliata e assorbita, in una
selezione di tipo specialistico, da cacciatori di talenti, gare davanti al microfono, manifestazioni
addomesticate di ogni genere. I talenti appartengono all’industria assai prima che questa li presenti:
o non si adatterebbero cosi prontamente. La costituzione del pubblico, che teoricamente e di fatto
favorisce il sistema dell’industria culturale, fa parte del sistema, e non lo scusa. […] L’unità
spregiudicata dell’industria culturale attesta quella — in formazione — della politica. Distinzioni
enfatiche, come quelle tra film di tipo a e b, o fra le storie in settimanali a prezzo diverso, non sono
tanto fondate nella realtà quanto piuttosto servono a classificare e organizzare i consumatori, a
impadronirsi saldamente di loro. Per tutti è previsto qualcosa, perché nessuno possa sfuggire; le
differenze vengono coniate e diffuse artificialmente. Il fatto di offrire al pubblico una gerarchia di
qualità in serie serve solo alla quantificazione più completa. Ognuno deve condursi, per così dire
spontaneamente, secondo il suo level determinato in anticipo da indici statistici, e rivolgersi alla
categoria di prodotti di massa che è stata preparata per il suo tipo. Ridotti a materiale statistico, i
consumatori vengono ripartiti, sulla carta geografica degli uffici studio (che non si distinguono
praticamente più da quelli di propaganda), in gruppi di reddito, in campi rossi, verdi e azzurri.
Horkheimer, Max - Adorno W. Theodor 1947 Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1966,
pp. 130-133.
3.1.1.1. un caso: forme del consumo della musica
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“Ars est celare artem” è anche la tecnica di composizione della comunicazione pubblicitaria. Ciò
che si cela è il carattere di artificio del bisogno creato dal prodotto proposto per il consumo; solo se
presentato come naturale, e quindi normale e necessario, ciò che è artificiale si impone. Come un
infinito jingle commerciale anche il consumo della musica diventa sottofondo necessario e sempre
presente e, in questi destini commerciali, viene addirittura presentato come amore per la musica.
«Nei paesi industriali progrediti la musica leggera è definita dalla standardizzazione… la
standardizzazione della musica leggera, in forza del suo crudo semplicismo, non va interpretata
tanto da un punto di vista interno-musicale quanto da un punto di vista sociologico. Essa mira a
reazioni standardizzate, e il successo che incontra, specie la violenta avversione dei suoi seguaci per
tutto ciò che potrebbe essere diverso, conferma che l’operazione le è riuscita. L’ascolto della musica
leggera non è manipolato tanto dagli interessati che la producono e la diffondono, ma quasi da lei
stessa, dalla sua natura immanente. … Bisogna sentire senza fatica, possibilmente a mezz’orecchio:
un famoso programma radiofonico americano si intitola Easy Listening, ascoltare comodamente. Ci
si orienta a modelli di ascolto sotto i quali è da sussumere automaticamente, inconsciamente, tutto
ciò che fa da ostacolo. Inconfondibile l’analogia tra i prodotti che vengono in tal modo [proposti] e i
predigeriti i digests a stampa. La passività incoraggiata si inserisce nel sistema generale
dell’industria culturale inteso come sistema di istupidimento progressivo» (Adorno, W. Theodor
Introduzione alla sociologia della musica, Einaudi, Torino 2002).
Nella Introduzione alla sociologia della musica, Adorno delinea “sei tipi di comportamento
musicale” avendo deciso, sociologicamente, di partire dall’ascoltatore, o meglio “dal rapporto tra
gli ascoltatori di musica, come singoli individui socializzati, e la musica stessa”. Più
provocatoriamente che per tipologie assolute, essi sono: l’esperto, il buon ascoltatore, il
consumatore di cultura, l’ascoltatore emotivo, l’ascoltatore risentito o astioso, l’ascoltatore per
passatempo. “Dal punto di vista quantitativo il più diffuso di tutti i tipi è certamente quello che
ascolta la musica per passatempo e nient’altro.” Per lo più in luoghi non luoghi e nella forma di
sfondo. “Il tipo dell’ascoltatore per passatempo è l’oggetto dell’industria culturale, vuoi che questa
– secondo l’ideologia che le è propria – gli si adegui, vuoi che sia lei stessa a crearlo o a metterlo in
luce … entrambi sono una funzione dello stadio della società nel quale si intrecciano produzione e
consumo”. L’analisi di Adorno prosegue puntuale e impietosa; essa può far intravedere
nell’ascoltatore per passatempo la tipologia più idonea, al negativo, ai tratti alienanti di una società
del consumo industrializzato nell’abbondanza; si configura quasi come inconsapevole gestore di
una ipertestualità da “cultura - buffet”.
Fuori dai destini commerciali e prima di entrare nei circuiti della globalizzazione, la musica giunge
all’arte intesa come assoluta ricerca formale, e in quella direzione giunge alla ipertestualità, per
cammini propri dotati di una innovativa e anticipatrice proposta culturale. Se con attenzione
analitica Adorno denuncia la degenerazione della cultura nelle abitudini dei consumi di massa creati
dall’industria culturale, che coinvolge canzonette e sinfonie, con altrettanta capacità intuitiva coglie
i cammini opposti di una innovazione che contrasta quella deriva, e li coglie prevalentemente nella
musica e, precisamente, a partire dalla musica atonale e dodecafonica di Schönberg. E’ da lì che
parte la lunga storia del ‘900. “Nel nostro «campo», l’ultimo stadio della musica che si è presentato
al compositore agli inizi del secolo, è dunque quello dell’estrema saturazione dei mezzi espressivi
«tonali» accumulati in quattro secoli di storia. In tali condizioni la scelta che si presenta all’artista
appare quanto mai limitata: certi accordi armonici che sono diventati «costume» nella musica da
salotto del secolo XIX, oggi «vengono avvertiti anche dall’orecchio più ottuso»; per questo il
compositore li esclude, sino a giungere, ad un certo momento, alla negazione dello stesso «campo
tonale» di cui tali accordi sono come la cristallizzazione elevata a simbolo” (Luigi Rognoni). «Il
problema posto dalla musica dodecafonica al compositore non è come possa essere organizzato un
senso musicale, ma piuttosto come possa l’organizzazione acquistare un senso: e ciò che Schönberg
ha prodotto da venticinque anni a questa parte è tutto un progresso di tentativi verso la soluzione di
questo problema» (T.W.Adorno o.c.). Ed è solo l’inizio.
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comunicazione: mezzi e forme
lezione 7
3.1.2. la tesi rivista da Habermas e la sua diffusa ripresa
« Adorno ha assunto una prospettiva di critica della cultura che, a ragione, lo ha reso scettico nei
confronti delle speranze un po’ frettolose nutrite da Benjamin nella forza emancipatrice della
cultura di massa, a quel tempo soprattutto del cinema. D’altra parte, come vedremo, Adorno non ha
un concetto chiaro del carattere oltremodo ambivalente di un controllo sociale esercitato attraverso i
mass media. Un’analisi, che parte dalla forma di merce dei beni culturali, assimila i nuovi mezzi di
comunicazione di massa al medium costituito dal valore di scambio, benché le analogie strutturali
non si spingano abbastanza lontano.
Mentre il medium del denaro sostituisce la comprensione linguistica in quanto meccanismo di
coordinamento delle azioni, i media della comunicazione di massa continuano a dipendere dalla
intesa linguistica. Essi costituiscono amplificatori tecnici della comunicazione linguistica, superano
le distanze spazio-temporali e moltiplicano le possibilità di comunicazione, infittiscono la rete
dell’agire comunicativo, senza però sganciare gli orientamenti di azione dai contesti del mondo
vitale in generale. Certo, il potenziale di comunicazione così straordinariamente ampliato viene
anzitutto neutralizzato mediante forme organizzative che assicurano flussi di comunicazione a senso
unico e quindi non reversibili. Se una cultura di massa ritagliata sui mass media può dispiegare
forze che favoriscono l’integrazione regressiva della coscienza, dipende però in prima linea dalla
possibilità che «la comunicazione (determini) il livellamento degli uomini mediante il loro
isolamento» , non dalla possibilità che le leggi del mercato penetrino sempre più profondamente
nella stessa produzione di cultura .[…] Secondo le concezioni di Horkheimer e di Adorno i flussi
di comunicazione guidati attraverso i mass media subentrano al posto di quelle strutture di
comunicazione che avevano reso possibili un tempo la discussione pubblica e l’autocomprensione
di un pubblico di cittadini e di privati. I media elettronici spostati dalla scrittura all’immagine e al
suono, anzitutto al cinema e alla radio, successivamente alla televisione, si configurano come un
apparato che compenetra e domina completamente il linguaggio quotidiano comunicativo. Esso
trasforma i contenuti autentici, della cultura moderna in stereotipi, asettici e ideologicamente
operanti di una cultura massificata che si limita a raddoppiare l’esistente. Consuma la cultura
depurata da tutti i momenti sovversivi e trascendenti a favore di un più ampio sistema di controllo
sociale imposto agli individui che in parte rafforza, in parte sostituisce gli indeboliti controlli
comportamentali interni. […] Queste sfere pubbliche dei media gerarchizzano e al tempo stesso
dischiudono l’orizzonte di comunicazioni possibili. Un aspetto non può essere separato dall’altro –
— e qui è fondato il loro potenziale ambivalente. I mass media, nella misura in cui canalizzano
unilateralmente flussi di comunicazione in una rete centralizzata, dal centro alla periferia o dall’alto
verso il basso, possono rafforzare notevolmente l’efficacia dei controlli sociali. Lo sfruttamento di
questo potenziale autoritario resta però sempre precario, poiché nelle stesse strutture comunicative
è incorporato il contrappeso di in potenziale emancipativo. I mass media possono al tempo stesso
graduare, accelerare e condensare i processi di intesa, ma soltanto in prima istanza possono
scaricare le interazioni dalle prese di posizione sì/no su pretese di validità criticabili; neppure le
comunicazioni astratte e affastellate possono essere protette in modo efficace contro le possibilità di
obiezioni da parte di attori imputabili.»
Habermas, Jürgen 1981 Teoria dell’agire comunicativo, il Mulino, Bologna 1986, pp. 495 ss.
È necessario partire dalla ambiguità, o meglio dal potenziale ambivalente, segnalato da Habermas
nei mass media per orientarsi nel mutamento continuo delle forme che interessano la
comunicazione in una società di massa tecnologicamente supportata nella produzione e nel
consumo. «Anziché essere il presupposto di una società tendenzialmente totalitaria, come nelle
analisi degli esponenti della Scuola di Francoforte, il ruolo determinante dei mass-media nella
società postmoderna può essere invece la condizione positiva per un moltiplicarsi delle differenze e
dei linguaggi che consente di sfuggire al rischio dell’omologazione, dell’uniformizzazione, della
totalizzazione: “La ‘società dello spettacolo’ non è solo la società delle apparenze manipolate dal
potere; è anche la società in cui la realtà si presenta con caratteri più molli e fluidi, e in coi
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comunicazione: mezzi e forme
lezione 7
l’esperienza può acquisire i tratti dell’oscillazione, dello spaesamento, del gioco.”» (Chiurazzi,
Gaetano 2002 Il postmoderno, B.Mondadori, Milano p.43-44)
« Questo effetto dei mass media appare esattamente contrario all’immagine che se ne faceva ancora
un filosofo come Theodor Adorno. Sulla base della sua esperienza d vita negli Stati Uniti durante la
seconda guerra mondiale, Adorno, in opere come Dialettica dell’illuminismo (scritta in
collaborazione con Max Horkheimer) e Minima moralia, prevedeva che la radio (solo più tardi la
TV) avesse l’effetto di produrre una generale omologazione della società, permettendo e anzi
favorendo, per una specie di propria tendenza demoniaca interna, la formazione di dittature e
governi totalitari capaci, come il Grande Fratello del 1984 di George Orwell, di esercitare un
controllo capillare sui cittadini, attraverso una distribuzione di slogan. propaganda (commerciale
non meno che politica), visioni del mondo stereotipate. Quello che di fatto è accaduto, però,
nonostante ogni sforzo dei monopoli e delle grandi centrali capitalistiche, è stato piuttosto che radio,
televisione, giornali sono diventati elementi di una generale esplosione e moltiplicazione di
Weltanshauungen, di visioni del mondo. Negli Stati Uniti degli ultimi decenni hanno preso la parola
minoranze di ogni genere, si sono presentate alla ribalta dell’opinione pubblica culture e sub-culture
di ogni specie. Si può certo obiettare che a questa presa di parola non ha corrisposto una vera
emancipazione politica — il potere economico è ancora nelle mani del grande capitale. Sarà — non
voglio qui allargare troppo la discussione su questo terreno; il fatto è però che la stessa logica del
“mercato” dell’informazione richiede una continua dilatazione di questo mercato, ed esige di
conseguenza che “tutto”, in qualche modo, diventi oggetto di comunicazione. Questa
moltiplicazione vertiginosa della comunicazione, questa “presa di parola” da parte di un numero
crescente di sub-culture, è l’effetto più evidente dei mass media, ed è anche il fatto che —
intrecciato con la fine, o almeno la trasformazione radicale, dell’imperialismo europeo determina il
passaggio della nostra società alla postmodernità. Non solo nei confronti con altri universi culturali
(il “terzo mondo”, per esempio), ma anche al proprio interno, l’Occidente vive una situazione
esplosiva, una pluralizzazione che appare irresistibile, e che rende impossibile concepire il mondo e
la storia secondo punti di vista unitari.» Vattimo, Gianni 1989 L’arte dell’oscillazione in La società
trasparente, Garzanti, Milano (Chiurazzi o.c. p.143)
3.2. La triangolazione comunicazione – mezzi – massa diventa il contesto della creolizzazione
dei linguaggi e delle culture. Il contesto è:
3.2.1. l’industria culturale e i suoi poteri, veri e propri “agenzie dell’estetizzazione diffusa”, cercano
di mettere a frutto, estetizzandole e anestetizzandole, le differenze e le identità culturali: perciò è
come se mescolassero il culturale e il sociale (pensa all’uso cultural-industriale dei fenomeni
protestatari dei writers… alla commercializzazione dell’arte della contestazione; alla
commercializzazione di identità diverse … cicuta giapponese, cinese, vietnamita …);
3.2.2. a questo miscuglio se ne contrappone un altro, definibile come creolizzazione (sul modello
delle lingue creole), in quanto risposta che le identità oppresse o compresse danno all’estetizzazione
o all’esotismo degli oppressori (pensa al fenomeno linguistico dello spanglish, o alle forme assunte
dalla lingua inglese nell’uso, spesso per identità-identificazione di gruppo, degli afroamericani…
ma il fenomeno interessa ogni lingua nelle società dalle marcate diseguaglianze sociali);
3.2.3. tanto quegli apparati che questa risposta contribuiscono in generale all’ibridazione
contemporanea. Un fenomeno da considerare, quindi, come fortemente bivalente. A indicare il
fenomeno è possibile suggerire una correzione di termini e una indicazione di analisi:
1. il termine che definisce la società contemporanea non è globalizzazione, ma ibridazione
2. nella società contemporanea è in atto, a diversi livelli, un processo di de-differenziazione.
(note libere da Genovese, Giuseppe 2008 Gli attrezzi del filosofo. Difesa del relativismo e altre
incursioni, manifestolibri, Roma)
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comunicazione: mezzi e forme
lezione 7
4. comunicazione: mezzo – luogo – forme
4.01 componenti della comunicazione in vista di una analisi operativa: Jacobson
« Per tracciare un quadro di queste funzioni [delle funzioni del linguaggio] è necessaria una
rassegna sommaria dei fattori costitutivi di ogni processo linguistico, di ogni atto di comunicazione
verbale. Il mittente invia un messaggio al destinatario. Per essere operante, il messaggio richiede in
primo luogo il riferimento a un contesto (il « referente », secondo un’altra terminologia abbastanza
ambigua), contesto che possa essere afferrato dal destinatario, e che sia verbale o suscettibile di
verbalizzazione; in secondo luogo esige un codice interamente, o almeno parzialmente, comune al
mittente e al destinatario (o, in altri termini, al codificatore e al decodificatore del messaggio);
infine un contatto, un canale fisico e una connessione psicologica tra il mittente e il destinatario, che
consenta loro di stabilire e di mantenere la comunicazione...
Ciascuno di questi sei fattori dà origine a una funzione linguistica diversa. Sebbene distinguiamo sei
aspetti fondamentali del linguaggio, difficilmente potremmo trovare messaggi verbali che assolvano
soltanto una funzione. La diversità dei messaggi non si fonda sul monopolio dell’una o dell’altra
funzione, ma sul diverso ordine gerarchico fra di esse. La struttura verbale di un messaggio dipende
prima di tutto dalla funzione predominante. Ma, anche se l’atteggiamento verso il referente,
l’orientamento rispetto al contesto (in breve, la funzione cosiddetta referenziale « denotativa »,
«connotativa ») è la funzione prevalente di numerosi messaggi, la partecipazione accessoria delle
altre funzioni a tali messaggi deve essere presa in considerazione da un linguista attento.» Jacobson,
Saggi di linguistica generale (in Fubini, o.c.)
4.1 il mezzo: «La cultura di massa pone un problema di fondo: … il problema del corso assunto
dalla vita nell’area tecno-industriale dei consumi più avanzata del globo, e che assumerà
necessariamente in ogni società di consumi, qualunque ne sia l’ideologia ufficiale. […] La tecnica
trasforma i rapporti tra gli uomini e i rapporti tra l’uomo e il mondo: essa oggettiva, razionalizza,
spersonalizza. […] Ne viene una contraddizione dialettica, che s’impadronisce degli uomini e
insieme degli oggetti dell’universo tecnicizzato. Gli uomini subiscono nel loro stesso essere i
processi di oggettivazione, ma nel contempo soggettivizzano la vita personale, individualizzandosi
sempre di più. Gli oggetti divengono cose, utensili, strumenti, ma nello stesso tempo si permeano di
valori soggettivi, affettivi, estetici. Così la duplice natura della cultura di massa, tecnica e antitecnica, astratta e concreta, oggettivante e soggettivante, industriale e individualistica, trova il
proprio fondamento nel fondamento stesso della tecnica. […] Nell’uomo che sembra doversi
nascondere come un eremita sotto i suoi eterocliti oggetti di proprietà, scorgiamo la cieca
aspirazione alla comunicazione con gli altri, nel piccolo borghese televisionario, una relazione, per
l’appunto mediante il video, col cosmonauta che naviga negli spazi, che, per quanto tenue, è pur
sempre una relazione con le pulsazioni del mondo, con lo spirito del tempo.
Che diverranno questi fermenti, queste linfe, mentre l’uomo sarà sempre più preso dalla prodigiosa
avventura tecnica che gli apre, non soltanto gli orizzonti cosmici, ma le possibilità di una
trasformazione interna radicale, di un mutamento inaudito? Troppe le variabili, troppe le incertezze,
e una tensione troppo grande, preapocalittica, perché si possano azzardare previsioni.
Morin, Edgar, L’industria culturale, il Mulino, Bologna 1991, pp.183-202 (passim)
4.1.1. nell’arco degli ultimi quarant’anni circa del ‘900 (gli anni sessanta) le riflessione
sull’incidenza del mezzo nella definizione del messaggio all’interno della comunicazione hanno
fatto riferimento alle tesi di Marshall McLuhan (1911-1980) vero e proprio guru “mediatico” sul
tema. Negli ultimi anni «il mondo delle comunicazioni è esploso (o forse imploso) in quella
nebulosa a più dimensioni che chiamiamo “il mediatico”» e che McLuhan indicava con «titoli e
aforismi divenuti rituali come formule liturgiche più facili da ricordare che da comprendere: il
Villaggio globale, la Galassia Gutenberg, il “medium è il messaggio”, “il medium è il massaggio”
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comunicazione: mezzi e forme
lezione 7
[da massa]» (Stefano Bartezzaghi, McLuhan, Cosa resta del suo villaggio globale, La Repubblica
27.12.2005). Senza un andamento sillogistico, senza teorie e, soprattutto, senza prese di posizione,
attraverso un «caleidoscopio di immagini (soprattutto ricavate da giornali popolari) commentate con
brevi articoli e aforismi» McLuhan, imitandone lo stile nelle proprie opere, con iperboli e paradossi,
pone al centro il tema “estremo” di come nelle comunicazioni attuali sia il mezzo ad essere la
comunicazione e il contenuto (la telefonata, l’SMS, la Tv sono il messaggio e non quanto dicono);
si tratta di “un medium senza messaggio”, quindi afferma se stesso, presenta se stesso come notizia
e vive della presentazione di se stesso. «Per capire il principio guida delle sue riflessioni converrà
partire dall’aforisma che egli stesso aveva ricavato da T. S. Eliot (uno dei suoi autori di culto,
assieme a James Joyce, a Lewis Carroll, a Ezra Pound e a Edgar Allan Poe). In un saggio sulla
poesia Eliot aveva detto che il poeta si serve del significato come un ladro si serve del pezzo di
carne che lancia al cane per distrarlo mentre la casa viene svaligiata. Secondo McLuhan i media
fanno lo stesso con il contenuto. Pensare che i media trasmettono messaggi è come pensare che la
funzione dei ladri sia quella di cibare i nostri cani. La poesia e i media ottengono i loro rispettivi
effetti tramite la struttura formale dei loro messaggi, e non tramite il loro contenuto. Ecco allora che
McLuhan individua nella storia dell’umanità tre invenzioni decisive: l’invenzione dell’alfabeto
fonetico (fuoriuscita dall’ambiente primitivo), l’invenzione della stampa a caratteri mobili
(Galassia Gutenberg), invenzione del telegrafo (comparsa dell’Uomo Elettrico). Tali innovazioni
tecnologiche hanno la capacità, la forza di cambiare l’ambiente in cui l’uomo si trova a vivere,
munito - prima che della propria intelligenza - del proprio sistema nervoso, del proprio corpo e dei
propri organi di senso.» (ivi)
In modo più ampio (e più scontato) McLuhan segnala che «Il sistema delle comunicazioni di una
società corrisponde al suo stesso programma di sviluppo sociale. Il mutare dei sistemi di
comunicazione sotto l’incalzare delle innovazioni tecnologiche è il vero motore dell’evoluzione
verso sistemi democratici, anche se si tratta di un motore che resta “segreto” e che le stesse società
non riescono a leggere» (Semeraro, Angelo 2007 Pedagogia e comunicazione, Carocci, Roma,
p.57). Torna l’ambivalenza segnalata da Habermas. McLuhan sottolinea gli effetti che i
cambiamenti tecnologici hanno sulla comunicazione e sulla stessa percezione; è consapevole che
«la non-vigilanza sull’impatto dei media poteva trasformare il “villaggio globale” in un luogo di
controllo autoritario» (Derrick de Kerckhove).
4.2. il luogo, sede e definizione del messaggio, nella forma e nei contenuti.
4.2.1. i luoghi della rappresentazione pubblica (ufficializzata): « I problemi connessi alla teoria
dell’argomentazione possono essere studiati da vari punti di vista …Ma tutti (i) punti di vista
parziali presuppongono una teoria dell’argomentazione, vale a dire un’analisi della natura, della
funzione e dei limiti del discorso persuasivo distinto da quello dimostrativo, volta a determinare e a
delimitare il campo del « ragionevole » distinto tanto dal razionale puro quanto dall’irrazionale, a
illustrare e a precisare il posto della ragione nel mondo dei valori. A sua volta la teoria
dell’argomentazione, per evitare il rischio di essere semplicemente l’espressione di buone
intenzioni, deve fondarsi su una fenomenologia e su una tipologia il più possibile ampia di
argomenti, tratti dai campi più diversi e disparati del discorso umano. Il Trattato di Perelman e di
Olbrechts-Tyteca risponde egregiamente, in un modo che rimarrà prevedibilmente per lungo tempo
insuperato, a queste due esigenze fondamentali: nel momento stesso in cui pone le basi di una teoria
dell’argomentazione, contiene un amplissimo censimento o repertorio di argomenti, schedati,
classificati e confrontati gli uni con gli altri secondo una veduta d’insieme.» (Norberto Bobbio,
prefazione) … «è oggetto di questa teoria lo studio delle tecniche discorsive atte a provocare o
accrescere l’adesione delle menti alle tesi che vengono presentate al loro assenso; e poiché
l’adesione delle menti è caratterizzata appunto da ciò, che la sua intensità è variabile, nulla ci
obbliga a limitare il nostro studio a un particolare grado di adesione caratterizzato dall’evidenza,
come nulla ci permette, a priori, di considerare i gradi di adesione a una tesi proporzionali alla
probabilità della tesi stessa, e di identificare evidenza e verità. Sarà dunque opportuno non
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lezione 7
confondere, all’inizio, gli aspetti del ragionamento relativi alla verità con quelli relativi
all’adesione, e studiarli separatamente, salvo preoccuparci poi dell’eventuale loro interferenza o
corrispondenza. Solo a questa condizione sarà possibile sviluppare una teoria dell’argomentazione
che abbia una portata filosofica.»
Perelman, C. Olbrechts-Tyteca 1958 Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi,
Torino 1989
4.2.2. i luoghi della rappresentazione quotidiana (sociologia critica descrittiva).
4.2.2.1. Il metodo che si impone è definito e applicato da Erving Goffman. « L’individuo, quindi, si
trova, nel corso della relazione che si instaura tra lui e gli altri nel rapporto diretto «faccia a faccia»,
a dover verificare continuamente se la sua identità sociale, definita non dai suoi desideri ma dagli
elementi strutturali della società, è rispettata e a lottare per proteggerla. L’identità dell’individuo,
definita strutturalmente in termini di potenzialità o, ancor meglio alfine di coglierne l’aspetto
normativo di discendenza sacrale di «dover essere», si pone in atto, quindi in «essere»,
esclusivamente e di volta in volta nel corso dell’interazione «faccia a faccia». Erving Goffman (vedi
ad esempio La vita quotidiana come rappresentazione, il Mulino, Bologna 1969) svolge l’analisi
dei ruoli e delle gerarchie sociali, delle dinamiche complesse di conservazione e di (difficile)
mutamento delle funzioni, degli ordini e delle classi sociali a partire dalla ritualità condivisa e
acritica di simboli, gesti e parole della vita quotidiana come scena e rappresentazione. Si tratta di
una specie di etologia antropologica che inaugura una sociologia di carattere fenomenologico –
descrittivo dei comportamenti quotidiani spontanei e irriflessi che intessono la vita quotidiana e
sorreggono le relazioni sociali fornendo la base e l’intelaiatura (spesso di rito) per l’intesa
comunicativa; «si dà anche il caso che le somiglianze con l’attività degli animali siano davvero
notevoli; e in effetti è dall’etologia che provengono i concetti fondamentali. In qualche modo
dobbiamo quindi sviluppare una prospettiva che riunisca questi due approcci tradizionalmente
estranei, almeno per studiare i microcomportamenti che costituiscono l’interazione faccia a faccia.
[…] sarebbe meglio pensare alle sequenze come a cornici così sottili da permettere a ogni minimo
comportamento di servire al momento opportuno come mezzo per assumere una posizione. […] ciò
che interessa…(è) capire il legame tra le tecniche di socializzazione e l’insieme di questi elementi
dell’idioma rituale [il comportamento in oggetto è il tenersi per mano]. …credo si possa illustrare
qualcosa di significativo sulla vita sociale anche attraverso l’analisi pezzo per pezzo del significato
di un particolare frammento di idioma rituale.» Goffman Erving 1971 Relazioni in pubblico,
Raffaello Corina Editore, Milano 2008, p.54, 148, 198
Osserva Bourdieu (Bourdieu, Pierre 1980 Il senso pratico, Armando, Roma 2005): «Goffman non
afferma semplicemente che l’identità è fortemente influenzata dai rapporti sociali con gli “altri
significativi”. Sostiene qualcosa di molto più radicale: il self è creato mediante il rituale
virtualmente dal niente. I rituali dell’interazione non delimitano un’arena in cui identità pre-esistenti
giostrano tra loro cercando di definire se stesse e la situazione, ma sono piuttosto gli strumenti con
cui queste identità sono costruite localmente. In breve, l’identità non è qualcosa di stabile e duraturo
nel tempo (sia pure sottoposto a sviluppo), ma un effetto strutturale prodotto e riprodotto
discontinuamente nei vari balletti rituali della vita quotidiana». «Un’istituzione sociale è un luogo
circondato da barriere permanenti tali da ostacolare la percezione, entro il quale si svolge
regolarmente un certo tipo di attività. Ho detto che ogni istituzione sociale può essere utilmente
studiata dal punto di vista del controllo delle impressioni. Entro le mura di un’istituzione troviamo
un’équipe di attori che cooperano per presentare al pubblico una certa definizione della situazione.
Questo comporta la concezione della propria équipe e del pubblico e postula un ethos che deve
essere mantenuto per mezzo di norme di educazione e decoro».
In questo senso, il discorso si sposta sulla microsociologia, perché è qui che si definisce l’esito della
competizione che si instaura tra i soggetti, come constata Giglioli (1989): «Goffman non si riferisce
più ai grandi rituali della vita pubblica. Nelle società contemporanee essi sono diventati ormai
consunti e poveri di significato oppure, nel caso dei grandi rituali di massa, hanno assunto una luce
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leggermente sinistra. Prende invece in considerazione quei piccoli e apparentemente banali rituali
che costellano l’interazione nella vita quotidiana» (p. 52).
L’identità ha così, per Goffman, un’origine all’interno della prassi cerimoniale, per poi esaurirsi con
il venir meno dell’interazione «faccia a faccia». Nell’interazione successiva si ricomincia da capo.
La dimensione strutturale non istituisce di per se stessa l’identità, ma fornisce soltanto la norma
secondo la quale l’identità dovrebbe essere costruita, come si trattasse di seguire le istruzioni per il
montaggio di un oggetto. L’identità si presenta come una immagine articolata che cessa di esistere
allorché vengono meno gli elementi che ne rappresentano il sostrato. (p. 55) […]
L’interazione è regolata da norme implicite in essa, così schematizzate da Elena Besozzi (1992):
«Attraverso le regole di irrilevanza, all’interno di un incontro avviene una delimitazione quindi una
disattenzione verso ciò che si ritiene debba stare all’esterno. [...] Il secondo aspetto generale di un
incontro riguarda ciò che sta al suo interno, le risorse che vengono attivate e realizzate, gli eventi e i
ruoli realizzabili in quella determinata situazione. Il terzo aspetto, infine, riguarda le regole di
trasformazione, che consentono di distribuire ruoli e risorse all’interno dell’incontro oppure
emergenti dall’incontro stesso» (p. 102). L’individuo, nel corso dell’interazione, è preoccupato di
salvaguardare l’immagine alla quale ritiene di avere diritto, che trova come referente
comportamentale una determinata codificazione ritualistica. In questo modo, sempre seguendo la
sintesi della Besozzi, si struttura l’aspetto ritualistico in cui si evidenzia la «struttura del sé, cioè la
capacità di cogliere e rispettare regole e convenzioni». Straniero, Giovanni 2004 Faccia a faccia.
Interazione sociale e osservazione partecipante nell’opera di Erving Goffman, Bollati Boringhieri,
Torino.
4.2.2.2. I luoghi, gli spazi della comunicazione o i «Tipi di territorio»
«1) Lo spazio personale. Si tratta di quello spazio che circonda l’individuo (o meglio, il possessore
di questo spazio); è una sorta di «bolla» (più corta posteriormente e più prolungata anteriormente la
cui intrusione da parte di altri genera un notevole fastidio (ovviamente, il tutto a seconda del grado
di intimità che abbiamo con la persona che «profana» la bolla!).
2) La nicchia. È uno spazio ben delimitato all’interno del quale l’individuo ha pretese temporanee
ma esclusive. Gli esempi dello spazio di nicchia sono molteplici: si va dalla cabina telefonica al
posto dove sediamo sull’autobus, sul treno o nell’aula universitaria.
Spesso la nicchia coincide con lo spazio personale, come nel caso della poltroncina del cinema dove
siamo seduti mentre guardiamo un film; tuttavia, mentre lo spazio personale viaggia con
l’individuo, la nicchia non lo segue: nello spettacolo successivo, la poltroncina che occupavo io sarà
occupata da un altro individuo, e allora per tutto il tempo della visione coinciderà con il suo spazio
personale. Per salvaguardare la nostra nicchia temporanea, dovremo occuparla — ad esempio, se
vado in bagno occuperò la poltroncina al cinema con una giacca. Inoltre, la nicchia può essere non
solo di un unico individuo, ma può ricoprire lo spazio di due o più persone (si pensi al campo da
tennis, che rappresenta la nicchia di due — o quattro — persone coinvolte nel gioco). In effetti,
anche lo spazio personale può essere occupato da un «con», ad esempio nel caso di una coppia
impegnata in effusioni amorose. Infine, le violazioni di questo spazio ci dicono molto sulla persona
che viola la nicchia e sul suo possessore: si pensi, ad esempio, a una ragazza che al cinema si siede
sulle ginocchia del fidanzato questa violazione indicherà ai presenti il notevole grado di intimità tra
i due.
3) Lo spazio d’uso. È un territorio che un individuo può rivendicare per una necessità strumentale.
Ad esempio, mi potrò certo avvicinare a una persona che sta usando l’accetta, ma se invado troppo
lo spazio d’uso rischio di non vivere sufficientemente a lungo per raccontarlo in giro!
4) I1 turno. Si tratta dell’«ordine in cui in una situazione specifica un rivendicante riceve rispetto ad
altri un bene di qualche tipo» (Goffman 1971, trad. it., p. 28); a tale ordine corrisponde in genere
una serie di regole, sulla base delle quali i partecipanti vengono suddivisi per categoria («entra
prima chi ha il pass») o individualmente («fate passare quella persona che è invalida»), o in ordine
misto. Rivedremo nel terzo capitolo la questione del turno, in quel caso però in relazione ai turni
della conversazione.
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5) La guaina. Corrisponde fondamentalmente alla pelle e, per estensione, ai nostri vestiti (una sorta
di «seconda pelle»). Il corpo, e la sua guaina, è segmentato in maniera differente, cosicché un conto
è toccare il gomito di una donna, un conto è toccarle il seno. Questa segmentazione varia a seconda
delle culture a cui ci riferiamo.
6) La riserva di possesso. Si tratta di quell’insieme di oggetti che può venire identificato con il sé, e
che «sta per» il possessore: ad esempio, gli effetti personali, o la giacca che avevamo lasciato sulla
poltroncina del cinema a indicare il nostro posto. È curioso notare come l’estrema circospezione
con cui le persone spostano gli oggetti altrui mostri come tali oggetti partecipano in qualche modo
di un po’ della «sacralità» che circonda l’individuo.
7) La riserva di informazione. È quel controllo che l’individuo esercita su un insieme di fatti che lo
riguardano quando è insieme ad altri. Con un certo grado di approssimazione. potremmo definirla
come la nostra privacy. Un esempio di violazione ditale spazio è una banale domanda come «a che
cosa stai pensando», oppure frugare tra il contenuto della borsa di un’altra persona. Un ulteriore
esempio è l’informazione che può emanare il nostro corpo: si pensi al divieto di fissare troppo
lungamente una persona, o si pensi a quanto è disciplinato il nostro sguardo in caso di nudità. Come
sostiene Goffman (ivi, trad. it., p. 34), quanto più una persona è nuda, tanto più gli sguardi sono
vestiti.
8) La riserva conversazionale. È la pretesa rivendicata da ciascuno di «controllare chi può invitarlo
alla conversazione e il momento in cui può essere invitato a farlo» (ivi, trad. it., p. 30). E non solo: è
anche «il diritto di un gruppo di individui, che hanno iniziato una conversazione, di proteggere il
loro circolo dall’ingresso e dall’ascolto di estranei» (ibidem).»
Boni, Federico 2007 Sociologia della comunicazione interpersonale, Laterza, Roma-Bari
Ai Tipi di territorio corrispondono Tipi di marca (contrassegni che indicano che «lì» c’è un
territorio) e Tipi di violazione…
4.2.3. i non-luoghi: i non-luoghi delle nuove comunicazioni o delle “comunicazioni di transito”
(non vanno compresi tra i non-luoghi i luoghi virtuali messi a disposizione dalla rete web; vedi
dopo). Qui il deficit delle risorse conversazionali è riempito da una "comunicazione di transito" che
diviene linguaggio sociale diffuso; viene definita "di transito" quella comunicazione semplificata
che si svolge di norma nei luoghi che, a ben guardare, sono non-luoghi, luoghi di transizione che,
per la loro periodicità e il loro intensificarsi come durata, diventano luoghi di lunga persistenza:
treni, metro, autobus, bar, uffici pubblici, giardini pubblici, discoteche, comunicazioni telefoniche
ecc. Ambiti nei quali prendono consistenza specifici e doverosi stereotipi, ma si tratta di infraspazi
destinati ad un futuro essenziale e indispensabile di rete connettiva, valorizzazione e apertura di
tessuti abitativi precedenti (in citazione libera da Barbieri, Pepe (a cura), Infraspazi, Meltemi, Roma
2006 In schema di analisi applicativa: l’osservazione sociologica attuale presta una particolare
attenzione ai non-luoghi al punto che sembra partire proprio da quelli per osservare e comprendere
la dinamica della società contemporanea. Cosa sono, in cinque movimenti:
4.2.3.1. alcune definizioni. Si considera luogo l’area di riferimento per la propria identità o, in modo
più astratto, l’area con la quale ci si identifica, sede dei punti di orientamento rivendicati come
propri e specifici: luogo è l’area per la quale si esibisce la cittadinanza (sono italiano, europeo), un
ruolo sociale (sono dirigente, operaio), uno stato sociale (la mia famiglia), il gruppo (della
vedovella, dei propilei ecc.). Non luogo è lo spazio delle transizioni, alle quali non si attribuisce
alcun ruolo identitario per sé: il metrò, il treno, un supermercato, l’autostrada, il quartiere se in
situazione di banlieu ecc.
4.2.3.2. una dinamica. Nella società contemporanea i non luoghi subiscono una dilatazione
imprevedibile e sicuramente non volontaria: le ore passate sul treno, in metrò, in autostrada; il
dilatarsi e moltiplicarsi dei supermercati e del tempo lì trascorso ecc. Si tratta di luoghi non
identitari ma che materialmente assorbono momenti e spazi sempre più ampi della giornata.
4.2.3.3. un tentativo. La società attuale sembra caratterizzarsi dalla tendenza dei non luoghi a
diventare o imporsi come luoghi: il metro si abbellisce, nelle proprie stazioni ospita mostre o eventi
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musicali, il supermarket si fa ludoteca, dispone di oasi interne, espone mostre (il crakingart di
Oriocenter), ospita sfilate di moda, concorso dei presepi (Centro commerciale di Curno), mette a
disposizione spazi per culti religiosi… e la banlieu diventa un contesto di nuova identità politica
alternativa, di protesta quando non rivoluzionaria.
4.2.3.4. un meticciato. Se si assiste al progetto del non-luogo di diventare luogo (con pretese
appunto di segnare nuove identità, per lo meno aggregative), o si avverte la volontà del non-luogo
di soppiantare precedenti luoghi (si passerà la domenica all’iper e non in chiesa), si scopre anche
come ogni luogo possa diventare un non-luogo, o si scopre anzi la presenza di non-luogo in ogni
luogo.
4.2.3.5. non-luogo definito da una forma di comunicazione specifica. Momenti di comunicazione
sospesa, rarefatta, abitudinaria e non partecipata sono presenti e caratterizzanti. Ma la loro rilevanza
è un’altra: essi rischiano di diffondersi e crescere per ripetizione anche in luoghi scelti come proprio
contesto culturale - identitaria. Insomma la dinamica dell’età contemporanea sarebbe letta a partire
dallo scontro in atto, e totalmente imprevedibile negli esiti, tra luogo e non-luogo e dalla tendenza
ad espandersi in luoghi canonici delle comunicazioni tipiche dei non-luoghi. (spunti sul tema, in
citazione libera, ricavati da Augé Marc 2007 Tra i confini. Città, luoghi, integrazioni, B.Mondadori,
Milano)
4.2.3.5.1. comunicazioni in cerca di luogo: « Vi sono messaggi che servono essenzialmente a
stabilire, prolungare o interrompere la comunicazione, a verificare se il canale funziona (« Pronto,
mi senti? »), ad attirare l’attenzione dell’interlocutore o ad assicurarsi la sua continuità (« Allora, mi
ascolti? » o, in stile shakesperiano, « Prestatemi orecchio! » — e, all’altro capo del filo, « Hm - hm!
»). Quest’accentuazione del contatto (la funzione fatica, secondo la terminologia di Malinowski)
può dare luogo a uno scambio sovrabbondante di formule stereotipate, a interi dialoghi il cui unico
scopo è di prolungare la comunicazione...» (Jacobson, Saggi di linguistica generale, in Fubini, o.c.)
4.2.3.6. variazioni (letterarie e sociologiche) sul non-luogo:
«LA SCATOLA NERA . Di ritorno dal viaggio un giorno prima del previsto, Mirko non riuscì a
trovare Selena da nessuna parte. Nessuno sapeva dirgli dove si fosse cacciata la sua fidanzata, e con
chi. Il suo cellulare era spento dalla sera prima e le due amiche che dividevano con lei
l’appartamento in affitto gli erano sembrate piuttosto allarmate nel vederselo davanti
improvvisamente sulla porta di casa. Sicuramente sapevano qualcosa sulla sua ragazza che non
potevano rivelargli.
A casa, dopo la doccia e un panino, Mirko accese il computer e scrisse questo messaggio:
Cara Selena,
voglio dirti una cosa: devi capire che passo il novanta per cento del tempo in cui non dormo in nonluoghi insieme a non-persone. E pensandoci bene, credo che anche mentre dormo, nei miei sogni,
sono spesso in visita a non-luoghi circondato dalle stesse non-persone. Quindi, ascoltami bene, ci
sono per me solo due possibilità: una, quella di essere felice dentro un rapporto, con te o con
qualcun’altra; due, quella di stare tranquillo da solo. L’ipotesi “essere infelice dentro un rapporto”
invece non c’è, è una non-ipotesi. Hai capito, Selena? Non provarci nemmeno. E ora tocca a te
convincermi che non sei solo un’altra non-persona e che il nostro rapporto non sarà l’ennesimo nonluogo sentimentale destinato a svolgersi negli stessi non-luoghi geografici di sempre.
Riflettici. Mi auguro il meglio per noi due. O almeno un po’ di chiarezza.
Mirko
Poi cliccò invia messaggio e decise di spegnere subito il computer per non rimanere sotto tensione
nelle ore seguenti, con “le orecchie in piedi” in attesa del pin-pun dei nuovi messaggi.
Voleva cercare di dormire. Voleva iniziare il lutto di quella storia finita male dormendo. (Aveva già
deciso che era finita). La mattina dopo sarebbe stata comunque una storia accaduta in giorni passati.
Avrebbe potuto così nascondere la sua tristezza, il senso della perdita, dentro una scatola nera
chiamata “memoria”.
Ma la scatola non si aprì come sperava, il dolore era troppo forte, Mirko non riusciva a conciliare il
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sonno, si contorceva nel letto, sudava, rimase in ansia e agitazione fino alle due del mattino, quando
suonò il suo citofono e una vocina acuta e un po’ tremante, un po’ metallica, gli chiese:
Mirko, sono io. Scusami per l’ora. Poi ti spiego. Puoi aprirmi il cancello per favore? »
Martins Julio Monteiro, L’amore scritto, Besa, Lecce 2007
4.2.4. i nuovi luoghi: i luoghi virtuali (la piazza virtuale del comunicare)
4.2.4.1. il blog. In forma di presentazione: «Dovessi spiegarti che cos’è il mio blog ti direi che è un
luogo, riscaldato d’inverno ed areato d’estate, con un indirizzo e una buca delle lettere, finestre per
guardarci dentro se passi nei pressi ed una porta aperta per entrare se ti andrà. L’insieme dei blog
che leggiamo e di quelli che ci leggono è un villaggio particolarmente salubre fatto di abitanti che si
siano scelti fra loro e non paracadutati lì dal caso». Parola di blogger.
E evidente che il blog è molto più di un sistema di comunicazione. È un angolo di mondo, avrebbe
detto Herder. O una forma di vita, per dirla con Wittgenstein. In entrambi i casi uno spazio di
condivisione simbolica caratterizzato dai suoi usi. costumi, sensibilità, abitudini, codici sedimentati
- ma prima ancora creati - e da un linguaggio comune. I blog sono a tutti gli effetti le nuove forme
di vita prodotte dalla rete, degli autentici angoli di mondo virtuale.
Certo che il blog è un luogo di confronto e di scambio di idee, informazioni, pareri, servizi, ma è
anche di più, molto di più. Questa forma di diario in rete - il termine è la contrazione di web e di log
che significa appunto diario ma anche traccia - sta dando vita a una nuova cartografia sociale. Fatta
di punti di aggregazione fondati sulla circolazione delle opinioni. Qualcuno li considera un po’
come la versione immateriale dello Speaker’s Corner, letteralmente angolo dell’oratore, di Hyde
Park a Londra, dove chiunque può montare su una cassetta dileguo a mo’ di palco e predicare sul
mondo in assoluta libertà. Occupando un angolo di spazio pubblico per dire la sua. Quella
minuscola cassetta garantisce una sorta di extraterritorialità che consente a ciascuno di dire fino in
fondo tutto ciò che pensa. A ben vedere il blog è proprio una occupazione di immaginario pubblico,
una sorta di tribuna virtuale. E contribuisce a rivelare la forma dei nuovi spazi collettivi di una
società che ha profondamente mutato le sue categorie spaziali e sta passando dalle divisioni alle
condivisioni, dai luoghi tradizionali - territori fisici delimitati, confinati, sul modello delle nazioni agli iperluoghi immateriali che ridisegnano le mappe del presente. »
4.2.4.1.1. «Nuovo luogo della condivisione pubblica in un tempo caratterizzato dalla scomparsa
progressiva dello spazio pubblico tradizionale: un po’ circolo, un po’ palcoscenico, un po’ salotto,
un po’ sezione dipartito, un po’ piazza, un po’ caffé. I diari in rete rappresentano modi diversi di
sentirsi comunità. Non più comunità locali, e localistiche, basate sulla prossimità geografica,
residenziale, cittadina, ma su forme inedite di appartenenza.
Ecco perché il blog non è solo uno strumento del comunicare, ma è una potente metafora del nostro
presente in rapida trasformazione e un simbolo anticipatore del nostro futuro. A farne un mito
d’oggi è proprio la sua capacità di dirci qualcosa di profondo su noi stessi, dimostrarci con estrema
lungimiranza ciò che stiamo per diventare anche se ancora non lo sappiamo con precisione. Nei
grandi cambiamenti epocali il mito, la metafora, il simbolo si assumono proprio il compito di
lanciare dei ponti verso quelle sponde del reale che ancora non vediamo ma, appunto, intravediamo.
Anche se abbiamo già cominciato a viverci dentro istintivamente. In questo senso i comportamenti
del popolo dei blog ci aiutano a cogliere quanto stiano di fatto mutando le stesse categorie di
identità e di appartenenza: sempre meno materiali, sostanziali, fisse e sempre più fluttuanti, mobili,
convenzionali. E come sia cambiata la stessa nozione di luogo di cui viene oggi revocato in
questione il fondamento primo, ovvero l’idea di confine naturale, in favore di quella di confine
digitale. Il blog anticipa una realtà che non è più quella del paese, della città, del quartiere, della
classe d’età, della famiglia, della parrocchia, del circolo. I bloggers si rappresentano come una
comunità di persone che si scelgono liberamente e su scala planetaria. E in questa dimensione
extraterritoriale intessono un nuovo legame sociale.
le relazioni: «Il blog anticipa una realtà che non è più quella del paese, della città, del quartiere,
della classe d’età, della famiglia, della parrocchia, del circolo. I bloggers si rappresentano come una
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comunità di persone che si scelgono liberamente e su scala planetaria. E in questa dimensione
extraterritoriale intessono un nuovo legame sociale. »
4.2.4.1.2. non è un non-luogo! «Comunità senza luogo? Niente affatto. E la vecchia nozione di
luogo ad essere inadeguata. E assieme a lei quella apparentemente nuova di non-luogo che della
prima non è che la figlia degenere. Perché è fondata su una idea pesante, solida, ottocentesca del
luogo e della persona. Un’idea che ha l’immobile solidità del ferro e non la mutevole fluidità dei
cristalli liquidi. In realtà a costituire il tessuto spaziale, ieri come oggi, sono sempre le relazioni, mai
semplicemente le persone fisiche. E oggi le relazioni sono sempre meno incarnate, sempre meno
materializzate, ma non per questo scompaiono.
La liquidità della rete è la vera materia sottile della trama sociale contemporanea, e perfino di quella
spaziale se è vero che oggi l’iperconnessione è il principio vitale che circola come sangue nel corpo
del villaggio globale. I cosiddetti non-luoghi sono in realtà più-che-luoghi, super-luoghi, sono
luoghi all’ennesima potenza, acceleratori di contatti, incroci ad alta densità, moltiplicatori di
collegamenti tra bande larghe di umanità. E questa la cartografia wi-fi della nuova territorialità, la
cosmografia del presente di cui Internet è il dio e Google è il primo motore immobile. Una
rivoluzione recente ma che sta già cambiando il vocabolario dell’essere: dal to be al to google e,
soprattutto, al to blog.»
4.2.4.1.3. linguaggio in azione: «Non a caso bloggare è diventato un verbo. Il terzo ausiliare per chi
è in cerca di casa, di lavoro, di visibilità, di posizione insomma. E la terra promessa degli homeless
digitali, la nuova frontiera dei migranti interinali in cerca di hot spots, di porte wireless, di ambienti
interconnessi. Un nuovo paesaggio fatto di camere con vista sul web. Proprio così una blogger
definisce il suo miniappartamento virtuale. O un villaggio di villette monofamiliari dove si lascia
sempre aperta la porta di casa perché chi ne ha voglia possa entrare a prendere un caffé. Altro che
fine del legame sociale. La blogosfera è la traduzione della mitologia comunitaria nella lingua del
web, la declinazione immateriale della società faccia a faccia: la nostalgia del paese a misura
d’uomo in un download.
Frequentare i blog serve, fra l’altro, a smontare molti dei luoghi comuni sugli effetti nefasti della
digitalizzazione della realtà e sull’apocalisse culturale che essa comporterebbe. Fine della lettura,
tramonto dell’italiano, declino dello spirito collettivo. In realtà questo sguardo luttuoso sul
cambiamento lamenta sempre la scomparsa delle vecchie forme e proprio per questo fa fatica a
riconoscere l’intelligenza del presente.
A parte quelli specializzati, espressamente attrezzati a luoghi di cultura, palestre di discussione
critica, gabinetti di lettura, atelier di scrittura, i blog sono in generale delle officine stilistiche e
retoriche in continua attività, dove la capacità di persuasione e l’estetizzazione della comunicazione
hanno spesso un ruolo fondamentale. «Qui sul blog è tutta un’altra cosa. Scrivo in modo molto
diverso da come scriverci su un diario. Le persone che mi conoscono commentano e dicono la loro,
e i pensieri pubblicati sono molto più profondi». Per quanto diversi fra loro, i blogger nascono dal
linguaggio e vivono di linguaggio. Un regime democratico, dove ciascuno è opinionista nel libero
mercato delle opinioni, senza gerarchie di posizione, senza ruoli, senza il peso dell’autorità. Dove
ognuno è quel che scrive, dove tutti hanno pari facoltà d’interlocuzione. È la nuova utopia della
libertà e dell’eguaglianza. Compensazione simbolica al malessere attuale della democrazia in carne
e ossa.» Niola, Marino Villaggio blog, in La Repubblica, 29.07.2008
4.2.4.2. second life: un “Rinascimento virtuale”.
4.2.4.2.1. una premessa a ricostruire il contesto culturale e le radici teoriche, riferite alla società
contemporanea (in ipotesi di lettura interpretativa), in cui prendono forma e rilevanza i linguaggi (e
i luoghi) della produzione virtuale. Le nota sono tratte da Debord Guy 1992 La società dello
spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 2004. «E senza dubbio il nostro tempo … preferisce
l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere.
Feuerbach, Prefazione alla seconda edizione di L’essenza del cristianesimo. 1.Tutta la vita delle
società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa
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accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una
rappresentazione. 4 Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra
individui; mediato dalle immagini. 5 Lo spettacolo non può essere compreso come un abuso del
mondo visivo, prodotto delle tecniche di diffusione massiva delle immagini. Esso è invece una
Weltanschauung divenuta effettiva, tradotta materialmente. È una visione del mondo che si è
oggettivata.» 54
4.2.4.2.2. definizione di “second life”. È un mondo virtuale tridimensionale online, lanciato nel
2003 dalla LindenLab. I suoi “abitanti” sono realtà e oggetti su cui detengono i diritti coloro che si
“incarnano” nella seconda vita virtuale. Avatar è l’immagine (il nome e le forme) scelta non solo e
non tanto per rappresentarsi ma per esistere e agire nel mondo virtuale. In sanscrito la parola avatar
(resa popolare da una novella di Neal Stephenson), significa “disceso” e indica l’assunzione di un
corpo fisico da parte di un dio. (A differenza del Cristianesimo e dello Śivaismo, i Vaishnava
affermano che Dio si incarna ogni qualvolta avviene un declino dell'etica e della giustizia,
unitamente all'insorgere delle forze demoniache che operano in senso opposto al Dharma.)
4.2.4.2.3. Al proprio avatar si affida la propria identità nell’avventura delle molte incarnazioni. In
quel mondo si costruiscono incontri relazioni e vite assolutamente nuove e imprevedibili. Prende
forma il pensiero di sé in altra immagine e percezione, quasi specchio onirico della percezione di sé
in desiderio e progetto, ma dove l’immagine è realtà in azione, relazione e reazione. Nella realtà
virtuale (You tube) il soggetto costruisce e comunica una propria identità esibisce e dà enfasi a
proprie azioni allo scopo di diversificarle e spesso opporle a quelle esibite nelle relazioni sociali
quotidiane.
4.2.4.2.4. Per la sua alta frequentazione e per la estrema varietà degli incontri consegnati a identità
assolutamente virtuali, il sito second life diventa repertorio variato della sensibilità estetica per lo
più giovanile applicata alla propria persona in cerca di forma e realizzazione. Ma non si tratta solo
di sensibilità estetica; in quelle raffigurazione sono fisicizzate concezioni dell’uomo, della società
del mondo diffuse e messe in partecipate; enfatizzate dall’essere in mostra, consegnate ad un
rigoroso anonimato sorretto da pseudonimi. Avatar e pseudonimi che permettono il darsi un nome
(in senso biblico, rivendicare il pieno possesso di sé e la piena autonomia) una nuova esistenza in un
mondo altro.
4.2.4.2.5. Linguaggio e forme espressive subiscono nel mondo virtuale un forte e insindacabile
processo di alterazione e modifica; è questa la sede in cui è possibile cogliere la potenza e la
direzione che l’uso della parola imprime al linguaggio e, di conseguenza, alla visione del mondo
generale (fisica e morale) che il linguaggio ospita, trasmette.
4.2.4.2.6. È opportuno accostare al mondo virtuale della second life il concetto filosofico del
“mondo della vita” (Lebenswelt) per leggerlo come contesto di vita che sorregge, modella e rende
possibili azioni destinate all’intesa. Siamo di fronte a un pre-categoriale virtuale.
4.3. le forme conseguenti in ipotesi interpretativa. In apertura (poi al punto 5.) solo un esempio per
richiamare le tesi della ambivalenza della comunicazione negli atti linguistici resi possibile dei
moderni mezzi: realizzazione e alienazione nella comunicazione.
« Andrò subito al cuore dell’argomento, commentando un film che ha avuto molto successo
all’epoca in cui è uscito. C’è post@ per te, un film del 1999 di Nora Ephron che racconta la storia
della proprietaria di una libreria per bambini — Cathleen Kelly —; nella vita reale ha un fidanzato,
ma ha anche una storia d’amore platonica su Internet. La donna non conosce l’identità del suo
corrispondente on line, mentre noi spettatori sappiamo chi è. Così, quando Joe Fox (Tom Hanks),
proprietario di una megalibreria stile Barnes and Noble, fa fallire Cathleen Kelly (Meg Ryan), noi
spettatori sappiamo che i due nemici sono in realtà intimissimi amici sulla Rete. La trama si
dispiega secondo lo schema della screwball comedy: per gran parte del film i due protagonisti si
esprimono una reciproca antipatia, che poi si evolve in riluttante attrazione e infine diventa una resa
al vicendevole amore. Ma a fare del film un romanzo romantico sulla Rete è il fatto che di fronte
alla scelta tra Joe Fox (che ha finito per piacerle, cosa di cui lo spettatore è a conoscenza) e il suo
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innamorato virtuale, Meg Ryan sceglie il secondo (non sapendo che i due sono la stessa persona).
Naturalmente, tutto finisce bene quando lei scopre che l’innamorato virtuale e l’uomo da cui è
attratta nella vita reale coincidono. Il succo di tutta la vicenda è semplice: nel film, l’io che si
manifesta sulla Rete è molto più sincero, autentico e comprensivo dell’io che si esprime
normalmente nei rapporti sociali, dove l’individuo è molto più incline a lasciarsi dominare dalla
paura degli altri, dalla falsità e dalla diffidenza. Mentre nel rapporto via Internet i due protagonisti
possono scoprirsi, rivelandosi a vicenda le debolezze nascoste e l’intima generosità, nella “vita
reale” sia Joe sia Cathleen riescono a mostrare l’uno all’altra soltanto la parte peggiore — e
presumibilmente falsa — di sé.
Di primo acchito, la cosa stupisce. Si interroga uno studioso di Internet: “Come [possono] crearsi
rapporti sentimentali [...] in questa apparentemente inanimata e impersonalmente globale matrice di
computer?”. La risposta offerta dal film è semplicissima: a rendere la storia d’amore telematica così
incontestabilmente superiore ai rapporti della vita reale è il fatto che essa abolisce il corpo, aprendo
presumibilmente la via a una più autentica espressione dell’io. Internet viene chiaramente presentata
come una tecnologia disincarnante, fatto che viene indicato come positivo, nel senso che il film
propugna l’idea che l’io si esprima con maggiore pienezza e autenticità quando è svincolato dalle
interazioni corporee. Questa idea è a sua volta coerente con una delle “utopie di fondo riguardante
la tecnologia dei computer”, utopia che si fonda sulla “possibilità offerta all’uomo dal computer di
eludere il corpo. [...] Nella cultura del computer, la corporeità viene spesso indicata come un
malaugurato ostacolo ai piaceri dell’interazione virtuale. [...] Nella letteratura cyber, il corpo viene
spesso designato come la ‘ciccia’, la carne morta di cui è circondata la mente attiva che costituisce
il ‘vero’ io”. …
Secondo, l’atto di inviare il profilo fa sì che Internet, alla stregua di altre forme culturali
psicologiche come i talk show e i gruppi di sostegno, trasformi l’io privato in oggetto da esibire
pubblicamente. Per essere precisi, Internet rende visibile l’io e lo espone di fronte a un pubblico
anonimo e astratto, che peraltro non è un pubblico (nel senso habermasiano del termine) bensì
un’aggregazione di io. Su Internet, l’io psicologico privato diventa una rappresentazione pubblica.
Infine, come fa in gran parte la dottrina psicologica, Internet contribuisce alla testualizzazione della
soggettività (come ho sostenuto nella prima conferenza), e cioè a una modalità di autoconoscenza in
cui l’io viene esteriorizzato e oggettivato tramite mezzi visivi di rappresentazione e di linguaggio.
[…] … la distanza sociale non scaturisce dalla mancanza di capacità comuni, ma dalla natura
astratta di queste capacità. La lontananza non si manifesta quando le persone non hanno niente in
comune, ma perché le cose che hanno in comune sono troppo generali (o lo sono diventate). In altri
termini, la lontananza scaturisce dal fatto che ormai le persone parlano un linguaggio comune, ma al
contempo altamente standardizzato. D’altra parte, la vicinanza nasce dalla specificità e
dall’esclusività delle affinità tra due entità. In questo senso, la vicinanza implica una parte di
“significati generati esistenzialmente”. È anche il fatto che disponiamo di sempre più tecniche
culturali della standardizzazione di relazioni intime, del modo di parlarne e della loro
manipolazione generalizzata, che mina la nostra capacità di creare una vicinanza, di realizzare la
coincidenza di soggetto e oggetto. […] A sua volta, il dominio dell’iperrazionalità inficia la
capacità di fantasticare. Commentando l’ultimo film di Stanley Kubrik, Eyes Wide Shut, Žižek dice:
“Non è che la fantasia sia un pozzo di seduzione che minaccia effettivamente di inghiottire le
persone, semmai è il contrario: è che in definitiva la fantasia è sterile”. In una cultura che produce
fantasie in serie non ci sono mai state fantasie particolarmente diversificate e variegate, ma può
essere che le fantasie non siano mai state così sterili: perché si sono scisse dalla realtà e perché nella
loro organizzazione seguono il modo iperrazionale dei mercati con la loro possibilità di scelta e le
loro informazioni.
Illouz, Eva Intimità fredde. Le emozioni nella società dei consumi, ed. Feltrinelli, Milano 2007 pp.
115-116, 120, 159-160, 162
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5. la sfida interpretativa della comunicazione
Gli elementi di seguito indicati acquistano la loro efficacia interpretativa del fatto comunicativo in
quanto evidenziano, contestualmente e implicitamente, la natura performativa degli fatti linguistici
(speech act) come Austin ha precisato.
5.1 i tre mondi e il mondo-della-vita (Lebenswelt)
Nel corso di tutto il novecento (il riferimento prioritario è a Husserl, Popper e Habermas), la
filosofia, ragionando sul soggetto, sul rapporto conoscitivo percettivo e scientifico con il mondo, e
sull’agire in vista della comunicazione mette in scena il concetto di “mondo-della-vita (Lebenswelt)
e di “tre mondi”. Con l’espressione “Lebenswelt” si indica l’esperienza fondamentale precategoriale
del mondo, cui si può giungere solo attraverso la sospensione dei valore dei modi con cui le teorie
hanno strutturato i dati percettivi in reti teoriche; il “mondo-della-vita” costituisce il terreno per
qualsiasi prassi sia teoretica che extrateoretica attraverso cui il soggetto delinea il mondo come
ambito di senso. A indicare la complessità di questa operazione, che muove dal precategoriale verso
il mondo, inteso come area di significato, si sottolinea la plurivocità del termine mondo. In questo
contesto affiora la dottrina dei “tre mondi”: cultura (mondo uno) o il mondo scientificamente
costruito che presenta la realtà secondo definizioni univoche e oggettive [ad esempio il libro nella
sua fisicità scientifica e nella sua forma culturale definita dalle parole che lo compongono]; società
(mondo due) o il mondo delle relazioni sociali e delle convenzioni che le supportano [il libro come
evento sociale di pubblicazione e comunicazione]; persona (mondo tre) o il mondo soggettivo delle
esperienze individuali e delle abilità divenute competenze personali [il libro come mia esperienza di
lettura, comprensione, coinvolgimento ecc.]. I tre ambiti o mondi richiamano la riflessione sui
diversi contesti in cui i processi percettivi e di comunicazione si dispongono secondo logiche di
significato, sostenendole.
5.1.1. il mondo-della-vita: Habermas. « Ogni atto della comprensione può essere inteso come parte
di un processo cooperativo di interpretazione che mira a definizioni della situazione riconosciute
intersoggettivamente. In ciò i concetti dei tre mondi servono da sistema di coordinate, supposto
comune, nel quale i contesti situazionali possono essere ordinati in modo che si raggiunga l’intesa
su ciò che i partecipanti possono trattare di volta in volta come fatto e come norma valida oppure
come esperienza vissuta soggettiva.
A questo punto posso introdurre il concetto di «Lebenswelt» anzitutto come correlato a processi di
intesa. Soggetti che agiscono in modo comunicativo si intendono sempre nell’orizzonte di un
mondo vitale. Il loro mondo vitale si compone di convincimenti di sfondo più o meno diffusi,
sempre aproblematici. Tale sfondo di mondo vitale funge da fonte per definizioni situazionali che
sono presupposte in modo aproblematico dai partecipanti. Nella loro opera di interpretazione gli
appartenenti ad una comunità comunicativa delimitano il mondo oggettivo e il loro mondo sociale
condiviso intersoggettivamente dai mondi soggettivi di singoli e di (altri) collettivi. I concetti del
mondo e le corrispondenti pretese di validità costituiscono l’impalcatura formale con cui gli agenti
in modo comunicativo inquadrano i contesti situazionali di volta in volta problematici, cioè
bisognosi di accordo, nel loro mondo vitale presupposto come aproblematico.
Il mondo vitale immagazzina il lavoro interpretativo svolto dalle generazioni precedenti; esso è il
contrappeso conservatore contro il rischio di dissenso che sorge con ogni processo effettivo
dell’intendersi. […] Su questo sfondo diventa evidente quali proprietà formali debbano presentare
le tradizioni culturali se in un mondo vitale interpretato in modo corrispondente devono essere
possibili orientamenti razionali di azione, se questi devono potersi coagulare in una condotta
razionale di vita.
a) La tradizione culturale deve apprestare concetti formali per il mondo oggettivo, sociale e
soggettivo, deve ammettere pretese differenziate di verità …
b) La tradizione culturale deve consentire un rapporto riflessivo verso se stessa.
c) La tradizione culturale nelle sue componenti cognitive e valutative si deve lasciar accompagnare
da argomentazioni specialistiche così che i corrispondenti processi di apprendimento possano essere
istituzionalizzati socialmente.
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comunicazione: mezzi e forme
lezione 7
d) La tradizione culturale deve infine interpretare il mondo vitale … »
Habermas Jürgen 1981 Teoria dell’agire comunicativo, il Mulino, Bologna 1986, pp. 138-140
5.1.1.1. il mondo-della-vita in versione letteraria: Il mare del testo
«Fu un bene che la porta si aprisse verso l’esterno. Se si fosse aperta verso l’interno, non sarei qui a
raccontarlo. Jack rimase in bilico sull’orlo; lo afferrai per una spalla e lo tirai indietro. Della palestra
di Mickey Finn rimaneva solo qualche assicella del pavimento che dopo neanche mezzo metro
diventava prosa descrittiva, con le estremità sfrangiate che sventolavano e battevano come pennoni
al vento. Al di là di questi resti si apriva un abisso vertiginoso su un mare oscuro e sferzato dai
venti, sconquassato da un tifone. Le onde si sollevavano e ricadevano, portando con sé navicelle che
sembravano pescherecci; i marinai in coperta indossavano cerate. Ma nel mare non c’era acqua
come di consueto: qui le onde erano fatte di lettere, alcune raccolte in parole e talvolta in brevi frasi.
Di tanto in tanto una parola o una frase saltava nell’aria, e veniva catturata dai marinai, che
tendevano le reti con lunghe pertiche.
«Maledizione!» disse Jack. «Accidenti e maledizione!»
«Che cos’è?» chiesi mentre le lettere che componevano la parola “sassofono” schizzavano verso di
noi, trasformandosi in un vero sassofono quando superarono la soglia, e colpivano con uno schianto
la struttura di metallo delle scale. Nuvole di lettere nel cielo sopra il mare in tempesta contenevano
segni di punteggiatura che vorticavano minacciosi. A tratti un fulmine cadeva in mare e le lettere
ruotavano vicino al punto colpito, formando spontaneamente delle parole.
«Il Mare del testo!» urlò Jack sopra la furia delle onde. Cercammo di chiudere la porta sfidando la
bufera, mentre un grammassita passava in volo gridando forte “Gark!” e infilzava abilmente un
verbo che era balzato fuori dal mare al momento sbagliato.
Spingemmo con tutto il nostro peso la porta e la chiudemmo. Il vento calò, il tuono divenne un
rombo lontano. Raccolsi il sassofono ammaccato.
«Non immaginavo che il Mare del testo esistesse davvero» dissi ansimando. «Pensavo che fosse
Solo un concetto astratto».
«Oh no, è reale, eccome» spiegò Jack raccogliendo il cappello «reale come qualsiasi altra cosa
quaggiù. Il Mar Letteraneo è alla base di tutta la prosa scritta in caratteri latini. Da qualche parte è
collegato con l’Oceano Cirillico, ma noi chiedermi come. Lo sai che cosa significa, vero?» (p. 245246)»
Fforde Jasper 2003 Il pozzo delle trame perdute, Marcos y marcos, Milano 2007
5.1.2. i tre mondi: Habermas. «I parlanti integrano i tre concetti formali del mondo (che compaiono
singolarmente o a coppie negli altri modelli di azione) in un sistema e presuppongono quest’ultimo
come quadro interpretativo all’interno del quale possono raggiungere una intesa. Essi non fanno più
riferimento in modo diretto a qualcosa nel mondo oggettivo, sociale o soggettivo, bensì
relativizzano la loro espressione alla possibilità che la sua validità sia contestata da altri attori.
L’intesa funziona da meccanismo che coordina le azioni soltanto nel senso che i partecipanti
all’interazione si mettono d’accordo sulla validità rivendicata dalle loro espressioni, vale a dire
riconoscono intersoggettivamente le pretese di validità reciprocamente sollevate. […]
Siffatta relazione sussiste di volta in volta fra l’espressione e
— il mondo oggettivo (in quanto totalità delle entità sulle quali sono possibili enunciazioni vere);
— il mondo sociale (in quanto totalità di tutte le relazioni interpersonali regolate in modo
legittimo); e
— il mondo soggettivo (in quanto totalità delle esperienze vissute del parlante accessibili in modo
privilegiato). Ogni processo di comprensione e intesa si svolge sullo sfondo di una precomprensione affermatasi culturalmente. Il sapere di sottofondo rimane nel complesso
aproblematico; soltanto la parte della riserva di sapere che i partecipanti all’interazione di volta in
volta utilizzano e tematizzano per le loro interpretazioni, viene messa alla prova. Nella misura in cui
le definizioni della situazione sono concordate dai partecipanti stessi, con la discussione di ogni
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comunicazione: mezzi e forme
lezione 7
nuova definizione della situazione, sta a disposizione anche questo frammento tematico del mondo
vitale.» (Habermas, ivi)
5.2. il detto non-detto: appendice in ipotesi di analisi delle forme della comunicazione, livelli e
strategie di interpretazione e di intesa comunicativa sulla base del non detto («per una cultura
dell’implicito»)
5.2.01. «bisogna strappare il detto al non detto» (Barthes, Roland 1985 L’avventura semiologia,
Einaudi, Torino 1991 p. 168)
5.2.1. premessa che apre il campo alla consapevolezza: funzione della consapevolezza nella
comunicazione; di contro: il “paradosso del millepiedi”.
« Sul piano cognitivo l’elemento ricorrente è rappresentato dal concetto di mindfulness, o
consapevolezza dei processi di pensiero (Langer, 1989; Berger, Douglas, 1982; Gudykunst, 1993).
Il ruolo attribuito alla consapevolezza da Gudykunst, tuttavia, è per certi versi paradossale. Egli,
infatti, ipotizza che proprio l’accresciuta consapevolezza possa mitigare l’operare sia delle basic
causes sia delle superficial causes, in quanto fattori generatori di incertezza e ansia nella situazione
comunicativa. In altre parole, egli afferma che all’aumentare della consapevolezza degli elementi
critici in gioco in un contesto comunicativo interculturale si accompagna una riduzione
dell’incertezza e dell’ansia, dovuta alla possibilità/capacità di spiegare e predire il comportamento
dei propri interlocutori in modo accurato e appropriato. Gudykunst e gli studiosi che, come lui,
attribuiscono grande rilevanza al concetto di mindfulness sembrano pertanto dare poco credito al
“paradosso del millepiedi” che, una volta consapevole del fatto che riesce a sincronizzare il
movimento di tutte le zampe, scopre di non essere più in grado di camminare (Watzlawick, Beavin,
Jackson, 1967). L’elevata consapevolezza rispetto a quanto accade nel corso di un’interazione è, per
definizione, una condizione provvisoria che deve essere continuamente rinnovata, a fronte degli
elementi che intervengono nel corso del tempo riproducendo incertezza e ansia, e il cui sbocco
naturale è uno stato psicologico in cui l’attore abbia maturato un’esperienza sufficiente da
permettersi di allentare il controllo vigile sui processi comunicativi. L’esperienza inconsueta deve,
presto o tardi, essere metabolizzata e diventare un’apparenza normale da affrontare in modo
routinario. Riflettendo sulla CCI (Competenza Comunicativa Interculturale), Howell (1979), per
esempio, descrive la relazione tra consapevolezza e competenza come un processo a quattro stadi,
analogo a quello generalmente usato per schematizzare le modalità di apprendimento di una nuova
lingua: nel primo stadio, l’attore di fronte all’evento inusuale fraintende quanto accade senza
esserne consapevole (unconscious incompetence); nel secondo stadio, si accorge del
fraintendimento, ma non è ancora in grado di porvi rimedio (conscious incompetence); nel terzo
stadio, riflette sul proprio comportamento e cerca di controllarlo in modo consapevole per
raggiungere una maggiore efficacia comunicativa (conscious competence); nel quarto e ultimo
stadio, ha assimilato a tal punto le novità da dimenticarsi di averlo fatto e può tornare a operare in
modo competente con un basso livello di attenzione e consapevolezza (unconscious competence).
Un’ultima annotazione riguarda la relazione che esiste tra il li vello di ansia e incertezza e
l’interesse che possiamo provare nel mantenere viva una relazione sociale. Se è vero, infatti, che un
livello troppo alto di ansia può rendere penoso interagire con qualcuno e minare alla base la solidità
di una relazione sociale, è altrettanto vero che un livello troppo basso, sempre in assenza di forti
vincoli istituzionali, rende le interazioni troppo scontate, prevedibili e poco interessanti, con il
rischio che la relazione sociale sottostante inaridisca.
(in schema
1. unconscious incompetence (incompetenza inconsapevole)
2. conscious incompetence (incompetenza consapevole)
3. conscious competence (competenza consapevole)
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4. unconscious competence (competenza inconsapevole)
Quassoli, Fabio 2006 Riconoscersi. Differenze culturali e pratiche comunicative, Raffaello Cortina,
Milano p. 45-46
5.2.2. implicito e presupposizione contesto di partecipazione, interpretazione appartenenza nei
contesti comunicativi.
5.2.2.1. la questione e il problema generale: la comunicazione implicita: i presupposti e i sottintesi
che si accompagnano a quanto viene comunicato esplicitamente e che insieme ad esso vengono,
silenziosamente, trasmessi. Non si tratta di una questione marginale rispetto a quella, generale, della
comunicazione. Presupposti e sottintesi sono dappertutto. Contribuiscono in modo determinante al
senso delle nostre comunicazioni linguistiche o, più precisamente, dei testi. Sono ineliminabili. Non
è possibile suggerire modi per liberarcene, ma modi per accettare il loro gioco e imparare a
padroneggiarli, scoprire la loro utilità e importanza per la comprensione di testi e, indirettamente,
per qualsiasi attività cui la comprensione di testi sia funzionale. È sempre difficile soffermare la
propria attenzione sull’implicito, perché l’implicito in quanto tale è predisposto proprio per non
essere messo a fuoco e, per lo più, deve la sua efficacia alla sua capacità di restare consegnato
all’area dell’implicito, del non detto ma presupposto.
« L’esplicito è la punta di un iceberg, non lo possiamo gestire senza tener conto in qualche modo della base,
della vasta mole sottomarina. Né è una soluzione praticabile quella di rendere esplicito tutto.» (p. 6-7)
5.2.2.2. La presupposizione: l’insieme di quegli impliciti la cui verità viene data per scontata da chi
accetta come appropriato il proferimento di un certo enunciato.
5.2.2.2.1. Modalità di analisi della presupposizione in sequenza (storica):
- 1. la prima filosofia analitica (dal saggio di G. Frege, Senso e significato, 1892, fino al 1970 circa)
dedica alla presupposizione un’attenzione linguistico – filosofica sia di tipo logico- formale che di
tipo semantico. [nel contesto più ampio: impliciti e contesto, impliciti e ragione, impliciti e logica]
- 2. J. Austin (Come fare cose con le parole, 1962, sviluppando alcuni spunti di P.F. Strawson;
tradizione rielaborata da J.R. Searle, Atti linguistici, 1969) esprime la convinzione che parlare
comporti, in linea di principio, usare il linguaggio per compiere azioni di tipi socialmente previsti,
regolate da convinzioni spesso tacite; l’analisi non è studio di enunciati e del loro significato ma di
atti linguistici e delle condizioni di successo (“condizioni di felicità”); questo è il nuovo contesto di
studio delle presupposizione e del loro ruolo comunicativo.
5.2.2.2.2. la dinamica delle presupposizioni come dinamica di «accomodamento»: la natura
“pragmatica” delle presupposizioni, come implicito, non detto, indispensabile ai fini della
comprensione e della condivisione, permette di afferrare la natura dinamica delle presupposizioni,
la loro naturale evoluzione in un processo teso a rendere possibile, efficace e solida (condivisa,
“condizioni di felicità”) la comunicazione; si tratta dell’«accomodamento» delle presupposizioni.
Consegnate ai partecipanti per un processo di condivisione più o meno consapevole, subiscono nella
“cooperatività conversazionale” un processo di accomodamento; globale se la presupposizione
diventa un assunto generale a fondamento di un sistema ampio (in prospettiva sistemica la
presupposizione costituisce la base della teoria sistema), locale se il suo valore è riservato ad un
passaggio (in tal caso si intravede qui non un processo di condivisione, ma al contrario, di
negazione della presupposizione come assunto fondante; «accomodare localmente» è «cancellare la
presupposizione»)
5.2.2.2.3. presupposizione e la sua logica: è contesto nel quale effettivamente si costruisce un solido
gruppo di intesa:
- 1.l’accomodamento, anche in relazione alla sua natura pragmatica, è sottratto alla coerenza logica
e segue un percorso di ridefinizione, adattamento e condivisione che sfugge alla regole della logica
formale;
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- 2. la tecnica dell’accomodamento è garantita dal processo tecnico - retorico del dar valore
retrospettivo alla presupposizione quando viene esplicitata; collocarla in retrospettiva è rafforzarne
non solo il valore di presupposto ma anche di presupposto indiscutibile e ovvio;
- 3. la presupposizione (se globale e non localizzata) e proprio quando è presupposto implicito, non
detto per la totale e non riflessa ammissione di valore, è base di aggregazione e garanzia di
appartenenza; mettere in dubbio o localizzare il valore (valido una volta ora non più, valido solo in
alcuni ambiti ma non generalmente) della presupposizione è chiamarsi fuori dal gruppo. Un gruppo
d’opinione sembra dunque formarsi e persistere più sulla base delle presupposizioni (intese come
presupposizioni globali) più che su quanto viene esplicitamente detto e concordato su temi specifici.
5.2.2.3. Presupposizione e analisi del testo (un addentellato ermeneutico)
La presupposizione, per la sua natura formale, non è legata agli enunciati espliciti da una
consequenzialità logica lineare ma subisce un continuo “accomodamento”, determinato dai processi
per lo più impliciti di condivisione e di trasmissione di significati; proposta come strumento
necessario di interpretazione dei testi ne rende ad un tempo possibile (difficile ma efficace nella
direzione del portare a chiarezza e dare motivazioni circa ciò che viene affermato) la comprensione
ermeneutica.
Sbisà Marina 2007 Detto non detto. Le forme della comunicazione implicita, Laterza, Roma- Bari
5.3. nel contesto pubblicitario e non solo: appendice in ipotesi di analisi delle forme della
comunicazione
5.3.1. il fatto pubblicitario, nella sua logica, «sembra essere molto legato alla comunicazione di
massa (di cui conosciamo lo sviluppo nella nostra civiltà).» (Barthes o.c. p. 29). Elementi strutturali
e indagine della funzione sociologica amplificata (l’analisi della struttura del messaggio
pubblicitario diventa analisi della struttura della comunicazione in generale nel contesto di una
società ad alto sviluppo tecnologico e di consumo commerciale).
5.3.2. la frase pubblicitaria contiene due messaggi, la cui interrelazione stessa costituisce il
messaggio pubblicitario nella sua particolarità. Esempio: “Un gelato Gervais e fondere di piacere”
(o “Grand soleil il nettare degli dei”); 1. messaggio letterale: l’ingestione di quel particolare gelato è
immancabilmente seguito da una fusione di tutto l’essere sotto l’effetto del piacere; 2. messaggio
connotativo (globale e fondato su metafore e analogia): l’eccellenza del prodotto annunciato; questo
messaggio esaurisce completamente l’intenzione della comunicazione; il secondo messaggio,
sganciato dal primo, che è puramente denotativo, connota il primo, lo interpreta e coincide
completamente con quello (o la coincidenza segna la sua bontà/riuscita pubblicitaria).
5.3.2.1. «possiamo dire di trovarci, noi uomini del ventesimo secolo, in una civiltà della
connotazione, e questo ci invita a esaminare la portata etica del fenomeno». La potenza della
connotazione sta nella sua capacità di assorbire con pienezza il significato denotativo del primo
messaggio; esso tende infatti a delineare mondi ideali, di innocenza primaria, piacere senza
sofferenza, ricchezza senza limiti… «limitandosi al livello linguistico del messaggio, possiamo dire
che il «buon» messaggio pubblicitario è quello che condensa in se stesso la retorica più ricca e
realizza con precisione (spesso con una sola parola) i grandi temi onirici dell’umanità, operando
così questa grande liberazione delle immagini (o attraverso le immagini) che definisce la poesia
stessa. In altre parole, i criteri del linguaggio pubblicitario sono gli stessi della poesia: figure
retoriche, metafore, giochi di parole, tutti quei segni ancestrali che sono dei segni doppi, estendono
il linguaggio verso significati latenti e trasmettono cosi all’uomo che li recepisce il potere stesso di
un’esperienza di totalità. In poche parole, più una frase pubblicitaria è duplice, o per evitare una
contraddizione in termini, più essa è molteplice, meglio realizza la sua funzione di messaggio
connotato; che un gelato faccia «fondere di piacere», ed ecco uniti, in un enunciato economico, la
rappresentazione letterale di una materia che fonde (e la cui eccellenza dipende dal suo ritmo di
fusione) e il grande tema antropologico dell’ annientamento provocato dal piacere. L’eccellenza del
significante pubblicitario dipende quindi dal potere, che bisogna sapere attribuirgli, di collegare il
suo lettore alla maggiore quantità di «mondo » possibile: il mondo, cioè l’esperienza di antichissime
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immagini, oscure e profonde sensazioni del corpo, definite poeticamente da generazioni, saggezza
dei rapporti dell’uomo con la natura, conquista paziente da parte dell’umanità di un’intelligenza
delle cose attraverso l’unico potere incontestabilmente umano: il linguaggio. […] qualsiasi
pubblicità dice il prodotto (è la sua connotazione) ma racconta qualcos’altro (è la sua denotazione);
è per questo che non possiamo fare altro che classificarla accanto ai grandi alimenti della nutrizione
psichica (secondo l’espressione di R. Ruyer) che sono per noi la letteratura, lo spettacolo, il cinema,
lo sport, la Stampa, la Moda: toccando il prodotto attraverso il linguaggio pubblicitario, gli uomini
gli danno un senso e trasformano cosi il suo semplice uso in esperienza dello spirito.» p. 31-32
Barthes, Roland 1985 L’avventura semiologica (art. Il messaggio pubblicitario, 1963), Einaudi,
Torino 1991
5.4. regole di cortesia proposte al termine dell’analisi linguistica
5.4.1 per analogia: « Proprio come ci appelliamo a regole sintattiche per determinare se un
enunciato va considerato sintatticamente ben formato o mal formato, e in che senso e in quale
misura è mal formato, se lo è, così sarebbe auspicabile avere qualche tipo di regole pragmatiche che
stabiliscano se un proferimento è pragmaticamente ben formato o meno, e in quale misura si scosta
dalle regole, se se ne scosta. E appunto come esistono molte regole sintattiche, usate per produrre
un enunciato nella sua interezza, e questo diventa progressivamente tanto più gravemente
malformato quanto più numerose sono le regole trasgredite, così anche nella sfera pragmatica
possiamo individuare parecchi tipi di regole e le relative possibili violazioni. E appunto come
l’applicabilità d’una regola a una data struttura sintattica può variare da dialetto a dialetto, cosi può
accadere per l’applicabilità delle regole pragmatiche. Vorrei esaminare qualche esempio, formulato
senza troppe pretese; non c’è ragione comunque, per cui tali regole non possano in futuro acquisire
un rigore pari a quello delle regole sintattiche nella letteratura trasformazionale (e, speriamo, un
carattere assai meno ad hoc). (p.226) […] è futile considerare il comportamento linguistico
separatamente dalle altre forme di comportamento umano (p.236)
5.4.2. una proposta di regole per la comunicazione
(Il riferimento è al lavoro di Grice (1967) Logic and Conversation)
Regole della competenza pragmatica
1. Sii chiaro.
2. Sii cortese.
Regole della conversazione [sullo sfondo del modello di Aristotele e Kant)
1. Quantità:
- Sii informativo quanto si richiede.
- Non essere più informativo di quanto si richieda.
2. Qualità:
- Dì solamente quello che ritieni sia vero.
3. Relazione:
- Sii pertinente.
4. Modalità:
- Sii perspicuo.
- Non essere ambiguo.
- Non essere oscuro.
- Sii conciso.
Regole della cortesia
1. Non t’imporre
2. Offri delle alternative
3. Metti D a suo agio – sii amichevole (p.227-229)
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In conclusione, dunque, spero di aver dimostrato quanto segue:
1. Che nel parlare seguiamo regole pragmatiche, allo stesso modo in cui seguiamo regole
semantiche e sintattiche, e che tutte queste regole devono far parte delle nostre regole linguistiche.
2. Che vi sono regole di cortesia e regole di chiarezza (o della conversazione): le seconde sono un
sottocaso delle prime: le regole della conversazione sono un sottotipo di R1. [Non t’imporre]
3. Che le regole della cortesia possono variare da “dialetto” a “dialetto” quanto alla loro
applicabilità, ma che la loro forma fondamentale rimane universalmente la medesima.
4. Che non si tratta di regole puramente linguistiche, ma applicabili a tutte le transazioni
cooperative umane. (p.239)
Lakoff, Robin 1973 La logica della cortesia; ovvero, bada a come parli.
The Logic of Politeness; or, Minding your P’s and Q’s, in “Papers from the Ninth Regional
Meeting of the Chicago Linguistic Society,” 13-15 aprile 1973, a cura di C. CORUM, T. C.
SMITH-STARK, A. WEISER, University of Chicago, Chicago, Illinois 1973, pp. 292-305;
in Sbisà Marina (a cura di) 1993, Gli atti linguistici. Aspetti e problemi di filosofia del linguaggio,
Feltrinelli, Milano.
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